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TEOLOGIA DELL’AMORE MISERICORDIOSO, S. E. Mons. Paul Poupard

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S. E. Mons. Paul Poupard

TEOLOGIA DELL’AMORE MISERICORDIOSO

« Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre Vostro ». Questa direttiva che il Signore ha dato ai suoi discepoli nel Vangelo e che San Luca ha raccolto (Luca 6,36), è passata attraverso due millenni di guerre e di lotte inespiabili, nelle quali i cristiani stessi non hanno purtroppo potuto fare a meno di essere sommersi, anche se l’ideale evangelico della misericordia continua a commuoverli ed animarli: innumerevoli opere di misericordia sono state suscitate dallo Spirito di Dio, sempre operante nella Chiesa. E anche ai giorni nostri, un papa come Giovanni XXIII non trascurava nessuna occasione per celebrare la pratica delle opere di misericordia, che il suo carissimo zio, Saverio, gli aveva insegnato sin dalla prima infanzia. Ritorno al Centro
Ma la misericordia sembrava essere piuttosto una conseguenza, un corollario, un accessorio d’obbligo della fede, e non una prospettiva centrale. E dobbiamo a Papa Giovanni Paolo II e alla sua Enciclica Dives in Misericordia, l’aver operato quello che si può definire un ritorno al centro. Infatti, è proprio di tutti i rinnovamenti della Chiesa e di ogni ritorno spirituale alle sorgenti, l’operare questo riconvergere sul Vangelo, da cui il peso della vita quotidiana ci distrae senza sosta.
Ripercorro con la mente un fatto. Era lo scorso anno, il 30 novembre 1980, nella celebrazione della prima domenica d’avvento. A quell’epoca facevo la spola, ogni mese, tra Parigi – dove mantenevo ancora la mia carica di rettore dell’Istituto Cattolico – e Roma, dove cominciavo ad esercitare la responsabilità di pro-presidente del Segretario per i Non Credenti, responsabilità che, come papa Giovanni Paolo II mi ha chiesto di fare, mi assorbe ora interamente. Si, ricorso l’incredulità di qualcuno quando cominciò a circolare la notizia che il Santo Padre, per la sua seconda Enciclica, dopo la Redemptor Hominis, aveva scelto di parlare della misericordia. Che cosa? Nel nostro mondo tormentato, nella nostra Chiesa in preda a problemi tanto gravi, il Papa non aveva qualcosa di più urgente da dire che parlare della misericordia? Un interrogativo, questo, alquanto rivelatore. Che non possiamo passare sotto silenzio. È chiaro che, per molti, la misericordia è un qualcosa in più, come lo sono le opere di misericordia in relazione alla giustizia. Il merito di Giovanni Paolo II sta nel ricordarci che si tratta invece di cosa essenziale, di una dimensione inalienabile dell’Amore, che è esso stesso nel cuore di Dio, e che tutto il movimento di conversione a cui siamo chiamati dalla fede in Cristo ci conduce ad imitarlo, ci conduce fino al punto di imitarlo.
Popolo di Dio, peccatori riscattati dalla morte e dalla Resurrezione di Cristo, peccatori perdonati, chiamati a perdonare per essere perdonati, come diciamo – senza ben comprenderlo – nel nostro Pater Noster quotidiano: « Perdona le nostre offese, come noi perdoniamo »…. Sii misericordioso con noi, come noi lo siamo: divina e stupefacente analogia tra i costumi di Dio e quelli che noi siamo chiamati a praticare, per mettere la nostra vita all’unisono con la nostra fede. Dio è amore e l’amore è misericordia
Dio è amore e l’amore è misericordia. Ecco l’asse fondamentale della nostra fede, che l’Enciclica di Giovanni Paolo II ci ricorda con fervore. Giovanni Paolo II ci chiama al superamento, sul cammino della salvezza che è il nostro cammino, al superamento del tempo, verso l’eternità. La sua prima Enciclica, Redemptor Hominis, ha tracciato, ha segnalato questo cammino della salvezza, questa strada dell’uomo, che è la strada del Cristo, e la strada della Chiesa. Non si tratta di un cammino tracciato nella terra, è la via regale. L’uomo è a percorrerla nella sequela del Cristo, è chiamato a vivere come figlio di Dio animato dallo Spirito, Dives in misericordia. E, recentemente, con la sua terza Enciclica, Giovanni Paolo II ci ha dato la terza anta di questo trittico teologico e antropologico. Come è stato scritto: « Papa Wojtyla viene da lontano e mira lontano ». L’uomo salvato dal Cristo, circondato dalla misericordia di Dio, procede lavorando, Laborem Exercens, sul cammino della salvezza, cammino della croce, cammino della vita. Ecco le dimensioni fondamentali della nostra fede, che dilatano l’orizzonte della nostra vita quotidiana fino all’infinito di Dio, « ricco di misericordia » (Ef. 2,4). Amore misericordioso, misericordia. Che cosa è, dunque, la misericordia?
Giovanni Paolo II la definisce così nel capitolo quinto della sua Enciclica: « la misericordia è la dimensione indispensabile dell’amore, è come il suo secondo nome e, al tempo stesso, è il modo specifico della sua rivelazione ed attuazione nei confronti della realtà del male che è nel mondo, che tocca e assedia l’uomo ». In altre parole, noi parliamo dell’amore misericordioso perché esiste, tra amore e misericordia, uno stretto vincolo di parentela, e tuttavia una differenza, che è molto reale. Essa si fonda sulla presenza, nel mondo e in mezzo agli uomini, del peccato. La misericordia è la forma assunta dall’amore per affrancare l’uomo dal peccato e sottrarlo al male. Giovanni Paolo II ce lo ripete a suo modo, il modo di un poeta: « La croce è come un tocco di amore eterno sulle ferite più dolorose dell’esistenza terrena dell’uomo ».
Sappiamo che la parola misericordia deriva da due vocaboli latini, misereri, aver pietà di, e cor, cordis, cuore. Come vi è stato spiegato, nella Bibbia la misericordia è il supremo attributo di Dio, che spiega l’intero disegno della salvezza. Dio ama l’uomo. Egli non può rassegnarsi al peccato e alla miseria dell’uomo. Questa miseria commuove il suo cuore e lo sollecita a soccorrerci. E l’uomo, da parte sua, si inserisce in questo grande movimento della misericordia, questa virtù del cuore compassionevole, che condivide la miseria altrui, per soccorrerla. Lo ripeto, non si tratta di un supererogare, ma, al contrario, di una esigenza profonda dell’amore: l’amore genera necessariamente la misericordia, la quale è, già per San Paolo, con la pace e la gioia, una delle se conseguenze più dirette e necessarie. Una strana dimenticanza
Eppure, né il Dizionario di teologia cattolica in quindici volumi, né l’Enciclopedia della Fede in quattro volumi, né, più recentemente, il Dizionario di teologia cristiana, i grandi temi della fede, si soffermano, nelle loro erudite colonne, sulla parola misericordia; mentre il Vocabolario di teologia biblica le consacra un importante articolo. Il Dizionario di spiritualità è il solo a soffermarsi sulla misericordia per farne uno studio sostanziale. L’Enciclopedia Catholicisme (« Cattolicesimo »), nel volume nono, trentanove, pubblicato lo scorso anno, comincia così: « Il sostantivo « misericordia » come l’aggettivo « misericordioso » sono termini in disuso, che non appartengono ora che al linguaggio religioso, più precisamente liturgico, e solo in qualche rara occasione. Mentre si tratta di un tema biblico ed evangelico che dà una rivelazione essenziale del mistero di Dio e del mistero di Gesù ». Queste poche parole scritte da quell’eccellente esegeta che è Charles Augrain, dicono tutto: il posto centrale della misericordia nella rivelazione e la sua condizione di marginalità nel cattolicesimo di oggi. Ciò che ci incita a riflettere e a riconsiderare i nostri modi di pensare e di agire.
Noi cristiani, che esistiamo e abbiamo ragione di essere, solo nella fedeltà alla rivelazione, e specialmente nel Vangelo, come abbiamo potuto permettere che una tale distorsione si insinuasse tra la nostra fede professata e la nostra vita vissuta, questa fede che è speranza nell’amore, questo amore che è misericordia? Come è detto nel Vocabolario di teologia biblica, rahamin e hésed sono le due radici ebraiche che danno alla misericordia le sue due componenti: le traduzioni francesi delle parole ebraiche e greche (eleos) oscillano dalla misericordia all’amore, passando attraverso la tenerezza, la pietà, la compassione, la clemenza, la bontà e persino la grazia. Malgrado tale verità, non è impossibile delineare l’intelligenza biblica della misericordia. Dal principio alla fine, Dio manifesta la sua tenerezza nei confronti della miseria umana. E l’uomo, a sua volta, deve mostrarsi misericordioso verso il suo prossimo, a imitazione del suo creatore. Viscere di misericordia
Il nostro Dio è il Dio delle misericordie. Egli ha « delle viscere di misericordia ». Per questo l’infelice si volge a lui nella sua disperazione: ogni persona, come il salmista, o tutto il popolo, quando il castigo si abbatte su di esso. Non è un Dio lontano, ma un Dio vicino. Non è un Dio astratto, ma un Dio incarnato. Egli ode il grido dell’uomo: ci dice il profeta, « Dio non vuole la morte dell’uomo, ma vuole che l’uomo si converta e viva ». È il testo famoso che non si può fare a meno di rileggere, al capitolo trentaquattro dell’Esodo. Proprio quando il popolo si è appena abbandonato all’idolatria, Dio si rivela a Mosé sul Sinai: « Jahvé è pietoso e misericordioso, tardo all’ira e grande in benignità e fedeltà, che conserva il suo favore per migliaia di generazioni, tollera l’iniquità, il misfatto e il peccato ».
Quando il suo popolo si allontana da lui, Jahvé lo conduce nel deserto, per parlare al suo cuore (Osea). E il popolo si converte. È il potente grido del Miserere che scaturisce dalla disperazione dell’uomo e va dritto a colpire il cuore di Dio: « Nella tua bontà, abbi pietà di me, o Signore. Nella tua tenerezza, cancella il mio peccato ». « Non voglio altro che la tua misericordia », questo è l’insegnamento dell’Antico Testamento, quando l’uomo appare come un lupo per l’uomo: homo homini lupus. Alla luce di questa rivelazione del Dio di misericordia, si opera allora un capovolgimento antropologico notevole. Non si tratta più del Dio dei pagani che gli uomini si sono costruiti come un idolo, secondo la loro immagine antropocentrica, ma è l’uomo che rivela la sua vera natura, malgrado le apparenze, come un riflesso di Dio: l’antropologia non è più antropocentrica, essa diventa teocentrica, prima di divenire cristocentrica: non più Dio a immagine dell’uomo, ma l’uomo ad immagine di Dio. E siamo così ricondotti all’importanza del mistero centrale della creazione, mistero a cui, senza sosta, si deve ritornare: « Facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza ». Malgrado le sue imperfezioni, le sue miserie ed il suo peccato, l’uomo resta specchio e riflesso della trascendenza di Dio. Ed è solo così che si dilegua l’antica tentazione, sempre rinascente e sempre rinnovata, del panteismo. Il Padre delle misericordie
Dio non è una forza cieca e impersonale, ma un padre tenerissimo che ci dà suo Figlio. Ricordiamo la parabola del Figliol prodigo, che potrebbe anche avere il nome di Parabola del Padre misericordioso (Luca, 15). Gesù ci mostra il Padre che è come appostato, in attesa di suo figlio. E quando lo scorge da lontano, mosso da compassione, corre verso di lui, gli va incontro.
Come dirà San Paolo, Dio è proprio « il Padre di ogni consolazione » (2 Cor 1, 3). Ciò che spiega il testo misterioso di Romani 11,32: « Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia ». Ciascuno di noi deve riconoscersi peccatore, per essere avvolto nel grande manto della misericordia divina.
Il messaggio di San Paolo è molto coerente: l’assenza della misericordia nei pagani scatena la collera divina (Rom 1, 31). Il cristiano non può chiudere le sue viscere, deve avere compassione nel suo cuore (Ef. 4,31). Come lo dirà San Giovanni, « L’amore di Dio dimora in coloro che non chiudono il proprio cuore » (I Giov. 3,17). È il senso della parabola del buon samaritano (Luca 10, 30-37), in cui la compassione mi rende vicino al più lontano fratello. È la lezione del giudizio secondo il capitolo venticinque di San Matteo: saremo giudicati per la misericordia che avremo esercitato, più o meno consciamente, nei riguardi di Gesù stesso, attraverso i nostri fratelli più derelitti, poveri, ammalati, affamati, assetati, abbandonati. Il mistero dell’alleanza
Tale è il mistero essenziale dell’alleanza del Dio di misericordia con l’uomo peccatore. La storia dell’alleanza, così come è riportata dalla Bibbia, è la storia del dialogo del peccato con la misericordia. Il peccatore David preferisce cadere « nelle mani del Signore, perché grandi sono le sue misericordie, anziché cadere nelle mani dell’uomo » (2 Samuele 24, 14). Di conseguenza, vivere secondo l’alleanza, essere fedeli all’alleanza, non è solo sperare nella misericordia di Dio per l’uomo, ma anche testimoniarne, vivere di essa, metterla in pratica ad immagine di Dio: « perché io sono compassionevole, dice il Signore » (Esodo 22, 20-26). « La pietà del Signore si estende a tutti i viventi » (Ecclesiastico 18, 13). Questo universalismo che infrange la corazza nazionalista di Israele, si incarna in Gesù Cristo, che non fa parzialità, e viene per salvare tutti gli uomini, non i giusti, ma i peccatori. Di conseguenza, persino i pubblicani e le prostitute sono chiamati a precederci nel Regno di Dio. Si è detto di San Luca, che il suo Vangelo è il vangelo della misericordia, nel cuore stesso delle sofferenze della passione: sguardo di chiamata e di perdono a Pietro che ha rinnegato, parole alle donne di Gerusalemme, preghiera al Padre per i suoi carnefici: « Perdonali, perché non sanno quello che fanno », promessa al malfattore buono (Luca 22-23). Beati i misericordiosi
Ed ecco il famoso appello del capitolo sei, trentasei di Luca: « Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro », appello che riecheggia la massima di Matteo: « Siate voi dunque perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste » (Matteo 5, 48). Ho citato Matteo. Come non evocare la beatitudine che riassume in modo perfetto tutta la vita e tutto l’insegnamento di Gesù: Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Ne dobbiamo dimenticare il commento, come di consueto, realista di Giacomo: « Il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia, la misericordia invece ha sempre la meglio sul giudizio » (Giacomo 2, 13). Ho citato San Giacomo. Forse, ascoltando il suo linguaggio così diretto toccare i nostri cuori, possiamo megli esorcizzare quell’antica tendenza occidentale che vela la misericordia, attribuendole il sospetto di accondiscendente paternalismo. In Gesù comprendiamo che Dio stesso si è rivestito della nostra miseria per esorcizzarla. Secondo la meditazione dell’autore della Lettera agli Ebrei, egli è diventato per noi « sommo sacerdote misericordioso e fedele » (Ebrei 2, 17). È questa la vera misericordia, il condividere l’umana debolezza, la comunione fraterna nella condizione umana.
Non più condiscendenza, ma compartecipazione, è questo il senso del mistero centrale dell’incarnazione. Come i Padri della Chiesa non hanno mai cessato di ripeterlo, Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio e, per fare questo, egli deve dapprima, nel suo terreno errare, comprendere con pazienza quali siano i costumi di Dio e, ad immagine di Dio, e secondo il suo esempio, deve diventare misericordioso.
Perché noi non viviamo in un modo perfetto, che avrebbe, se così fosse, tutti i meriti, ma un grave difetto: quello di non esistere…! Non viviamo in un modo utopico, ma in un mondo reale, segnato da profondi impedimenti e dalla grazia, dall’aspra lotta tra peccato e virtù. Tornando da un mondo fraterno, ci imbattiamo nella durezza degli uomini e nella loro disperazione. E nell’uno e nell’altro caso ci si chiede di essere misericordiosi, caritatevoli per gli uomini che soffrono e compassionevoli per coloro che hanno durezza di cuore. Non è forse questo il paradosso del mondo moderno: affabile con il peccato e duro con il peccatore? Inversamente, dobbiamo, secondo l’esempio di Cristo con la donna adultera, condannare il peccato ed amare il peccatore. Questo è il cuore compassionevole, che anima una volontà ferma, perché esso si radica in uno spirito retto. Questo è il movimento dell’amore, che ci fa mettere in pratica le parole di San Paolo: « Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto » (Romani 12,15). Un posto centrale nell’economia della salvezza
Si comprende allora quanto sia centrale il posto che la misericordia ha nell’economia della salvezza. Un atto di volontà, perché – insito – è proprio di un atto di volontà che si tratta, e non di un mero impulso emozionale, un atto di volontà che è governato dalla ragione, il quale ci fa efficacemente detestare la miseria dell’altro e ci conduce ad agire per liberarlo di questa miseria. Così noi partecipiamo al movimento d’amore misericordioso di Dio stesso, venuto a rivelare la disperazione della sua miseria per introdurla nella pienezza della sua vita vivificante, sublime compartecipazione in cui il cuore che assume la miseria esorcizza la miseria del cuore. Gesù non è venuto per rendere giustizia – dirà Madeleine Delbrel nella nostra epoca – ma per rendere gli uomini giusti: ecco il segreto della misericordia!
In tal modo la misericordia appare come un compimento di quella crescita spirituale alla quale tutti noi siamo chiamati, in Cristo Gesù, attraverso l’impulso dello Spirito che egli ci ha dato. È così che si crea l’umanità nuova, in opposizione, come contro corrente, all’umanità peccatrice. L’uccisione di Abele da parte di Caino aveva trascinato dietro di sé la spirale omicida della vendetta che è illustrata da Lamek. Il cammino che conduce l’umanità al perdono è lento, così come testimonia l’interrogativo di Pietro: « Signore, quante volte si deve perdonare? ». Sette volte?. No, settantasette volte vette, cioè senza stancarsi mai, come fa il Padre delle misericordie, come fa il Cristo sulla croce. Storia lunga e commovente, in cui si procede e si regredisce, una storia costellata di intuizioni luminose, come quella di Massimiliano Kolbe, nel suo ignobile campo di concentramento, come quella di Jean Mialet, con il quale ho avuto il privilegio di partecipare, lo scorso anno, ad un programma della televisione francese intitolato Apostrophes (« Apostrofi »), la sera del venerdì santo: « Il deportato. L’odio e il Perdono » (Fayard, 1980). Nel cuore della Conversione Cristiana
Non nascondiamolo. La misericordia ci conduce al cuore stesso della conversione cristiana, vera metanoia, se paragonata alle mode, agli usi e ai principi che governano la vita degli uomini. E non è cosa di oggi! Che mi sia permesso di fare dei riferimenti.
Per Platone, la misericordia è una debolezza (cfr. Leggi XI, Repubblica X). Nella morale di Aristotele, la misericordia non è una virtù, ma una mancanza, che si può scusare solo negli anziani e nei fanciulli (Etica a Nicomano 2,4). Per gli stoici, è la malattia dell’anima. E l’uomo maturo deve saper dominare con la ragione queste manifestazioni di affettività (cfr. Seneca, De Clementia 2, 3-4). Bisogna arrivare a Cicerone per una denuncia del concetto stoico come assurdo, e per riconoscere che la misericordia per il vero filosofo è la saggezza: Viri boni esse misereri (Pro Murena 29,61). Un Sant’Agostino saprà trarvi la sua ispirazione, dimostrando come la misericordia sia l’autentica filiazione imitatrice di Dio.
Tale è l’uomo nuovo, in Gesù Cristo. L’amore è la sorgente e la struttura essenziale della misericordia, scaturita dal cuore di Dio e incarnata nel Cristo, perfetta immagine di Dio. Mentre troppo spesso teologi e moralisti si sono compiaciuti di contrapporre le diverse componenti delle virtù cristiane, è tutto l’agire dell’uomo rendendo in Cristo che è innalzato dallo Spirito. L’unico amore soffuso dallo Spirito nel cuore dei nostri pensatori umani è grazia multiforme e compenetrazione armonica dell’infinita varietà degli aspetti della nostra vita quotidiana.
San Paolo non si stanca di ritornare su queste parènesi soffuse di un alito liberatore. Ricordiamo il capitolo tre dell’Epistola ai Colossesi che ci esorta a vivere la nostra nuova vita di battezzati nel Cristo risorto, rigettando gli atteggiamenti dell’uomo vecchio: « Come eletti di Dio, santi ed amati, di viscera misericordiae, di bontà, di umiltà, di dolcezza, di pazienza. Sopportatevi a vicenda; e se qualcuno ha di che lagnarsi di un altro, perdonatevi scambievolmente: come vi ha perdonato il Signore, così fate voi » (Colossesi 3, 12-13). Così fate voi, è questo il principio essenziale: siate imitatori del Cristo, come Cristo stesso è imitatore del Padre delle misericordie, con « delle viscere di pietà, di bontà, chrestoteta », verso tutti, come Cristo. Una misura che non ha misura
Si può ben comprendere che le nostre considerazioni sono lontanissime da quelle dei moralisti tradizionali e dal loro orizzonte intermedio. Secondo il punto di vista degli uomini, noi siamo, invece, nell’eccesso. Che si tratti della misericordia o dell’amore; e la sua misura consiste nel non avere misura. Quanto si medita il capitolo ottavo della Lettera ai Romani, è chiaro che per San Paolo la misericordia di Dio è un mistero che supera ogni intelletto, soprattutto quando egli riflette sull’infedeltà di Israele e sulla vocazione dei pagani della salvezza promessa ai figli d’Israele, avvolti nella misericordia che avvolge tutti i figli di Abramo, noi, figli della promessa, numerosi come le stelle nel cielo, e i granelli di sabbia nei mari, figli di Abramo, figli di Adamo, figli di Dio: come è grande il mistero della fede! La nuova alleanza di misericordia
La misericordia, lo ripeto secondo San Paolo, è nel cuore del mistero dell’Alleanza, estesa a tutti gli uomini in Gesù Cristo, nuovo Adamo (cfr. Romani 5). Essa ci rivela gli abissi del cuore di Dio, le sue insondabili dimensioni di tenerezza misericordiosa, di giustizia e di fedeltà. Il nostro Dio, il Dio dei Padri, non è un Dio lontano, un Dio di pietà condiscendente, è il Dio vicino, il Dio dell’amore misericordioso. Il suo simbolo più tragico e commovente non è forse quello del Libro di Osea, dello sposo tradito da una sposa infedele, e che manifesta in questa prova – perché di una prova si tratta – la grandezza della sua misericordia, attraverso il perdono del cuore, perdono che arriva a rinnovare il cuore della stessa infedele. E c’è forse bisogno di precisare che questa infedele, è ciascuno di noi?
Non è forse, in fondo, l’esegesi della prima Lettera di San Pietro (2, 9-10), che spiga a dei pagani convertiti la grazia del battesimo, applicando loro il testo di Osea 1, 6-9 e 2, 3-25: « Voi che prima non eravate un popolo e che ora siete il popolo di Dio, voi che eravate esclusi dalla misericordia e che ora invece avete ottenuto misericordia ». Come lo afferma Théodore Koehler nel suo articolo del Dizionario della Spiritualità (volume X, colonna 1318): in Osea, i fanciulli della prostituta erano stati chiamati: « Non-Mio-Popolo » e « Non-Amati-di misericordia ». Dopo la Nuova Alleanza, sono chiamati « Mio-Popolo » e « Amati-di misericordia ». L’Epistola di Pietro indica così che la nuova alleanza di Dio con i pagani deve essere compresa in quel clima di misericordia annunciato e preparato dall’antica alleanza, da « questo amore paterno e tenero » secondo l’espressione usata da Roberto Bellarmino (Explanatio in Psalmos, Ps. 50, versetto 2). Maria Madre di Misericordia
In Gesù Cristo la misericordia di Dio si estende di epoca in epoca a tutti coloro che lo temono, secondo il Magnificat della Vergine Maria (Luca 1,50): par viscere misericordiae Dei nostri. Visitando Maria, Dio si è ricordato della sua misericordia, secondo quanto aveva promesso. In Maria, la misericordia pianta la sua tenda messianica, rispondendo all’attesa di tutti i poveri d’Israele, quegli anawim, di cui noi siano i discendenti spirituali, « quella stirpe mistica dei clienti di Jahvé », che si abbandonano alla sua alleanza misericordiosa, secondo l’espressione adoperata da A. Gelin, nel suo libro Les idées maîtresses de l’Ancien Testament (« Le linee conduttrice dell’Antico Testamento », Edizione Le Cerf, collezione Lectio divina, 1948, p. 72), e nel libro dello stesso autore: Les pauvres de Yahvé (« I Poveri di Yahvé », Edizione Le Cerf, collezione Lectio divina, 1953, p. 125).
Giovanni Paolo II ha commentato tutti questi testi, e altri ancora, con grande interiorità, in questa sua Enciclica, essa stessa soffusa del medesimo amore misericordioso per l’uomo, amore attinto dal cuore del Cristo, dal cuore del Padre delle misericordie, il cui spirito ci fa scoprire ogni giorno delle ricchezze insondabili. Il Santo Padre ci invita a meditare il mistero di Maria, madre di misericordia, colei che più profondamente ha penetrato questo mistero di misericordia, come la Chiesa che ella rappresenta e significa nella sua misteriosa maternità. Dives in misericordia
Vi invito a mia volta a farlo, in questa svolta misteriosa della nostra storia che si volge verso l’esasperazione alla soglia del nuovo millennio.
Come non rileggere allora quelle righe premonitrici che concludono *Dives in Misericordia?
« Per quanto forte possa essere la resistenza della storia umana, per quanto marcata l’eterogeneità della civiltà contemporanea, per quanto grande la negazione di Dio nel mondo umano, tuttavia tanto più grande deve essere la vicinanza a quel mistero che, nascosto da secoli in Dio, è poi stato realmente partecipato nel tempo all’uomo mediante Gesù Cristo ».
Nella nostra epoca di esacerbati conflitti e di lotte inespiabili, è con l’ispirazione dello Spirito che Giovanni Paolo II ci ha invitati a recuperare le nostre convinzioni spirituali, nella forza della fede al Padre delle misericordie. Nel nostro mondo ce tanto povero è di viscere di misericordia, egli ci ha invitato così a recuperare la forza dell’amore misericordioso. Bisognava essere coraggiosi per dirlo. E noi dobbiamo essere altrettanto coraggiosi per metterlo in pratica. Confusi tra una pietà condiscendente, tra il disprezzo e l’odio, tanti uomini del nostro tempo hanno sete di vera tenerezza, una tenerezza che sia il riflesso e la promessa della tenerezza di Dio. Non si tratta di convenienza morale o di necessità sociale, ma piuttosto di esigenza evangelica. Giovanni Paolo II non ci ha forse dato, lui stesso, all’indomani della pubblicazione della sua Enciclica, il commovente esempio della sua applicazione pratica, perdonando pubblicamente, durante l’Angelus del 17 maggio, colui che aveva tentato di ucciderlo il 13 maggio: « Ho già perdonato al fratello che mi ha colpito ». La dignità dell’uomo
Chi non lo vede? Molti uomini si sono allontanati dalla Chiesa perché non hanno scorto il suo volto fraterno. Ed essi hanno rifiutato Dio perché l’hanno scambiato per un tiranno intollerante o un padre abusivo, un padre che non riconosce la loro libertà. Ciò indica l’urgenza di assumere un comportamento cristiano radicato nelle Beatitudini, che restituisca, attraverso il comportamento dei discepoli di Cristo, il volto del Cristo stesso, Cristo dolce e umile di cuore. Fallirei il compito che il Santo Padre mi ha misteriosamente affidato – quello di prendere cura dell’immensa parrocchia dei non-credenti in tutto il mondo – se non condividessi con voi questa angoscia pastorale. Ne va del vero volto di Dio, volto che è dono e perdono. Ne va del vero volto dell’uomo, così come lo mostra la parabola del Figliuol prodigo, come è ammirevolmente commentato dal Santo Padre: invero di umiliare, la misericordia da un nuovo valore; rende la perduta dignità di umiliare, la misericordia da un nuovo valore; rende la perduta dignità d’uomo e di figlio. La gioia del Padre nel ritrovare suo figlio risiede nella sua consapevolezza « che è stato salvato un bene fondamentale, il bene dell’umanità del suo figlio » (Dives in Misericordia n. 6).
Perché la misericordia, contrariamente alla caricatura che di essa si fa da secoli, non testimonia di un rapporto di ineguaglianza tra Dio e gli uomini, o degli uomini tra di loro. Essa si fonda invece « sulla esperienza comune di questo bene che è l’uomo, sull’esperienza comune della dignità che gli è propria » (ibid.). Come lo afferma Giovanni Paolo II, la misericordia « è realmente un atto di amore misericordioso: quando, attuandola, siamo profondamente convinti che, al tempo stesso, noi la sperimentiamo da parte di coloro che l’accettano da noi » (n. 14). A questo livello, o, se si preferisce, a questa « profondità », si può ben comprendere che, non solo la misericordia non è la sorella minore della giustizia, ma al contrario, essa è « la sua sorgente più autentica » (n. 14).
È sorgente divina. Il suo canale è sacramentale, dalla penitenza all’eucarestia. E allora comprendiamo che l’ »amore misericordioso è più forte del peccato » (ibid.). La teologia dell’amore misericordioso
Mi sia concesso, alla fine di queste mie riflessioni, troppo brevi e troppo lunghe al tempo stesso, di confidarvi qualcosa. Rileggendo l’Enciclica di Giovanni Paolo II per preparare questo incontro, la mia anima si è come dilatata. Ritornando con la mente a certi insegnamenti di teologia, tanto logici nel senso umano del termine, tanto logici da lasciare appena un pò di posto alla logica dell’amore, mi sono detto che troppo spesso noi non arriviamo fino al fondo del Vangelo che ci è proposto, e che rimaniamo al livello di una meditazione troppo umana, una specie di dibattito intellettuale che coinvolge solo l’intelletto. La teologia dell’amore misericordioso che ci propone Giovanni Paolo II ci fa, invece, tornare alle fonti autentiche della nostra fede, alla speranza nell’amore del Dio di misericordia. Ecco la novità della grazia e della salvezza in Gesù Cristo, che ha assunto il nostro peccato, perché ci amava più di quanto lo amassimo noi. Ecco la potenza dell’amore misericordioso. Un parroco di Ars l’aveva capito bene, quando affermava la necessità di avere un cuore tenero, mentre il suo era troppo spesso simile alla pietra.
Ho citato il parroco di Ars. Da buon francese, penso inevitabilmente a San Vincenzo de Paoli, Santa Teresa di Lisieux e a Charles de Foucauld. Ma come non citare anche San Francesco d’Assisi e tutti i santi che sono stati consumati dalla fiamma di questo amore misericordioso? Bernanos ha affermato ai nostri giorni che il nostro mondo batte i denti per il freddo e che solo l’amore dei Santi, l’amore attinto dal cuore di Cristo, può riscaldarlo.
Ho parlato poco fa di teologia. Esiste una visione teologica più profonda di quella che ricorda come Dio renda le cose buone amandole? Non era forse San Tommaso a dichiarare che « perdonare gli uomini, essere compassionevoli con loro, è opera più grande della stessa creazione del mondo »?
Davanti alla folla omicida dell’uomo contemporaneo, in che altro modo si può addolcire il suo cuore, se non riconducendolo alla contemplazione della dolcezza inerme del Cristo in croce, l’Agnello ferito dai nostri peccati? San Domenico nella sua preghiera domandava « un po’ di quella carità che ha fatto salire il Cristo sulla croce ».
Mi era stato chiesto di parlarvi, sulla scia dell’Enciclica Dives in Misericordia, della teologica dell’amore misericordioso. Era mia intenzione comunicarvi la mia convinzione profonda: l’uomo è chiamato a partecipare alla beatitudine. Questa beatitudine è Dio. E Dio è per l’uomo amore misericordioso. Non esiste teologia antropologica che sul fondamento rivelato, incarnato nel Cristo. Si, « la misericordia è la sola realtà che possa ricapitolare e illuminare definitivamente tutti gli altri aspetti del mistero cristiano » (R. P. Bernard BRO, Introduzione all’Enciclica di Giovanni Paolo II, Dieu riche en Miséricorde, Editioni Le Cerf, 1980, p. 16).

PIETRO E LE PIETRE DELLA CITTÀ ETERNA – DEL CARDINALE PAUL POUPARD

http://www.30giorni.it/articoli_id_8272_l1.htm

PIETRO E LE PIETRE DELLA CITTÀ ETERNA

UNA RIFLESSIONE DEL PRESIDENTE DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA CULTURA

DEL CARDINALE PAUL POUPARD

Non so se ci sia qualche impertinenza nella domanda «Roma è al centro del mondo?». Ma so che ci sono tanti modi pertinenti di rispondere. Io da parte mia lo farò partendo da un’affermazione di Madame Swetchine, l’amica di Lacordaire, lui stesso amico di un sacerdote francese oggi piuttosto dimenticato, l’abbé Louis Bautain.
Madame Swetchine, Lacordaire, Bautain Ascoltiamo Madame Swetchine: «Roma è la regina delle città, è un mondo assolutamente diverso da tutto quello che abbiamo incontrato altrove; le sue bellezze e i suoi contrasti sono di un ordine tanto elevato che niente ad essi ci prepara, niente potrebbe farne presagire né prevedere l’effetto. Qui le idee diventano grandi, qui i sentimenti diventano più religiosi, il cuore si placa. Vi sono compresenti tutte le epoche della storia, separate e distinte, e sembra che ognuna abbia voluto imprimere il proprio carattere ai suoi monumenti, avere un orizzonte che sia il suo, e per così dire, un’atmosfera particolare… La bellezza non è forse eterna come la verità? Quale stretto legame dunque tra la religione e l’arte!». E l’ortodossa convertita ricompare quando fa questa constatazione: «Una delle prove della verità del cattolicesimo è che risponde così bene alla natura esclusiva del nostro cuore. Le altre Chiese credono di semplificare la religione, di renderla più accessibile, più accettabile, estendendo a ogni comunione le promesse fatte dal suo divino Autore, ed è un ben strano disconoscimento dei nostri bisogni autentici. Più una regola è positiva, esclusiva, austera, esigente, più è attraente per noi, grazie a quel vago istinto che ci fa intravedere quanto la nostra mobilità abbia bisogno di essere fermata, la nostra debolezza di essere sostenuta, il nostro pensiero ricondotto e orientato. Nessuno si appassionerà mai a una religione che dice che le altre la equivalgono, e il Dio geloso lo sapeva bene. Dal momento in cui una cosa non è, non dico solo la migliore, ma l’unica completamente buona, perché scegliere, preferire, concentrarsi, e non lasciar frazionare il suo omaggio e il suo amore?».
Questo testo di Madame Swetchine trovato quasi per caso mi ha invitato a rileggere delle pagine che, con il fervore del giovane romano che allora ero, proponevo ai lettori di La vie spirituelle nel novembre del 1961, su Lacordaire, Bautain e Madame Swetchine. Al centro vi è Roma, dove l’abbé Bautain, filosofo di Strasburgo, viene denunciato dal suo vescovo per fideismo.
Lacordaire gli scrive, il 1° febbraio 1838: «Una condanna di Roma resta per sempre nella storia, la sua infallibilità ne garantisce il destino eterno. Invece la condanna di un vescovo non ha lo stesso destino, né la stessa solidità…». Presenta così alla sua corrispondente monsignor le Pappe de Trévern: «L’anziano vescovo di Strasburgo evidentemente è un gallicano esagerato, molto meno colpito da quel che c’è di falso in Bautain che da quel che c’è di vero… Nessuno più di me dà valore alla purezza della dottrina e direi che ogni giorno ne divento più geloso, per me stesso; ma la carità nel considerare le dottrine è il contrappeso assolutamente necessario dell’inflessibilità teologica. Ci si muove da veri cristiani se si cerca la verità e non l’errore in una dottrina, e si fa ogni sforzo fino al sangue per trovarcela, come si coglie una rosa attraverso le spine. Chi fa d’ogni erba un fascio del pensiero di un uomo, di un uomo sincero, costui è un fariseo, l’unica razza di uomini che sia stata maledetta da Gesù Cristo. C’è forse un Padre della Chiesa che non abbia opinioni e anche errori? Getteremo i loro scritti dalla finestra affinché l’oceano della verità sia più puro? L’uomo che combatte per Dio è un essere sacro, e fino al giorno di una condanna manifesta bisogna considerare il suo pensiero con cuore amico».
E il 1° febbraio 1840, in un’altra lettera alla sua corrispondente, Lacordaire aggiunge: «Nel 1838, quando ero a Metz, fui avvertito che si cercava di mandarlo a Roma, l’ultimo rifugio di coloro che sbagliano contro la durezza di quelli che non sbagliano mai… Lo convinsi ad andare a Roma. Partì, fu ben accolto, tornò incantato da Roma…»1.
Ho pubblicato molto tempo fa il Journal romain de l’abbé Louis Bautain (1838) (Il diario romano del 1838 dell’abbé Bautain) che ripercorre quella storia oggi dimenticata. Ho voluto ricordarla, cosa che ho fatto nel mio Rome-Pèlerinage2, perché per tanti pellegrini del passato e di oggi il pellegrinaggio a Roma è soprattutto la preghiera nella Basilica di San Pietro, in un cammino di fede verso il magistero vivo della Chiesa che, secondo le promesse fatte da Cristo a Pietro, prosegue nella persona del suo successore, il papa. È una grazia del pellegrinaggio a Roma l’adesione rinnovata a Pietro, il cui successore resta garante della verità del Vangelo, in mezzo alla confusione del secolo.
Bautain scrive, la sera stessa del suo arrivo, nel suo diario, il 28 febbraio 1838: «Infine partimmo… Eravamo molto impazienti di veder apparire la grande città, nonostante la fatica della notte passata e delle precedenti ci avesse prostrati; all’improvviso, arrivati su un’altura, il vetturino ci gridò facendoci segno con il suo frustino: “Roma!”. Vedemmo infatti, nella foschia del mattino, la cupola di San Pietro e in un momento essa fece come apparire ai nostri occhi tutta Roma, antica e moderna, Roma maestra del mondo, sia per la forza che per lo spirito. Dovemmo salire e scendere non pochi avvallamenti, dopo quell’apparizione, e infine vedemmo da vicino San Pietro e il Vaticano, e fu la prima cosa di Roma che vedemmo entrando dalla porta di Civitavecchia che è sul di dietro, tanto che sembra di entrare nel Vaticano stesso. Così quello che abbiamo visto di Roma, fin dall’inizio, è stato quello che unicamente eravamo venuti a cercare, cioè San Pietro e il Vaticano»3.
LA VOCAZIONE DI ROMA Così, mi sembra, si chiarisce la risposta da dare alla domanda: «Roma è al centro del mondo?». Perché questa parola “centro” può essere intesa in tanti sensi: centro di attrazione o centro di irradiazione?
Se lo si intende come centro di attrazione o di irradiazione, nel mondo, bisogna sapere se si pensa al papa o alla Curia. Sappiamo che le due cose non si confondono, la seconda è al servizio del primo. Bisogna d’altro canto distinguere l’aspetto religioso, l’aspetto morale e l’aspetto politico delle cose. La risposta non sarà la stessa a seconda che si consideri l’uno o l’altro aspetto.
Se si guarda alla cosiddetta opinione comune e ci si sforza di giudicare di conseguenza questa opinione comune alla luce di quello che la Chiesa pensa di sé stessa, mi sembra che si sia in presenza di due concezioni ugualmente false di Roma e della Santa Sede. Una concezione tende a minimizzare indebitamente il ruolo di Roma come centro di attrazione o di irradiazione considerandola una semplice Chiesa tra altre. In opposizione a questa concezione che minimizza, ce n’è un’altra che tende a esagerare, in un certo senso, il suo ruolo, assimilandola più o meno formalmente a un “potere”, ignorando quello che la Chiesa ha detto di sé stessa al Concilio in materia di libertà religiosa4.
Mi sembra che Roma, ed è la sua propria vocazione, vorrebbe essere considerata come testimone principale – e la Chiesa attraverso di lei –, come testimone di Cristo vivente, morto e risorto, testimone qualificata come nessun altro in base alla missione data a Pietro da Cristo. Questa testimonianza ha in Roma un’espressione straordinariamente autentica per coloro che credono e anche per alcuni di coloro che non credono. Roma, allora, come centro della Chiesa può e deve accettare di avere una responsabilità universale e missionaria, qualsiasi siano le debolezze connaturate a ogni collaborazione umana all’opera di Dio.
L’Urbs
Mi sembra che questa sia la vocazione di Roma, cosa che spiega in qualche modo il fascino di Roma. Perché la città di Roma dopo due millenni esercita un vero fascino in tutto il mondo, tanto che la si è potuta chiamare “la Città” e basta: “l’Urbs”. È alla città e al mondo, Urbi et orbi, che il Santo Padre dà la sua benedizione solenne dall’alto della loggia della Basilica di San Pietro, davanti a quella piazza meravigliosa che porta il nome dell’apostolo fondatore. I telespettatori non smettono di guardarla, sperando di fare davvero, un giorno, il pellegrinaggio a Roma. Perché se tutte le strade portano a Roma, è ancora più vero aggiungere, oggi, che riportano là il viaggiatore abbagliato, il pellegrino desideroso di rifare i passi degli apostoli, di pregare nelle grandi basiliche, di partecipare al fervore di un popolo multicolore, la cui fede si ravviva cantando con il successore di Pietro il Credo cattolico.
Inestinguibile Roma! Inestinguibile Roma! La si è potuta chiamare capitale della civiltà e del diritto, dell’arte e della storia, Roma delle pietre e dei secoli inestricabilmente mescolati tra loro, Roma sotterranea delle catacombe, Roma costruita sulla sepoltura di Pietro scoperta in Vaticano, edificata sul martirio degli apostoli, ma anche sulle macerie dei templi pagani e delle città antiche, Roma moderna, infine, piena del fruscio di tanti ricordi e del rumore delle grandi arterie, o degli stretti vicoli di Trastevere, Roma delle chiese e dei conventi, Roma delle università e dei collegi, Roma dei pellegrini, con la folla che calpesta, settimana dopo settimana, il sagrato di San Pietro, sotto le finestre del papa.
Come diceva Giovanni Paolo II il 25 aprile 1979, per l’anniversario della fondazione di Roma, questa data non segna solo l’inizio di una successione di generazioni umane che hanno abitato la città. È anche un inizio per nazioni e popoli lontani che sanno di avere un legame di unità particolare con la tradizione culturale latina in ciò che essa ha di più profondo.
Gli apostoli del Vangelo, e in primo luogo Pietro di Galilea e Paolo di Tarso, sono venuti a Roma e vi hanno impiantato la Chiesa. È così che nella capitale del mondo antico ha cominciato a esistere la Sede dei successori di Pietro, dei vescovi di Roma. Ciò che era cristiano si è radicato in ciò che era pagano e, dopo essersi sviluppato nell’humus romano, ha cominciato a crescere con nuova forza. Qui il successore di Pietro è l’erede di quella missione universale che la Provvidenza ha inscritto nel libro della storia della Città eterna.
Pietro e le pietre Regina della storia, festa delle arti, delizia degli occhi e gioia del cuore, Roma è per il pellegrino il centro vivo e visibile dell’unità della Chiesa cattolica, fecondato dal martirio degli apostoli, irrigato da secoli di fede, illuminato dalla presenza del successore di Pietro. Che voi arriviate dall’aeroporto di Fiumicino, dalla stazione Termini o dall’autostrada del Sole piena di macchine, avrete in voi la stessa preoccupazione, brucerete dello stesso ardente desiderio: vedere San Pietro e il Santo Padre. Per il pellegrino che viene a Roma infatti il messaggio delle pietre del passato si coniuga con i volti dell’oggi di Dio, in una viva testimonianza di fede. Egli non visita soltanto luoghi prestigiosi carichi di storia millenaria, ma prende posto entro una schiera di testimoni, e pone i suoi passi, insieme con i suoi contemporanei di tutto il mondo, sulle orme di coloro che, attraverso le epoche, l’hanno preceduto. Continuità vivente nel tempo e nello spazio, la Chiesa che i cristiani formano si ritrova a Roma in una secolare catena.
Membri di tante comunità sparse tra i popoli, i cristiani, a Roma, scoprono di colpo la loro unità profonda di popolo di Dio raccolto intorno alla tomba di Pietro e al suo successore vivente, in Vaticano. L’enorme capitale del mondo antico infatti è stata scelta dagli apostoli perché volevano impiantare il Vangelo nel cuore stesso dell’Impero. Venuti a Roma per annunciarvi la fede in Cristo risorto, Pietro e Paolo vi hanno trovato la morte. Il loro martirio vi ha radicato la Chiesa. Secondo l’antico detto: il sangue dei martiri è seme dei cristiani. E fin dai primi secoli i cristiani, spinti da un sentimento incontenibile, si sono messi in movimento verso le tombe dei santi apostoli, per professarvi la loro fede, in continuità vivente con i loro padri e in unione stretta con il vescovo di Roma.
San Pietro e il Santo Padre Roma come pellegrinaggio non è affatto una terra straniera cui ci si accosta per una visita effimera, decisa in fretta e subito dimenticata. Non è neanche un santuario circoscritto, limitato a un’apparizione lontana. È l’Urbe tutta intera che è la patria dei fedeli cattolici, e anche di tanti cristiani, da più di duemila anni. Il tempo, che altrove si dissolve nella storia, qui si radica nella durata. Mentre in un pellegrinaggio a un luogo in cui si è manifestata la Vergine Maria o un santo la continuità consiste nella sola fedeltà a tale messaggio Roma si affermò nel tempo, che essa ha riempito della sua presenza e della sua azione. Pietro e Paolo, martiri, sono sepolti qui. Sulle loro tombe si innalzano due basiliche. Le catacombe serbano le tracce dei vivi e dei morti dei primi secoli. Ma i pellegrini non si limitano a frequentare dei luoghi. A Roma incontrano il vicario di Cristo, successore di Pietro. Tra Pietro e le pietre non c’è antagonismo ma complementarità.
Cosa andate a fare a Roma? Un pellegrinaggio alle basiliche? O a vedere il papa? Perché dire “o”, quando evidentemente si tratta di una “e” che bisogna dire e fare! Questa è la singolarità di Roma come pellegrinaggio: luoghi e uomini che non si possono separare, perché tutto li unisce. Il pellegrino va verso piazza San Pietro per pregare nella Basilica di San Pietro e per vedere il Santo Padre. Videre Petrum: questa antica esclamazione di fede scaturisce dalle profondità dei secoli, è il passo credente che unisce Pietro a Giovanni Paolo II, l’uno e l’altro, l’uno dopo l’altro destinatari della promessa inaudita di Cristo: «Tu sei Pietro, e su questa pietra costruirò la mia Chiesa». Si tratta proprio di un passo di fede, animato dalla certezza che inabita il poeta: «E noi siamo caduti nella rete di Pietro. Perché è Gesù che l’aveva gettata per noi» (Charles Péguy).
Da Pietro a Karol Pietro è venuto a Roma. È stato il suo primo vescovo. E dopo la sua morte il vescovo di Roma gli succede nella sua carica di pastore, responsabile in primo grado del collegio dei vescovi di cui lui è il primo: chiave di volta – e la volta sono loro – della Chiesa sparsa attraverso il tempo e lo spazio, diffusa ai quattro angoli dell’universo, in cammino verso la patria eterna. Città di Dio al cuore della città degli uomini, dei quali vorrebbe essere l’anima, la Chiesa di Gesù Cristo non è affatto un conglomerato informe, ma un organismo strutturato. Le sue strutture visibili sono foriere dell’invisibile ed essenziale nervatura spirituale di grazia, di cui il Signore è la fonte e lo Spirito il canale. Saldamente mischiato ai suoi fratelli di ogni razza e ogni lingua, il pellegrino in visita a Roma, in questa città prende meglio coscienza che cammina dal tempo verso l’eternità. Perché l’eternità vi ha già lasciato la sua traccia. Il tempo può anche disfare le pietre lungo il corso dei secoli, Pietro, lui, è sempre vivo, da Simone di Galilea a Karol di Cracovia, anche lui venuto da lontano, per meglio portarci lontano, nella barca della Chiesa, al vento dello Spirito.
Il pellegrino che visita degli edifici materiali, segno e custodia di una realtà spirituale, non li avvicina così come un turista scopre un’opera d’arte. È un credente che pone i suoi passi su quelli di generazioni che l’hanno preceduto, dalle quali ha ricevuto, insieme alla chiesa dove viene a pregare, la fede che anima la sua preghiera. Per questo, il cuore del pellegrinaggio a Roma è l’incontro e la benedizione ricevuta dal successore di Pietro. È la grazia propria dell’udienza nella quale ogni mercoledì il Santo Padre si rivolge ai pellegrini, come testimone della fede e interprete autorizzato del Vangelo, così come la grazia della recita con loro, ogni domenica, dell’Angelus.
La vocazione di Roma è di confermarli nella fede affinché la vivano su tutte le strade della Chiesa e del mondo, in mezzo agli uomini, su tutte le strade che sono le strade di Cristo, secondo la bella immagine di Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor hominis.
Come non pensare che tra tutte quelle strade Roma è privilegiata, grazie alla continuità di una tradizione di cui l’Urbe è depositaria. Il successore di Pietro non è un mitico disco volante caduto dal cielo di Polonia sulle rive del Tevere. Non è un nuovo Melchisedec, senza padre né madre né genealogia. Come dice il suo nome, è un successore. La sua persona si identifica con la sua funzione… Questa, erede del Vangelo e segnata dal peso della storia, si inscrive nei due millenni che hanno riempito la città di Roma, innalzando il suo divenire nella città degli uomini al destino di Città di Dio. Chiesa incarnata, la Chiesa di Roma non è senza macchia, non è dura e pura come un’utopia, la cui sola qualità reale sarebbe il non esistere. Invece essa esiste, con i suoi tratti segnati così fortemente dal tempo e dallo spazio, dagli uomini e dalle loro costruzioni di pietra. Così, la vocazione di Roma è l’incarnazione della fede, con gli apostoli Pietro e Paolo e i milioni di credenti che sono venuti a pregare sulle loro tombe e ad abbeverarcisi nella fede.
Come diceva Giovanni Paolo II il 4 luglio 1979, dopo aver celebrato per la prima volta a Roma la festa dei santi apostoli Pietro e Paolo: «Come è eloquente l’altare, al centro della Basilica, sul quale il successore di Pietro celebra l’eucaristia pensando che è così vicino all’altare in cui Pietro ha fatto, sulla croce, il sacrificio della sua vita in unione con quello, sul Calvario, di Cristo crocifisso e risorto».
Guardare e capire Davanti a tanti tesori accumulati non mancano le critiche che si scandalizzano di questo mecenatismo, mentre ci sono tante povertà che gridano vendetta. Non si può riscrivere la storia, e oggi capiamo difficilmente il comportamento dei papi del Rinascimento. Paolo VI, inaugurando la nuova sala delle udienze, la Sala Nervi, il 30 giugno 1971, dichiarò che essa «non esprime alcun orgoglio monumentale o vanità ornamentale, ma che l’audacia propria dell’arte cristiana è quella di esprimersi in termini grandi e maestosi». Ma anche tanto tempo prima, quando era sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Montini si era espresso in questi termini, che io dedico, quarant’anni dopo, ai pellegrini di oggi: «Fascino, reverenza, stupore o semplice curiosità, o ancora diffidenza prudente guidano i passi del moderno romeo che non si è potuto sottrarre alla visita d’obbligo e che sente, in sé stesso, il bisogno di guardare e capire.
Guardare e capire: forse qui è la differenza psicologica tra la visita alla Città del Vaticano e quella a un altro grande monumento dell’antichità, il Foro romano, le Piramidi, il Partenone, i resti di Ninive o della civiltà degli Incas. Questi basta guardarli; qui bisogna anche capire. Perché qui c’è qualcosa di indefinibilmente presente, qualcosa che richiama alla riflessione, che esige un incontro, che impone uno sforzo interiore, una sintesi spirituale.
Perché il Vaticano non è solo un insieme di edifici monumentali che possono interessare l’artista; né soltanto un magnifico segno dei secoli passati che possono interessare lo storico; nemmeno soltanto uno scrigno che trabocca di tesori bibliografici e archeologici che possono interessare l’erudito; neppure il museo noto per i capolavori sublimi che possono interessare il turista; né soltanto, infine, il tempio sacro del martirio dell’apostolo Pietro che può interessare il fedele. Il Vaticano non è solo il passato; è la casa del papa, di un’autorità sempre viva e attiva».
IL MESSAGGIO DELLA CITTà ETERNA Come la voce di Cristo sulle acque tempestose del lago di Tiberiade, quella del suo vicario Giovanni Paolo II risuona con potenza e sbaraglia tanto i vecchi slogan come le nuove ideologie: «Non abbiate paura, aprite, spalancate le porte a Cristo. Alla sua potenza che salva, aprite le frontiere degli Stati, i sistemi economici e politici, i terreni immensi della cultura, della civiltà, dello sviluppo. Non abbiate paura… Lasciate che Cristo parli all’uomo. Lui solo ha parole di vita, sì, di vita eterna».
Questo è il messaggio di Roma, straordinario incrocio di popoli e di civiltà. Pietro non ha avuto paura, con Paolo, di venire qui a piantare la croce nel cuore di quell’Impero unificato e potente. L’unità politica e linguistica, la centralizzazione amministrativa saranno, da Roma, carte preziose per la diffusione del Vangelo a partire dalla capitale del mondo antico. Proprio quando stava per essere cancellata dalla storia, questo la rese la Città eterna. Dopo il declino dell’Impero d’Occidente e l’allontanamento dell’Impero d’Oriente, senza paura Roma si lega alla nuova Europa che sta laboriosamente sorgendo. Nell’anno 800 il Papa vi incorona Carlo Magno imperatore d’Occidente. Dopo la tempesta del saeculum ferreum, Roma diventa il cuore della difesa cattolica contro il frazionismo delle eresie. Lo sfavillio del Barocco attesta qui in modo tutto particolare la gioia della fede dopo la tempesta, la gioia della fede e la gioia della vita, che sono una cosa sola. Facendoci scoprire queste tappe successive di un’arte sempre in simbiosi con il suo tempo, la lezione di Roma non è forse di consolidare in noi il senso dell’universale, di ricordarci la nostra vocazione cattolica?
Roma ha sempre praticato con successo l’assimilazione. La comunità cristiana ci stette benissimo per tre secoli parlando il greco, e sarà lo stesso dopo col latino. Celebrerà bene nelle case private delle origini così come nelle grandi basiliche di Costantino. «Dove vi riunite?», veniva chiesto a Giustino. E il filosofo cristiano rispondeva semplicemente: «Dove si può».
Questa è la lezione di Roma. Non è dall’esterno ma dall’interno che si convertono il mondo e la società. I cristiani ne traggono senza problemi i loro usi, quando non hanno nulla di reprensibile. I cristiani di Roma hanno adottato anche per i loro edifici di culto lo schema delle basiliche pagane. E si può trovare la rappresentazione del dio sole nel mosaico che decora il soffitto di un cubicolo, peraltro cristiano perché la scena di Giona ne orna una delle pareti. A Santa Prisca e a Santo Stefano Rotondo la chiesa è inscritta all’interno del mitreo preesistente, mentre sotto San Clemente si vede che la chiesa cristiana del IV secolo è accanto al mitreo privato. Più tardi le spoglie dell’antichità orneranno i santuari cristiani e decoreranno i loro accessi: colonne di marmo di templi pagani diventate supporti di chiese cristiane, obelischi egiziani sormontati dalla croce di Cristo.
È l’Urbe tutta intera che è la patria dei fedeli cattolici, e anche di tanti cristiani, da più di duemila anni. Il tempo, che altrove si dissolve nella storia, qui si radica nella durata. Mentre in un pellegrinaggio a un luogo in cui si è manifestata la Vergine Maria o un santo la continuità consiste nella sola fedeltà a tale messaggio Roma si affermò nel tempo che essa ha riempito della sua presenza e della sua azione…
Il culto dei martiri Roma, con i primi apostoli Pietro e Paolo, poi con Ignazio, Giustino, Tolomeo, Lucio, il patrizio Apollonio, e tanti altri rimasti anonimi, è diventata un martirologio vivente. Nella città che era l’epicentro del mondo, il sangue dei martiri è seme di cristiani. La prestigiosa comunità dei Romani, già attraente per l’apostolo Paolo, è diventata una nuova terra santa, segnata dal sangue dei martiri. «Presiedendo nella carità e nella fraternità», come scrive Ignazio nella sua lettera ai Romani, irradia la sua luce in tutto l’Impero.
È il culto dei martiri in verità che ha creato il pellegrinaggio e contribuito a fare di Roma una città santa, che progressivamente si è organizzata per ricevere i pellegrini e rendere ai martiri un culto degno della loro fama. San Girolamo scrive: «Dove si accorre come a Roma nelle chiese e sulle tombe dei martiri con tanto zelo e in così tanti? Dobbiamo lodare la fede del popolo romano». E sant’Ambrogio descrive la festa dei santi Pietro e Paolo celebrata il 29 giugno: «Eserciti serrati percorrono le vie di una città così grande. Su tre vie diverse (al Vaticano, sull’Ostiense e sulla via Appia) si celebra la festa dei santi martiri. Sembra che avanzi il mondo intero».
All’inizio del V secolo Prudenzio scrive: «Dalle porte di Alba escono lunghe processioni che formano bianche linee nella campagna. L’abitante degli Abruzzi e il contadino dell’Etruria arrivano insieme. Ecco il feroce Sannita, l’abitante della superba Capua. Ecco anche il popolo di Nola» … Nola, di cui il vescovo Paolino scrive: «Così, Nola, ti fai tutta bella a immagine di Roma». Il vescovo letterato fa anche lui il pellegrinaggio almeno una volta l’anno per la festa dei santi Pietro e Paolo.
Il pellegrinaggio Il pellegrinaggio a Roma è innanzitutto un obbligo tradizionale per tutti i vescovi. Già il concilio di Roma, nel 743, sotto papa Zaccaria, menziona la visita ad limina apostolorum come tradizionale, e ne rinnova l’obbligo. Dopo secoli in cui l’usanza si era indebolita, Sisto V, con la costituzione apostolica Romanus pontifex del 20 dicembre 1585, ne rinnova l’obbligo e ne stabilisce la frequenza. Ogni vescovo ormai ha un doppio obbligo: andare a venerare le tombe dei santi apostoli ed esporre al papa la situazione della sua diocesi.
Nell’Angelus del 9 settembre 1979 Giovanni Paolo II spiegava ai pellegrini il significato di queste visite ad limina: «In occasione della nostra comune preghiera dell’Angelus di mezzogiorno, voglio oggi riferirmi all’antichissima tradizione della visita alla Sede degli apostoli, ad limina apostolorum. Tra tutti i pellegrini che venendo a Roma manifestano la loro fedeltà a questa tradizione, i vescovi del mondo intero meritano un’attenzione speciale. Perché attraverso la loro visita alla Sede degli apostoli essi esprimono il legame con Pietro, che unisce la Chiesa su tutta la terra. Venendo a Roma ogni cinque anni, portano qui, in un certo senso, tutte le Chiese, cioè le diocesi che, tramite il loro ministero episcopale e nello stesso tempo tramite l’unione con la Sede di Pietro, si mantengono nella comunità cattolica della Chiesa universale. Insieme alla loro visita alla Sede apostolica i vescovi portano a Roma anche le notizie sulla vita delle Chiese di cui sono i pastori, sul progresso dell’opera di evangelizzazione, sulle gioie e le difficoltà degli uomini e dei popoli tra i quali essi compiono la loro missione».
I pellegrini hanno un doppio scopo: vedere il papa e andare a pregare nelle grandi chiese e basiliche, e soprattutto a San Pietro. Costruita con grandi spese, la più grande basilica della cristianità è testimone di un lungo impegno e di una rara perseveranza, in onore di Pietro e, insieme, dei suoi successori. La Basilica di San Pietro è infatti il duplice e medesimo simbolo della fede nella missione affidata da Cristo a Pietro e della venerazione di tutti i cristiani, pastori e fedeli, per il suo successore, il vescovo di Roma. Obbedienza e rispetto si coniugano in uno stesso omaggio al pescatore di Galilea e al papa di Roma, la cui funzione, radicata sulla tomba dell’apostolo, si irradia, come la gloria del Bernini, su tutta la cristianità.
I santi Roma è una calamita anche per i santi. Non solo i fondatori di ordini religiosi, ma anche i santi del popolo, i più popolari, come Benedetto Labre. Seminarista, certosino, poi trappista a Sept-Fons, venne a Roma verso il 1771 per pregare e vi rimase, vagabondo barbone e mendicante. Miracolo di Roma! Questa città, di cui san Bernardo aveva fustigato il lusso e la potenza con parole di fuoco e Gioacchino di Bellay aveva criticato la vanità cortigiana, capì senza esitazioni quello straccione pieno di parassiti, lo ammirò e lo amò nella sua povertà silenziosa e nella sua preghiera ieratica. Quando venne annunciata la sua morte, il 16 aprile 1783, tutta la città si riversò in Santa Maria ai Monti. Vennero tagliati i suoi stracci per farne reliquie. I suoi funerali, il giorno di Pasqua, furono un trionfo. La truppa che sorvegliava la chiesa venne spazzata via dalla folla.
Poi, nel XIX secolo, ci fu una spinta continua verso Roma di tutta la cristianità, a cominciare dalla Francia, dove il gallicanesimo si stava lentamente trasformando in ultramontanismo. La rivoluzione aveva perseguitato la Chiesa. Napoleone aveva umiliato il papa. Ma il padre umiliato, secondo la bella espressione di Claudel, divenne oggetto di una intensa venerazione. Davanti ai crolli successivi dei regimi più solidi, il papato e Roma sembravano ormai come la roccia salda sulla quale appoggiarsi nella tempesta. È nota l’avventura dei pellegrini della libertà con Lamennais. Tanti altri, meno famosi, giunsero pellegrini a Roma e vi attinsero, con un amore rinnovato della Chiesa, una convinzione profonda, la stessa del «Tu sei Pietro, e su questa pietra costruirò la mia Chiesa».
Come, anche se ben diversi nella loro psicologia e nei loro orientamenti, ma uniti nelle stesse motivazioni, dom Guéranger, restauratore benedettino di Solesmes in Francia, e Lacordaire, che vi ristabilì i Frati Predicatori. Conosciamo il celebre ritratto di Théodore Chassériau che lo raffigura l’indomani della sua professione religiosa, il 12 aprile 1840, nel chiostro romano di Santa Sabina. O come anche Teresa di Lisieux e Charles de Foucauld, i «due fari che la mano di Dio ha acceso alle soglie del secolo atomico», secondo l’intensa espressione di padre Congar.
Madeleine Delbrêl Più vicina a noi, Madeleine Delbrêl, convertita dall’ateismo e testimone dell’amore di Dio nel cuore della città di Ivry, pagana e marxista, un giorno del maggio 1952 sente il bisogno imperioso di venire a Roma a pregare sulla tomba di san Pietro. Le si obietta che la cosa costa un po’ di più di un’ora di preghiera. E lei dichiara al suo gruppo scettico che ci andrà, se il prezzo del viaggio le fosse arrivato in maniera inattesa…, cosa che avviene, sotto forma di un biglietto vincente della lotteria nazionale offertole da un’amica latinoamericana! A prezzo di due giorni e due notti di treno, trascorre la sua giornata di dodici ore in preghiera a San Pietro: «Davanti all’altare papale e sulla tomba di san Pietro, ho pregato col cuore perduto… e soprattutto per perdere il cuore. Non ho riflettuto né chiesto “lumi”, non ero là per quello. Eppure tante cose mi si sono imposte e restano in me. Innanzitutto: Gesù ha detto a Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia Chiesa”. Lui doveva diventare una pietra e la Chiesa doveva essere costruita. Gesù che ha parlato tanto della potenza dello Spirito, della sua vitalità, quando ha parlato della Chiesa ha detto che l’avrebbe costruita su quell’uomo che sarebbe diventato come una pietra. È Cristo che ha pensato che la Chiesa non sia solo qualcosa di vivente, ma qualcosa di costruito. Secondo: ho scoperto i vescovi… Ho scoperto durante il mio viaggio, e a Roma, l’immensa importanza dei vescovi nella fede e nella vita della Chiesa. “Vi renderò pescatori di uomini”. Mi è sembrato che di fronte a quella che chiamiamo autorità noi agiamo a volte come dei feticisti, a volte come dei liberali. Noi siamo sotto il regime delle autorizzazioni, non dell’autorità. Quando si parla dell’obbedienza dei santi non si capisce, credo, quanto essa sia vicina, nel corpo della Chiesa, a quella lotta interna degli organismi viventi, nei quali l’unità si realizza attraverso delle attività, delle opposizioni. Infine ho anche pensato che, se Giovanni era “il discepolo che Gesù amava”, è a Pietro che Gesù ha chiesto: “Tu mi ami?”, ed è stato dopo le sue affermazioni d’amore che gli ha affidato il gregge. Ha detto anche tutto ciò che c’era da amare: “Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me”.
Mi è stato evidente quanto occorrerebbe che la Chiesa gerarchica fosse conosciuta dagli uomini, da tutti gli uomini, come uno che li ama. Pietro: una pietra a cui si chiede di amare. Ho capito quanto amore bisognerebbe far passare in tutti i segni della Chiesa»5.
Conclusione Concludo. Roma è al centro del mondo? La risposta è scontata per il pellegrino in visita a Roma, da dovunque venga: non si sente forse a casa in questa città universale?
E poi lo splendere del suo sole, la purezza del suo cielo, il fulgore delle sue opere d’arte, il fascino dei suoi quartieri, il tratto pittoresco dei suoi abitanti, un non so che vi attira e commuove, vi trattiene dal partire e vi spinge a tornare. Ci sono delle città che si visitano, dei tesori che si contemplano, dei posti che bisogna aver visto. Roma non si guarda dall’esterno, ma si penetra dall’interno. Non ci si stanca di tornare in piazza San Pietro, di andare a pregare nella sua cripta, di scendere alle catacombe, di andare al Colosseo, di risalire ai Santi Quattro Coronati, di riscendere verso San Clemente, di fermarsi ancora alla Maddalena, di tornare a Santa Sabina. Sempre e dovunque ci sono dei pellegrini e dei romani che conversano o pregano, gli uni e gli altri davvero a casa, a casa del buon Dio, come si diceva ad Angers quando ero piccolo. Alcuni sono più sensibili allo scintillio dei mosaici, altri allo splendore dei marmi, altri alla luce folgorante di Caravaggio. Tutti sono emozionati dal candore degli affreschi primitivi, dove un’inezia di materia diventa messaggera dello Spirito che la anima, e di quell’acqua viva che mormora in noi, dopo sant’Ignazio, da Roma: vieni dal Padre.
Da Pietro e Paolo a Giovanni Paolo II, il genio della Roma cristiana ha assunto l’eredità della Roma pagana. I templi convertiti in chiese, con le colonne che diventano supporto nuovo, e Santa Maria eretta sopra il tempio di Minerva. Ben lungi dall’essere come squassato da tanto splendore, il pellegrino qui scopre il messaggio di Pietro inscritto nelle pietre delle basiliche e incarnato nei santi. Ognuno si trova al suo posto in seno al popolo di Dio, non cacciato al margine in qualche stretta cappella o respinto in qualche oscura cripta, ma proprio al suo posto, in piena luce, nella navata grande, davanti alla confessione dell’Apostolo, il cui sangue versato attesta la salvezza che Cristo ha portato a tutti gli uomini. Segnato dall’impronta di Roma, il cristiano si ritrova cattolico.
Con il peso della storia, la Roma dei papi e dei santi ci ricorda che le cose spirituali sono anche carnali e che il Vangelo si inscrive nel cuore della città degli uomini per avviarli dal tempo all’eternità, alla Città di Dio.
Quindi, alla domanda se Roma è al centro del mondo, rispondo senza esitazione: sì, per condurlo a Dio.

Note
1 Paul Poupard, La charité de Lacordaire, homme d’Eglise, in La Vie Spirituelle, nov. 1961, pp. 530-543, poi in XIX siècle, siècle de grâces, Ed. S. O. S., Paris 1982, pp. 111-128.
2 Paul Poupard, Rome-Pèlerinage, nuova edizione in occasione dell’Anno Santo, D. D. B., Paris 1983.
3 Journal romain de l’abbé Louis Bautain (1838), curato da Paul Poupard, Edizioni di storia e letteratura, (Quaderni di cultura francese a cura della fondazione Primoli) Roma 1964, pp. 6-7.
4 Cfr. Paul Poupard, Le Concile Vatican II, Paris 1983, pp. 105-112.
5 Madeleine Delbrêl, Nous autres, gens des rues, presentazione di Jacques Loew, Paris 1966, pp. 138-139.

La Fondazione Cardinal Poupard premia il Patriarca Bartolomeo I: Per la sua difesa del creato

dal sito:

http://www.zenit.org/article-21581?l=italian

La Fondazione Cardinal Poupard premia il Patriarca Bartolomeo I

Per la sua difesa del creato

di Anita S. Bourdin

CREMA, mercoledì, 3 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il Patriarca Bartolomeo I è il primo vincitore del “Premio Cardinal Poupard”, che la “Fondazione Cardinal Poupard” consegna questo mercoledì a Monaco, per la sua azione e i suoi insegnamenti per la salvaguardia del creato.

Il premio vuole far conoscere meglio “l’azione esemplare” del Patriarca ecumenico di Costantinopoli nell’ambito della preservazione dell’ambiente, con la particolarità di una visione evangelica del creato.

Per il Patriarca, “salvare il pianeta” presuppone un “rinnovamento culturale” e l’espressione di una “nuova solidarietà tra il Creatore, le creature e il creato”.

Da 15 anni il Patriarca organizza, nei cinque continenti, simposi multidisciplinari sul tema “Religione, scienza e ambiente”.

In occasione di uno di questi, il 10 giugno 2002, ha firmato a Venezia una dichiarazione congiunta con Giovanni Paolo II, in linea diretta con il Vaticano.

Il “Premio Cardinal Poupard” ricompensa Bartolomeo I per il suo impegno a favore del creato nel momento in cui Benedetto XVI ha voluto dedicare il suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2010 proprio alla preservazione del creato.

Il Cardinal Poupard, presidente emerito dei Pontifici Consigli della Cultura e per il Dialogo Interreligioso, ha deciso, insieme a un gruppo di amici, di fondare a Crema una Fondazione per portare avanti la sua opera e il suo insegnamento.

Il porporato francese ha spiegato a ZENIT che la Fondazione che porta il suo nome ha la vocazione di favorire il dialogo tra culture e religioni, soprattutto attraverso la creazione di vincoli tra università di vari Paesi, favorendo l’educazione dei bambini e dei giovani.

“Gli scontri si verificano perché non si conosce l’altro”, ha sottolineato.

“Noi affrontiamo attualmente una situazione nuova, e dobbiamo trovare mezzi di avvicinamento per conoscerci reciprocamente perché gli altri si riconoscano nell’immagine che mi sono fatto di loro e io mi riconosca nell’idea che hanno loro di me”, ha precisato.

Secondo il Cardinale, esistono due pericoli: da un lato quello di “chiudersi in se stessi, l’isolamento, o anche la violenza”, dall’altro “lo scetticismo”.

In questo contesto, ha invitato a chiedersi: “Come si potrebbe dialogare se non ci sono dei dati invariabili, dei valori fondamentali comuni: l’essere umano, come direbbe Paolo VI, tutto l’uomo e tutti gli uomini, e il rispetto della persona umana?”.

Il porporato ha anche segnalato che la chiave per trasmettere questo elemento invariabile è nell’istruzione: “non c’è cultura senza memoria, e la memoria si trasmette attraverso l’istruzione”.

Per favorire il dialogo, la Fondazione Poupard contribuisce alla creazione di un forum su “Religione e spazio pubblico” al Senato francese, così come alla traduzione del suo “Dizionario delle Religioni” (PUF) in arabo.

I progetti della Fondazione “sono molti”, ha rilevato il Cardinal Poupard, citando ad esempio le relazioni stabilite con l’Università San Tikhon, già auspicate dal Patriarca Alessio II di Mosca, un erudito ortodosso russo che ha continuato i suoi studi anche all’Università cattolica di Parigi.

Publié dans:Card. Paul Poupard |on 3 mars, 2010 |Pas de commentaires »

Paul Joseph Jean Cardinal Poupard : San Benedetto, realizzazione dell’ideale evangelico delle Beatitudini

dal sito:

http://www.cardinalrating.com/cardinal_80__article_3425.htm

 

Paul Joseph Jean Cardinal Poupard

San Benedetto, realizzazione dell’ideale evangelico delle Beatitudini
Mar 22, 2006

San Benedetto, la cui Solennità è stata celebrata questo martedì dall’Ordine Benedettino, realizza l’ideale evangelico delle Beatitudini, ha constatato il Cardinale Paul Poupard, Presidente dei Pontifici Consigli della Cultura e per il Dialogo Interreligioso.MONTECASSINO, martedì, 21 marzo 2006 (ZENIT.org).- Nella sua omelia in occasione della Celebrazione Eucaristica per San Benedetto Abate, Patrono d’Europa, tenutasi nell’Abbazia di Montecassino, il porporato ha ricordato come il Santo abbia realizzato “la Legge nuova di Cristo, accolta con spirito autenticamente cristiano”, ovvero “la legge dell’amore, che tocca il cuore dell’uomo per renderlo veramente grande e degno dell’amicizia del suo Creatore”.

Il “segreto” di San Benedetto, Patrono d’Europa e Padre Fondatore dell’Ordine Benedettino, è infatti riassunto nell’espressione della Regola “Nihil amori Christi praeponere – nulla anteporre all’amore di Cristo”.

“E’ una parola che, riproposta insistentemente dal Santo Padre, deve toccare il cuore di ciascuno di noi, di ogni cristiano e, direi, di ogni cittadino d’Europa”, ha ricordato il Cardinal Poupard.

Non è un caso che il Santo Padre abbia scelto proprio l’amore di Dio come tema della sua prima Enciclica Deus Caritas est, ha osservato il porporato, sottolineando che “solo mettendo l’amore, e l’amore che ha la sua misura piena e perfetta in Cristo, al primo posto si può sinceramente ed efficacemente promuovere la pace, l’armonia ed il dialogo tra i popoli e le culture, la collaborazione e la solidarietà tra i Paesi più progrediti economicamente e quelli che hanno bisogno ancora dell’essenziale per la sopravvivenza”.

Porre l’amore di Cristo al primo posto, ha proseguito, significa che “l’uomo, ogni uomo, viene accolto e amato con gli occhi e la carità di Cristo stesso, il vero buon samaritano che si fa prossimo di ogni creatura affaticata nel suo quotidiano cammino, o dimenticata sulle difficili vie della vita”.

“Vuol dire saper mettere in second’ordine interessi, progetti e intenzioni personali, troppo spesso segnati da egoismo ed orgoglio, per lasciar spazio all’Amore, fonte della vita, che dona all’uomo la sua più autentica dignità, il suo valore intangibile, la sua piena libertà”, ha continuato.

San Benedetto seppe “farsi protagonista di un progetto rivelatogli dal Signore”, e rappresenta “quell’uomo di Dio che si dedica a costruire il tempio del Signore, che riedifica, cioè, non semplicemente l’edificio ecclesiale ma dedica tutte le sue forze a ricostruire la comunità dei credenti, il loro stile di vita e di testimonianza, la loro cultura come pure il tessuto umano della società del tempo”.

“E’ Benedetto che, ispirato dal Signore, si dedica a costruire l’evangelica ‘città posta sul monte’ affinché illumini tutti i popoli e li faccia progredire nella concordia fraterna e nella pace”, ha sottolineato il Cardinale.

Trasformando la sua condotta, San Benedetto è divenuto, “per molti popoli e generazioni, maestro di vita cristiana, esempio di unità e di fedeltà, annunciatore di pace, promotore di una cultura illuminata dal Vangelo, e così, profondamente trasformata, anche pienamente umana”.

La figura del Santo, “luminosa e straordinaria” continua ad esercitare ancor oggi un enorme fascino, “sia per la sua coraggiosa e chiara testimonianza di fedeltà a Cristo sia per la sua profonda conoscenza dell’animo umano e la geniale opera di rinnovamento culturale e sociale, realizzata capillarmente in tutta Europa attraverso la rete dei monasteri benedettini”, ha ricordato Poupard.

“L’esemplarità e la grandezza spirituale mai affievolita del Padre del monachesimo occidentale” è per il porporato proprio uno dei motivi che hanno spinto l’attuale Pontefice ad assumere il nome di Benedetto.

Nella sua prima Udienza generale, mercoledì 27 aprile 2005, il Papa ha infatti ricordato che San Benedetto “costituisce un fondamentale punto di riferimento per l’unità dell’Europa e un forte richiamo alle irrinunciabili radici cristiane della sua cultura e della sua civiltà”.

“All’inizio del mio servizio come Successore di Pietro – ha affermato il Papa in quella occasione – chiedo a san Benedetto di aiutarci a tenere ferma la centralità di Cristo nella nostra esistenza. Egli sia sempre al primo posto nei nostri pensieri e in ogni nostra attività!”.

La Celebrazione Eucaristica tenutasi questo martedì chiude il calendario di iniziative per San Benedetto partite l’11 marzo scorso e organizzate da Cassino e dall’Abbazia di Montecassino.

Publié dans:Card. Paul Poupard |on 14 février, 2008 |Pas de commentaires »

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