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MOSÈ E IL ROVETO ARDENTE – CARD. CARLO MARIA MARTINI

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_moses2.htm

MOSÈ E IL ROVETO ARDENTE – CARD. CARLO MARIA MARTINI

I testi sui quali ci fermeremo in questa meditazione sono: At. 7,30-31 e Es. 3,1-10. Altri testi da tener presenti sono: Es. 6,2-13 e 6,28-7,7, più due accenni neotestamentari: Gv. 11,28; Mt. 9,35-10,1. Suggerisco pure il salmo 18, il salmo dell’iniziativa divina.
Chiediamo al Signore di metterci in umiltà e in verità di fronte alla scena del roveto ardente, anche se non ne tratteggeremo in questa meditazione che qualche aspetto del tutto particolare. Vi propongo di procedere secondo tre punti semplicissimi, di intonazione ignaziana: 1) che cosa fa Mosè? 2) che cosa ascolta Mosè? 3) che cosa intende Mosè?

1. Che cosa fa Mosè?
La meraviglia di Mosè
Teniamo davanti parallelamente At. 7,30.31 e Es. 3, 1-3. La prima cosa che fa Mosè è meravigliarsi. Mosè, stando là nel deserto, mentre pascola il gregge del suocero, vede un po’ lontano un roveto che brucia e gli sembra che continui a bruciare senza consumarsi; nel suo discorso (cfr. At. 7, 31), Stefano così commenta la scena: «Mosè si meravigliò» (o de Moyses idon ethaumasen). Questo mi piace molto: Mosè, che ha 80 anni, è capace di meravigliarsi di qualche cosa, di interessarsi a qualcosa di nuovo. Immaginiamoci quella grande pianura dell’Oreb, a 1700 metri di altitudine, sovrastata da grandi montagne, con terrazze successive di sabbia e di roccia: su una di queste terrazze c’è il nostro roveto. Pensiamo un istante che cosa avrebbe potuto fare Mosè. Avrebbe potuto dire: «C’è del fuoco; è pericoloso per il gregge se il fuoco si allarga; andiamo via, portiamo le pecore lontano ». Oppure avrebbe potuto dire: « C’è qualcosa di soprannaturale; è meglio non farsi prendere in trappola; partiamo e lasciamo che i più giovani, quelli che hanno più entusiasmo, se ne interessino: io ho già avuto le mie esperienze e mi basta ».
Invece «Mosè si meravigliò », cioè si fece prendere da quella capacità, che è propria del bambino, di interessarsi a qualcosa di nuovo, di pensare che c’è ancora del nuovo. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di un particolare aggiunto al racconto. Io vi vedo piuttosto una profonda riflessione psicologica di Stefano, il quale ha intuito che Mosè, essendo stato 40 anni nel deserto, macerato dall’insuccesso e progressivamente purificato in virtù di quella situazione di vigilanza e di attesa su cui già abbiamo meditato, era ormai maturo per una nuova infanzia, maturo per ricevere la novità di Dio. Mosè avrà pensato così: «Io sono un pover’uomo fallito, ma Dio può fare qualcosa di nuovo ».
Dunque Mosè si meravigliò e poi – continua il l1acconto degli Atti – invece di non badarci ed andarsene, proserkomenou de autou… katanoesai, « si avvicinò per vedere », come di solito le versioni traducono. Ma katanoesai dice molto di più che « vedere »; indica infatti il nous, la mente. Quando in Lc. 12, 24 Gesù dice: katanoesate tous korakos, «guardate i corvi», non vuol dire semplicemente «vedete », bensì guardate, considerate, riflettete, cercate di comprendere, ecc. Qui si vede la libertà di spirito raggiunta da Mosè attraverso la purificazione. Se fosse stato un uomo amareggiato e rassegnato, si sarebbe limitato a concludere: «Una cosa strana, ma non mi riguarda ». E invece no: vuol capire, vuol vedere di che si tratta. Ecco un uomo vivo, anche se vecchio.

La curiosità di Mosè
Passiamo adesso al libro dell’Esodo e leggiamo: « Mosè disse tra sé: ‘ Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo, perché il roveto non brucia ‘ » (Es. 3, 3). Il testo greco ha: ti oli?, « come mai? ». Mosè è un uomo che lascia emergere le domande in se stesso; non è più l’uomo che ha già tutto sistemato e catalogato, che ha capito tutto; è un uomo ancora capace di porsi delle domande che esigono un’attenta risposta. Il testo nella traduzione della CEI dice: «Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo ». La versione non mi sembra molto buona. La Bible de Jérusalem, nell’edizione francese, dice: «Je vais faire un détour », che corrisponde meglio al verbo ebraico sur, che significa « fare una diversione, un giro lungo» e che dà l’idea di un’esplicita volontà: voglio rendermi conto. Mi sembra che si possa supporre una situazione di questo tipo: nel deserto vi sono differenti pianori, uno sull’altro, e spesso bisogna fare un lungo giro per salire al pianoro superiore; Mosè si trova in un pianoro più basso con le sue pecore, vede su un pianoro più alto il roveto e dice: «Andrò su, farò il giro, voglio vedere di che si tratta ». Il che significa lasciare il gregge, forse anche in pericolo, salire sotto il sole, ecc.
Nelle parole «voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo », dunque, scorgiamo l’animo di Mosè; è come se Mosè dicesse: «lo sono un pover’uomo, un fallito, però Dio può fare delle cose nuove, ed io voglio interessarmene, voglio capire, voglio comprendere, voglio sapere il perché ». Notate che qui ritorna la grande domanda che Mosè si era fatta per 40 anni: «Ma perché Dio ha permesso quello scacco? Perché, se ama il suo popolo, non si è servito di me per salvarlo? Perché non ha colto l’occasione che io gli davo? ». Questo « perché », che Mosè ha coltivato, raffinato e purificato, ecco che emerge di nuovo di fronte a quella imprevista visione. Ma l’uomo Mosè è andato assumendo ormai le caratteristiche dell’uomo profondo, maturo, purificato e aperto al nuovo.
Partendo dall’episodio di Mosè, si potrebbe riflettere molto sull’atteggiamento dell’uomo di fronte al mistero di Dio. Quest’uomo potrebbe dire: «Non mi interessa ». Ma può anche dire: «Voglio vedere, voglio rendermi conto, voglio sapere »; in questo caso si tratta di quel primo movimento dell’animo umano, di quella volontà incondizionata di conoscere e di capire, che, come si dice giustamente, sta all’origine di tutto ciò che c’è di umano nel mondo. Se nel mondo c’è qualcosa al di là dell’animalesco, al di là del puro mangiare, bere e riprodursi; se c’è qualcosa di umano; se, come dice Paolo nella lettera ai Filippesi, ci sono affetti, rapporti di amicizia e di comprensione (cfr. Filip. 2, 1 s.), tutto nasce da questa semplicissima affermazione: «Voglio capire ». La stessa civiltà umana si costruisce a partire da questo fondamento.
Mosè, quindi, è l’uomo ricondotto alla radice prima della sua umanità e posto davanti al mistero di Dio. In lui si manifesta quell’incondizionato desiderio di sapere, che sta all’origine di tutto ciò che è umano. .Mosè vuol sapere e per questo fa ancora uno sforzo: abbandona la comodità della pianura, in cui siede all’ombra della sua tenda, e comincia la salita faticosa della montagna; lascia anche le pecore, pur di arrivare fin là e sapere. Questo « sapere» in Mosè è qualcosa che gli cuoce dentro, è una passione che non si è addormentata, ma che anzi la purificazione ha reso più semplice, più libera. Mosè non va sulla montagna alla ricerca di un nuovo successo personale; ci va perché vuole sapere come stanno le cose, vuole mettersi di fronte alla verità così com’è.

Osservazioni dalla letteratura rabbinica
Ci sono due testi rabbinici che si potrebbero citare. Il primo è una pagina in cui si parla dell’aggadà pasquale, ossia l’ordine secondo cui si celebra la Pasqua ebraica. Alcuni ragazzi ascoltano il racconto della. notte di Pasqua. Uno di essi ha sonno; un altro invece dice: «Ma che cosa interessa a me questa storia dell’Egitto? » Un altro ancora fa domande e chiede: «Perché celebriamo questa festa e che cosa significa questa festa per noi? » È questo l’atteggiamento di Mosè, che si pone quella domanda fondamentale: ti oti?, « come mai? ».
L’altro testo rabbinico, molto bello, è di Rabbi Akiba, vissuto poco dopo Gesù e morto verso il 135, martirizzato dai Romani (si tratta di una personalità chiave per lo sviluppo del giudaismo dopo Gesù). Do qui una sintesi della sua storia. Rabbi Akiba era poverissimo; per quarant’anni condusse una vita di stenti: poi, a quarant’anni, si trovò una volta di fronte ad una fontana che mandava acqua e vide che la pietra sotto la fontana era scavata; allora chiese: «Chi ha scavato questa pietra? ». Gli risposero: «È l’acqua che cade ogni giorno. Non ricordi le parole di Giob. 14,19, secondo cui le acque scavano anche la pietra? ». Allora Rabbi Akiba pensò: «Se dunque l’acqua che è così tenera scava la pietra che è così dura, non avverrà forse che le parole della Torah, che sono dure come pietra, potranno scavare il mio cuore che è molle di carne? ». Fu così che a quarant’anni incominciò a studiare la Torah. Andò con il figlio da un maestro e lo pregò: «Maestro, insegnami la Torah ». Allora egli prese il lembo di una tavoletta, il figlio ne prese un’altra e il maestro scrisse: Alef, e Rabbi Akiba ripoté: Alef. Poi il maestro scrisse la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto ed egli imparò. E così imparò il Levitico, e poi tutta la Torah. Quando ebbe imparato tutta la Torah, venne di fronte a Rabbi Eliezer e Rabbi Joshuà, e ,disse: «Maestri miei, rivelatemi il senso della Mishna – cioè degli scritti che conservano la tradizione orale di commento alla Torah -»; e i maestri cominciarono a spiegare la Mishna e gli lessero una alakà – cioè un brano con una regola morale che spiegava una parte del Pentateuco -. Quando Rabbi Akiba ebbe ascoltato questa alakà, se ne andò fuori a passeggiare, pensando tra sé: «Questa Alef perché è stata scritta? Questa Bet perché è stata scritta? Questa cosa perché è stata detta? ». Tornò indietro e lo domandò ai suoi maestri, ed essi non seppero rispondere.
Notate come in questa storiella troviamo un parallelo alla scena di Gesù tra i dottori. Gesù probabilmente faceva domande semplicissime e proprio per questo riduceva al silenzio i grandi maestri. Gesù, come poi Rabbi Akiba, aveva il coraggio di porre le domande essenziali, quelle che non si fanno mai, perché sembrano troppo ovvie, ma dalle quali nasce tutto il resto.

2. Che cosa ascolta Mosè?
Ed eccoci al secondo punto della nostra meditazione.
Qui, siccome il testo degli Atti è riassuntivo, passo a Es. 3, 4-6. Dice il testo: «Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: ‘ Mosè, Mosè ‘ ». Mosè ascolta il suo nome. Immaginate lo shock di paura e insieme di stupore di Mosè, quando si sente chiamare nel deserto, in un luogo dove non c’è anima viva. Mosè si accorge che c’è qualcuno che sa il suo nome, qualcuno che si interessa di lui; egli si credeva un reietto, un fallito, un abbandonato: eppure qualcuno grida il suo nome in mezzo ai deserto. Si tratta di un’esperienza violenta, che forse abbiamo fatto anche noi quando trovandoci in un luogo – per esempio una grande città – in cui credevamo di essere del tutto ignorati, d’improvviso ci siamo sentiti chiamare da qualcuno per nome. Ora Mosè si sente .chiamato per nome due volte: «Mosè, Mosè ». Che cosa vuol dire questa doppia chiamata? A me viene in mente questa riflessione. Nella Bibbia è abbastanza raro che una persona sia chiamata due volte. Vi ricordo alcuni casi. Il primo testo in Gen. 22, 1 (« Abramo, Abramo ») riguarda il momento culminante della vita di Abramo, quando questi è chiamato a sacrificare il figlio: è il momento in cui tutto il cammino fatto fino allora dev’essere provato, per vedere se è un cammino sincero; ecco allora la doppia menzione del nome: «Abramo, Abramo ». Un altro passo che vi ricordo è 1 Sam. 3, 10; Samuele viene chiamato nella notte: «Samuele, Samuele ». Anche qui siamo di fronte ad una svolta della storia di Israele: finito il periodo confuso dei Giudici, sta per aprirsi il periodo della monarchia, che comporterà un nuovo avvicinarsi di Dio al suo popolo. Un altro passo è Lc. 22, 31:
« Simone, Simone, ecco che Satana ti ha chiesto per vagliarti come il grano». Anche qui abbiamo a che fare con un momento culminante della vita di Pietro. Ancora un altro passo che mi sembra importante è Lc. 10, 41: «Marta, Marta ». Anche qui, sebbene l’episodio sia in sé assai semplice – un episodio da cucina -, tuttavia esso è per Luca molto importante, perché fa da pendant all’episodio del Samaritano (cfr. Lc. 10, 25-37). Maria rappresenta l’ascolto della parola; Marta invece è la persona che, piena di buona volontà, si dedica alle opere di carità, come il Mosè della prima maniera, e vi si è buttata talmente dentro da stravolgere tutti i significati delle cose. Questo passo è veramente importante in quanto fa vedere come Marta, presa dall’assillo di far bene, di far benissimo, di fare un gran pranzo per Gesù, ad un cerco punto ha rovesciato tutti i ‘valori: mentre Gesù è venuto in casa come Maestro, è Marta che diventa la maestra e vorrebbe insegnare a Gesù ciò che deve dire e ciò che deve fare, rovesciando così completamente il senso del Vangelo. In fondo, questo è lo scacco del Mosè della prima maniera, che credeva di avere lui tutta in mano la situazione e di poter insegnare a Dio come si doveva fare. Mosè non conosceva certo il passo di Marta, né quello di Simone, ma conosceva la tradizione su Abramo, e quindi poteva rendersi conto del significato di quella doppia chiamata.

È Dio che prende l’iniziativa
Mi sembra che i fatti ricordati siano tutti fatti decisivi. Anche Mosè sente che è giunto un momento decisivo per la sua vita: è il momento in cui deve essere veramente disponibile, senza fare gli errori della prima volta; perciò è pieno di paura: «Cosa mi sta per capitare? ». E qui Mosè ascolta qualcosa che forse non si aspettava. Lui che si era lanciato con tanto ardore per vedere il roveto ardente, avrebbe avuto piacere di sentirsi dire: «Grazie che sei venuto, che non ti sei lasciato vincere dall’amarezza »; e invece ascolta quella voce che gli dice: «Non avvicinarti, togliti i sandali dai piedi, perché il luogo dove tu stai è una terra santa ». Qui ritornano alla mente le parole di Gesù alla Maddalena: «Non toccarmi, non trattenermi» (Gv. 20,17). La Maddalena si avvicina a Gesù con amore, ma sempre incapsulandolo nella sua visuale precedente. E invece doveva cambiare il proprio atteggiamento.
In effetti quando l’uomo si lascia trascinare dal desiderio di ricerca, crede di possedere già le cose che cerca, e le possiede in qualche maniera attraverso la sua conoscenza; è così che finisce con l’inserire i fenomeni religiosi che vive, e quindi anche l’attività divina, nel proprio quadro mentale. Questo è un processo inevitabile. Noi infatti non possiamo capire le cose, se non partendo da un quadro mentale che già possediamo e riportandole ad esso. Mosè, con tutto il suo ardore, cercava di fare la stessa cosa: di vedere, cioè, quel fenomeno del roveto ardente come inquadrato nella sua visuale di Dio, della storia e della presenza di Dio nella storia. E allora Dio gli dice: «Mosè, cosi non va; levati i sandali, perché non si viene a me per incapsularmi nelle proprie idee; non sei tu che devi integrare me nella tua sintesi personale, ma sono io che voglio integrare te nel mio progetto ».
Questo è il significato del levarsi i sandali e di quell’avvicinarsi titubante, come quando si cammina sulle pietre senza scarpe, incerti; è l’incertezza dell’uomo che si chiede: «E adesso che cosa mi capiterà? ». Il fatto è che nella disponibilità al mistero di Dio non si può entrare marciando trionfalmente. Ancora oggi i musulmani, entrando nella moschea, hanno il costume di togliersi le scarpe, come chi si presenta davanti a Dio in punta di piedi, in silenzio, non imponendo a Dio il proprio passo, ma lasciandosi assorbire, integrare dal passo di Dio.
Mosè, dunque, ascolta: «Non avvicinarti, togliti prima i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa ». Immaginate lo sconvolgimento di Mosè nel sentire queste parole. E. questa una terra santa? Questo deserto maledetto, luogo di sciacalli, di desolazione, di aridità, dove soltanto i banditi amano venire, dove la gente per bene non abita? Questo deserto dove mi credevo abbandonato, miserabile, fallito: questa è una terra santa? È questa la presenza di Dio? È questo il luogo dove Dio si rivela?

3. Che cosa intende Mosè?
A questo punto Mosè capisce che cos’è l’iniziativa divina: non è lui che cerca Dio, e quindi deve andare, per trovarlo, in luoghi purificati e santi; è Dio che cerca Mosè e lo cerca là dov’è. E il luogo dove si trova Mosè, qualunque esso sia, fosse anche un luogo miserabile, abbandonato, senza risorse, maledetto – potete leggere nella Bibbia vari passi in cui si parla della desolazione che caratterizza il deserto, luogo dove abitano gli sciacalli, i serpenti e gli scorpioni -, quello è la terra santa, lì è la presenza di Dio, lì la gloria di Dio si manifesta.
Vorrei che ci fermassimo un momento a contemplare come Mosè ha vissuto il proprio cambiamento di orizzonte, la sua vera conversione, il suo nuovo modo di conoscere Dio. Finora Dio era per Mosè uno per il quale bisognava fare molto: bisognava fare la rivoluzione, sacrificare la propria posizione di privilegio, lanciarsi verso i fratelli, spendersi per loro, per poi essere ancora scornato e buttato via. Adesso finalmente Mosè comincia a capire; Dio è diverso: finora l’ha conosciuto come uno che ti sfrutta per un po’ di tempo e poi ti abbandona, un padrone più esigente degli altri, … più del faraone; adesso comincia a capire che è un Dio di misericordia e di amore, che si occupa di lui, ultimo tra i falliti e dimenticato dal suo popolo.
Per comprendere qualcosa di questa intuizione di Mosè, vi cito Gv. 11, 28, dove Maria di Betania piange il fratello e lo piange talmente che è rimasta in casa; per lei tutto è finito; è, sì, una donna di fede e crede che suo fratello risorgerà, ma umanamente è disperata, nessuna parola può confortarla, tutta la gioia della vita in famiglia è ormai finita. Eppure, il racconto prosegue: «Marta se ne andò a chiamare di nascosto Maria sua sorella, dicendo: ‘Il Maestro è qui e ti chiama ‘ ». Pensiamo alla sorpresa di Maria, la quale si credeva abbandonata, disperata, senza conforto e invece le viene detto che lì vicino, accanto alla tomba della sua disperazione, c’è il Maestro che la chiama per nome, che ha una parola per lei. Ecco cosa significa capire l’iniziativa divina nella propria vita.
Poi Mosè continua ad ascoltare altre parole: «Disse ancora Dio: ‘Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe ‘ » (Es. 3, 6). Notate come sono interessanti queste altre parole, che servono a bilanciare di nuovo l’animo sgomento di,Mosè. Mosè ha capito che non aveva capito niente di Dio; in ogni caso, pensava che quello fosse un Dio nuovo, diverso. Ma ecco che Dio gli dice: «Sono il Dio dei tuoi padri; se tu mi avessi capito, ti saresti accorto che sono lo stesso Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe; anche con essi ho agito così ». Il Signore è stato un Dio che si occupa di chi è abbandonato, di chi si sente disperato e fallito. Ed è bello questo parlare rassicurante, perché un uomo che, come Mosè, sa di avere sbagliato tutto, rischia di perdere la memoria; ma proprio allora il Signore gli richiama per intero p passato, che deve essere ricordato e ripensato, affinché appaia chiaramente che esso è stato il. luogo dell’iniziativa di Dio.
Non dimentichiamo mai che il nostro Dio è lo stesso Dio di tutte quelle persone che ci hanno educato alla fede, il Dio dei nostri genitori che ci hanno insegnato a pregare, il Dio dei nostri formatori e di tutti coloro che ci hanno preceduto nella via del Vangelo. Per quanto possiamo aver sempre ristretto a nostro uso e consumo questo nostro Dio, c’è un momento in cui siamo finalmente chiamati, davanti al roveto ardente, a capirlo veramente quale egli è.

Il Dio della misericordia
Seguitiamo ancora con i vv. 7ss., per capire com’è veramente questo Dio: «Il Signore disse: ‘ Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti. Conosco infatti le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese, verso un paese bello e spazioso dove scorre latte e miele. .. Ora il grido degli Israeliti è arrivato fino a me ed io stesso ho visto l’oppressione con cui gli Egiziani li tormentano ». Notate qui com’è attenta la dizione, tutta in prima persona: «Ho visto, ho sentito, conosco, sono sceso, ecc. …» E notate pure l’implicito rimprovero per Mosè: «Tu, Mosè, credevi di essere un uomo molo to colto e molto versato nella conoscenza dell ‘uomo; credevi di capire i tuoi fratelli, la loro miseria; credevi di essere tu a prendere l’iniziativa di capirli, e di supplicare poi me affinché anch’io li capissi; eppure sono io che li capisco per primo, sono io che capisco tutte queste cose, sono io che vedo e che sento. Tu, Mosè, credevi di essere il primo ad aver scoperto la bellezza della libertà, desideroso come eri di farla gustare, e non ci sei riuscito; ma tutto questo veniva da me. Tu non hai mai pensato che questa era l’opera mia, e invece ti sei buttato a corpo morto, pensando che l’opera fosse tutta tua, che tutto dipendesse da te. Adesso ti accorgi che io vedo, io sento…; anzi, se c’è in te qualche compassione per il popolo, questa deriva da me; se c’è in te qualche senso di libertà, sono io che te lo do; se c’è in te qualche curiosità, essa è mia ».
Notiamo un ultimo aspetto che emerge dalla lettura patristica di queste parole, alla luce del Nuovo Testamento. «Sono sceso» dice il Signore (v. 8): è Gesù che è sceso per poter dire: «Ho veduto, ho sentito la miseria del mio popolo, la conosco da vicino e il suo grido è alle mie orecchie».
A questo punto cosa succede? Dio dice: «Ora va’ » (v. 10). Vedete come agisce l’educazione divina! Una volta che Mosè si è purificato dalla possessività della propria presunzione di salvare gli Israeliti, una volta che si è reso sensibile alla realtà vera delle cose, ecco che Iddio lo rimanda, come se niente fosse, come se mai avesse fallito. Dio gli ridà la piena fiducia: «Io ti mando dal faraone ». Mosè si sente ripreso completamente in mano da Dio e rimandato non per un’opera sua, ma per l’opera di Dio.

Mosè viene assunto per l’opera di Dio
Per capire meglio tutto questo, vi ricordo un altro testo bellissimo, su cui varrebbe la pena di meditare a lungo. Si tratta del passo che ci descrive la compassione pastorale di Gesù in Mt. 9, 35-10, 1. Esso si trova alla chiusura della prima parte del Vangelo secondo Matteo, che ci ha presentato Gesù, come Mosè, potente in parole e in opere: Gesù potente in parole (capp. 5-7: il Discorso della montagna), Gesù potente in opere (capp. 8-9: i dieci miracoli). Leggiamolo e fermiamoci su qualche spunto di riflessione: «Gesù andava attorno per tutte le città e villaggi, insegnando e curando ogni malattia e infermità». Ciò significa che Gesù, disceso in mezzo alla gente, è potente in opere e in parole. « Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: . . .» E qui ci saremmo aspettati che Gesù dicesse ai discepoli: « Andate! »; e invece dice: «Pregate! », «Pregate, dunque, il padrone della messe che mandi operai nella sua messe ». È molto importante questa battuta di attesa. Gesù vuol dire: «Non pensate di buttarvi nell’opera come se fosse vostra; l’opera è del padrone, del Padre. Non presumete di buttarvici dentro come il Mosè della prima maniera; ma lasciatevi inviare da Dio ». « Pregate. . . che mandi operai» non significa: «Signore, manda altri », ma: « Facci degni di essere mandati, così che possiamo andare verso quest’opera non in quanto è quella che piace a me e che io mi sono programmato, ma in quanto è l’opera che Dio mi dà ». E difatti subito dopo il testo dice: «Chiamati a sé i dodici apostoli diede loro il potere di cacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e di infermità ». Poi continuando cita i nomi dei dodici apostoli e dice: «Strada facendo predicate che il Regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto gratuitamente date» (Mt. 10, 7s). Gesù dice: «L’opera mia, la mia compassione apostolica, la trasmetto a voi; vi trasmetto, cioè, la mia capacità di capire la gente; ora con questa capacità andate, predicate il Regno, curate i malati, e tutto fate gratuitamente ».
È evidente il parallelismo con la storia di Mosè. Anche Mosè, infatti, sarà assunto per l’opera di Dio soltanto dopo essere stato purificato e rinnovato nell’intimo, cos1 da lasciarsi educare alla compassione missionaria.

COSA È IL REGNO DI DIO ANNUNZIATO DA GESÙ DEL CARD.CARLO MARIA MARTINI

http://www.gliscritti.it/approf/2005/conferenze/martini01.htm

BRANI DI DIFFICILE INTERPRETAZIONE DELLA BIBBIA, XVI,

COSA È IL REGNO DI DIO ANNUNZIATO DA GESÙ DEL CARD.CARLO MARIA MARTINI

Il presente testo è tratto da una meditazione tenuta dal card. C.M.Martini ai preti del settore Sud di Roma, su invito di S.E.mons. Paolo Schiavon, nella Quaresima 2005, il 24 febbraio. Il titolo della meditazione era: Regno di Dio ed eucarestia. Il testo è stato trascritto da mons.Luciano Pascucci, che ringraziamo, e non è stato rivisto dall’autore.

L’Areopago
In ogni Eucaristia noi citiamo il Regno, per esempio recitando il Padre nostro: Padre nostro, venga il tuo Regno! E al termine della preghiera eucaristica proclamiamo: “Tuo è il Regno, tua la potenza e la gloria nei secoli!”. E questo Regno è il tema fondamentale della predicazione di Gesù fin dall’inizio. Da quando, cioè, Gesù, dopo che Giovanni fu arrestato, fu trasferito da Nazaret a Cafarnao. Dicono i vangeli che Gesù cominciò allora a predicare e a dire: “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino!” (Mt 4,17). Questa è il tema fondamentale della predicazione di Gesù. In Mt 4,23 troviamo questa frase sintetica: “Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando la buona novella del Regno e curando ogni sorta di malattia e di infermità nel popolo”. Notiamo anche la differenza tra i verbi: insegnando (didàschein); predicando, proclamando il Regno (Kerissèin) e curando i malati. Le tre cose fanno come una unità.
Gesù, dunque, parla molto spesso del Regno di Dio, soprattutto nei sinottici; l’espressione non ricorre quasi mai in Giovanni; mentre nei sinottici è l’espressione corrente. Tuttavia sappiamo anche che non è facile definire il Regno, perché Gesù non conchiude mai in una definizione teorica che cosa è il Regno. Si contenta di alludervi con paragoni e con parabole. Il Regno è come un seme, è simile ad una rete, è simile ad una perla preziosa, è simile a un tesoro nascosto in un campo… Sono paragoni che descrivono alcuni aspetti del Regno, senza che mai se ne dia una definizione precisa e completa.
E qui c’è qualcosa di misterioso, tanto è vero che lo stesso Gesù in Mc 4,11, parla di “mistero del Regno”. Non dice ai discepoli: “A voi è stato dato il Regno!”, ma “A voi è stato dato il mistero del Regno!”. C’è quindi un mistero in questa parola “Regno”, almeno come è pronunciata agli inizi del ministero di Gesù, che lo rende necessariamente, da una parte affascinante e dall’altra un po’ enigmatico. E non poteva che essere enigmatico fino allo svelamento che avverrà appunto con la morte e la risurrezione di Gesù.
Ma noi possiamo cercare di domandarci: che cosa potevano intendere i primi uditori di Gesù in Galilea, quando sentivano che parlava del Regno di Dio? Una tale espressione era ben nota ai lettori della Bibbia ebraica. Essi sapevano perfettamente che Dio è Re da sempre; per esempio il salmo 29, dice: Il Signore siede re per sempre! Quindi era un termine acquisito. Salmo 96: Dite tra i popoli: il Signore regna! Ancora Salmo 97: Il Signore regna; esulti la terra!… Non era di per sé neanche necessaria la proclamazione di Gesù per far imparare alla gente che il Signore regna. Per esempio un inno molto antico, come il cantico di Mosè, diceva, alla fine, concludendo: Il Signore regna in eterno e per sempre! Da secoli, da millenni si tramandava l’idea della regalità di Dio. E un altro inno successivo, che si trova nel primo libro delle Cronache (cap. 29), cantava: Tuo è il Regno, Signore, tu ti innalzi sovrano su ogni cosa! (1 Cr 29,11). Quindi Gesù apparentemente non parla per dire una cosa nuova, dicendo che Dio è Re e suo è il Regno!
Però i lettori della Bibbia ebraica sapevano pure che il peccato oppone resistenza al Regno, sia il peccato individuale, sia il peccato sociale; per cui Dio regna di diritto, ma di fatto si ha spesso l’impressione che a condurre il gioco siano i malvagi, quelli che non si sottomettono a Dio. La Bibbia è piena di tali amare constatazioni e in particolare la disobbedienza a Dio che pure è re eterno sfocia in particolare nell’oppressione del popolo e, ad un certo punto, nella dipendenza del popolo dallo straniero, adoratore degli idoli e nemico del Dio di Israele. In tale contesto, dunque, il Regno c’è, ma non si vede.
E allora il venire del Regno significa che Dio viene a mettere le cose a posto, viene a mettere ordine, a sconfiggere i nemici, a punire i peccatori, a instaurare di fatto quel potere sulla storia che era da sempre suo di diritto. Ed era questa anche l’attesa degli ebrei devoti, che credevano e speravano in Dio, attesa che si trova in molti salmi e in molte altre pagine della Bibbia, per esempio il salmo 9, 18: Tornino gli empi negli inferi, tutti i popoli che dimenticano Dio. Cioè, la regalità di Dio spazzi via i nemici! Ancora salmo 9: Hai minacciato le nazioni, hai sterminato l’empio! Quindi ti dimostri veramente re! Il loro nome hai cancellato in eterno, per sempre! Hanno sfidato la tua regalità e sono stati schiacciati. E termina dicendo, presentando la regalità di Dio: Il Signore sta assiso in giudizio; erige per il giudizio il suo trono e da questo trono come re giudica il mondo. Ancora un altro salmo, il salmo 102, dice così: Il Signore si è affacciato dall’alto del suo santuario, dal cielo ha guardato la terra e che cosa ha ascoltato? Il gemito del prigioniero, del suo popolo prigioniero. Quindi ha guardato la terra per ascoltare il gemito del prigioniero, per liberare i condannati a morti, perché sia annunziato in Sion il nome del Signore, la sua lode in Gerusalemme.
Segno di questa liberazione è appunto la libera proclamazione della gloria di Dio in Sion e in Gerusalemme. Si attendeva, perciò, che Dio regnasse, condannando tutti i nemici, distruggendo tutti i peccatori, eliminando tutti i malvagi, così che il popolo potesse vivere tranquillo nella sua casa, nella sua terra, nella sua città di Gerusalemme. Ma noi sappiamo che le cose non sono così semplici. Gesù nella sua rivelazione progressiva del Regno, non rivela come un semplice giudizio di condanna e di distruzione dei malvagi; anzi, a poco a poco, fa capire, in maniera anche un po’ enigmatica, che il regnare di Dio non significa che Dio voglia schiacciare i peccatori, ma che Dio intende piuttosto perdonarli e salvarli. Questo è certamente un fatto nuovo e perciò Gesù comincia con il prendere su di sé il male del mondo: questa è la novità assoluta della rivelazione di Gesù. Già lo faceva intuire Matteo, al capitolo ottavo, citando Isaia 53, là dove dice: Egli ha preso su di sé le nostre infermità, s’è addossato le nostre malattie. Di per sé immediatamente il brano si riferisce alle guarigioni di Gesù, però con questa frase misteriosa – “se le è prese su di sé, se le è addossate” – Gesù si rivela sempre più chiaramente come colui che assume su di sé il peccato del mondo. E questo diventa sempre più chiaro nel percorso di Gesù verso Gerusalemme, soprattutto come previsione della passione o con espressioni come quelle che troviamo in Marco 10,45: Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti. Così egli chiarisce a poco a poco il senso di come egli intende l’esercizio della regalità di Dio: non schiacciare i nemici, ma dare la sua vita per il perdono dei nemici, per il riscatto di molti. E anche poi nella passione, con parole come quelle del Getsemani: “Padre, non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu! E anche con l’affermazione dopo la cattura nell’orto degli ulivi: Tutto questo è avvenuto, perché si adempissero le Scritture dei profeti.
Gesù fa capire che questo – il suo prendere su di sé il male del mondo – è il disegno nel quale si rivela la regalità di Dio. Gesù attua dunque il Regno, anzitutto nella prima parte della sua vita, sconfiggendo le malattie, le infermità, ma facendo intuire misteriosamente che egli vuole a un certo punto assumersele. Le infermità e le malattie sono conseguenze e immagine del peccato; Gesù perdona i peccati, ma soprattutto offre in debolezza, in povertà, in infermità la sua vita per noi, nella morte in croce e risorge per darci la certezza del perdono di Dio. Ecco dunque come il Regno si svela a poco a poco. Per cui il Regno non è come una macchina già fatta che viene dall’alto e si instaura sulla terra; il Regno è qualcosa che si manifesta progressivamente nella vita di Gesù. Possiamo dire: è Gesù il Regno che viene, è lui! E in noi il Regno si attua qui attraverso un processo, un processo di rigenerazione che parte dal cuore dell’uomo, dall’interno dell’uomo, che ha inizio con la nascita – il Battesimo – che va verso la crescita, verso la pienezza della manifestazione definitiva di Gesù nella nostra umanità salvata. Dunque, il Regno lo incontriamo anzitutto in Gesù che è il Regno per eccellenza. Il regno si attua nella sua vita, morte e risurrezione. Il Regno si attua in tutta la sua vita, dall’annunciazione all’ascensione, si attua nella sua morte, si attua nella sua risurrezione. E poi il Regno si attua gradualmente in tutti noi, in tutti coloro che entrano negli atteggiamenti e nelle relazioni di Gesù, vivendo come lui ha vissuto, offrendo la propria vita come lui l’ha offerta.
Perciò il Regno viene, non in astratto, ma nella misura in cui ciascuno di noi entra nel progetto di Gesù e si fa in qualche modo uno con Gesù e instaura nella sua vita le relazioni con i fratelli e le cose del mondo, secondo il mandato e l’esempio di Gesù. E questo avviene non solo individualmente, ma collettivamente, anzitutto nella chiesa visibile e poi in tutte quelle situazioni nelle quali si rivive e si mette in pratica l’insegnamento e il modo di vivere di Gesù. L’insieme di coloro che vivono così e che attuano il Regno diviene, secondo la parola di Gesù, sale della terra, luce del mondo. E porta gli uomini a lodare il Padre che è nei cieli.
A questo punto possiamo anche comprendere perché il Regno nel Nuovo Testamento, al di là dei sinottici, non viene più espresso con la sola formula, un po’ enigmatica “il Regno di Dio”, ma con molte altre formule, anche se queste formule non citano espressamente il vocabolo “Regno”. Così formule come “Cristo è risorto!”, “il Crocifisso è risorto”, “Gesù è stato crocifisso per i nostri peccati ed è risorto per la nostra giustificazione”, o formule come: “Io sono la via, la verità e la vita”, oppure formule come quelle paoline: “Vivo io, ma non più io, Cristo vive in me!”, sono formule brevi che esprimono la realtà del Regno. E di queste formule è pieno il Nuovo Testamento! Sappiamo poi che vi sono formule anche più lunghe, come – per esempio – l’inizio della lettera agli Efesini, ai Colossesi, il capitolo 2 della lettera ai Filippesi, che descrivono i vari momenti della venuta del Regno, esprimendo appunto la “carriera” di Gesù, il suo venire dal Padre, nell’umiltà della passione, della morte, del suo risorgere, della gloria, del riversare il suo Spirito nella chiesa. Tutto questo è il Regno di Dio che sta venendo in pienezza.

CARLO MARIA MARTINI LE CONFESSIONI DI PAOLO – CONVERSIONE E DELUSIONE

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_confessioni_di_paolo4.htm

CARLO MARIA MARTINI LE CONFESSIONI DI PAOLO – CONVERSIONE E DELUSIONE

Ci proponiamo di riflettere su come Paolo ha vissuto il periodo che comprende circa dieci anni dall’evento di Damasco. Se collochiamo l’incontro di Damasco verso l’anno 34-35 arriviamo fino al 45-46, che segna l’inizio della prima missione dell’ Apostolo veramente riuscita, a Cipro ed in Asia Minore.
Sono dieci anni di esistenza oscura e difficile.
Paolo non ne parla molto, forse anche per un certo pudore, perché dovrebbe dire delle cose spiacevoli verso la comunità che l’ha accolto: qua e là, però, qualcosa trapela.
Teniamo poi presente che egli incomincia a scrivere dopo 13-14 anni dall’esperienza di Damasco, quando ha ormai raggiunto la maturità e la pienezza del Mistero di Cristo che aveva visto.
Vogliamo capire cosa è successo, perché rappresenta un tipico approfondimento doloroso e insieme costruttivo della conversione fondamentale.
Signore, tu tieni in mano ogni cosa. Tu hai tenuto in mano la vita di Paolo in maniera aperta e grandiosa dal momento della sua conversione. Tu non l’hai mai abbandonato anche nei momenti difficili in cui egli forse non sapeva che cosa gli stava succedendo. Tu ti sei manifestato a lui con amore misericordioso forse proprio là dove stava per abbandonare il ministero. Donaci di comprendere la tua misericordia su di noi perché possiamo, con fiducia, accettare la tua guida, credere nel significato provvidenziale di ciò che è avvenuto e avviene nella nostra esistenza cristiana e sacerdotale. A gloria tua, nella forza dello Spirito, per intercessione di Maria e di tutti i Santi. Amen.
Per la nostra riflessione:
- prima leggeremo i testi;
- poi ci domanderemo qual è la storia che si può ricavare da questi testi;
- in un terzo momento vedremo quali sono le motivazioni dietro la storia;
- ci chiederemo qual è stata l’esperienza di Paolo in quei dieci anni;
- infine concluderemo con una parola su di noi.
I testi« Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli a Damasco, e subito nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di Dio. Tutti quelli che lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: « Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocano questo nome ed era venuto qua precisamente per condurli in catene dai sommi sacerdoti? ». Saulo frattanto si rinfrancava sempre più e confondeva i Giudei residenti a Damasco, dimostrando che Gesù è il Cristo. Trascorsero cosi parecchi giorni e i Giudei fecero un complotto per ucciderlo; ma i loro piani vennero a conoscenza di Saulo. Essi facevano la guardia anche alle porte della città di giorno e di notte per sopprimerlo; ma i suoi discepoli di notte lo presero e lo fecero discendere dalle mura, calandolo in una cesta. Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo. Allora Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Cosi egli poté stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore e parlava e discuteva con gli Ebrei di lingua greca; ma questi tentarono di ucciderlo. Venutolo però a sapere i fratelli, lo condussero a Cesarea e lo fecero partire per Tarso. La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria» (At 9, 19-31).
Già qui si potrebbe notare, un po’ maliziosamente, anche se non è nell’intenzione del testo, che, partito Paolo per Tarso, la Chiesa è in pace; si è tolta di mezzo una persona che creava scompiglio e disturbo.
Un altro testo interessante lo troviamo nella lettera ai Galati: «Quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre… si compiacque di rivelare a me suo Figlio… senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.
In seguito, dopo tre anni, andai a Gerusalemme per consultare Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore. In ciò che vi scrivo, io attesto davanti a Dio che non mentisco. Quindi andai nelle regioni della Siria e della Cilicia. Ma ero sconosciuto personalmente alle Chiese della Giudea che sono in Cristo; soltanto avevano sentito dire: « Colui che una volta ci perseguitava, va ora annunziando la fede che un tempo voleva distruggere ». E glorificavano Dio a causa mia.
Dopo quattordici anni, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Barnaba, portando con me anche Tito» (Gal 1, 15 – 2,1). È un’altra serie di fatti.
Per analogia con questi quattordici anni, aggiungiamo un altro testo: «Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare. Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò fuorché delle mie debolezze» (2 Cor 12, 1-5).
Paolo è molto rispettoso nel descrivere l’atmosfera di questi anni, ma qualche volta si scatena. Come, ad esempio, nella lettera ai Filippesi, là dove, ritrovandosi in situazione analoga a quelle già vissute, dice: «Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno circoncidere! Siamo infatti noi i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Gesù Cristo, senza avere fiducia nella carne, sebbene io possa confidare anche nella carne» (Fil 3, 2-4). Ritornano alcune frasi della lettera ai Galati che fanno pensare ad un collegamento delle emozioni di quel tempo.
La storia dei fatti
Cosa è avvenuto in realtà? Alcuni fatti sono abbastanza evidenti. Dopo la conversione, Paolo comincia a predicare, probabilmente non abitando sempre a Damasco; e qui c’è la sua permanenza in Arabia, forse nei dintorni delle città presso popolazioni arabe, perché la sua presenza non era tanto gradita.
Ad un certo punto le autorità si preoccupano e suscitano una tale opposizione che deve fuggire. Non si legge che la comunità lo abbia né sostenuto né richiamato: rappresentava un fattore di disturbo, anche se lo ammiravano per il suo zelo.
Dopo questa fuga non si ricorda più che sia ritornato a Damasco o abbia di nuovo coltivato quel gruppo di discepoli.
A Gerusalemme succede un po’ la stessa cosa: non dei pericoli clamorosi come quelli di Damasco, e quindi non una fuga cosi avventurosa. Però la sua predicazione diventa via via troppo vistosa, i fratelli si preoccupano di lui e lo riportano in patria. In altre parole, viene ringraziato e rimandato.
Ai due eventi di Damasco e di Gerusalemme segue un periodo di assoluta solitudine in patria e di sconforto. Lo si deduce dal fatto che questo tempo termina con la grande visione di cui parla la seconda lettera ai Corinti, che si può considerare come una ripresa che il Signore fa della prima apparizione di Damasco. La nuova visione della gloria di Dio, della quale forse era stato tentato di dubitare, chiude: un periodo di solitudine e di amarezza.
Riassumendo, i dieci anni dalla prima conversione sono stati anni di difficoltà, di scontri, di disagi provocati dal suo modo troppo focoso di predicare, dal suo esporsi eccessivamente. Sono stati anche anni di solitudine, di silenzio, di sconforto.
Quando Paolo racconta queste cose, le vive ormai nella pienezza del suo secondo ministero, e quindi non vi indugia più.
È interessante notare questa sequenza dei quattordici anni che viene ripetuta due volte. Il primo doppio settenario va dalla conversione alla seconda visita a Gerusalemme.
L’altro doppio settenario è quello indicato nella seconda lettera ai Corinti: tra il momento della visione e il momento in cui scrive la lettera. Mentre scrive, la sua vita gli appare come due periodi sabbatici. Gli Ebrei, infatti, solevano, a quel tempo, calcolare anche gli eventi e la vita secondo un ciclo settenario che corrispondeva al periodo che si concludeva con l’anno sabbatico.
Dopo ventotto anni dalla conversione, Paolo ha imparato a calcolare la vita secondo un ritmo sacro: ha già visto in una luce provvidenziale ciò che gli è avvenuto e si è addirittura accorto che questo coincideva con il computo sacro del tempo. Ma mentre viveva quei periodi intermedi, non aveva ancora la chiarezza del perché la sua vita si svolgesse così.
La storia dei dieci anni dopo Damasco (che copre l’arco dell’età di Paolo dai 25-30 anni ai 35-40 anni) possiamo ricostruirla, dunque, come disagio a Damasco, incomprensione a Gerusalemme, momenti di solitudine e di sconforto.
Le motivazioni dei fatti
Ci chiediamo: durante questo tempo c’è in Paolo qualcosa che non ha girato bene, oppure tutta la colpa è degli altri che non l’hanno capito, l’hanno osteggiato, non l’hanno difeso, hanno preferito disfarsi di lui, non l’hanno saputo valorizzare? Probabilmente, come in ogni cosa umana, il torto sta da entrambe le parti.
È vero che soprattutto i giudeo-cristiani, legati ad una visione angusta dell’apostolato, con molte paure e molte riserve, non l’hanno capito, non l’hanno saputo valorizzare nel timore che il suo modo di agire producesse più danno che vantaggio. Gli avversari poi si sono scagliati contro di lui perché intuivano che era un uomo-chiave. Dai primi e dai secondi, con quegli accordi taciti che talora avvengono, Paolo è stato eliminato.
Al di là di questo, però, io penso che Paolo stesso, interrogato, confesserebbe che qualcosa anche in lui non ha girato del tutto bene. Gli è accaduto ciò che avviene nelle conversioni grandi e rapide, in cui tutto appare nella luce migliore e più pura, e il motivo della conversione non è un cambiamento di bandiera o di campo, ma è la nuova visione della vita che in Gesù gli si presenta: è il totalmente altro, è l’opera di Dio.
Ma quando poi si tratta di riprendere la vita quotidiana, l’uomo si ritrova se stesso, e Paolo si butta nella nuova missione con lo stesso entusiasmo con cui si era buttato in quella precedente, trasferisce il suo zelo da un campo all’altro e ritorna ad appassionarsi dell’opera come se fosse sua.
Allora il Signore permette un periodo di durissima prova di purificazione perché impari che la conversione non gli ha fatto cambiare oggetto di attività, ma ha formato in lui un altro modo di essere, un altro modo di vedere le cose, che deve macerare lentamente prima di integrarsi nella sua personalità.
Le idee erano chiare, le parole anche; però il modo istintivo di agire ritornava ad essere quello di prima.
Facendo queste reinterpretazioni stiamo forse parlando più di noi che di Paolo. Nel cammino della ricerca di Dio noi desideriamo chiarire sempre meglio le nostre motivazioni, ma sappiamo bene che ciò non va d’accordo con l’immediato cambiamento del nostro modo istintivo e possessivo di collocarci in rapporto alle cose e alle situazioni. Questa possessività si trasferisce dal campo materiale al campo spirituale, dal campo degli interessi economici a quello degli interessi dello spirito e ci ritroviamo sempre un po’ noi stessi, sempre bisognosi di purificazione continua, al di là delle parole che diciamo o dei bei concetti che formuliamo.

L’esperienza vissuta da Paolo
Possiamo, a questo punto, chiedere a Paolo: Come hai vissuto questi dieci anni? Che cosa è stata per te questa prova di solitudine e di emarginazione rispetto alla comunità? Che cosa pensavi a Tarso la sera, in riva al fiume,’ quando andavi a passeggiare là, solo, e nessuno ti conosceva e riandavi alla via di Damasco? Che cosa sono state le prime prediche a Gerusalemme mentre ti sentivi tanto lontano da quel mondo, e a un certo punto ti veniva quasi l’idea che tutto fosse stato un sogno? Come hai vissuto questa esperienza drammatica?
Paolo ci ricorda innanzi tutto che non è stato il primo a vivere questa esperienza.
Mosé, cacciato dall’Egitto e dimenticato dal suo popolo, molti secoli prima di lui ha vissuto nel deserto una simile esperienza. Anche Elia si è sentito abbandonato da tutti, è fuggito nel deserto, tremendamente solo.
Parlandoci dei suoi sentimenti, Paolo ci può dire che la prima reazione è stata certamente di indignazione, di rivalsa ed anche di risentimento. Perché perdere le forze e la vita per gente che tratta male, per una Chiesa e per dei cosiddetti fratelli che non ne vogliono sapere? È un risentimento che cova dentro, che non lascia in pace e che alla fine – come sempre accade – diventa anche risentimento contro Dio. Perché Cristo mi ha chiamato con tante parole per poi ridurmi a lavorare nella mia bottega di T arso senza prospettive? C’è veramente un disegno di Dio sulla mia vita oppure sono sogni del passato? Che cosa volevano dire quelle parole che mi erano risuonate all’orecchio (le parole che riprenderà nel discorso ad Agrippa: «Ti sono apparso per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani» – At 26, 16-17)? Il risentimento contro Dio è la difficoltà ad accettare la provvidenza e il modo misterioso e incomprensibile dell’azione divina.
Paolo è passato – possiamo dire con certezza – per questi momenti. Sono momenti attraverso i quali passano i santi. Nessun santo è stato risparmiato da questo travaglio interiore e quindi nemmeno l’Apostolo. Ma dopo l’indignazione e il risentimento, come succede con la grazia di Dio quando la prova viene macerata dentro, emerge la riflessione e nasce una domanda piccola ma capace di squarciare il nero di un cielo che non presenta aperture: «E se ci fosse anche qui una parola provvidenziale di Dio per me? ». Al termine dell’ora media, mi veniva in mente, ascoltando il brano biblico da Giobbe 5, 17-20, che una parola come questa può essere penetrata adagio adagio, quasi come una medicina, nel cuore di Paolo. « Felice l’uomo che è corretto da Dio: perciò tu non sdegnare la correzione dell’Onnipotente, perché egli fa la piaga e la fascia, ferisce e la sua mano risana. Da sei tribolazioni ti libererà e alla settima non ti toccherà il male; nella carestia ti scamperà dalla morte e in guerra dal colpo della spada ».
Lui che certamente leggeva e rileggeva la Scrittura, viene medicato dalla Parola di Dio che anche qui attua la sua funzione di balsamo, di liberazione e di consolazione.
Riascoltandola, la riflessione diventa illuminazione e Paolo rientra in quella luminosa rivelazione che era stato l’incontro di Damasco. Vi rientra secondo due linee che appaiono dalle sue lettere.
a) Una linea è una riflessione escatologica che svilupperà nella 1 Corinti: «Fratelli, il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; coloro che piangono come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano come se non possedessero; quelli che usano del mondo come se non ne usassero appieno» (1 Cor 7, 29 ss.). Paolo ridimensiona il suo zelo appassionato, accorgendosi che si era legato a progetti immediati, mentre il Regno di Dio è al di là e al di sopra di tutto; che le cose per buone e interessanti che siano, passano, « ma è il Signore che rimane.
b) Una seconda linea è una illuminazione: l’opera è di Dio: è Dio che pone tempi e condizioni.
Si attua: per Paolo una seconda espropriazione di sé. La prima, quando aveva buttato dietro di sé i suoi privilegi di fariseo, di ebreo figlio di ebrei. La seconda espropriazione sta nel dover perdere ciò di cui poteva giustamente vantarsi: apostolo dalla parola facile, dal linguaggio persuasivo, focoso, violento, molto superiore alla timida espressione degli altri di Gerusalemme.
Paolo capisce che tutto questo è importante, ma l’opera è del Signore: «Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone» (Rm 14, 4). Nelle nostre ipotesi le cose dovevano andare in un certo modo, però è il Signore che ha in mano l’opera: «Che cosa è mai Apollo? Cosa è Paolo? » (1 Cor 3, 5). E prosegue: «Siamo ministri attraverso i quali siete venuti alla fede e ciascuno secondo che il Signore gli ha concesso. lo ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere. Non c’è differenza tra chi pianta e chi irriga, ma ciascuno riceverà la sua mercede secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio» (1 Cor 3, 5-9). Non siete il « mio» campo, il « mio» edificio: è l’edificio di Dio.
Attraverso le esperienze dolorose Paolo giunge alla percezione molto semplice che Dio è il Signore e che il ministro di Dio si prepara liberando il cuore da tutto ciò che poteva essere successo proprio, divenendo strumento sempre più adatto nelle mani di Dio.
Nella visione del terzo cielo descritta nella seconda lettera ai Corinti, l’Apostolo comprende cose che non sappiamo perché non le abbia volute descrivere. Certamente riprende coscienza dell’assolutezza e della trascendenza indescrivibile del mistero di Dio che gli era diventato così vicino nell’apparizione del Cristo da sembrargli suo, mentre in realtà è al di là di ogni capacità umana di parlarne e di disporne.
È a questo punto che giunge a T arso la notizia che è arrivato Barnaba per dire a Paolo che, se vuole, ad Antiochia c’è una comunità giovane che lo desidera. Gli propone di andare con lui per cominciare a lavorare. È il secondo momento dell’attività apostolica. Egli riprende, in forma nuova, ciò che già dieci anni prima aveva iniziato con tanto zelo ma mettendoci dentro non poco di sé. Nel misterioso disegno di Dio, tutto questo aveva dovuto passare per il fuoco purificatore.
Una domanda per noi
Dopo aver cercato di interpretare la vicenda di Paolo nel suo esilio di Tarso, ci facciamo l’ultima domanda: il nostro zelo per chi è?
È difficile rispondere perché lo zelo è fondamentale nell’impegno apostolico; la parola stessa indica qualcosa che divora, che coinvolge. Proprio perché ci coinvolge tanto, corriamo il rischio della possessività.
- Quando ci siamo convertiti nella seconda maniera?
- Ci sono stati, nella nostra vita, momenti nei quali la prima conversione, la prima integrazione tranquilla delle realtà battesimali nella famiglia, nella parrocchia – pur senza indicare una conversione precisa -, è stata rimessa alla prova, magari in un’esperienza nella quale alcuni aspetti della nostra possessività apostolica sono stati vagliati, passati attraverso il setaccio e forse attraverso difficoltà che ei hanno notevolmente colpito?
- A prescindere da quando il Signore ei ha chiamati alla seconda conversione, qual è la qualità del nostro zelo?
Lo zelo autentico è quello che coinvolge profondamente senza mettere in questione noi stessi. Se siamo respinti o se non troviamo lo sbocco che desideriamo, ciò non deve diventare un problema personale che causa depressioni, sconforti e che porta al limite dell’abbandono o al limite della rassegnazione.
Tutto questo avviene, quasi sempre, perché siamo fatti in maniera che non possiamo buttarci in una cosa senza coinvolgerei in essa e non possiamo coinvolgerei storicamente senza che la nostra figura, anche personale e psicologica, vi sia dentro. Non possiamo vivere le vicende in cui l’opera di Dio si manifesta senza sentircene toccati e talora in maniera dolorosa. Ma è proprio lì che la Provvidenza ei attende e non per rimproverarci. Se Paolo è passato tra queste prove noi non siamo migliori di lui. Se lui si è sentito coinvolto nella propria immagine, capiterà anche a noi. Non ei viene detto di non aspettarci questo tempo: piuttosto, ei è detto che è un tempo provvidenziale, che è tempo di rivelazione del mistero di Dio, che è apparizione di Cristo sulla via di Damasco.
Non ci viene chiesto di essere invulnerabili ma di aprire gli occhi al disegno misericordioso di Dio. Come per Paolo c’è stata una via di misericordia, così anche per noi: in tutte le difficoltà, piccole o grandi, che il nostro coinvolgimento apostolico comporta, c’è una parola misericordiosa di salvezza.
La parola di Giobbe: «Dio ferisce e risana », prova che il Signore ei ama e ei purifica perché vuole fare di noi dei servitori adatti del Vangelo, interiormente liberi.
Chiediamo l’intercessione di Maria. Lei che fin dall’inizio ha vissuto questa libertà ma che ha dovuto integrarla alla sua vita attraverso la sofferenza, domandi al Signore di farei passare attraverso le prove senza che la nostra libertà interiore ne sia condizionata, diminuita, o mortificata. Il Signore ei purifichi e la nostra libertà sia pronta per riprendere ad Antiochia l’esperienza della nuova chiamata di Paolo.

NON CEDETE AL DOLORE, C’È UN FUTURO OLTRE LA VITA – DI CARLO MARIA MARTINI

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NON CEDETE AL DOLORE, C’È UN FUTURO OLTRE LA VITA – DI CARLO MARIA MARTINI

Posted on 2 novembre 2011

, CORRIERE DELLA SERA di domenica 30 ottobre 2011

Sono un’insegnante, sposata, con tre figli tra i venti e i trent’anni. Per molto tempo ho fatto catechesi nella mia ex parrocchia. Poi sono stata invitata ad entrare nel movimento «Rinnovamento nello Spirito». Per più di tre anni ho partecipato agli incontri di preghiera con convinzione. Poi è accaduto qualcosa che mi ha fatto ricredere sulla bontà di questi gruppi e il loro servizio alla Chiesa. Sono uscita con difficoltà, però questa esperienza mi ha lasciato male, un po’ confusa e credo non mi abbia fatto crescere nella fede, forse perché non ho più trovato amicizia.               (Lettera firmata – Ancona)

Forse pochi sanno che insieme al padre Beck s.j., mio carissimo amico, negli anni 60, io stesso sono stato uno degli iniziatori in Europa del Rinnovamento nello Spirito che avevo conosciuto in America. Avevo molti impegni e non potevo dedicarmi ad esso con continuità. Nel periodo che precedeva la morte di mia madre, chiesi una preghiera comune per lei che mi fu negata perché non si prevedevano intenzioni di preghiera personali e ciò mi lasciò molto amareggiato. I movimenti possono dare molto alla Chiesa come si vede nel movimento ecumenico e nel movimento biblico. Ma quando in essi prevalgono le dinamiche del potere e del profitto la Grazia può andare perduta e la Chiesa invece di arricchirsi di nuova energia spirituale, sperimenta emorragie debilitanti.

Gentile Cardinale Martini, da sette anni soffro del morbo di Parkinson e da cinque di artrite reumatoide. Un anno fa mio marito è morto di cancro e con lui sono morta anch’io. Ho avuto due aborti spontanei e quindi non ho figli. Sono stata un’infermiera e quindi so quello che mi aspetta. Prego Dio di farmi morire al più presto perché non voglio più vivere, non posso, non ne ho la forza né riesco a trovare un motivo per alzarmi la mattina. Ho 72 anni e non passa giorno che io non dubiti dell’esistenza di Dio, ma mi sforzo di sperarci perché è l’unica ragione che mi impedisce di togliermi la vita.               (Lucia Renghi – Città di Castello / Perugia)

Sono consapevole di tornare su un tema da lei già affrontato (Corriere, 24 aprile 2011), ovvero la umana paura della morte. Dopo la morte non si è. Come prima della nascita. Ma lei dice che si è in un altro modo. Rivedremo coloro che abbiamo amato? Presumo sia una metafora. E mi limito a chiedere: rivedrà coloro che ha amato anche chi non ci aveva creduto?                  (Silvia Delaj – Milano)

La fede è un dono? Mi piacerebbe avere la sua stessa certezza dell’esistenza di Dio; ma purtroppo non è così. Speravo di avvertire la presenza di Dio quanto meno nel momento del trapasso di mio padre, che nei momenti finali ha voluto accanto a sé l’icona di Suora Maria della Passione. È spirato tra le mie braccia, eppure in quel momento e in presenza della morte ho sentito in lui solo un gran senso di solitudine. Un vuoto, un nulla che, a distanza di ben quattro anni, sento ancora vivissimo dentro me.            (Daniele Perna Cercola – Napoli)

Ho messo insieme queste tre lettere perché mi pare che esse trattino di argomenti affini, pur nella diversità delle situazioni, come la paura della morte e insieme il desiderio di morire, che cosa ci aspetta dopo la morte e la nostra debole fede. Anzitutto la morte: essa è dolorosa per tutti. Ma succede talora che chi è oberato pesantemente da grandi dolori giunga a dire: come potrò continuare a soffrire così? Meglio andarmene! Non è un peccato pensarla a questo modo, ma dobbiamo stare attenti che esso non porti a un vero suicidio. Manifestare semplicemente la nostra domanda a Dio perché ci porti presto con sé è una domanda lecita. Dobbiamo però abituarci a tener conto di tutto ciò che è positivo. Nel caso di Lucia Renghi, intravvedo molte cose positive. Ma lei stessa deve rendersene conto. Il marito è morto di cancro e certamente lei lo ha servito con molto amore. Lo stesso ha fatto nel suo lungo servizio di infermiera professionale. Pur nel disagio causato dal Parkinson, è possibile partecipare a piccole iniziative di carità, che allargano il cuore e lo riempiono di speranza. Per quanto riguarda, al contrario, la paura della morte, di cui ci parla Silvia Delaj, non vi sono rimedi facili, non basta per esempio imporre a se stessi di non pensarvi. Io non conosco metodo migliore che quello di concentrarsi nel presente. Si può così attualizzare anche il modo con cui Cristo ha sconfitto la morte, offrendosi tutto a Dio Padre. Pur morendo di una morte ingiusta e crudele, disse: «Nelle tue mani, Padre, affido il mio Spirito». Questo è il segreto! Se non ci affidiamo a Dio come bambini, lasciando a Lui di provvedere al nostro avvenire, non arriveremo mai a fare quel gesto di totale abbandono di sé, che costituisce la sostanza della fede. Certamente rivedremo coloro che abbiamo amato. Anche quelli che hanno amato pur non avendo conosciuto Gesù. Come dice Dante «la bontà divina ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei». Ma donde viene una fede così docile? Daniele Perna risponde: essa è un dono di Dio. Ma ciò non significa che non siamo chiamati a fare tutto quanto è nelle nostre possibilità per ricevere questo dono. Che poi l’assenza prolungata di una persona a noi molto cara generi solitudine, è qualcosa che va compreso e rispettato. Non è difficile della nostra vita lo sperimentare momenti drammatici in occasione della morte di uno stretto parente o di un nostro carissimo amico. Non serve guardare il defunto per cogliere in lui qualche segno di risurrezione. La sua anima, come dice il pensiero indù «ha lasciato il suo corpo» ed è inutile trovare in esso segni di una vita nuova. Quanto poi all’osservazione di Daniele, che dice «Mi piacerebbe avere la sua stessa certezza dell’esistenza di Dio; ma purtroppo non è così», debbo dire che sento molto la fragilità di questa mia fede e il pericolo di perderla. Per questo, prego molto il Signore e gli affido la mia vita, la mia morte e tutti quelli che vanno alla morte con poca fiducia nella potenza di Dio.

CARD. CARLO MARIA MARTINI – LA GERUSALEMME CELESTE E LA GERUSALEMME STORICA

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CARD. CARLO MARIA MARTINI – LA GERUSALEMME CELESTE E LA GERUSALEMME STORICA

La Gerusalemme celeste (Ap 21, 1-22, 5) Siamo nella parte finale dell’Apocalisse, dedicata alla descrizione della Gerusalemme celeste, a cui seguirà la conclusione. Il nuovo ordine di cose, instaurato dalla morte e risurrezione di Cristo, è disegnato attraverso due grandi fasce di simboli. Quelli della creazione e del paradiso di Genesi 1-2, dove si parla di « nuovo cielo », « nuova terra », « ogni cosa nuova ». Il profeta Isaia annunciava « una cosa nuova » (43,19), qui viene fatta « ogni cosa nuova », la nuova creazione. Al tema sono connessi i simboli del fiume nel paradiso, dell’acqua che sgorga, dell’albero che dà vita (cfr. Gen 2) e anche quelli della nuova città, descritta da Ezechiele dal capitolo 40 al 48 (risuonano pure passi del Deuteroisaia e di Zaccaria), che è senza tempio, meglio è tutta tempio, tutta dimora di Dio. Dunque, due fasce di simboli: della creazione e della restaurazione di Israele come nuova città. Vorrei sottolineare tre momenti di questa presentazione: il momento di contrasto, il nuovo ordine di cose e i simboli più specifici della nuova città. Il momento di contrasto  Il contrasto è evocato fin dall’inizio con le parole:  » Allora io vidi » e, in seguito, con le parole: « E vidi poi venire dal cielo ». I Non si tratta però di una prima visione, perché fa parte di visioni descritte nei versetti precedenti (« vidi poi venire », « vidi ») e che annunciano la scomparsa di tutti gli elementi negativi della storia (cfr. Ap 20), riassunti nella morte e negli inferi. Tale scomparsa, annunciata poco prima, è ripresa nel nostro brano: scompariranno le lacrime, non ci sarà più morte né lutto né lamento ne affanno perché le cose di prima sono passate (21, 4 ); i vili, gli increduli, gli abietti, gli omicidi, gli immorali non entreranno nel nuovo ordine di cose (v. 8). Viene quindi proclamato quel giudizio di Dio che è l’inizio del nuovo ordine di cose, giudizio formulato in base a due criteri: le opere compiute, registrate nel libro, e l’iniziativa salvifica divina espressa con l’immagine dell’iscrizione nel libro della vita. Perciò i versetti immediatamente precedenti, richiamati in 21, 4.8 e anche in altri capitoli, presentano quale premessa  della visione di Gerusalemme, della nuova città, lo sfondo della distruzione del male operata dalla croce di Cristo, distruzione del male che è frutto positivo della croce. La croce ha messo fuori gioco l’universo spirituale costituito dalla ribellione a Dio, per- mettendo la nascita di un ordine nuovo e di un nuovo universo di valori delineati a partire dall’inizio del capitolo 21. Il nuovo ordine di cose Il nuovo ordine di cose lo leggiamo in 21, 1-5, ed è presentato con le parole: « nuovo cielo e nuova terra » (« In principio Dio creò il cielo e la terra », Gen 1, 1). Un nuovo ordine spirituale e morale, nel quale siamo collocati. E la cosa nuova è anche la città santa, la nuova Gerusalemme, simbolo del nuovo ordine di grazia e di misericordia instaurato da Dio. La città discende dal cielo perché il nuovo ordine è puramente gratuito, non è opera di uomini, bensì di Dio che lo fa e lo dona. È una città ed è pure una sposa adorna per il suo sposo, pronta per le nozze, bellissima, così come la sposa di cui parlava Ezechiele al capitolo 16, 8ss: vestita di ricami, calzata con pelli di tasso, cinto il capo di bisso, ricoperta di seta, adorna di gioielli. Così va immaginata questa sposa che nell’ Apocalisse è veramente e pienamente fedele. E lo sposalizio, che fa parte dell’ordine nuovo, è l’alleanza richiamata al v. 3, dove è evocato Lv 26, 11 (« stabilirò la mia dimora in mezzo a voi »), insieme ad altri brani dell’Antico Testamento sull’alleanza, per dare questa visione complessiva: Dio dimorerà tra di loro, essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. Di fronte a tale visione, noi ci domandiamo: riguarda il presente o il futuro? Queste parole sono compiute? Al v. 6 è scritto: « Ecco, sono compiute! ». Tuttavia si potrebbe pensare a un’anticipazione profetica, a un passato che riguarda il futuro. In realtà, per il principio ermeneutico, io leggo qui molto più volentieri la descrizione di ciò che è compiuto nella morte e risurrezione di Gesù. Non quindi un ordine nuovo di cose che verrà, ma un ordine che è e che viene e nel quale tutti siamo già dentro. Siamo già nell’alleanza, siamo già la nuova città che scende dal cielo, siamo già la sposa pronta per lo sposo, pur se non ancora in pienezza; fin da ora, nella passione e risurrezione di Cristo, tutto è compiuto e si compie in coloro che sono in lui. Alcuni simboli della città celeste  I simboli di questo nuovo ordine di cose sono espressi soprattutto nella cosiddetta seconda descrizione della Gerusalemme celeste, che inizia al v. 9. Sembra quasi di essere di fronte a un doppione, perché viene ripresentata la città che scende dal cielo; l’autore finale non se ne preoccupa, anzi, ritiene di dover ripetere le stesse cose proprio per farci penetrare nella coscienza che siamo in una realtà nuova instaurata dal mistero pasquale di Cristo. Al v. 10 la santa città « che scende dal cielo, da Dio » è contemplata dal veggente mentre si trova su un monte grande e alto. Nei versetti successivi, sul simbolo base della città si sviluppano almeno cinque linee simboliche, continuamente riprese. La prima è quella della luce, della gloria di Dio che irradia sulla città e la rende totalmente trasparente, colma della sua presenza, così da non aver più bisogno di un centro luminoso come il tempio: l’intera città è luce. Il secondo elemento simbolico è il grande, alto muro, con le sue fondamenta, che dà le dimensioni della città. Il terzo è quello delle dodici porte, con le loro scritte e i loro ornamenti. Poi l’elemento del fiume, che attinge al racconto della Genesi.                      Infine, gli alberi con i frutti e le foglie: l’albero della vita. Mi limito a ripercorrere le prime due linee simboliche, nel desiderio di mostrare l’unità dell’insieme, l’unico messaggio che viene ripetutamente presentato. La città, al v. 10, è dunque risplendente della gloria di Dio e il v. 11 commenta tale splendore, simile a quello di gemma preziosissima, quale pietra di diaspro cristallino. Il tema della luce è ripreso al v. 18: la città è di oro puro, simile a terso cristallo; per questo (v. 23) non ha bisogno della luce del sole ne della luce della luna, dal momento che la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’agnello.  Al v. 24 la luce diviene il riferimento per tutta l’umanità: « Le nazioni cammineranno alla sua luce ». Il nuovo ordine di cose nel quale siamo, il regno di Cristo che già si instaura, è splendore attraente della gloria del Padre e dell’agnello. È una realtà luminosa in cui vivere è bello perché dà sicurezza, respiro, chiarezza, gioia, e « non vidi alcun tempio in essa » (v. 22), perché il Signore Dio onnipotente e l’agnello so- no il suo tempio. La trasparenza di Dio è tale che Dio è percepibile in ogni luogo, lo si incontra ovunque. La conversione cristiana è propria di chi entra in questo nuovo modo di vedere le cose, di chi accoglie la rivelazione della gloria di Dio e si lascia illuminare dalla sua luce. Il muro è descritto, al v. 12, come grande e alto. Al v. 14 si dice che « le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello ». Mura assai singolari, che danno alla città un’impensabile altezza, misurata con una canna d’oro; la città ha una forma strana, tutta simbolica, la forma di un quadrato dove la lunghezza è uguale all’altezza e alla larghezza. Si tratta di un cubo di oltre cinquecento chilometri di lato, e le mura hanno uno spessore di oltre sei chilometri. Dunque, un’ampiezza smisurata, un’estensione e un’altezza inimmaginabili per una città. E se ne dice poi la ricchezza incalcolabile: le mura sono costruite con diaspro, le fondamenta delle mura adornate di pietre preziose. Contempliamo così una città capace di accoglienza senza limiti, una città che dà un agio e una sicurezza che non hanno paragone. In essa si è pienamente sicuri e ci si sente molto ricchi nella sfera divina, nell’essere in Cristo, in questa luce di Dio. Se continuassimo la riflessione sugli altri simboli, ci accorgeremmo che ciascuno aggiunge qualcosa al significato della conversione cristiana e, mentre prelude alla piena manifestazione di Dio nel suo Regno – che è indescrivibile a parole -, ci invita già a chiederci se veramente abbiamo la coscienza di vivere in questa nuova realtà, se abbiamo la coscienza della bellezza, della ricchezza, della sicurezza, della luminosità, dell’apertura, della disponibilità della realtà nella quale siamo essendo in Cristo, essendo con lui nel Padre, nel mistero trinitario. È interessante rileggere i versetti conclusivi della descrizione dei simboli, dove viene sottolineato l’effetto del nuovo ordine di cose instaurato dalla morte e risurrezione di Gesù: « Le nazioni cammineranno alla sua luce e ire della terra a lei porteranno la loro magnificenza. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più notte. Non entrerà in essa nulla di impuro, ne chi commette abominio e falsità; ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello » (vv. 24-27). La nuova Gerusalemme è il punto di riferimento che dà senso a tutta la storia umana, è il punto di arrivo di tutte le nazioni e di tutti i popoli, è la città ideale aperta e pronta a ricevere tutti, è la città che esclude ogni impurità e ogni falsità, che affratella nazioni e popoli amano amano che vengono immersi in questa pienezza luminosa che è la manifestazione di Dio, del suo amore senza limiti. Le misure della città sono alla dismisura dell’altezza, lunghezza, larghezza della carità di Cristo e superano ogni comprensione. Il cristiano che legge l’Apocalisse Per il cristiano che legge l’Apocalisse, ogni pagina dei capitoli 21 e 22 è un modo di dire il suo essere in Cristo, le ricchezze che fin da ora gli sono date quale primizia, anticipo, pregustazione di ciò che sarà definitivo e in parte già lo è. Possiamo chiederci come tale ricchezza tocca l’attuale Gerusalemme storica. Chi ama questa Gerusalemme e tutte le città storiche che partecipano alle sue sofferenze, comprende la risposta alla domanda, anche se non è facile esprimerla in maniera razionale e logica. Provo comunque a farlo: la Gerusalemme attuale è attratta dalla forza dei simboli al di là di se stessa e quindi ha un suo destino; destino di cui è simbolo, destino da cui è attirata verso la pienezza alla quale richiama continuamente con il suo nome e con la sua storia. In altre parole, c’è una permanente tensione dialettica tra la Gerusalemme storica e la Gerusalemme celeste; l’una richiama l’altra e quella celeste attrae quella della storia e, con essa, attrae tutta la storia umana.

Conclusione  Domandiamoci a che cosa ci stimola la visione che abbiamo cercato di contemplare. A me pare che stimoli anzitutto a scoprire la pienezza in cui siamo e a esserne grati a Dio: pienezza che è il cammino storico dell’umanità, che si rivela a noi quale cammino positivo, di senso, e non soltanto di pura attesa, ma cammino già di partecipazione alle ricchezze inestimabili, inesauribili di Cristo, come singoli, come gruppo, come città, come società e come umanità. Se, con la grazia del Signore, con gli occhi della fede, ci sforziamo di scoprire la pienezza in cui siamo, dobbiamo lasciarci trascinare da questa dinamica storica. Dinamica che ci indica dove la storia va e ci aiuta a capire come anticiparla nella fraternità e nella giustizia, sperando e operando affinché, attraverso la vittoria del bene sul male, anzi traendo il bene dal male, la luce della Gerusalemme celeste irradi e dia gioia e sicurezza fin da ora a tante persone che camminano con noi. Ancora, la visione che abbiamo cercato di contemplare ci stimola a coinvolgere la Gerusalemme storica, e tutte le città che soffrono delle sue sofferenze, in questo cammino che trascina il mondo verso la definitiva pienezza.  

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[Tratto da: Lettura ecumenica della Parola, 9-10 settembre 1994, in AA.VV. Gerusalemme patria di tutti, EDB, Bologna 1995]    

SINDONE. IL DIO NASCOSTO (C.M.MARTINI)

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SINDONE. IL DIO NASCOSTO (C.M.MARTINI)

POSTED ON 8 MARZO 2010

Al cuore della fede cristiana, per il filosofo Paul Ricoeur, c’è «un nucleo simbolico», quello del «servitore sofferente, dell’uomo gradito a Dio perché dà la vita per i suoi amici».   Prefigurato da Isaia, svelato nei Vangeli e ricordato dall’immagine misteriosa impressa sul sacro lino. La riflessione dell’arcivescovo emerito di Milano di Carlo Maria Martini, Avvenire 7.3.10

Giovanni Paolo II, nel discorso in occasione del suo pellegrinaggio del 24 maggio 1998, ha insistito sulla funzione di segno da cui parte un messaggio per noi. Ha chiamato la Sindone «immagine intensa e struggente di uno strazio inenarrabile», «immagine della sofferenza», «immagine dell’amore di Dio, oltre che del peccato dell’uomo», «immagine di impotenza», «immagine del silenzio». E ha sottolineato che essa «diventa così un invito a vivere ogni esperienza, compresa quella della sofferenza e della suprema impotenza, nell’atteggiamento di chi crede che l’amore misericordioso di Dio vince ogni povertà, ogni condizionamento, ogni tentazione di disperazione».   C’è in questa immagine un mistero di nascondimento, che richiama l’enigmatico versetto del profeta Isaia: «Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio di Israele, Salvatore» (45,15). È il versetto che ho scelto come filo conduttore per la mia riflessione, insieme ad una frase del filosofo Paul Ricoeur in un’intervista di qualche anno fa. A chi gli domandava in quale modo definiva da filosofo la fede cristiana, rispondeva: «Il cuore della fede cristiana» consiste anzitutto in un «nucleo simbolico centrale, quello del servitore sofferente, dell’uomo gradito a Dio perché dà la sua vita per i suoi amici». Faceva quindi riferimento sia ai canti del Servo del Signore (Is 42-53) sia alla parola di Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). (…) Una situazione storica in cui la presenza­assenza del divino, misteriosa e ricca di potenza, raggiunge il suo acme è certamente quella della passione di Gesù.   Ignazio di Loyola, che aveva a lungo contemplato i misteri della sofferenza del Signore, invita colui che fa gli Esercizi spirituali a meditare, nella settimana dedicata alla passione, su questo tema: «Considerare come la divinità si nasconde, come cioè, potendo distruggere i suoi nemici, non lo fa e come lasci soffrire tanto crudelmente la santissima umanità» di Gesù (n. 196).   Noi non sappiamo se sant’Ignazio si sia lasciato ispirare per la sua importante annotazione dal versetto di Is 45,15 – «Tu sei un Dio nascosto» –. Più probabilmente aveva in mente la parola di Gesù al discepolo che voleva difenderlo con la forza da coloro che venivano per catturarlo: «Rimetti la spada nel fodero… Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli?» (Mt 26,52-53). Da testi come questo Ignazio traeva la riflessione sul voluto occultamento della potenza divina nella passione del Signore, e comunque è chiaro che annetteva grande importanza al mistero del nascondimento di Dio. Infatti vi ritorna nella settimana dedicata alla risurrezione invitando a contemplare «come la divinità, che sembrava nascondersi nella passione, appare e si mostra ora tanto miracolosamente nella santissima risurrezione attraverso i meravigliosi effetti di essa» (n. 223).   Del resto, la congiunzione di potenza e impotenza, di debolezza e gloria, gloria nascosta nel mistero delle umiliazioni e sofferenze di Gesù, è ciò che il quarto vangelo ci invita a contemplare nel racconto della passione. Ad Andrea e Filippo, i due apostoli che riferiscono a Gesù, nel giorno del suo ingresso trionfale a Gerusalemme, il desiderio di alcuni greci di vederlo – e che si aspettano una risposta entusiasta per la domanda di fede che sembra contagiare pure i pagani – egli risponde parlando della gloria della sua morte: «È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,23-24). Subito dopo l’evangelista riporta un detto enigmatico di Gesù che unisce l’esaltazione alla croce: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me». Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire» (Gv 12,32-33). E, dopo aver raccontato che Giuda era uscito dal Cenacolo per consumare il tradimento, Giovanni fa dire subito a Gesù: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato» (Gv 13,31).   Dunque il cristiano che legge Isaia non può non pensare alla passione di Gesù come il momento in cui la potenza di Dio, e addirittura la sua gloria, si è espressa nell’umiliazione e nella passività del Figlio dell’uomo torturato a morte.   E la Sindone ci parla proprio di un uomo sotto i tormenti, il cui volto – come recita la bella preghiera composta dall’arcivescovo di Torino cardinale Severino Poletto – «tumefatto e macchiato di sangue» appare «dolcissimo nella serena solennità della morte», così che, pur non potendo dire con certezza chi sia questa persona, avvertiamo il «fascino di questa immagine» e «il cuore si commuove nel constatare che qui si riflette, come in uno specchio, il Vangelo».   L’espressione «Tu sei un Dio nascosto» di Is 45, 15 offre davvero una molteplice serie di piani interpretativi. Nel contesto di Isaia fa riferimento a un agire di Dio che si nasconde negli enigmi della storia. Nel contesto della passione e morte di Gesù può essere colto quale riferimento al nascondersi della potenza divina e all’inermità del sofferente tormentato fino alla morte.   Ela Sindone, pur nella sua enigmaticità, costituisce – dice Giovanni Paolo II nel discorso sopra citato – «un segno veramente singolare che rimanda a Gesù, la Parola vera del Padre, e invita a modellare la propria esistenza su quella di colui che ha dato se stesso per noi».   Un’esistenza capace di mostrare la gloria di Dio anche nell’inermità e nella debolezza.   Nel desiderio di approfondire il significato cristologico del versetto di Isaia, siamo rimandati ad altre pagine che si trovano nel medesimo contesto di Isaia 45, cioè ai capitoli 42-53 dove si accenna alla missione di un servo presentato anche quale servo sofferente; quella missione che costituisce, secondo Paul Ricoeur, il nucleo simbolico centrale del mistero cristiano.   Continua, infatti, Ricoeur, parlando del «simbolismo» strutturante del servo sofferente»: «La nostra fede ha un valore strutturante ed è pure sorgente di riflessione sulla condizione umana, sui rapporti dell’uomo con se stesso e con gli altri». Egli ritiene che il simbolismo fondamentale del cristianesimo – la figura del servo sofferente che dà la vita per i suoi amici – sia accessibile a ogni uomo: «Ogni uomo può comprenderlo. Entrare nel movimento della fede è decidere di fare di questo servitore, di Gesù Cristo, il principio organizzatore della propria vita, della sua comprensione e del rapporto con altri». (…) Stimolato dalle riflessioni di un filosofo vorrei cercare di delineare alcune coordinate dei canti del servo sofferente nel contesto di Is 42-53, per cogliere successivamente come si realizzano nella passione di Gesù e che cosa dicono a chi contempla oggi il volto dolente dell’uomo della Sindone pensando alla morte del Signore per noi.   Suppongo noti i quattro canti e non li rileggo: sono quattro oracoli, quattro brevi poemi (da cinque a sedici versetti ciascuno) inseriti nella seconda parte del libro di Isaia, che parlano di un misterioso, innominato Servo del Signore, eletto da lui, inviato per una missione e sottoposto a gravi sofferenze fino alla morte. Da tali sofferenze scaturisce il bene e la salvezza del popolo.   Anzitutto sottolineo le convergenze esteriori, superficiali e però interessanti tra gli enigmi dei quattro carmi e l’enigma dell’uomo della Sindone.   1) Entrambi sono anonimi. Non sappiamo determinare l’autore dei canti del Servo e neppure del contesto in cui si trovano. Gli esegeti si accordano sul fatto che i capitoli 42­53 sono di uno o più autori ignoti, certamente posteriori al profeta Isaia.   2) Misteriosa rimane pure l’identificazione del Servo. Talvolta sembra si parli di tutto il popolo d’Israele; talvolta, invece, il Servo è identificato col re dei persiani Ciro, che conquistò Babilonia e permise il ritorno degli esiliati a Gerusalemme. In alcuni brani, quelli chiamati appunto i «carmi del servitore di Dio», la figura del servitore si precisa come persona singola pur restando anonima, persona che dà la vita per il popolo e subisce terribili torture fisiche e morali. È qualcuno che «ha presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che gli strappavano la barba» e che «non ha sottratto la faccia agli insulti e agli sputi» (Is 50,6).   Anche l’uomo della Sindone rimane ignoto e non si è riusciti a stabilire con esattezza scientifica il tempo al quale risale. Chiaramente si tratta di un uomo che è stato sottoposto ai flagelli, il cui volto è stato offeso.   Per questo mi pare importante rendersi conto più da vicino della missione e del mistero del Servo sofferente descritto da Isaia. Notiamo anzitutto che il protagonista dei capitoli 42-53 di Isaia non è il Servo del Signore, bensì Dio stesso, colui che è il dominatore dei tempi, del passato e del futuro, colui che in ogni circostanza e situazione è capace di salvare Israele. Egli si serve per la sua azione anche di rappresentanti e uno di essi è appunto una precisa persona storica, Ciro che, come ho accennato sopra, soggiogherà la potenza che aveva distrutto il regno di Giuda e farà rientrare i deportati del popolo.   Un altro rappresentante è appunto questo servo enigmatico e misterioso, membro del popolo del Signore, a cui viene affidata una missione non soltanto riguardo al popolo eletto, ma al mondo intero. Un servitore che ha una particolare intimità con il suo Signore. Dio stesso «gli ha aperto l’orecchio, gli ha dato una lingua da iniziati» (Is 50,5.4), il linguaggio profetico; Dio è il suo unico sostegno e il servo professa un’assoluta obbedienza che si caratterizza per una straordinaria tenacia e capacità di affrontare la contraddizione, e si esprime in una sorprendente pazienza e dolcezza.   Il dramma stesso della morte cui egli va incontro, e che a prima vista sembrerebbe un fallimento della sua missione, sta a dire una dedizione e un amore capaci di superare ogni resistenza, addirittura divenendo intercessione e offerta sacrificale per la salvezza di tutto il popolo. Proprio in tal senso la figura del Servo pone la questione sul modo con cui Dio salva, e quindi sul suo modo di essere potente e sapiente.   Emerge dalle pagine di Isaia la figura di un Dio che cerca anzitutto l’obbedienza della fede, l’interiorità del culto, la dedizione incondizionata, l’amore che non viene meno e che perdona agli offensori.   La figura del Servo così delineata esprime anche un’immagine di un Dio esposto alla contraddizione e al rifiuto, di un Dio ricco di misericordia e di perdono, che si presenta come un amore tenacemente e gratuitamente offerto, un amore fragile e disarmato. Il suo «eletto esporrà il diritto alle nazioni senza gridare né alzare il tono… senza spezzare la canna incrinata, né spegnere la fiammella smorta» (Is 42,2-3). Il soffrire di questo servo (cf. Is 50,4­9; 52,13-53,12) mette in luce l’immagine di un Dio che sembra nascondersi nella sofferenza e nella debolezza dell’uomo. Questo servo è «disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire» (Is 53,3); oppure sono nostre le malattie che ha portato, nostri i dolori che si è addossato. È apparso come se fosse «castigato, percosso da Dio e umiliato», ma noi otteniamo la guarigione grazie alle sue piaghe (cf. Is 53,4-5).   Ancora, questo servo non si pone come estraneo al suo popolo e all’umanità, si pone piuttosto come un nuovo, vi è in lui un elemento di inconfrontabilità. Contempliamo quindi il mistero di un uomo mediante il quale si ha anche una nuova rivelazione personale di Dio, in quanto Salvatore.   È ovvio che soltanto di fronte a Gesù di Nazaret comprenderemo che la figura del servo di Isaia è un’anticipazione della rivelazione di Dio nel suo Figlio fatto uomo, di conseguenza una rivelazione della figura di un’umanità autentica. Quel servo esprime dunque qualcosa i cui contorni dovranno essere definiti in seguito, pur se in maniera sorprendente e imprevedibile. Gradualmente verrà alla luce che la storia del servo doveva in definitiva essere la storia di Dio con e per gli uomini, capace di rivelare Dio all’uomo e l’uomo a se stesso. Il nuovo modo, singolare, di essere del servo aveva la sua ragione profonda nel fatto che in lui si esprimeva il modo umano di essere dell’amore salvifico di Dio.

SENTIMENTI E ARIDITÀ , L’ORDINE DEI SENTIMENTI NEL CAMMINO DI UN CREDENTE – DI CARLO MARIA MARTINI

http://www.gliscritti.it/preg_lett/antologia/sentimenti_e_aridita.htm

SENTIMENTI E ARIDITÀ   L’ORDINE DEI SENTIMENTI NEL CAMMINO DI UN CREDENTE

DI CARLO MARIA MARTINI  

Sento timore e trepidazione perché a causa della natura complessa e poliedrica del tema del sentire umano non è possibile azzardare una parola conclusiva, ma semmai indicare qualche pista di lavoro. “L’ordine dei sentimenti nel cammino di un credente: gli esercizi spirituali di sant’Ignazio quale cammino verso la libertà”, è il titolo della mia relazione. Possiamo esprimerlo in forma di domanda: “C’è un ordine dei sentimenti? C’è un governo dei sentimenti? E’ lecito questo governo? E’ possibile?”. In altri termini: come fare quando i sentimenti mi tradiscono? Quando non sgorgano come e quando io vorrei oppure si spengono quando e come io non vorrei, oppure si accavallano e si urtano, così da togliermi io controllo di essi? Oppure si occultano, scompaiono, mi lasciano freddo, arido e cinico, quando io vorrei invece reagire a una situazione in modo diverso, più costruttivo e mi sento vuoto di sentimenti? E’ possibile questo governo? E’ giusto? O è meglio lasciare la briglia alla spontaneità, affidarsi ai torrenti del deserto, che ora si intorbidano nel momento delle grandi piogge, ora si seccano e deludono la nostra sete? Come fare ad esempio, quando in un amore, che si voleva senza fine, in una amicizia che si voleva perenne, i sentimenti si ottundono e si spengono? E’ necessario rassegnarsi? Oppure lottare? Si possono risuscitare? Come? Sono domande a cui non pretendo di rispondere esaustivamente, ma che pure si pongono nel cammino di ogni uomo e di ogni donna, perché sono parte di ogni rapporto umano. E’ il problema dell’esserci o meno dei sentimenti, dell’esserci a dispetto di noi. E’ questa incapacità a governarli che ci irrita, e vorremmo capire meglio. Il discorso vale, e fortemente, anche nel nostro rapporto o non rapporto con Dio, nel credere o nel non credere, perché molto spesso il sì o il no alla fede è giocato sull’onda del sentire o del non sentire. “Non credo perché non sento niente”, dice qualcuno; “Credevo, e tuttavia mi pare di non credere più, mi pare che i miei sentimenti si siano affievoliti con gli anni”. Ci chiediamo: esiste un tentativo di risposta sistematica a questi problemi?  Il libretto degli “Esercizi spirituali” Penso siano molto pochi coloro che hanno letto nella sua stesura originale il testo di sant’Ignazio. E’ composto di circa ottanta paginette ed è stato scritto quando Ignazio era ancora in ricerca di Dio e faceva le sue esperienze titubanti anche, e difficili, che annotava su dei fogli. Il libretto è stato scritto tra il 1521 e il 1538; Ignazio cominciò quindi a trentun anni ad appuntare alcune note di metodo su ciò che accadeva dentro di lui, sul suo itinerario mentale, e concluse la stesura circa verso i quarantacinque anni. E’ importante sapere che non è un libro fatto per essere letto, dal momento che raccoglie indicazioni metodologiche per un itinerario della mente: è un po’ come una guida dei sentieri di montagna, che non va letta, ma che accompagna chi percorre quei sentieri. Il libretto si può definire come l’itinerario per una scelta libera da condizionamenti emozionali, da investimenti affettivi errati, da blocchi sentimentali. Scelta, però, non priva di emozioni e di sentimenti; tuttavia libera da condizionamenti ciechi e irrazionali, nella ricerca e nella suscitazione di sentimenti sorgivi e autentici. Ignazio ci aiuta a ricercare, nel nostro intimo, i sentimenti autentici e a scoprire quelli inautentici e distruttivi, per mettere ordine. La parola “ordine” è fondamentale e la troviamo già nella definizione che Ignazio dà degli Esercizi: “Esercizi spirituali per mettere ordine nella propria vita senza prendere decisioni emozionalmente compromesse”. Egli ha proprio di mira la forza dei sentimenti da incanalare nella maniera giusta. E, in una delle prime Annotazioni metodologiche del libretto, sottolinea la forza del binomio capire – sentire, perché non basta capire, ma occorre capire e sentire. Conclude: “Non è il sapere molto che sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e il gustare le cose interiormente” (Ann. 2. a). Si avverte dunque che il capire è importante; meno importante è il sapere molto, l’accumulo di pure informazioni; molto importante, per un cammino autentico della persona, è l’educarsi al sentire e gustare interiormente. E’ una vera educazione dei sentimenti. Ho cercato così di far cogliere la relazione tra il libretto degli Esercizi spirituali e il tema che ci siamo proposti: l’ordine dei sentimenti nel cammino di una persona. Ancora sottolineo, del testo ignaziano, che l’importanza dell’ordine dei sentimenti è anche indicata da alcune regole metodologiche, poste verso la fine, che trattano della scoperta che si deve imparare a fare dei propri movimenti interiori, delle emozioni, dei desideri, delle paure, delle angosce, delle ripugnanze, dei soprassalti di entusiasmo, ecc., in modo da mettervi ordine secondo una serie di principi orientativi chiari ed efficaci. Sono le cosiddette Regole per il discernimento, termine che appare già nella Scrittura, nel Nuovo Testamento e che acquista nel libretto un rilievo specifico. E’ importante – afferma sant’Ignazio – che ciascuno scopra e si renda ragione di ciò che ha dentro, soprattutto dei movimenti, delle pulsioni, degli istinti, non per una semplice psicanalisi del passato, bensì in relazione all’hinc et nunc, al vissuto del momento che si sta attraversando.  Come gli esercizi spirituali ci aiutano a ordinare i sentimenti. Torna la domanda dell’inizio: è possibile un ordine dei sentimenti, un governo di essi? Per rispondere sintetizzo alcune note di itinerario, che valgono per tutti e che mi sembra offrano le linee indicative e quasi conclusive di ciò che abbiamo vissuto nei precedenti incontri di questa sessione della “Cattedra”. 1.     E’ certamente possibile ordinare i sentimenti; ordinarli evidentemente con un dominio (lo diceva già Aristotele) non dispotico, bensì politico. Ordinarli infatti non significa schiacciarli o scatenarli o rimuoverli; esiste un giusto mezzo, un governo, una supervisione.  E’ già un’acquisizione: c’è un cammino personale possibile del governo dei sentimenti. 2.     Questo ordinamento dei sentimenti è in relazione a un fine, dice il libretto. Noi diremmo: un ordinamento dei sentimenti è possibile in relazione a un senso globale della vita, a una Weltanschauung. Non esiste un ordinamento senza un prima o un poi, senza priorità, senza un ordine dei valori, senza un cammino che va verso una meta. E’ il confronto tra il senso globale della vita e gli accadimenti oscuri del mio sentire tumultuoso e apparentemente incontrollabile e indecifrabile, che mi permette a poco a poco di tracciare delle coordinate di senso, di cominciare a capirci qualcosa, di separare alcune emozioni da altre, di riconoscerne alcune come costruttive, altre come distruttive, e di cominciare a darmi un ordine pratico nel confrontarmi con esse. 3.     Nasce la domanda che ritengo cruciale per un cammino adulto, per colui che ha già superato le prime conflittualità adolescenziali o giovanili dei sentimenti e ha a che fare con sentimenti più profondi e duraturi, quelli che reggono o non reggono nell’impegno della vita. Che cosa fare quando il pozzo si prosciuga, quando la sorgente si dissecca, quando i sentimenti, che ritenevo necessari, ovvi, giusti, si affievoliscono? Che cosa fare quando nell’amore umano sembra che non si sia più capaci di dirsi niente? Quando nella preghiera non si sente più nulla, sembra di mangiare sabbia, di camminare in un deserto? Quando sembra di non credere più a niente? 4.     Gli Esercizi spirituali insegnano che esistono delle regole preziosissime… regole fondate sulla conoscenza profonda della persona e delle sue relazioni con altre persone e con il mistero al di là delle persone umane. Regole che danno una luce straordinaria per quei momenti di buio da cui pochi sono esenti nel corso della vita, soprattutto se si tratta di persone che hanno dedicato la loro esistenza alla preghiera. I contemplativi lottano più di ogni altro con l’aridità dei sentimenti, con la ripugnanza, con l’impotenza, con l’oscurità della notte. Sono i momenti in cui ci si chiede: Che cosa mi sta succedendo? Perché i miei sentimenti non mi obbediscono più?  La regola fondamentale, il segreto della “notte oscura” (per usare l’espressione di san Giovanni della Croce), è molto semplice: anche un pozzo prosciugato nutre i fiori della vita. E’ dunque la scoperta di un’affettività subliminale al di là dei sentimenti immediatamente percepibili; è la scoperta di un’affettività che è dentro di noi senza che noi lo sappiamo e che è, se noi lo vogliamo, più forte delle ripugnanze e delle paure. Siamo o ci sembra di essere nel “buco nero”, ma in realtà c’è qualcosa di più profondo, che scorre nel silenzio e che nutre le risposte. Il non sapere dell’esistenza di queste acque porta alla disperazione, al cinismo, alla tomba dell’amore; lo scoprirlo invece è l’avvio di una nuova matura esistenza, di un nuovo ordine dei sentimenti. L’ultima parola che in proposito ci dice il libretto degli Esercizi è quindi consolante: esiste, al di là dei sentimenti superficiali, vulcanici, tumultuosi, proprio là dove si entra nella notte, nel deserto, la capacità di scoprire la potenzialità di energie umane profonde, che, se accolte, pongono la persona in una maturità nuova, in un più definitivo e pieno controllo di sé, in una nuova, acquisita libertà. E’ qualcosa che non si può esprimere a parole, perché va vissuta; è qualcosa verso cui si orienta tutta la grande tradizione mistica, e non solo cristiana, e che ha trovato una sedimentazione molto semplice proprio nel dinamismo, nel processo degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio. Non riguarda, ripeto, soltanto i cammini mistici, ma ogni esistenza che voglia pensarsi seriamente come esistenza che fonde in unità pensare e sentire. Chi vuol vivere un’esistenza così, arriva, presto o tardi, a dover fare il conto con la conflittualità e l’oscurità dei sentimenti che riteneva migliori e più validi. Soprattutto se si tratta della preghiera o dell’amore, di quegli amori che abbiamo scelto e che hanno costituito la nostra esperienza di vita. E’ qui che avviene la scoperta della radice più vera delle grandi scelte della vita, della “opzione fondamentale” che non si svolge nelle scaramucce dei sentimenti superficiali, bensì a queste profondità, dove ciascuno arriva, dove ciascuno ritrova, magari nel buio, la verità di sé.  Quali domande pratiche conseguono per noi?   Sintetizzo le domande in una sola che possiamo portare con noi per continuare la riflessione: Dove, quando mi è stato dato di accedere a questa profondità di me? Parlo di profondità – voglio sottolinearlo ancora – che non è frutto di introspezione, di terapia analitica, bensì di quella scoperta della propria autenticità che per lo più avviene nei momenti duri e neri della vita, allorché la persona giunge, forse per la prima volta, a una così autentica libertà, che la estrae dai condizionamenti emozionali che continuamente ci travolgono, verso la scoperta di un’emozionalità interiore potentissima, invincibile, perché sorgiva e finalmente libera. Questo è l’accesso alla libertà, il cammino verso la libertà. Lasciamo allora che la domanda che ho posto penetri in noi.

CARLO MARIA MARTINI – IL PECCATO

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_ritrovaresestessi3.htm

CARLO MARIA MARTINI – IL PECCATO

Il rifiuto del disegno di Dio

«Il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: « Dove sei? ». Rispose: « Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto ». Riprese: « Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’ albero di cui ti avevo comandato di non mangiare? ». Rispose l’uomo: « La donna che mi hai posta accanto mi ha dato dell’ albero e io ne ho mangiato ». Il Signore Dio disse alla donna: « Che hai fatto? ». Rispose la donna: « Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato ». Allora il Signore Dio disse al serpente: « Poiché tu hai fatto questo, sii maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. lo porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno »» (Genesi 3, 9-15). Questo dialogo serrato tra Dio e l’uomo fa emergere la confusione, l’oscurità, la vergogna del peccato dell’uomo. Quattro volte parla il Signore e i primi tre interventi sono domande precise: dove sei? chi ti ha fatto sapere che eri nudo? che cosa hai fatto? E le tre domande perentorie sono seguite da una terribile profezia che indica uno stato di inimicizia e di divisione all’interno dell’esperienza umana e della storia. Alle quattro parole di Dio, tre volte rispondono gli uomini e con risposte timide, incerte, reticenti e, in parte, menzognere. Adamo afferma di avere paura, paura di Dio. Denuncia così un rapporto falsato con quel Dio d’amore in cui non sa più riconoscere il Padre, il Misericordioso di cui non scopre più il volto. E aggiunge, accusando Eva: la donna che mi hai posto accanto mi ha dato dell’ albero e io ho mangiato. Denuncia quindi anche un suo rapporto irresponsabile con la compagna della sua vita, ributtando su di lei la colpa che gli rimorde nella coscienza. Da parte sua la donna, in timore e confusione, risponde: il serpente mi ha ingannata, mostrando un rapporto irresponsabile con se stessa, con la sua colpevolezza personale, con la chiarezza delle sue responsabilità. Nell’insieme, Adamo ed Eva, con le loro parole, sottolineano la divisione, l’oscurità, la confusione che derivano all’uomo dallo stato di peccato, cioè di lontananza da Dio. Dio, al principio, sogna una terra di pace e di benevolenza, in cui il lavoro non è opprimente e la convivenza non è guerra; a tale sogno l’uomo si ribella e lo splendore, l’immenso valore della libertà donatagli da Colui che l’ha creato e amato, si trasforma, nelle sue mani, in strumento di negazione, in un progetto alternativo a quello che gli era stato proposto. Ma la domanda rivolta dal Signore ad Adamo: «Dove sei?» è la domanda che Dio rivolge a ciascuno di noi che non abbiamo affidato pienamente la nostra vita al suo disegno di amore: dove siamo, a causa della non fiducia o della poca fiducia in lui? Adamo è l’uomo di tutti i tempi, che non accetta l’amore di Dio, che rifiuta la condizione di creatura e di figlio, che non vuole essere figlio adottivo di Dio, che si ribella a un Dio che lo serve. La sua paura ha segnato tutta la storia, ha segnato l’umanità che teme Dio immaginandolo come un tremendo punito re, che ha paura della morte, della sofferenza, di ogni forma di privazione o di pericolo. Rifiutando Dio, noi e la nostra società non andremo lontano e le conquiste del progresso potranno essere addirittura la nostra babele e la nostra morte. Nelle risposte che Adamo ed Eva danno al Signore noi troviamo che manca, in realtà, l’unica parola adeguata, l’unica parola che stenta a salire dalle labbra di ogni uomo, proprio perché si è perso di vista il vero volto di Dio: «Ho peccato contro di te!». E la risposta semplice di Davide, nel Salmo 50. In un brano del vangelo di Luca possiamo leggere un altro dialogo, corrispondente a quello avvenuto nel giardino dell’Eden tra Dio, Eva, Adamo e il serpente. E il racconto dell’ Annunciazione: «L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: « Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te ». A queste parole, ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: « Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’ Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine ». Allora Maria disse all’angelo: « Come è possibile? Non conosco uomo ». Le rispose l’angelo: « Lo Spirito santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’ Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio… ». Maria disse: « Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto »» (cfr. Luca 1 26-38). Il testo della Genesi prevedeva che la maledizione contro il serpente si allargasse a una lotta incessante tra paura e speranza, tra rifiuto del progetto d’amore di Dio e piena accoglienza, prevedeva la vittoria definitiva del bene. Maria accoglie la Parola, il disegno di Dio ed è l’aurora della salvezza definitiva. Così una donna è la destinataria dell’ annuncio di un inizio nuovo e, di fronte a questa inattesa principalità di una donna che entra a far parte del progetto redentivo, ci domandiamo se davvero abbiamo compreso a fondo la rilevanza di questo evento che fa da eco a quel: «Porrò inimicizia tra te e la donna». Vuol dire che c’è un principio riconciliatore di Maria e, in lei, di ogni persona che partecipa al suo mistero. Un potere riconciliatore che il mondo non ha ancora riconosciuto e che la storia della Chiesa è destinata a esprimere. Anche il saluto: «piena di grazia», significa molte cose. Maria è bellissima, di una bellezza ontologica, è amata da Dio con amore gratuito e redentivo. Tale principalità della grazia che si china sull’umanità peccatrice e la riabilita è il fondamento della « buona notizia » ed è costitutivo, non contingente come lo è il peccato. La principalità del peccato era pervasiva, invadente, onnipresente, ma incapace di pervenire davvero al fondo dell’uomo: il peccato cioè attacca l’uomo fino in fondo e però non a fondo. La grazia, invece, risana fino in fondo e a fondo, ricostituendo nell’intimo l’uomo e l’umano. Contemplando questa nuova Eva ciascuno di noi – nonostante i peccati, le negligenze, le infedeltà, i timori – ritorna a credere nel chiarore delle origini, ritorna a inseguire la gioia e lo splendore di quei giorni in cui Dio scendeva nella brezza della sera a passeggiare nel giardino. Ritorna, ciascuno di noi, a essere motivo di speranza per il mondo.

Altre tipologie di peccato nella Bibbia Ancora nei primi capitoli della Genesi, la Bibbia ci presenta altre tre tipologie del peccato. Esse mostrano come i tre rapporti fondamentali che costituiscono la pienezza dell’uomo, l’ideale dell’umanità – il rapporto con Dio, il rapporto tra gli uomini e il rapporto con la terra – venga disconosciuto e pervertito.

Il racconto di Caino e Abele «Dopo un certo tempo, Caino offrì i frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: « Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo »» (Genesi 4, 3-7). Che cosa ha fatto Caino? Probabilmente la sua offerta era imperfetta o avara, non dettata da riverenza e amore verso il Signore. Tuttavia il peccato prende in lui forza e violenza quando egli si rattrista e non riesce ad accettare che il fratello sia migliore di lui, non riesce a vivere in pace con uno che ha un destino diverso dal suo. Caino non realizza quell’unità dei diversi che costituisce l’umanità e, anziché sentirsi spronato a salire al livello di Abele, vorrebbe che il fratello scendesse al suo. Vive la tristezza dell’invidia, che è una delle cause più gravi dello scatenarsi di guerre, di conflitti sociali, delle forme di razzismo che devastano l’umanità. Forme drammatiche ai nostri giorni e cresceranno di violenza in Europa a mano a mano che aumenterà il numero di persone di altre razze, di altre culture perché faremo grande fatica a vivere la fraternità con gli africani, con gli arabi, con gli asiatici, a vivere la dimensione dell’accoglienza dell’ altro, a cercare lo scambio, a rallegrarci del bene dell’ altro. Caino ha perduto il senso, il valore del rapporto con il fratello e giunge a uccidere. In tale situazione, non è più in grado di ascoltare la voce di Dio, tanto è vero che Caino la banalizza, se ne prende gioco. «Allora il Signore disse a Caino: « Dov’è Abele, tuo fratello? ». Rispose: « Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello? »» (v. 9).

Il racconto dei figli di Dio e delle figlie degli uomini «Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero le loro figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero. Allora il Signore disse: « li mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni ». C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi» (Genesi 6, 1-4). Il brano evoca leggende e saghe antiche di cui è difficile dire quale sia stato il contenuto vero. Lo scrittore sacro però ritiene questi brandelli di memorie per offrirci un quadro della dimenticanza, perdita e confusione di rapporti fondamentali. Il primo è di nuovo sul tema della fraternità, sul rapporto uomo-donna: «ne presero per mogli quante ne vollero». Leggiamo qui l’inizio della considerazione della donna quale oggetto, quale cosa; non come un « tu » con cui avviene uno scambio unico e indivisibile. La donna è vista come forma di possesso, non nella sua dignità pari a quella dell’uomo. C’è un altro aspetto che oggi sentiamo vivamente ed è dato dalla menzione un po’ oscura dei giganti, quasi che l’umanità si sia illusa e si possa illudere di creare uomini con poteri divini, superuomini. Pensiamo alla tremenda tentazione della biotecnologia: prendere in mano la vita, moltiplicarla, creare nuove razze di umanità, nuove forme del vivere, immaginare che la terra possa essere oggetto di sfruttamento totale e che l’uomo debba vivere in tubi stellari. Tutti progetti che la scienza, credendosi onnipotente, elabora senza più fermarsi e smarrendo il rapporto equilibrato dell’uomo con la terra. È quindi la perdita dell’ armonica relazione uomo-terra, uomo-corpo, dell’ attenzione ai ritmi dell’ esistenza, che certamente sono in continua evoluzione e l’uomo deve saper dominare, ma che non possono essere impunemente distrutti.

Il racconto della torre di Babele «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’ oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: « Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco ». li mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: « Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra ». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. li Signore disse: « Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro ». li Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra» (Genesi 11, 1-9). È un racconto misterioso, allusivo, pieno di simboli e si riferisce a situazioni originarie dell’umanità; in questo senso è esemplare. Dice non soltanto ciò che è avvenuto, ma ciò che può avvenire, che avviene. Che cosa è accaduto? Il punto di partenza è una situazione di perfetta comunione: «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole». A un certo punto però si scopre il mattone. Mentre prima si costruiva con il legno, o mettendo le pietre una sull’ altra facendo una casa al massimo di un piano, con il mattone, strumento ben maneggevole e di costruzione leggera, l’uomo comincia a pensare di non avere più limiti alla sua possibilità operativa e di poter arrivare addirittura in cielo. Di per sé siamo di fronte a un fatto tecnico che non è né buono né cattivo. Tuttavia vi leggiamo dietro l’entusiasmo, la presunzione, l’ambizione che viene dalle scoperte; un po’ come oggi la scoperta del computer con cui posso imitare l’intelligenza e tenere il mondo m mano. «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (v. 4). Dalla soddisfazione della scoperta del mattone nasce un progetto esorbitante, la pretesa di un’impresa colossale, destinata a durare per sempre, a significare l’autosufficienza umana, la capacità che l’umanità ha di edificare se stessa in assoluto. Siamo noi che ci diamo gloria e siamo noi gli arbitri del nostro destino presente e futuro. Sottilmente, senza una dichiarazione esplicita, laicamente, è rotto il contatto con Dio. Perché, in verità, è Dio che dà un nome, che lancia un ponte verso l’uomo. Il peccato dunque non consiste nel proposito di costruire una torre, bensì nella rottura della coordinata del timore di Dio, della soggezione dell’uomo al Signore del cielo e della terra. Il testo biblico non fa applicazioni morali, ma le cogliamo nella conclusione del castigo divino: « »Scendiamo e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro ». li Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra» (vv. 7-9). Noi siamo in pieno dentro tale tentazione, molto più che nei secoli passati: le continue scoperte, infatti, ci fanno ritenere di non dover dipendere più da nessuno, di poter dare il nome a noi stessi. Quanto più assumiamo responsabilità sociali, civili, politiche, scientifiche, tanto più ci troviamo immersi in una mentalità che ha perduto le coordinate, le ha confuse, spinge a vivere situazioni che vanno dall’esaltazione alla depressione, situazioni di sfiducia nella vita, di scoraggiamento, di amarezza perché dalla voglia sfrenata di possedere tutto si passa facilmente al senso della propria povertà fisica, morale, spirituale e si finisce per non capire più nulla. Quello della torre di Babele è il racconto di una colpa collettiva; mentre il rifiuto del disegno di Dio da parte di Adamo ed Eva era espresso in termini individuali, il rifiuto della gente di Babele è narrato in termini collettivi. La radice di questo peccato è la pretesa dell’uomo di essere il centro di tutto, di non avere bisogno di Dio, di staccarsi dalla dipendenza creativa, magari senza negarla, ma agendo per proprio conto. E il fenomeno odierno di guazzabuglio culturale: idee, pensieri, progetti, filosofie che contrastano tutte con l’idea di servire l’uomo.

CARLO MARIA MARTINI, INDOMITO PORTATORE DELLA « SPERANZA CHE NON DELUDE » – ANGELO SCOLA

http://www.zenit.org/it/articles/carlo-maria-martini-indomito-portatore-della-speranza-che-non-delude

CARLO MARIA MARTINI, INDOMITO PORTATORE DELLA « SPERANZA CHE NON DELUDE »

L’omelia del CARDINALE ANGELO SCOLA nella Messa in Suffragio dell’Arcivescovo emerito di Milano

Milano, 31 Agosto 2013 (ZENIT.org)

Riprendiamo di seguito l’omelia pronunciata questa sera in Duomo dal cardinale arcivescovo di Milano, Angelo Scola, nella Messa in suffragio del cardinale Carlo Maria Martini, nel primo anniversario della sua morte.

*** «Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta» (Vangelo, Mt 4,16). L’evangelista Matteo, per descrivere l’inizio del ministero pubblico di Gesù, utilizza le parole di una profezia di Isaia (cf. Is 8,23-9.1). Una descrizione efficace, che ben esprime l’iniziativa di Dio nei confronti della umana condizione. Non si può forse dire di ogni uomo che “abita in regione e ombra di morte”? Questa, come un sordo rumore di fondo, accompagna tutta la nostra vita. Non è proprio la morte, soprattutto quella delle persone a noi care e quella degli innocenti, ad aprire dolorosamente l’interrogativo circa il bene della vita? Se non c’è, infatti, risposta alla morte, se non esiste una luce in grado di dissipare l’ombra della morte, uno scetticismo dalle molte sfumature s’impadronisce di noi. Nessuno può sottrarsi a queste domande. Esse attraversano, senza distinzione, l’esistenza di credenti e di non credenti, incamminati sulla stessa strada. Nell’iniziativa che Gesù prende dopo la cattura di Giovanni, si apre a noi una strada per guardare in faccia la bruciante questione della morte: in prima persona nel territorio intorno a Cafarnao Gesù «incominciò a predicare e a dire: “Convertitevi, perché il regno di Dio è vicino”». E allora «il popolo vide una grande luce…» (Vangelo, Mt 4,16-17). «Cristo è morto per noi» (Epistola, Rm 5,18): così Paolo esplicita il cuore abbagliante di questa grande luce. Celebrare l’Eucaristia nel primo anniversario della dipartita dell’Arcivescovo Carlo Maria è un’occasione privilegiata per rendere grazie a Dio del bene compiuto nel suo ministero episcopale. Il suo sguardo appassionato per tutti gli uomini continua ad accendere la speranza «che non delude» (Epistola, Rm 5,5). Non delude perché proviene dall’amore stesso di Dio che gratuitamente si riversa nei nostri cuori. Non viene meno neppure quando siamo «deboli…» «peccatori…» e «nemici» (Epistola, Rm 5,6-8). L’Arcivescovo Carlo Maria fu indomito portatore di questa «speranza affidabile» (Spe salvi 1 e 2) che deriva dalla fede incrollabile nella Risurrezione di Gesù. Fra le pagine che il Cardinale ha dedicato alla morte e alla risurrezione ve n’è una assai penetrante che narra della straordinaria modalità con cui Gesù appare, risorto, ai suoi. Reincontrando la Maddalena, i discepoli di Emmaus, Pietro sul lago di Tiberiade Gesù, che avrebbe potuto rimproverarli perché, presi dalla paura, l’avevano in vario modo abbandonato, invece «non giudica il comportamento che hanno avuto, non critica, non condanna, non rinfaccia i ricordi dolorosi della loro debolezza, ma conforta e consola» (C. M. Martini, La trasformazione di Cristo e del cristiano alla luce del Tabor. Esercizi spirituali, BUR-Rizzoli, Milano 2004, 166). Consola perché non approfitta«dell’umiliazione altrui per schernire, schiacciare mettere da parte, ma riabilita, ridà coraggio ridà responsabilità» (ibid., 167). Con la luce della Sua risurrezione li inoltra, in pienezza di verità, sulla strada di una responsabile novità. «Nella conversione e nella calma sta la vostra forza» (Lettura, Is 30,15). Il Cardinal Martini diceva che per poter partecipare, da poveri uomini, a questa forza di «consolazione regale» propria di Gesù bisogna «avere in sé un grande tesoro, una grande gioia» (La trasformazione, 167). La memoria viva del Cardinale si fa per noi questa sera invito ad accogliere, come ci ha detto san Paolo, anche in mezzo alle tribolazioni di varia natura, quella pace che fa fiorire «la pazienza, la virtù provata e la speranza» (cf. Epistola, Rm 5,3-4). Quella offerta a tutti gli uomini dal grande tesoro che è Gesù Cristo morto e risorto è, insiste Paolo, «la speranza della gloria di Dio» (Epistola, Rm 5,8). Una speranza in forza della quale passato, presente e futuro, inscindibilmente intrecciati dalla misericordia di Dio, formano l’ordito della nostra storia personale, della storia della Chiesa e del mondo. La luce della fede che ci ha portato Gesù (cf. Papa Francesco, Lumen fidei 1), illumina il cammino che la Provvidenza ha donato alla nostra Chiesa. Un’unità che si esprime e risplende nella pluriformità di accenti e di risposte personali alla grazia di Dio. Significativamente l’Arcivescovo Carlo Maria ha dedicato la sua prima Lettera pastorale alla preghiera contemplativa. In essa egli definisce l’uomo in questi termini: «Aperto al mistero, paradossale promontorio sporgente sull’Assoluto, essere eccentrico e insoddisfatto» (La dimensione contemplativa della vita I). Apertura, sporgenza, eccentricità, insoddisfazione… non sono tutte categorie appropriate per descrivere la tensione positiva alla vita e alla vita “per sempre” che inquieta il cuore in ogni uomo rendendolo consapevole di non essere lontano da nessun altro uomo? Non esistono domande autentiche di un uomo che non siano di tutti gli uomini; le “periferie esistenziali” – per usare l’espressione di Papa Francesco – sono innanzitutto i confini della stessa esperienza di ciascuno di noi. La dimensione contemplativa dell’esistenza restituisce l’uomo a se stesso, affermava l’allora Arcivescovo di Milano in quella prima Lettera pastorale. Questo insegnamento riletto ora, alla fine del suo pellegrinaggio terreno, esprime bene il centro della sua personalità, della sua testimonianza di vita, della sua azione pastorale, della sua passione civile, dell’indomito tentativo di indagare gli interrogativi brucianti dell’uomo di oggi. Per questo la ricca complessità della sua persona e del suo insegnamento continuano ad interrogare uomini e donne di ogni condizione. La dimensione contemplativa della vita del Cardinal Martini rappresenta l’antefatto, l’orizzonte, il precedente di tutta la sua riflessione e di tutta la sua azione. Ciò che è stato e che viene detto e scritto sulla sua figura, sul suo pensiero e sulla sua opera diventerebbe facilmente unilaterale se non venisse collocato in questa unificante prospettiva. Al termine della Santa Messa ci recheremo a pregare sulla tomba del Cardinale. Questo gesto che la liturgia chiama di suffragio – con cui onora la memoria dei defunti e offre il sacrificio eucaristico perché, purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1032) – chiede ad ognuno di noi una risposta personale che ci spalanchi al campo che è il mondo intero. È una conversione che ha la forma – ce lo ha ricordato il profeta nella Lettura – di un «abbandono confidente» (Lettura, Is 30,15). Invochiamo, per intercessione della Santissima Vergine Maria, la grazia di un simile abbandono. Amen.

CARLO MARIA MARTINI – LA GERUSALEMME CELESTE E LA GERUSALEMME STORICA

http://www.nostreradici.it/jrslm_simbolo_realta.htm

CARLO MARIA MARTINI – LA GERUSALEMME CELESTE E LA GERUSALEMME STORICA

La Gerusalemme celeste (Ap 21, 1-22.5)
Il momento di contrasto
Il nuovo ordine di cose
Alcuni simboli della città celeste
Il cristiano che legge l’Apocalisse
Conclusione

La Gerusalemme celeste e la Gerusalemme storica
La Gerusalemme celeste (Ap 21, 1-22, 5)
Siamo nella parte finale dell’Apocalisse, dedicata alla descrizione della Gerusalemme celeste, a cui seguirà la conclusione. Il nuovo ordine di cose, instaurato dalla morte e risurrezione di Cristo, è disegnato attraverso due grandi fasce di simboli.
Quelli della creazione e del paradiso di Genesi 1-2, dove si parla di « nuovo cielo », « nuova terra », « ogni cosa nuova ». Il profeta Isaia annunciava « una cosa nuova » (43,19), qui viene fatta « ogni cosa nuova », la nuova creazione. Al tema sono connessi i simboli del fiume nel paradiso, dell’acqua che sgorga, dell’albero che dà vita (cfr. Gen 2) e anche quelli della nuova città, descritta da Ezechiele dal capitolo 40 al 48 (risuonano pure passi del Deuteroisaia e di Zaccaria), che è senza tempio, meglio è tutta tempio, tutta dimora di Dio. Dunque, due fasce di simboli: della creazione e della restaurazione di Israele come nuova città.
Vorrei sottolineare tre momenti di questa presentazione: il momento di contrasto, il nuovo ordine di cose e i simboli più specifici della nuova città.

Il momento di contrasto
Il contrasto è evocato fin dall’inizio con le parole:  » Allora io vidi » e, in seguito, con le parole: « E vidi poi venire dal cielo ». I Non si tratta però di una prima visione, perché fa parte di visioni descritte nei versetti precedenti (« vidi poi venire », « vidi ») e che annunciano la scomparsa di tutti gli elementi negativi della storia (cfr. Ap 20), riassunti nella morte e negli inferi. Tale scomparsa, annunciata poco prima, è ripresa nel nostro brano: scompariranno le lacrime, non ci sarà più morte né lutto né lamento ne affanno perché le cose di prima sono passate (21, 4 ); i vili, gli increduli, gli abietti, gli omicidi, gli immorali non entreranno nel nuovo ordine di cose (v. 8).
Viene quindi proclamato quel giudizio di Dio che è l’inizio del nuovo ordine di cose, giudizio formulato in base a due criteri: le opere compiute, registrate nel libro, e l’iniziativa salvifica divina espressa con l’immagine dell’iscrizione nel libro della vita.
Perciò i versetti immediatamente precedenti, richiamati in 21, 4.8 e anche in altri capitoli, presentano quale premessa della visione di Gerusalemme, della nuova città, lo sfondo della distruzione del male operata dalla croce di Cristo, distruzione del male che è frutto positivo della croce. La croce ha messo fuori gioco l’universo spirituale costituito dalla ribellione a Dio, per- mettendo la nascita di un ordine nuovo e di un nuovo universo di valori delineati a partire dall’inizio del capitolo 21.

Il nuovo ordine di cose
Il nuovo ordine di cose lo leggiamo in 21, 1-5, ed è presentato con le parole: « nuovo cielo e nuova terra » (« In principio Dio creò il cielo e la terra », Gen 1, 1). Un nuovo ordine spirituale e morale, nel quale siamo collocati. E la cosa nuova è anche la città santa, la nuova Gerusalemme, simbolo del nuovo ordine di grazia e di misericordia instaurato da Dio. La città discende dal cielo perché il nuovo ordine è puramente gratuito, non è opera di uomini, bensì di Dio che lo fa e lo dona.
È una città ed è pure una sposa adorna per il suo sposo, pronta per le nozze, bellissima, così come la sposa di cui parlava Ezechiele al capitolo 16, 8ss: vestita di ricami, calzata con pelli di tasso, cinto il capo di bisso, ricoperta di seta, adorna di gioielli. Così va immaginata questa sposa che nell’ Apocalisse è veramente e pienamente fedele.
E lo sposalizio, che fa parte dell’ordine nuovo, è l’alleanza richiamata al v. 3, dove è evocato Lv 26, 11 (« stabilirò la mia dimora in mezzo a voi »), insieme ad altri brani dell’Antico Testamento sull’alleanza, per dare questa visione complessiva: Dio dimorerà tra di loro, essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro.
Di fronte a tale visione, noi ci domandiamo: riguarda il presente o il futuro? Queste parole sono compiute?
Al v. 6 è scritto: « Ecco, sono compiute! ». Tuttavia si potrebbe pensare a un’anticipazione profetica, a un passato che riguarda il futuro.
In realtà, per il principio ermeneutico, io leggo qui molto più volentieri la descrizione di ciò che è compiuto nella morte e risurrezione di Gesù. Non quindi un ordine nuovo di cose che verrà, ma un ordine che è e che viene e nel quale tutti siamo già dentro.
Siamo già nell’alleanza, siamo già la nuova città che scende dal cielo, siamo già la sposa pronta per lo sposo, pur se non ancora in pienezza; fin da ora, nella passione e risurrezione di Cristo, tutto è compiuto e si compie in coloro che sono in lui.

Alcuni simboli della città celeste
I simboli di questo nuovo ordine di cose sono espressi soprattutto nella cosiddetta seconda descrizione della Gerusalemme celeste, che inizia al v. 9.
Sembra quasi di essere di fronte a un doppione, perché viene ripresentata la città che scende dal cielo; l’autore finale non se ne preoccupa, anzi, ritiene di dover ripetere le stesse cose proprio per farci penetrare nella coscienza che siamo in una realtà nuova instaurata dal mistero pasquale di Cristo.
Al v. 10 la santa città « che scende dal cielo, da Dio » è contemplata dal veggente mentre si trova su un monte grande e alto. Nei versetti successivi, sul simbolo base della città si sviluppano almeno cinque linee simboliche, continuamente riprese.
La prima è quella della luce, della gloria di Dio che irradia sulla città e la rende totalmente trasparente, colma della sua presenza, così da non aver più bisogno di un centro luminoso come il tempio: l’intera città è luce.
Il secondo elemento simbolico è il grande, alto muro, con le sue fondamenta, che dà le dimensioni della città.
Il terzo è quello delle dodici porte, con le loro scritte e i loro ornmenti.
Poi l’elemento del fiume, che attinge al racconto della Genesi.
Infine, gli alberi con i frutti e le foglie: l’albero della vita.
Mi limito a ripercorrere le prime due linee simboliche, nel desiderio di mostrare l’unità dell’insieme, l’unico messaggio che viene ripetutamente presentato.
La città, al v. 10, è dunque risplendente della gloria di Dio e il v. 11 commenta tale splendore, simile a quello di gemma preziosissima, quale pietra di diaspro cristallino.
Il tema della luce è ripreso al v. 18: la città è di oro puro, simile a terso cristallo; per questo (v. 23) non ha bisogno della luce del sole ne della luce della luna, dal momento che la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’agnello.
Al v. 24 la luce diviene il riferimento per tutta l’umanità: « Le nazioni cammineranno alla sua luce ».
Il nuovo ordine di cose nel quale siamo, il regno di Cristo che già si instaura, è splendore attraente della gloria del Padre e dell’agnello. È una realtà luminosa in cui vivere è bello perché dà sicurezza, respiro, chiarezza, gioia, e « non vidi alcun tempio in essa » (v. 22), perché il Signore Dio onnipotente e l’agnello so- no il suo tempio. La trasparenza di Dio è tale che Dio è percepibile in ogni luogo, lo si incontra ovunque. La conversione cristiana è propria di chi entra in questo nuovo modo di vedere le cose, di chi accoglie la rivelazione della gloria di Dio e si lascia illuminare dalla sua luce.
Il muro è descritto, al v. 12, come grande e alto. Al v. 14 si dice che « le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello ». Mura assai singolari, che danno alla città un’impensabile altezza, misurata con una canna d’oro; la città ha una forma strana, tutta simbolica, la forma di un quadrato dove la lunghezza è uguale all’altezza e alla larghezza. Si tratta di un cubo di oltre cinquecento chilometri di lato, e le mura hanno uno spessore di oltre sei chilometri. Dunque, un’ampiezza smisurata, un’estensione e un’altezza inimmaginabili per una città. E se ne dice poi la ricchezza incalcolabile: le mura sono costruite con diaspro, le fondamenta delle mura adornate di pietre preziose.
Contempliamo così una città capace di accoglienza senza limiti, una città che dà un agio e una sicurezza che non hanno paragone. In essa si è pienamente sicuri e ci si sente molto ricchi nella sfera divina, nell’essere in Cristo, in questa luce di Dio.
Se continuassimo la riflessione sugli altri simboli, ci accorgeremmo che ciascuno aggiunge qualcosa al significato della conversione cristiana e, mentre prelude alla piena manifestazione di Dio nel suo Regno – che è indescrivibile a parole -, ci invita già a chiederci se veramente abbiamo la coscienza di vivere in questa nuova realtà, se abbiamo la coscienza della bellezza, della ricchezza, della sicurezza, della luminosità, dell’apertura, della disponibilità della realtà nella quale siamo essendo in Cristo, essendo con lui nel Padre, nel mistero trinitario.

È interessante rileggere i versetti conclusivi della descrizione dei simboli, dove viene sottolineato l’effetto del nuovo ordine di cose instaurato dalla morte e risurrezione di Gesù: « Le nazioni cammineranno alla sua luce e ire della terra a lei porteranno la loro magnificenza. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più notte. Non entrerà in essa nulla di impuro, ne chi commette abominio e falsità; ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello » (vv. 24-27).
La nuova Gerusalemme è il punto di riferimento che dà senso a tutta la storia umana, è il punto di arrivo di tutte le nazioni e di tutti i popoli, è la città ideale aperta e pronta a ricevere tutti, è la città che esclude ogni impurità e ogni falsità, che affratella nazioni e popoli amano amano che vengono immersi in questa pienezza luminosa che è la manifestazione di Dio, del suo amore senza limiti. Le misure della città sono alla dismisura dell’altezza, lunghezza, larghezza della carità di Cristo e superano ogni comprensione.

Il cristiano che legge l’Apocalisse
Per il cristiano che legge l’Apocalisse, ogni pagina dei capitoli 21 e 22 è un modo di dire il suo essere in Cristo, le ricchezze che fin da ora gli sono date quale primizia, anticipo, pregustazione di ciò che sarà definitivo e in parte già lo è. Possiamo chiederci come tale ricchezza tocca l’attuale Gerusalemme storica.
Chi ama questa Gerusalemme e tutte le città storiche che partecipano alle sue sofferenze, comprende la risposta alla domanda, anche se non è facile esprimerla in maniera razionale e logica. Provo comunque a farlo: la Gerusalemme attuale è attratta dalla forza dei simboli al di là di se stessa e quindi ha un suo destino; destino di cui è simbolo, destino da cui è attirata verso la pienezza alla quale richiama continuamente con il suo nome e con la sua storia. In altre parole, c’è una permanente tensione dialettica tra la Gerusalemme storica e la Gerusalemme celeste; l’una richiama l’altra e quella celeste attrae quella della storia e, con essa, attrae tutta la storia umana.

Conclusione
Domandiamoci a che cosa ci stimola la visione che abbiamo cercato di contemplare.
A me pare che stimoli anzitutto a scoprire la pienezza in cui siamo e a esserne grati a Dio: pienezza che è il cammino storico dell’umanità, che si rivela a noi quale cammino positivo, di senso, e non soltanto di pura attesa, ma cammino già di partecipazione alle ricchezze inestimabili, inesauribili di Cristo, come singoli, come gruppo, come città, come società e come umanità.
Se, con la grazia del Signore, con gli occhi della fede, ci sforziamo di scoprire la pienezza in cui siamo, dobbiamo lasciarci trascinare da questa dinamica storica. Dinamica che ci indica dove la storia va e ci aiuta a capire come anticiparla nel- la fraternità e nella giustizia, sperando e operando affinché, attraverso la vittoria del bene sul male, anzi traendo il bene dal male, la luce della Gerusalemme celeste irradi e dia gioia e sicurezza fin da ora a tante persone che camminano con noi.
Ancora, la visione che abbiamo cercato di contemplare ci stimola a coinvolgere la Gerusalemme storica, e tutte le città che soffrono delle sue sofferenze, in questo cammino che trascina il mondo verso la definitiva pienezza.

[Tratto da: Lettura ecumenica della Parola, 9-10 settembre 1994, in AA.VV. Gerusalemme patria di tutti, EDB, Bologna 1995]

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