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San Francesco d’Assisi. Attenti, il poverello ci parla ancora (Bruno Forte)

dal sito:

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-08-15/attenti-poverello-parla-ancora-080117.shtml?uuid=AYn2syGC

San Francesco d’Assisi. Attenti, il poverello ci parla ancora

Bruno Forte

 «Anche a un’osservazione superficiale appare evidente come per parecchi secoli in tutta l’Italia nessun uomo abbia goduto di un amore e di un ossequio così smisurati come il modesto e umile Francesco… Il divino messaggio, tenero e beato, che era giunto sulla Terra sotto forma di lui, non si spense con la sua morte. Egli aveva sparso a piene mani un buon seme, e quel seme germogliò e crebbe e fiorì». Queste parole di Hermann Hesse, l’autore di Siddharta, di Narciso e Boccadoro e di tanti altri celebri testi, oltre che di una deliziosa vita di Francesco d’Assisi scritta in gioventù (1904), suscitano la domanda sul perché Francesco abbia lasciato una così profonda impronta nel cuore degli italiani e di tante donne e uomini di ogni latitudine e cultura.
La risposta di Hesse – dal tono piuttosto sentimentale e romantico – contiene un nocciolo prezioso di verità: «Soltanto pochi (come Francesco), in virtù della profondità e dell’ardore del loro intimo, hanno donato ai popoli, quali messaggeri e seminatori divini, parole e pensieri di eternità e dell’antichissimo anelito umano… sì che quali astri beati si librano ancora sopra di noi nel puro firmamento, dorati e sorridenti, benevole guide al peregrinare degli uomini nelle tenebre». Per Hermann Hesse Francesco incarna un messaggio capace di dare ragioni di vita e di speranza al cuore di tutti. Anche a quello dell’Italia d’oggi, scossa da una crisi che, prima che economica e politica, è spirituale e morale.
Nel tentativo di cogliere questo messaggio, motivando così anche la mia scelta di San Francesco quale « personaggio che potrebbe risolvere la crisi del nostro paese », mi è venuto in aiuto un testimone singolare. Sul tratto autostradale che collega Roma a Chieti, fra i più belli d’Italia per paesaggi e colori, a metà circa della piana del Fùcino, su un colle che un tempo si specchiava nel lago, dominato dall’imponente castello medioevale, sorge Celano, patria del beato Tommaso, seguace e primo biografo di Francesco, che a Celano presumibilmente passò intorno al 1220. Nella Vita prima di San Francesco d’Assisi, scritta su incarico di Gregorio IX quale « Legenda » ufficiale per la canonizzazione del Santo e presentata al Papa il 25 febbraio 1229, Tommaso narra con incantevole freschezza la vicenda di Francesco sin dai suoi inizi. Colpisce anzitutto la presentazione del tempo antecedente la conversione: «Viveva ad Assisi, nella valle spoletana, un uomo di nome Francesco. Dai genitori ricevette fin dall’infanzia una cattiva educazione, ispirata alle vanità del mondo. Imitando i loro esempi, egli stesso divenne ancor più leggero e vanitoso».
Il giovane Francesco è veramente uno di noi, così simile a noi nella leggerezza della vita e dei sogni. Tuttavia, è proprio l’aver vissuto questa stagione dell’utopia, impastata delle fughe in avanti dei desideri e delle pretese, che rende Francesco così largamente umano. È quanto esprime la folgorante risposta di Mark Twain alla domanda su dove avrebbe voluto andare dopo la morte: «In paradiso per il clima, all’inferno per la compagnia…»: come a dire che i peccatori suscitano un’immediata simpatia perché li sentiamo a noi familiari, anche se non può non attrarci la bellezza del cielo… Francesco ci parla anzitutto perché parte da quello che ci accomuna tutti: la nostra fragilità, la lista più o meno lunga dei nostri difetti, di cui alcuni – ambizioni, vanità, ricerca dell’immagine a prezzo della verità, dipendenza dagli indici di gradimento, leggerezza nel mantener fede agli impegni – ci appaiono così drammaticamente attuali!
Avviene però nella vita del giovane di Assisi qualcosa di nuovo e imprevisto: Tommaso da Celano lo narra col tratto tenerissimo di una lettura guidata dagli occhi della fede: «Ma la mano del Signore si posò su di lui e la destra dell’Altissimo lo trasformò, perché, per suo mezzo, i peccatori ritrovassero la speranza di rivivere alla grazia, e restasse per tutti un esempio di conversione a Dio». Al di là di queste poche righe, che già aprono uno squarcio sullo sterminato futuro, i fatti ebbero una serrata consequenzialità: «Colpito da una lunga malattia, egli cominciò a cambiare il suo mondo interiore… non tuttavia in modo perfetto e reale, perché non era ancora libero dai lacci della vanità… Francesco cercava ancora di sottrarsi dalla mano divina, accarezzava pensieri terreni, sognava ancora grandi imprese per la gloria vana del mondo».
L’occasione del cambiamento fu di quelle che solleticano anzitutto le ambizioni e proprio così espongono alle delusioni più cocenti: «Un cavaliere di Assisi stava allora organizzando preparativi militari verso le Puglie… Saputo questo, Francesco trattò per arruolarsi… Ma, la mattina in cui doveva partire, intuì che la sua scelta era erronea rispetto al progetto che Dio aveva per lui». Francesco rinuncia alla spedizione e sceglie di conformare la sua volontà a quella divina: «Si apparta un poco dal tumulto del mondo, e cerca di custodire Gesù Cristo nell’intimità del cuore… appronta un cavallo, monta in sella e, portando con sé i panni di scarlatto, parte veloce per Foligno. Ivi vende tutta la merce e con un colpo di fortuna anche il cavallo!».
È il « no » al passato: non ancora, tuttavia, è chiaro a che cosa dovrà dire il suo « sì ». «Sul cammino del ritorno, libero da ogni peso, va pensando all’opera cui destinare quel denaro… Avvicinandosi ad Assisi, s’imbatte in una chiesa molto antica, fabbricata sul bordo della strada e dedicata a San Damiano, in rovina… Vedendola in quella miseranda condizione, si sente stringere il cuore. Incontrandovi un povero sacerdote, con grande fede, gli bacia le mani consacrate, e gli offre il denaro rimanendo a vivere con lui».
Ciò che è avvenuto all’interno del cuore non può non manifestarsi all’esterno: si prepara la sfida più dura, l’incomprensione e il giudizio dei suoi. «Suo padre venne a conoscenza che egli dimorava in quel luogo e viveva in quella maniera. Profondamente addolorato radunò vicini e amici e corse a prenderlo e lo rinchiuse in una fossa che era sotto la casa ove rimase per un mese intero… Francesco con calde lacrime implorava Dio che lo liberasse… Affari urgenti costrinsero il padre ad assentarsi per un po’ di tempo da casa… Allora la madre, rimasta sola con lui, disapprovando il metodo del marito, parlò con tenerezza al figlio; ma s’accorse che niente poteva dissuaderlo dalla sua scelta. E l’amore materno fu più forte di lei stessa: ne sciolse i legami lasciandolo in libertà».
Emerge qui una costante della vita di Francesco: il ruolo della donna nella sua esistenza. Dapprima, la Madre, tanto tenera, quanto capace di capire. Quindi, Chiara, sorella nell’amore per Cristo e discepola fedelissima. Sempre la Madre di Dio, custode del suo cuore. «Frattanto il padre rincasa, e visto ogni vano tentativo per distoglierlo dal nuovo cammino, rivolge il suo interesse a farsi restituire il denaro… Allora, impose al figlio di seguirlo davanti al vescovo della città, affinché facesse davanti al prelato la rinuncia e la restituzione completa di quanto possedeva. Francesco non esita per nessun motivo: senza dire o aspettare parole, si toglie le vesti e le getta tra le braccia di suo padre, restando nudo di fronte a tutti». Si rivela qui il tratto che rende Francesco fratello universale: la rinuncia a ogni possesso e a ogni potere, il suo essere nudo e indifeso. Non si tratta solo di una scelta di sobrietà, pur così importante e necessaria allora come oggi: è una logica che appare sovversiva rispetto agli arrivismi e alle avidità di questo mondo. Non è l’ »audience » che conta, né il successo o il denaro, ma la nuda verità di ciò che siamo davanti a Dio e per gli altri! Ed è proprio questa libertà dell’essenziale che lo avvicina a tutti e lo rende inquietante per tutti!
Nel tempo in cui sta a San Damiano, Francesco prega intensamente. Il Crocifisso che è in quella chiesa gli parla: «Va e ripara la mia casa». In un primo momento Francesco pensa di dover riparare la chiesetta dove si trova; capisce, poi, che Gesù si riferiva alla Chiesa tutta intera, che attraversava un periodo contrassegnato da mondanità e prove. Riportare la Chiesa agli insegnamenti del Vangelo, liberarla dalla seduzione delle ricchezze e del potere, riavvicinarla ai poveri è la missione di cui si sente investito.
Comincia la sua nuova vita: «Si reca tra i lebbrosi e vive con essi per servirli in ogni necessità per amor di Dio. Lava i loro corpi e ne cura le piaghe… La vista dei lebbrosi gli era prima così insopportabile, che non appena scorgeva in lontananza i loro ricoveri, si turava il naso. Ma ecco quanto avvenne: nel tempo in cui aveva già cominciato, per grazia e virtù dell’Altissimo, ad avere pensieri santi e salutari, mentre viveva ancora nel mondo, un giorno gli si parò innanzi un lebbroso e fece violenza a sé stesso, gli si avvicinò e lo baciò». Il suo modo di vivere a servizio di Dio cominciò ad affascinare i giovani di Assisi, al punto che vari di loro lo seguirono per servire il Signore.
Nei rapporti con gli altri, Francesco segue una regola precisa: «Chi non ama un solo uomo sulla terra al punto da perdonargli tutto, non ama Dio». Proprio così comincia a dare fastidio: «I potenti di Assisi si videro la loro cittadina svuotata per via di Francesco e, in un momento in cui egli e i suoi confratelli erano in giro per la questua, alcuni uomini di Assisi saccheggiarono la chiesa di San Damiano uccidendo un poverello che dimorava in quel luogo. Al ritorno, Francesco fu scosso da profondo dolore al punto da pensare di dover andare dal Papa in persona per chiedere se la via che aveva intrapreso per seguire il Cristo fosse errata. Dall’incontro con il Papa, non fu Francesco ad uscirne con consigli e ammonimenti, ma furono tutti, il Papa Innocenzo III compreso, a sentirsi umiliati dalla povertà e obbedienza di quest’uomo. Da questo momento tutta la Chiesa fu rinnovata: c’era finalmente qualcuno che riportasse i poveri a Cristo».
Francesco si mette alla scuola di Gesù Crocifisso e impara l’umiltà. Anche in questo la provocazione che lancia al nostro presente è bruciante: «Un frate chiede a Francesco: ‘Padre, cosa ne pensi di te stesso? » ed egli rispose: ‘Mi sembra di essere il più grande peccatore, perché se Dio avesse usata tanta misericordia con qualche scellerato, sarebbe dieci volte migliore di me »». Lo spogliamento di sé caratterizzerà sempre più il suo cammino: nellaVita seconda di S. Francesco, che Tommaso da Celano stende tra il 1246/1247 per corrispondere all’ingiunzione del Capitolo generale di Genova «di scrivere i fatti e persino le parole» di Francesco, questo aspetto emerge in modo impressionante. «L’ardore del desiderio lo rapiva in Dio e un tenero sentimento di compassione lo trasformava in Colui che volle essere crocifisso. Un mattino, mentre pregava sul fianco del monte, vide la figura come di un serafino, con sei ali tanto luminose quanto infuocate, discendere dalla sublimità dei cieli: esso con rapidissimo volo, giunse vicino all’uomo di Dio, e allora apparve l’effige di un uomo crocifisso, che aveva mani e piedi stesi e confitti sulla croce… Il vederlo confitto in croce gli trapassava l’anima. L’amico di Cristo stava per essere trasformato tutto nel ritratto visibile di Cristo Gesù crocifisso… Così il verace amore di Cristo aveva trasformato l’amante nella immagine stessa dell’Amato».
Gli occhi di Francesco si chiuderanno presto alla luce del mondo: ma la luce della Sua fede e del Suo amore umile continuerà a risplendere. Non fu la Sua una fuga dal mondo. Se non avesse amato profondamente questa terra, non avrebbe composto il Cantico delle creature. La sua è anche una spiritualità del rispetto e dell’amore del creato. Tutto in Francesco fu motivato dall’aver compreso qual è la perla preziosa da cercare ad ogni costo: sobrietà, povertà, tenerissima carità, umiltà, rispetto per ogni creatura e per tutto il creato sono volti di quest’unico amore. E non è di esso che ha bisogno anche l’Italia di oggi, come quella del suo tempo e il mondo intero con lei? «Quando infine si furono compiuti in lui tutti i misteri, quell’anima santissima, sciolta dal corpo, fu sommersa nell’abisso della chiarità divina e l’uomo beato s’addormentò nel Signore. Uno dei suoi frati e discepoli vide quell’anima beata, in forma di stella fulgentissima, sollevarsi su una candida nuvola al di sopra di molte acque e penetrare diritta in cielo: nitidissima per il candore della santità eccelsa e ricolma di celeste sapienza e di grazia per le quali il santo meritò di entrare nel luogo della luce e della pace, dove con Cristo riposa senza fine». E parla a chiunque voglia ascoltarlo…

Publié dans:Bruno Forte, San Francesco d'Assisi |on 11 octobre, 2010 |Pas de commentaires »

Bruno Forte: Il messaggio di San Francesco contro i falsi idoli contemporanei

dal sito:

http://www.zenit.org/article-23416?l=italian

Il messaggio di San Francesco contro i falsi idoli contemporanei

ROMA, sabato, 21 agosto 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo a firma di mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, apparso su Il Sole 24 Ore del 15 agosto scorso.

* * *

“Anche ad un’osservazione superficiale appare evidente come per parecchi secoli in tutta l’Italia nessun uomo abbia goduto di un amore e di un ossequio così smisurati come il modesto ed umile Francesco… Il divino messaggio, tenero e beato, che era giunto sulla terra sotto forma di lui, non si spense con la sua morte. Egli aveva sparso a piene mani un buon seme, e quel seme germogliò e crebbe e fiorì”. Queste parole di Hermann Hesse, l’autore di Siddharta, di Narciso e Boccadoro e di tanti altri celebri testi, oltre che di una deliziosa vita di Francesco d’Assisi scritta in gioventù (1904), suscitano la domanda sul perché Francesco abbia lasciato una così profonda impronta nel cuore degli Italiani e di tante donne e uomini di ogni latitudine e cultura. La risposta di Hesse – dal tono piuttosto sentimentale e romantico – contiene un nocciolo prezioso di verità: “Soltanto pochi [come Francesco], in virtù della profondità e dell’ardore del loro intimo, hanno donato ai popoli, quali messaggeri e seminatori divini, parole e pensieri di eternità e dell’antichissimo anelito umano… sì che quali astri beati si librano ancora sopra di noi nel puro firmamento, dorati e sorridenti, benevole guide al peregrinare degli uomini nelle tenebre”. Per Hermann Hesse Francesco incarna un messaggio capace di dare ragioni di vita e di speranza al cuore di tutti. Anche a quello dell’Italia d’oggi, scossa da una crisi che, prima che economica e politica, è spirituale e morale.

Nel tentativo di cogliere questo messaggio, motivando così anche la mia scelta di San Francesco quale “personaggio che potrebbe risolvere la crisi del nostro Paese”, mi è venuto in aiuto un testimone singolare. Sul tratto autostradale che collega Roma a Chieti, fra i più belli d’Italia per paesaggi e colori, a metà circa della piana del Fùcino, su un colle che un tempo si specchiava nel lago, dominato dall’imponente castello medioevale, sorge Celano, patria del beato Tommaso, seguace e primo biografo di Francesco, che a Celano presumibilmente passò intorno al 1220. Nella Vita prima di San Francesco d’Assisi, scritta su incarico di Gregorio IX quale “Legenda” ufficiale per la canonizzazione del Santo e presentata al Papa il 25 febbraio 1229, Tommaso narra con incantevole freschezza la vicenda di Francesco sin dai suoi inizi. Colpisce anzitutto la presentazione del tempo antecedente la conversione: “Viveva ad Assisi, nella valle spoletana, un uomo di nome Francesco. Dai genitori ricevette fin dall’infanzia una cattiva educazione, ispirata alle vanità del mondo. Imitando i loro esempi, egli stesso divenne ancor più leggero e vanitoso”. Il giovane Francesco è veramente uno di noi, così simile a noi nella leggerezza della vita e dei sogni. Tuttavia, è proprio l’aver vissuto questa stagione dell’utopia, impastata delle fughe in avanti dei desideri e delle pretese, che rende Francesco così largamente umano. È quanto esprime la folgorante risposta di Mark Twain alla domanda su dove avrebbe voluto andare dopo la morte: “In paradiso per il clima, all’inferno per la compagnia…”: come a dire che i peccatori suscitano un’immediata simpatia perché li sentiamo a noi familiari, anche se non può non attrarci la bellezza del cielo… Francesco ci parla anzitutto perché parte da quello che ci accomuna tutti: la nostra fragilità, la lista più o meno lunga dei nostri difetti, di cui alcuni – ambizioni, vanità, ricerca dell’immagine a prezzo della verità, dipendenza dagli indici di gradimento, leggerezza nel mantener fede agli impegni – ci appaiono così drammaticamente attuali!

Avviene però nella vita del giovane di Assisi qualcosa di nuovo e imprevisto: Tommaso da Celano lo narra col tratto tenerissimo di una lettura guidata dagli occhi della fede: “Ma la mano del Signore si posò su di lui e la destra dell’Altissimo lo trasformò, perché, per suo mezzo, i peccatori ritrovassero la speranza di rivivere alla grazia, e restasse per tutti un esempio di conversione a Dio”. Al di là di queste poche righe, che già aprono uno squarcio sullo sterminato futuro, i fatti ebbero una serrata consequenzialità: “Colpito da una lunga malattia, egli cominciò a cambiare il suo mondo interiore… non tuttavia in modo perfetto e reale, perché non era ancora libero dai lacci della vanità… Francesco cercava ancora di sottrarsi dalla mano divina, accarezzava pensieri terreni, sognava ancora grandi imprese per la gloria vana del mondo”. L’occasione del cambiamento fu di quelle che solleticano anzitutto le ambizioni e proprio così espongono alle delusioni più cocenti: “Un cavaliere di Assisi stava allora organizzando preparativi militari verso le Puglie…Saputo questo, Francesco trattò per arruolarsi… Ma, la mattina in cui doveva partire, intuì che la sua scelta era erronea rispetto al progetto che Dio aveva per lui…”. Francesco rinuncia alla spedizione e sceglie di conformare la sua volontà a quella divina: “Si apparta un poco dal tumulto del mondo, e cerca di custodire Gesù Cristo nell’intimità del cuore… appronta un cavallo, monta in sella e, portando con sé i panni di scarlatto, parte veloce per Foligno. Ivi vende tutta la merce e con un colpo di fortuna anche il cavallo!”. È il “no” al passato: non ancora, tuttavia, è chiaro a che cosa dovrà dire il suo “sì”. “Sul cammino del ritorno, libero da ogni peso, va pensando all’opera cui destinare quel denaro… Avvicinandosi ad Assisi, s’imbatte in una chiesa molto antica, fabbricata sul bordo della strada e dedicata a San Damiano, in rovina… Vedendola in quella miseranda condizione, si sente stringere il cuore. Incontrandovi un povero sacerdote, con grande fede, gli bacia le mani consacrate, e gli offre il denaro… rimanendo a vivere con lui”.

Ciò che è avvenuto all’interno del cuore non può non manifestarsi all’esterno: si prepara la sfida più dura, l’incomprensione e il giudizio dei suoi. “Suo padre venne a conoscenza che egli dimorava in quel luogo e viveva in quella maniera. Profondamente addolorato radunò vicini e amici e corse a prenderlo e lo rinchiuse in una fossa che era sotto la casa ove rimase per un mese intero… Francesco con calde lacrime implorava Dio che lo liberasse… Affari urgenti costrinsero il padre ad assentarsi per un po’ di tempo da casa… Allora la madre, rimasta sola con lui, disapprovando il metodo del marito, parlò con tenerezza al figlio; ma s’accorse che niente poteva dissuaderlo dalla sua scelta. E l’amore materno fu più forte di lei stessa: ne sciolse i legami lasciandolo in libertà”. Emerge qui una costante della vita di Francesco: il ruolo della donna nella sua esistenza. Dapprima, la Madre, tanto tenera, quanto capace di capire. Quindi, Chiara, sorella nell’amore per Cristo e discepola fedelissima. Sempre la Madre di Dio, custode del suo cuore. “Frattanto il padre rincasa, e visto ogni vano tentativo per distoglierlo dal nuovo cammino, rivolge il suo interesse a farsi restituire il denaro… Allora, impose al figlio di seguirlo davanti al vescovo della città, affinché facesse davanti al prelato la rinuncia e la restituzione completa di quanto possedeva. Francesco non esita per nessun motivo: senza dire o aspettare parole, si toglie le vesti e le getta tra le braccia di suo padre, restando nudo di fronte a tutti”. Si rivela qui il tratto che rende Francesco fratello universale: la rinuncia a ogni possesso e a ogni potere, il suo essere nudo e indifeso. Non si tratta solo di una scelta di sobrietà, pur così importante e necessaria allora come oggi: è una logica che appare sovversiva rispetto agli arrivismi ed alle avidità di questo mondo. Non è l’ “audience” che conta, né il successo o il denaro, ma la nuda verità di ciò che siamo davanti a Dio e per gli altri! Ed è proprio questa libertà dell’essenziale che lo avvicina a tutti e lo rende inquietante per tutti!

Nel tempo in cui sta a San Damiano, Francesco prega intensamente. Il Crocifisso che è in quella chiesa gli parla: “Va e ripara la mia casa”. In un primo momento Francesco pensa di dover riparare la chiesetta dove si trova; capisce, poi, che Gesù si riferiva alla Chiesa tutta intera, che attraversava un periodo contrassegnato da mondanità e prove. Riportare la Chiesa agli insegnamenti del Vangelo, liberarla dalla seduzione delle ricchezze e del potere, riavvicinarla ai poveri è la missione di cui si sente investito. Comincia la sua nuova vita: “Si reca tra i lebbrosi e vive con essi per servirli in ogni necessità per amor di Dio. Lava i loro corpi e ne cura le piaghe… La vista dei lebbrosi gli era prima così insopportabile, che non appena scorgeva in lontananza i loro ricoveri, si turava il naso. Ma ecco quanto avvenne: nel tempo in cui aveva già cominciato, per grazia e virtù dell’Altissimo, ad avere pensieri santi e salutari, mentre viveva ancora nel mondo, un giorno gli si parò innanzi un lebbroso e fece violenza a sé stesso, gli si avvicinò e lo baciò”. Il suo modo di vivere a servizio di Dio cominciò ad affascinare i giovani di Assisi, al punto che vari di loro lo seguirono per servire il Signore. Nei rapporti con gli altri, Francesco segue una regola precisa: “Chi non ama un solo uomo sulla terra al punto da perdonargli tutto, non ama Dio”. Proprio così comincia a dare fastidio: “I potenti di Assisi si videro la loro cittadina svuotata per via di Francesco e, in un momento in cui egli ed i suoi confratelli erano in giro per la questua, alcuni uomini di Assisi saccheggiarono la chiesa di San Damiano uccidendo un poverello che dimorava in quel luogo. Al ritorno, Francesco fu scosso da profondo dolore al punto da pensare di dover andare dal Papa in persona per chiedere se la via che aveva intrapreso per seguire il Cristo fosse errata. Dall’incontro con il Papa, non fu Francesco ad uscirne con consigli ed ammonimenti, ma furono tutti, il Papa Innocenzo III compreso, a sentirsi umiliati dalla povertà ed obbedienza di quest’uomo. Da questo momento tutta la Chiesa fu rinnovata: c’era finalmente qualcuno che riportasse i poveri a Cristo”.

Francesco si mette alla scuola di Gesù Crocifisso e impara l’umiltà: anche in questo la provocazione che lancia al nostro presente è bruciante: “Un frate chiede a Francesco: ‘Padre, cosa ne pensi di te stesso?’ ed egli rispose: ‘Mi sembra di essere il più grande peccatore, perché se Dio avesse usata tanta misericordia con qualche scellerato, sarebbe dieci volte migliore di me’ ”. Lo spogliamento di sé caratterizzerà sempre più il suo cammino: nella Vita seconda di S. Francesco, che Tommaso da Celano stende tra il 1246/1247 per corrispondere all’ingiunzione del Capitolo generale di Genova “di scrivere i fatti e persino le parole” di Francesco, questo aspetto emerge in modo impressionante. “L’ardore del desiderio lo rapiva in Dio e un tenero sentimento di compassione lo trasformava in Colui che volle essere crocifisso. Un mattino, mentre pregava sul fianco del monte, vide la figura come di un serafino, con sei ali tanto luminose quanto infuocate, discendere dalla sublimità dei cieli: esso con rapidissimo volo, giunse vicino all’uomo di Dio, e allora apparve l’effige di un uomo crocifisso, che aveva mani e piedi stesi e confitti sulla croce…Il vederlo confitto in croce gli trapassava l’anima… L’amico di Cristo, stava per essere trasformato tutto nel ritratto visibile di Cristo Gesù crocifisso… Così il verace amore di Cristo aveva trasformato l’amante nella immagine stessa dell’Amato”. Gli occhi di Francesco si chiuderanno presto alla luce del mondo: ma la luce della Sua fede e del Suo amore umile continuerà a risplendere. Non fu la Sua una fuga dal mondo. Se non avesse amato profondamente questa terra, non avrebbe composto il Cantico delle creature. La sua è anche una spiritualità del rispetto e dell’amore del creato. Tutto in Francesco fu motivato dall’aver compreso qual è la perla preziosa da cercare ad ogni costo: sobrietà, povertà, tenerissima carità, umiltà, rispetto per ogni creatura e per tutto il creato sono volti di quest’unico amore. E non è di esso che ha bisogno anche l’Italia di oggi, come quella del suo tempo e il mondo intero con lei? “Quando infine si furono compiuti in lui tutti i misteri, quell’anima santissima, sciolta dal corpo, fu sommersa nell’abisso della chiarità divina e l’uomo beato s’addormentò nel Signore. Uno dei suoi frati e discepoli vide quell’anima beata, in forma di stella fulgentissima, sollevarsi su una candida nuvola al di sopra di molte acque e penetrare diritta in cielo: nitidissima per il candore della santità eccelsa e ricolma di celeste sapienza e di grazia per le quali il santo meritò di entrare nel luogo della luce e della pace, dove con Cristo riposa senza fine”. E parla a chiunque voglia ascoltarlo…

Publié dans:Bruno Forte |on 21 août, 2010 |Pas de commentaires »

L’uomo di fronte al male (di Bruno Forte)

dal sito:

http://animamea.splinder.com/post/22144892/L%E2%80%99uomo+di+fronte+al+male+(di

L’uomo di fronte al male (di Bruno Forte)

La ricerca di una speranza dalla filosofia  alla letteratura

Nella serata di giovedì 29 gennaio al Teatro Argentina di Roma si svolge un colloquio  organizzato dall’Ufficio di pastorale universitaria del Vicariato. Al tavolo dei relatori Pierluigi Celli, direttore generale dell’università Luiss Guido Carli, e l’arcivescovo di Chieti-Vasto. Dell’intervento di quest’ultimo anticipiamo ampi stralci.
di Bruno Forte
Di fronte al male si misura l’impotenza dell’uomo, la condizione tragica del suo esistere. Tragico è il non poter fare il bene che vorremmo e il non riuscire a impedire il male. L’apostolo Paolo ha descritto con incisività la condizione tragica dell’essere umano sfidato dal male nel capitolo settimo della Lettera ai Romani:  è la condizione dell’”io”, impotente di fronte al bene che non fa e al male che fa.
Per Paolo è questa impotenza che il Figlio di Dio ha fatto propria, per la forza di un amore senza misura, grazie al quale il tragico viene a essere accolto negli abissi della divinità. È l’inquietante rivelazione di Romani:  Dio “non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi” (8, 32), costruita sul modello del sacrificio che Abramo si dispone a fare del suo figlio amato, Isacco (Genesi, 22).
Abissalmente proiettato in Dio, il tragico è abitato dal suo Spirito, i cui gemiti – descritti in Romani – segnalano la distanza fra il male presente e il promesso bene, fra l’esperienza e l’attesa. Il tragico in Dio diventa così la vera rivelazione di ciò che siamo:  solo grazie a questa rivelazione è possibile percepire in tutta la sua tragicità la contingenza del mondo.
Proprio così, però, la redenzione è possibile:  se Dio abita l’impotenza, questa è redenta. Solo l’infinita compassione riscatta la scena di questo mondo che passa, senza indebolirne la contingenza, esaltandola anzi nella sua dignità perché fatta propria dal Redentore.
Un’attenta lettura della Lettera ai Romani dimostra che il messaggio cristiano è tutt’altro che la distruzione del tragico attraverso un moralismo a buon mercato, bensì l’evoluzione del tragico nella condizione stessa di quanti sperimentano la debolezza e la sofferenza, pur essendo stati giustificati per la loro adesione a Cristo.
Il tragico cristiano coinvolge non soltanto il Figlio, ma anche Dio che non lo ha risparmiato per noi, e lo Spirito che condivide il nostro gemito e quello di tutta la creazione. Solo un Dio che abita la tragicità porta in essa la buona novella della grazia:  solo il Dio umano, che si carica del peso del male che devasta la terra, può liberarci e liberare il mondo.
Il male è stato assunto in Dio, l’unico che così poteva vincerlo. Questo dice la Lettera ai Romani, di così bruciante attualità di fronte al nostro presente e alla sua condizione di naufragio, che non cerca salvatori a buon mercato, ma una prossimità altra e profonda capace di restituire il senso del cammino comune. È Paolo a dirci che in Cristo Dio si è fatto compagno del dolore umano, e proprio così fondamento della speranza possibile:  in questa “follia” il suo messaggio.
Nel paradosso di questo “vangelo tragico” sta tutta la sua provocatoria attualità:  è qui che la speranza cristiana si mostra per quello che è, non evasione consolatoria, ma anticipazione militante dell’avvenire entrato in questo mondo nel Figlio, che ha abitato il nostro dolore, il male che ci ferisce e la morte.
Alla condizione “tragica” dell’esistere umano ha dedicato la sua attenzione più alta Fëdor Dostoevskij:  scavando nelle profondità del cuore umano, da vero “psicologo del sottosuolo”, egli ne scopre le ambiguità strutturali, l’abisso dei “doppi pensieri”. “Chiunque sia passato per Dostoevskij e abbia sofferto con lui – afferma Nikolaj Berdjaev – ha conosciuto il mistero dello sdoppiamento, ha ottenuto la conoscenza degli opposti, si è armato nella lotta contro il male di una nuova potentissima arma, la conoscenza del male”.
E proprio in questo Dostoevskij è cristiano, in quanto unisce in maniera inseparabile, e al tempo stesso carica di eccezionale tensione, il problema di Dio e il problema dell’uomo, che solo nel cristianesimo si sono incontrati fino all’abissale esperienza del Dio crocifisso nelle tenebre del Venerdì Santo:  “Dostoevskij è lo scrittore più cristiano in quanto al centro della sua opera c’è sempre l’uomo, l’amore umano e la rivelazione dell’anima umana. Egli stesso è la rivelazione del cuore dell’essere umano, del cuore di Gesù”.
Pellegrino nei meandri dello spirito, Dostoevskij ne esprime la radicale e costitutiva ambiguità. Attraverso paradossi spinti fino all’estremo, in cui esercita tutta la sua potenza di negazione, egli scopre la tragicità dell’esistenza nel suo essere permanentemente assediata dal nichilismo:  il nulla fascia lo spirito nella sua conoscenza del vero, nella sua volontà del bene, nel suo sentimento del bello.
Lungo le vie della conoscenza del vero, la questione del male si presenta come la sfida alla fede in un Dio, che sia la verità eterna e assoluta del mondo. Il ragionamento è stringente, terribile:  se Dio esiste, l’orrore del male che devasta la terra è senza fine. Ma questo orrore è infinito:  dunque, Dio esiste.
Al tempo stesso però l’argomento si rovescia nel suo contrario:  se Dio esiste, non può essere ammesso l’orrore di un male infinito. Ma questo orrore c’è:  dunque, Dio non esiste. Dal paradosso non si esce che per una radicale conversione del concetto di Dio:  solo se Dio fa sua la sofferenza infinita del mondo abbandonato al male, solo se egli entra nelle tenebre più fitte della miseria umana, il dolore è redento ed è vinta la morte.
Questo è avvenuto sulla Croce del Figlio:  perciò Cristo è la verità, alternativa alle presunte verità che la ragione è capace di costruirsi con le sue dimostrazioni. La “singolarità del Vero”, la verità incarnata in un Singolo, identificata con la sua persona, è quanto di più lontano possa esserci rispetto a un pensiero euclideo.
È quanto Dostoevskij sceglie, precisamente in alternativa all’esito nichilista della metafisica occidentale:  “Se mi si dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo, anziché con la verità”.
La verità che dà ragione di tutto e tutto organizza in un’armonia universale, l’”apoteosi della conoscenza” di cui parla Ivan Karamazov, non vale il suo prezzo:  al Dio di questa verità lo stesso Ivan non esita a restituire il biglietto d’ingresso nel suo regno. Solo la verità che è passata attraverso il fuoco della negazione e si è lasciata lambire dal nulla, solo quella verità salverà il mondo:  è la risposta di Alësa a Ivan. “Fratello (…) tu mi hai chiesto dianzi se esiste in tutto il mondo un essere che possa perdonare e abbia il diritto di farlo. Ma questo essere c’è, e lui può perdonare tutto, tutti, e per tutti, perché lui stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto”.
Solo dal suo interno, insomma, il nichilismo si lascia confutare:  dalle tenebre del Venerdì Santo, dove Dio soffre e muore per amore del mondo, è possibile proclamare la vittoria della vita, perché quella morte è la morte della morte. Il Dio che è morto non è che la verità concepita metafisicamente come ragione e fondamento del mondo, garante di questa totalità, tutta pervasa dall’orrore dell’infinita sofferenza umana.
Sta qui appunto la tragicità ineliminabile dalla conoscenza del vero:  non si arriva alla luce che attraverso la croce; non si entra nella vita che conoscendo la morte. Perciò la fede deve passare nel travaglio del dubbio, l’affermazione nella notte della negazione, e la verità farsi strada nello scandalo e nelle tenebre più fitte, dove ci aspetta il Dio vivo. Anche per questo “è terribile cadere nelle mani del Dio vivente” (Ebrei, 10, 31).
La tragicità dell’esistenza umana si affaccia non di meno sul piano etico:  la dignità del patire – che pure appare fra le forme più alte di purificazione e di accesso al bene – si rivela anch’essa ambigua all’uomo del sottosuolo! Egli non esita a smascherare le torbide delizie e l’equivocità della volontà, che si accompagnano tanto spesso alla sofferenza:  “Il godimento proveniva dalla troppo chiara coscienza che avevo della mia bassezza (…) non c’era scampo, non potevo diventare un altro uomo:  che se anche fossero rimasti ancora tempo e fede per trasformarmi in qualche cosa di diverso, io non avrei potuto mutarmi”.
Ma è appunto in questa affermazione tragica di sé, nutrita dei godimenti più ardenti della disperazione, che il nulla s’affaccia:  “Noi siamo nati morti, e già da molto nasciamo da padri che non sono vivi; e ciò ci piace sempre di più. Ci prendiamo gusto”.
Ed è qui che la volontà di vivere impone un rovesciamento morale, un atto coraggioso, che si esprime in un’etica della decisione. L’alternativa è fra l’abbandonarsi al nulla e il reagire. Ma essa può porsi soltanto a chi ha toccato il fondo disperante del nichilismo:  è lì che l’espiazione diventa possibile, precisamente per chi si pone davanti al Dio entrato nell’abisso, come compagno del dolore umano e insieme supremo e misericordioso giudice del peccato del mondo. Solo chi accetta di fare compagnia alla sofferenza di Dio di fronte al male per amore del mondo, può sperare di vincere il male.
È infine sulla via del sentimento, che anela alla gioia e alla bellezza, che si sperimenta la tragicità dell’esistenza umana e possibilità di una via di uscita:  pochi, come Dostoevskij, hanno percepito la rilevanza del piano estetico in ordine alla redenzione del mondo. È al principe Myskin – il protagonista de L’idiota, enigmatica figura dell’innocente che soffre per amore del mondo – che il giovane nichilista Ippolit pone la domanda:
“È vero, principe, che una volta diceste che il mondo sarà salvato dalla bellezza?”. E il giovane – condannato a morte dalla tisi – si sente in diritto di aggiungere: “Quale bellezza salverà il mondo?”.
Lo spettacolo della sofferenza è tale che nessuna redenzione può essere cercata nella direzione di un’armonica conciliazione, che salti sullo scandalo del dolore del mondo. Ecco perché la bellezza deve essere altra rispetto a tutti i sogni e i desideri possibili di armonia:  senza passare attraverso la sua negazione – che è lo scandaloso spettacolo del male che copre la terra – nessuna bellezza potrà salvarsi e salvare.
Ed ecco che è proprio l’avvicinarsi della fine che rivela la bellezza nascosta:  il tempo rimanda all’eternità proprio perché passa con tanta, inesorabile fugacità. Solo la morte conferisce all’attimo la profondità di una totalità e di un’eternità raggiunte:  solo se ci si approssima al nulla del morire si percepisce la meraviglia del tempo, la gioia della vita.
Anche la bellezza si offre allora nel segno dell’ambiguità, sulla frontiera fra l’essere e il nulla, carica di un’aura tragica:  “La bellezza – dice Dmitrij Karamazov – è una cosa terribile e paurosa, perché è indefinibile, e definirla non si può, perché Dio non ci ha dato che enigmi. Qui le due rive si uniscono, qui tutte le contraddizioni coesistono (…)
La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini”. Solo alla fine la bellezza si manifesterà vittoriosa:  “Quando sarà passato il presente e sarà venuto il futuro, allora il futuro artista troverà forme bellissime anche per la rappresentazione del trascorso disordine e caos”.
Nel presente resta aperto verso la bellezza l’approccio della conversione del cuore, del “dono delle lacrime”, di cui parla lo starec Zosima:  “La natura è bella e innocente, solo noi siamo empi e sciocchi, e non vediamo che la vita è un paradiso! Perché basterebbe che noi volessimo capire, e subito avremmo il paradiso in tutta la sua bellezza, e allora ci abbracceremmo piangendo”.
Il piano del vero si congiunge così a quello del bene, e questo alla ricerca della bellezza. Se è la decisione di fede che apre alla singolarità del vero, rivelata nel Dio crocifisso, la via della verità si incontra con quella della decisione morale; e se è la conversione del cuore che apre al riconoscimento della bellezza che salva, la via estetica si congiunge a quella etica.
La rilevanza della dimensione morale emerge in primo piano:  in realtà è proprio in essa che si gioca più intensamente il conflitto fra nichilismo e redenzione. Ed è qui che si rivela il livello più profondo della tragicità dell’esistenza umana, quello che maggiormente è in gioco nell’eticità dell’atto:  il livello della libertà.
In questo senso, la Leggenda del grande inquisitore è il grande apologo dell’eterno conflitto che rende tragica la vita umana:  il conflitto fra l’audacia della libertà e la tentazione rassicurante della rinuncia a essa. Il cardinale inquisitore di cui narra la Leggenda è la figura di chi ha sacrificato la libertà alla felicità; il Cristo, che gli sta davanti come imputato, è invece il paladino della libertà a prezzo anche della felicità.
Il conflitto fra i due è insanabile:  essi rappresentano l’alternativa radicale che si annida nel cuore di ogni uomo. Fra le due opzioni non c’è via di mezzo, soluzione conciliatoria:  l’aut aut è senza remissione, totale. Ecco perché è in ultima analisi nel mistero del Dio crocifisso che la profonda tragicità dell’esistenza umana è rivelata e redenta:  se Dio ha fatto sua la morte, pagando fino in fondo il prezzo della libertà, la via della croce resterà per sempre su questa terra la via della libertà. E, proprio perché l’amaro calice è stato bevuto fino all’ultima goccia dal Figlio eterno, sarà questa anche la via che porterà alla vita.
Della tragicità dell’esistenza sfidata dal male è consapevole anche un genio speculativo come Immanuel Kant. Nel rigore della sua onestà intellettuale egli non esita a riconoscere le aporie della ragione:  idee, ad esempio, come quelle di Dio e della vita futura, non suscettibili di dimostrazione per via speculativa, costituiscono per lui presupposti inseparabili degli obblighi morali che la ragione ci impone.
Ciò che viene a mostrarsi nell’opera sulla religione entro i limiti della semplice ragione è però tutt’altro che la constatazione pacifica del limite della ragione, quanto piuttosto il quadro di una lotta, il disegno di quelle che potrebbero definirsi le “agonie della ragione” lungo il cammino della libertà:  “La lotta che in questa vita ogni uomo moralmente predisposto al bene deve sostenere, sotto la guida del principio buono, contro gli assalti del principio cattivo, non può procurargli, per quanto si sforzi, un vantaggio maggiore della liberazione dal dominio del principio cattivo. Il guadagno più alto che egli può raggiungere è quello di diventare libero, “di essere liberato dalla schiavitù del peccato per vivere nella giustizia” (Romani, 6, 17).
Nondimeno, l’uomo resta pur sempre esposto agli attacchi del principio cattivo, e per conservare la propria libertà, costantemente minacciata, è necessario che egli resti sempre armato e pronto alla lotta”.
In questo quadro, “quello che meraviglia non è che il filosofo prenda in generale in seria considerazione il male (…) bensì il fatto che egli parli di un principio malvagio, e dunque di una origine del male nella ragione e in questo senso di un male radicale”. “Radicale” è tale male “perché corrompe il fondamento di tutte le massime e a un tempo perché, essendo una tendenza naturale, non può essere sradicato da forze umane”.
Il fondamento del male radicale è presentato da Kant come in qualche modo intrecciato con l’umanità stessa e, per così dire, radicato in essa. Al tempo stesso Kant muove dalla considerazione che non può darsi male morale senza libertà:  il fondamento del male, allora, “dev’essere necessariamente un atto di libertà”.
Ciò che emerge è una vera e propria aporia:  come può la libertà essere al tempo stesso la fonte della moralità e il luogo e principio della sua negazione? È giocoforza cercare la causa altrove, fuori del soggetto. Lo ammette lo stesso Kant:  “Risulta facile capire come dei filosofi, poco inclini ad ammettere un principio esplicativo eternamente avvolto nell’oscurità (ma indispensabile), abbiano potuto misconoscere il vero avversario del bene, pur credendo di combatterlo”.
Quest’avversario  il  pensatore  di Königsberg non esita a chiamarlo Spirito maligno (böser Geist), ricorrendo per descriverlo alle parole dell’apostolo Paolo lì dove egli presenta la condizione umana come lotta contro i principati e le potestà. A presentare il principe di questo mondo, il Satana, quale coprotagonista del dramma del male, è dunque il razionalissimo Kant.
Lontano da ogni spirito illuministico accecato, il filosofo descrive con rara efficacia la tragicità della condizione umana facendo ricorso a Paolo:  “La fragilità della natura umana ha trovato espressione anche nel lamento dell’apostolo:  “Io ho senz’altro la volontà, ma mi manca l’esecuzione” (cfr. Romani,in thesi), è un movente invincibile – soggettivamente (in hypothesi), quando la massima dev’essere applicata, è invece il movente più debole (nei confronti dell’inclinazione)”. 7, 18); vale a dire:  io accolgo il bene (la legge) nella massima del mio arbitrio, ma questo bene – che oggettivamente, nell’idea (
Le sorprese, però, non finiscono qui:  l’alterità irriducibile e inspiegabile che si affaccia nel volto conturbante del male radicale, proprio a partire da questa esperienza si affaccia anche in un altro volto, quello della grazia del Dio onnipotente e misericordioso. La domanda che porta Kant a riconoscere quest’altra forma dell’esperienza dell’Altro è l’antica domanda della salvezza, che nasce dalla conoscenza del male:  come essere liberati dal principio maligno?
La risposta del filosofo si muove all’interno della tradizione teologica cristiana:  “Se in virtù di quel bene che è nella fede siamo esonerati da ogni responsabilità, ciò avviene sempre e soltanto per un decreto di grazia pienamente conforme alla giustizia eterna”. La formulazione che Kant dà all’idea della giustificazione per fede giunge a identificarsi alla lettera con quella della più pura ortodossia luterana:  “Certo, si tratterà pur sempre di una giustizia che non è la nostra”.
Non mancano, però, passi in cui la sintonia con la teologia cattolica della giustificazione sembra evidente:  “La ragione non ci lascia del tutto senza consolazione. Essa ci dice infatti che l’uomo che, animato da una sincera intenzione verso il dovere, fa tutto il possibile per adempiere ai propri obblighi (…) può lecitamente sperare che quanto non è in suo potere verrà in qualche modo completato dalla saggezza suprema”. Lo stesso Barth, riscontrando l’ambivalenza delle posizioni, conclude che Kant risulta più vicino all’anima cattolica, che a quella protestante del cristianesimo.
Al di là dell’interesse teologico che queste tesi comportano, ciò che le rende significative è che esse fanno proprio dell’etica senza trascendenza di Kant la testimonianza dell’impossibilità di una simile etica:  mai si affronterà il male e lo si potrà superare senza la presenza dell’Altro, trascendente e sovrano! Negli abissi della stessa forma “a priori” della moralità – il mondo dell’arbitrio libero e della legge morale – è innegabile la presenza conturbante di un’alterità negativa, cui Kant riconosce la dignità di “princi”.
Proprio l’esperienza e il riconoscimento di questo “male radicale” appellano a un più grande bene, che non può esser frutto solo della carne e del sangue, ma viene da altrove. Le kantiane “agonie della ragione” sono così una sorta di prova sub contraria specie della necessità ineliminabile della trascendenza per la vittoria sul male in questo mondo. Il “razionalista puro” in campo etico-religioso riconosce nelle “agonie della ragione” le sorprendenti, ineliminabili e inquietanti “tracce dell’Altro”. Dal male solo Dio ci può salvare:  non un qualunque Dio, ma quello che ha abitato nella nostra condizione tragica, e l’ha fatta sua, per vincerla al posto nostro e per noi. Il Dio della carità infinita:  il Dio di Gesù Cristo.

(L’Osservatore Romano – 29 gennaio 2009)

Publié dans:Bruno Forte |on 30 juillet, 2010 |Pas de commentaires »

Bruno Forte: Il Cantico dei cantici: La più bella canzone d’Amore

dal sito:

http://www.fidae.it/AreaLibera/AreeTematiche/Educazioni/sessuale/B_Forte_Il_Cantico_dei_cantici.pdf

Il Cantico dei cantici: La più bella canzone d’Amore

Bruno Forte

Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei Cantici è stato donato a Israele» (Rabbi Aqiba, citato in Mishnah Jadajim 3,5). Queste parole di uno dei grandi maestri della tradizione ebraica dicono incisivamente quanto il Cantico sia stato considerato e amato da essa. Il testo è una delle «meghillot», uno dei rotoli, cioè, da leggere nella liturgia sinagogale: il fatto che venga proclamato a Pasqua, la festa centrale fra tutte che celebra la liberazione dalla schiavitù d’Egitto e il passaggio del Mar Rosso, testimonia di quale considerazione goda Shir Ha Shirim (questo il nome ebraico: il Cantico dei Cantici, il «Cantico sublime»). Ancora oggi nelle famiglie ebree il sabato è accolto come la sposa del Cantico (in ebraico «shabbat» è femminile).
Il Libro dello splendore o Zohar riconosce nel Cantico l’intera rivelazione di Dio: «Questo cantico comprende tutta la Torah; comprende tutta l’opera della creazione; comprende il mistero dei Padri; comprende l’esilio d’Israele in Egitto e il canto del mare; comprende l’essenza del Decalogo e il patto del monte Sinai e il peregrinare d’Israele nel deserto, fino all’ingresso nella terra promessa e alla costruzione del Tempio; comprende l’incoronazione del santo nome celeste nell’amore e nella gioia; comprende l’esilio d’Israele fra le nazioni e la sua redenzione; comprende la risurrezione dei morti fino al giorno che è il sabato del Signore» (Libro dello splendore. Teruma 144a). Nella tradizione cristiana il Cantico gode di una stima non minore: «Beato chi comprende e canta i cantici della Sacra Scrittura – afferma Origene –, ma ben più beato chi canta e comprende il Cantico dei Cantici» (Omelia sul Cantico l,l: Pg 13,37).
Attraverso l’uso dell’interpretazione allegorica, tutto il Cantico appare come un paradigma del Cristo: così, l’Amato che viene saltando sopra i monti di Ct 2,8 è riconosciuto sin dal primo commento cristiano come «il Verbo, saltato dal cielo fin nel corpo della Vergine, dal sacro ventre sul leg no della Croce, dal legno negli inferi, di là nella carne (della risurrezione)… infine, dalla terra al cielo» (Ippolito di Roma, Commento al Cantico, XXI, 2). Le descrizioni del Cantico vengono interpretate come metafore della vita della Chiesa: «Se tu senti nominare le membra dello sposo, cerca di capire che in realtà sono evocati i membri della Chiesa» (Origene, Commento al Cantico, libro II, su Ct 4). Muovendo dal Cantico sviluppa la sua riflessione sui gradi della «violenta carità» Riccardo di San Vittore, combinando genialmente teologia ed esperienza spirituale per sottolineare come il rapporto d’amore con Dio non lasci nessuno come lo ha trovato, ma al contrario segni in modo indelebile la sua anima: «Grande è la forza dell’amore, meravigliosa la potenza della carità» (I quattro gradi della violenta carità, 2).
Al Cantico si ispira la mistica cristiana, celebrando il rapporto d’amore con Dio: basti pensare ai versi di San Giovanni della Croce: «In una notte oscura / con ansie di amor tutta infiammata, / o felice ventura!, / uscii, né fui notata, / stando già la mia casa addormentata. / … / Notte che mi guidasti! /oh, notte amabile più che l’aurora / oh, notte che hai congiunto / l’Amato con l’amata / l’amata nell’Amato trasformata» (San Giovanni della Croce, Noche oscura, Strofe l e 5). Eloquente e ispirativo nelle più diverse stagioni della tradizione ebraico-cristiana, il Cantico continua a parlare anche oggi: «Questo – afferma Guido Ceronetti – è un Cantico di oggi, per il presente, per servirgli restando quel che è, un punto lontano» (Il Cantico dei Cantici, Adelphi, Milano 1975. 2005, 114). E aggiunge: «Colpisce la somiglianza delle sue parole coi gradi più alti del silenzio; è una musica cessata in
ogni suo suono, che affiora come pura memoria» (115). La forza evocativa per ogni uomo, per ogni tempo, di queste poche parole (1250: 117 versetti), continua a essere riconosciuta: «Per esprimere l’Assoluto in una visione umana è bastato questo arco brev e» (115).
Non si può non chiedersi come un’opera storicamente datata, probabilmente del tardo post-esilio (IV-III secolo a.C.), abbia potuto esercitare una tale influenza sull’anima ebraico-cristiana e in generale sulla storia culturale e religiosa dell’umanità. La ragione di questo fascino esercitato dal Cantico sta plausibilmente nel fatto che esso si muove sulla soglia, in quella sottile striscia di esperienza universalmente umana, dove la morte è eguagliata solo dall’amore. Scrive ancora Ceronetti: «Forse perché sei la sera, la morte velata – Cantico, sacro Cantico – di Te ho paura» (128). Proprio così il Cantico è poesia: «Senza poesia non si può vivere e tanto meno amare. Grazie a Dio c’è poesia nella Bibbia» (D. Garrone, Introduzione al Cantico dei Cantici, traduzione di G. Bemporad, Morcelliana, Brescia 2006, 30).
Il Cantico è amore portato alla parola, non risolto in essa: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore» (4,9). Il Cantico è la prova di come sia l’amore a spingere a parlare dell’amore: «Urget caritas de caritate loqui» (Riccardo di San Vittore, I quattro gradi della violenta carità, l). Si può capire il Cantico, allora, solo se si è inquietati dall’amore, feriti da esso, attratti, animati o motivati dall’esperienza di amare. Per la comprensione del Cantico vale la legge dell’amore: «Amor che a null’amato amar perdona» (Dante, Inferno, V, 103). Solo l’amore capisce l’amore: solo l’amore introduce nel santuario del Cantico e ne rivela le profondità abissali.
È l’amore il tema del Cantico: si comprende, perciò, come proprio questo piccolo libro stia al centro di quella narrazione della storia dell’amore fra Dio e le Sue creature, che è la Bibbia. «Il Primo Testamento inizia con il grido esultante dell’uomo di fronte alla donna: « Questa, sì, è carne della mia carne, osso delle mie ossa » (Gen 2,23). Il Nuovo termina con il grido d’amore della sposa per lo sposo divino: « Lo Spirito e la sposa dicono: Vieni! » (Ap 22,17). In mezzo alla Bibbia, Primo e Nuovo Testamento, vi è il Cantico dei Cantici, il libro dell’amore, il cuore della Bibbia» (Cantico dei Cantici, nuova versione, introduzione e commento di G. Barbiero, Paoline, Milano 2004, 8). In quanto libro dell’amore, il Cantico è anche l’unico libro biblico a essere composto dall’inizio alla fine in forma di dialogo: «Il fatto stesso del dialogo è significativo, perché indica, nella prossimità, anche la distanza dei due amanti, come è tipico del vero amore» (ib., 420). Ma di quale amore si tratta? È amore umano, solo umano, quello di cui parla il Cantico? O è anche amore divino? Il verbo ’ahev = «amare» è un termine chiave in Shir Ha Shirim, tanto che esso e i suoi derivati vi ricorrono ben diciotto volte: ’ahavah = «amore» corrisponde ai tre termini greci eros, philìa e agàpe, ed esprime nella Bibbia ebraica sia l’amore per Dio (cfr. Dt 6,5), sia l’amore di amicizia (1 Sam 18,1: Davide e Gionata), sia l’amore di un uomo per una donna (Gdc 16,4: Sansone per Dalila). Si tratta di un unico amore che intreccia le varie possibilità: in tutte è però presente l’Eterno, come sottolineano i maestri ebrei mostrando come la parola ’ahavah abbia due lettere in comune col nome divino impronunciabile, significato dal Tetragramma sacro (Jhwh).
L’identità di posizione delle he all’interno dei due termini viene interpretata come l’espressione di un rapporto mistico fra la coppia umana e il Creatore, in forza del quale l’uomo e la donna nella loro relazione d’amore rendono presente il Nome divino fra gli uomini. In ogni esperienza veramente umana di amore si fa esperienza di Dio: questo è il senso che al Cantico dà la professione di fede di 8,6: «Forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore!». «Come la morte l’amore chiede tutto. Amare vuol dire perdere la propria libertà e la propria vita, non appartenere più a se stessi… Bisogna perdersi per ritrovarsi» (i b., 427: cfr. Le 9,24).
A questa esperienza della totale esigitività dell’amore corrisponde la convinzione che la fede d’Israele non può essere che riconoscimento della totale appartenenza al Dio unico (cfr. Dt 6,4). Questa ricchezza di sensi del tema «amore» fa comprendere come del libro dell’amore che è il Cantico siano state date le più diverse interpretazioni: esse vanno dalla lettura voluttuosa, che ne esalta il senso erotico, a quella virtuosa, che vi coglie la parabola dell’amore indissolubile, da quella sapienziale, che vi legge la ricerca e l’amore della Sapienza, a quella mistica, che vi riconosce il canto dell’unione fra l’anima e Dio. C’è chi ha dato del Cantico un’esclusiva interpretazione simbolica e chi lo ha letto solo in senso letterale,
come canto di amore o collezione di canti nuziali. Una foresta di simboli pervade comunque l’intero testo: l’Amato, l’amore, il corpo, il giardino, il creato, la società… Il «filo rosso» in questa selva di sensi è rappresentato dal tema della ricerca amorosa, con l’accentuazione della presenza gustata dopo l’amarezza dell’assenza, dell’aurora accolta dopo la notte, dell’oblio di sé vissuto come condizione per trovare l’Altro.
Un indizio importante per cogliere nel Cantico la pluralità di sensi riferiti all’amore è il termine Dodî = «amato mio»: esso contiene le lettere del nome David. Già così, rimanda contemporaneamente al singolo innamorato di Dio, di cui Davide, il cantore dei salmi, è figura, e al popolo messianico, costitutivamente legato alla discendenza davidica. In quanto poi il termine ricorre ventisei volte nel Cantico, e ventisei è un numero sacro per la ghematria ebraica perché è il valore numerale del tetragramma Jhwh, è possibile riconoscervi anche il riferimento all’Amato divino.
L’amore del Cantico è allora al tempo stesso quello dell’amato per l’amata, quello di Dio per il Suo popolo e del popolo per Dio, e infine quello del singolo credente per il Signore. Che l’amore in tutta la ricchez za del suo significato sia il tema dominante del Cantico è mostrato anche dal fatto che il testo si preoccupa di presentare sin dall’inizio i due protagonisti come l’amata e l’amato. È interessante notare che a pronunciare il maggior numero di parole nel Cantico sia la donna (una sessantina di versetti), mentre all’uomo ne sono riservate poco più della metà (trentasei versetti). È questo un implicito riconoscimento dell’inclinazione che la donna ha verso la sapienza dell’amore, non solo nel senso della capacità oblativa che dimostra, ma anche della disponibilità a intuire, presentire ed evocare la presenza dell’Amato. Quest’attitudine alla percezione e alla comunicazione dell’amore è intesa dalla tradizione ebraica come risultante naturale dell’essere la donna sorgente della vita: se vivere veramente è amare, colei che nella casa accende la candela del sabato per introdurre la famiglia intera nella vita nuova del riposo divino, la donna, è anche quella che in generale saprà meglio accendere e alimentare la fiamma dell’amore.
A prendere la parola per prima è lei, l’amata, e lo fa per parlare di lui: «I tuoi amori sono più buoni del vino. Per fragranza sono belli i tuoi profumi. Profumo che si spande è il tuo nome, per questo le giovinette ti amarono» (1,2s). Per quanto letterale, la traduzione non rende la musicalità di queste bellissime parole d’amore: essa gioca sull’assonanza fra il termine shem, che vuol dire «nome», e il termine shemen, che significa «profumo». Il solo nome dell’amato riempie l’aria di profumo, che incanta lei, come incantò altre. Nel versetto seguente all’olfatto si unisce il gusto: «Ricorderemo i tuoi amori più del vino» (v. 4: cfr. v. 2). È come se il ricordo dell’amato abbia un sapore, forte come quello del vino. Tutti i sensi sono convocati per descrivere l’attrazione che lui esercita su tutto l’essere di lei, passando attraverso l’udito, la visione, il tatto: «Attirami dietro a te, corriamo!» (v. 4). Così lei si mette alla ricerca di lui , abbandonando la vigna sicura dei suoi fratelli per cercare lui nel rischio e nell’insicurezza (v. 6). E la ragione di questa scelta è che lui è l’amore dell’anima sua (v. 7).
Interviene quindi lui a parlare di lei, «bella fra le donne» (v. 8), e ne descrive le guance, il collo, il portamento regale (vv. 9s), rivolgendole un invito pieno di suggestione, perché pervaso dalla memoria sacra di tutto Israele: «Escitene sulle orme del gregge» (v. 8). È il verbo dell’Esodo jasa: l’invito è a mettersi in atteggiamento di esodo, ad abbandonare le proprie sicurezze per affrontare il nuovo. Come fu per Abramo (Gen 12,1), così per l’amata l’invito è a lasciare ogni sicurezza per andare verso la terra promessa dell’amore. Lontani fisicamente, i due sono vicini nell’anima, e il mondo intero sembra invitarli a realizzare il loro desiderio di incontrarsi: è il senso delle stupende parole dell’amato:
Alzati, amica mia, mia bella, e vieni! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro (2,10-14).
Fra i due protagonisti si crea così il ponte dell’amore, che non tollera alcuna lontananza e sfida ogni separazione, perché l’amore è reciproca appartenenza, anche quando si vive la ferita del non essere insieme. È il senso della formula usata da lei in 2,16: «Dodî lî-wa’anî lô – il mio amato a me e io a lui». L’espressione dice il totale appartenersi degli amanti nell’amore: si tratta di un’appartenenza caratterizzata dalla reciprocità, che esclude ogni prevaricazione dell’uno sull’altro, come mostra il fatto che in 6,3 la s tessa formula è presentata nell’ordine inverso: «lo sono del mio amato e lui è mio». L’amore è insomma esodo da sé di ciascuno dei due per essere dell’altro. Questa trama complessa di legami d’amore non è presentata mai staticamente nel Cantico, ma evocata nelle forme proprie dei dinamismi dell’amore: l’amore è cammino che si apre al cuore e alla vita, e perciò non può non vivere di tappe e di gradi: «Grande è la forza dell’amore, meravigliosa la potenza della carità. Molti sono i gradi dell’amore e fra essi grande è la differenza» (Riccardo di San Vittore, I quattro gradi della violenta carità, 2).
Questi gradi o tappe caratterizzano il rapporto dell’Amato e dell’Amata, fatto di ricerca, di incontro, di nuova ricerca fino al definitivo reciproco possesso: «La fusione delle due persone rende il dialogo impossibile, mentre dei due amanti del Cantico è caratteristica la parola», e dunque la reciproca ricerca (Cantico dei Cantici, nuova versione, introduzione e commento di G. Barbiero, Paoline, o.c., 420). Appunto per durare l’amore ha bisogno di distanza, di incontro, di nuova distanza, di nuovo incontro. Si profilano così i gradi dell’amore nel Cantico, corrispondenti alle tappe in cui il dialogo fra i due si svolge, fra lontananza e prossimità. Sono gradi, riferibili sia all’amore umano, che al rapporto con Dio. Il primo grado è quello dell’amore che cerca. In esso a dominare sono il desiderio e la ricerca, e l’altro è percepito come l’assente Presenza. Proprio così i due si profilano in questa tappa come mendicanti d’amore, cercatori ardenti dell’amato altro. Il secondo grado dell’amore è quello del tocco dell’amore, dell’amore, cioè, che trova e nuovamente perde la persona amata.
Ad aver rilievo è qui il «bacio mortale», ovvero l’incontro con l’Amato, che sembra uccidere e dà la vita, perché, mentre tutto assorbe, tutto dona. Il movimento della relazione fra i due è quello dell’abbandono di sé nell’Altro: si delinea qui la grande legge dell’amore, quel morire per vivere, che mostra come vita e morte stiano nell’esperienza d’amare in fatale duello, che però, quando l’amore c’è, è a favore della vita. Infine, la terza tappa è quella dell’amore vittorioso. Vi emerge il contesto del giardino fiorito, dove i due non sono più due, ma Uno, e il ritrovarsi di ciascuno nell’altro è pegno e caparra della vittoria sulla morte, che è la vita senza fine dell’amore.

Publié dans:biblica, Bruno Forte, Teologia |on 13 juin, 2010 |Pas de commentaires »

Bruno Forte: Tempo, splendore di Dio

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_forte1.htm

TEMPO, SPLENDORE DI DIO  

Per il cristianesimo i giorni dell’esistenza diventano
luogo della creazione continua

Bruno Forte

Il Sole-24 Ore Domenica 19 Maggio 2002

Che il tempo sia il riflesso privilegiato della Gloria divina sulle creature è convinzione profonda della Bibbia: « È nella dimensione del tempo che l’uomo incontra Dio e diventa cosciente che ogni istante è un atto di creazione, un Inizio, che schiude nuove vie per le realizzazioni ultime. Il tempo è la presenza di Dio nello spazio, ed è nel tempo che noi possiamo sentire l’unità di tutti gli esseri ». Il tempo è la perenne novità del dono che l’Eterno fa alla creatura dell’esistenza, dell’energia e della vita, l’atto della continua creazione, l’eternità che si proietta nello spazio: esso è la partecipazione allo spazio creato del dinamismo dell’amore eterno, l’inserzione dell’esteriorità del mondo nell’interiorità di Dio, l’atto sempre nuovo per il quale ciò che è avvenuto nel primo mattino degli esseri si compie ed è accolto in ogni istante del loro esistere.

È Agostino che ha avuto l’intuizione grandiosa del tempo come dimensione dell’interiorità, in cui si riflette il movimento dell’amore eterno: solo il presente esiste, riflesso fugace dell’eternità, attimo sempre nuovo in cui il futuro trapassa nel passato, l’uno e l’altro trattenuti nel presente nella forma rispettivamente della memoria e dell’attesa. Fra provenienza e avvenire, il tempo è avvento sempre nuovo, istante in cui si riflette l’eternità come origine e come patria della fugacità fragile del divenire delle creature. Se lo spazio rinvia alla kènosi del Dio vivente, perché si offre come l’esterioritàdel creato davanti al Suo amore umile, il tempo rinvia insomma allo splendore della Trinità, perché rivela la nascosta profondità di tutto ciò che esiste come partecipazione al dinamismo di provenienza, di venuta e di avvenire della vita divina. La creazione, proprio perché è creazione del tempo e non nel tempo, non basta a se stessa: essa dimora in Dio, mistero del mondo, ed è chiamata a divenire sempre più la dimora di Dio, fino all’ottavo giorno, la Domenica senza tramonto, in cui Lui sarà tutto in tutti (cf. 1 Cor 15, 28).

Se lo spazio rimanda alla « terra » nella sua autonomia e nella sua pesantezza dinanzi al Creatore, il tempo rimanda allora al « cielo », come origine, grembo e destino del mondo, come dimensione ineliminabile dell’ineriorità e della profondità della vita creata. Terra e cielo sono metafore dell’esteriorità e dell’interiorità del creato, e perciò dello spazio e del tempo nella loro distinzione e nel loro indissolubile rapporto. Ed è per questo che solo il tempo vivifica lo spazio, pervadendolo col « gemito della creazione » che tende a superarne la costitutiva caducità, liberandolo dalla schiavitù della corruzione per la via dell’interiorità aperta al mistero del Creatore, che conduce alla libertà della gloria dei figli di Dio (cf. Rom 8, 18ss). Il problema, allora, non è fuggire le forme dello spazio, ma redimerle dal di dentro vivendo la profondità della vita nel tempo, santificando il tempo con la nostalgia e l’attesa dell’eternità. Non è il tempo quantificato che darà l’anima al mondo, e cioè il mero succedersi cronologico degli istanti legati allo spazio (chronos), ma il tempo qualificato, l’ora della decisione e dell’accoglienza della grazia (kairos), che trasforma l’esteriorità dello spazio in interiorità della vita, l’istante cronologico del tempo « pesante », misurato spazialmente, nel tempo lieve della salvezza, « oggi » dell’eternità: « Ecco ora il momentofavorevole, ecco ora il giorno della salvezza! »(2 Cor 6, 2).

È questo tempo « lieve » della decisione interiore a qualificare il giorno che passa con lo spessore dell’eternità: esso fa uno con l’amore, amore della verità eterna, coscienza di un destino che vince il dolore e la morte. È il tempo come memoria e come attesa, di cui dà testimonianza altissima l’imperativo « non dimenticare », caro alla tradizione ebraica: è il tempo come grazia e come dono, cui solo può corrispondere la grata letizia del cuore. È il tempo dell’uomo interiore: tempo delle emozioni, tempo della passione e del desiderio, dell’amore e della nostalgia, della sofferenza e della tenerezza.

Conoscere questo tempo destinandosi all’altro nella responsabilità liberamente assunta è per la tradizione ebraico-cristiana la forma meno imperfetta per conoscere Dio in questo mondo: anticipo d’eterno, questo gusto del Sabato atteso e promesso o della Domenica senza tramonto pervade l’esperienza di chi vuol farsi ostaggio dell’eternità nell’inesorabile svolgersi del tempo. In questo senso, la vita della fede, vissuta come sete dell’eterno nella fedeltà a ogni istante del tempo, è testimonianza d’un tempo lieve, d’una leggerezza gravida della futura, nascosta bellezza di Dio. È il tempo di chi vive i giorni feriali col cuore della festa, e fa dell’attimo donato anticipo d’eterno. È il tempo della santità, del separarsi per destinarsi all’altro da sé, all’amore più grande che vince la caducità e la morte: non a caso, nell’opra dei sei giorni, l’unica cui è attribuito la qualificazione della santità è il Sabato (cf. Gen 2, 3). Nello spazio del giardino delle origini, la santità è legata al tempo: nello spazio del mondo decaduto sarà perciò ancora il tempo a essere la forma della santità, dove la decisione per l’eterno qualifica l’istante e lo voge dalla caducità della morte alla promessa della vita.

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Mons. Forte: la solitudine del prete è presenza di Dio

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22451?l=italian

Mons. Forte: la solitudine del prete è presenza di Dio

ROMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lettera “Ai carissimi sacerdoti giovani dell’Arcidiocesi” di mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto.

* * *

Carissimi giovani Sacerdoti,

in preparazione a questo incontro con Voi ho provato a pensare ad alcune delle sfide che nella nostra vita di presbiteri prima o poi inevitabilmente si presentano. L’elenco è solo indicativo, e pesca nella memoria del vissuto personale e collettivo. Ve lo presento con l’unica intenzione di capire che cosa significhi per ognuna di queste situazioni esistenziali la parola di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-30).

La prima sfida che mi viene in mente è la solitudine del prete: in verità, essa è messa in conto sin dal primo momento della nostra chiamata ed ha un sapore anzitutto bello e positivo. Solitudine per noi che abbiamo incontrato Gesù non è tanto assenza degli uomini, quanto presenza di Dio: un essere rapiti dalla luce del Suo Volto, pur sempre cercato, un desiderio di stare con Lui e di lasciarci lavorare da Lui. C’è però anche una solitudine amara: l’avverti quando ti sembra che nessuno ti comprenda veramente o sia capace di un minimo di gratitudine per quello che sei e che fai. È la solitudine che ti fanno sentire i pregiudizi di alcuni, la malevolenza di altri – a volte anche nel nostro mondo ecclesiastico -, l’atteggiamento di chi sembra rimproverarti come egoistica la scelta di non avere accanto una moglie o dei figli secondo la carne. A volte tutto questo ti pesa, altre volte ti appare un prezzo necessario da pagare a una forma di vita certamente “controcorrente”. Ricorda sempre però che la tua solitudine è abitata da Gesù: Lui, che l’ha vissuta, ci dice “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. Regalare a Lui l’esperienza della solitudine amara e di quella ricca di pace, lasciare che sia Lui ad abitarle entrambe per farne tempo di grazia: è questo il modo più vero per camminare nella solitudine e viverla come condizione di grazia e di autentica generosità e libertà. Non sarai mai solo, se riconosci Gesù accanto a te!

Una seconda sfida che mi viene in mente è il senso di scoraggiamento e di frustrazione che a volte ci prende di fronte agli scarsi risultati, se non addirittura ai fallimenti del nostro ministero. Ci sono momenti in cui ti sembra di battere l’aria, di affaticarti invano: in quei momenti la stanchezza e il peso degli altri ti appaiono troppo grandi. Quante speranze e desideri incompiuti! Quante attese di bene cadute nel vuoto! Eppure Gesù ci dice: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. Dobbiamo riposarci in Lui: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’” (Mc 6,31). A volte occorre anche un po’ di sano riposo fisico: ma solo nell’amicizia con Gesù, nella prolungata esperienza della preghiera e dell’ascolto, raggiungiamo la fonte del riposo cui anela il nostro cuore. “Hai fatto il nostro cuore per Te ed è inquieto finché non riposa in Te”, ci assicura Agostino parlando a partire dalla propria esperienza. Confida nel Signore, spera in Lui e le forze e l’entusiasmo torneranno: “Quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi” (Is 40,31). Non dimenticare, poi, che i frutti del tuo ministero li conosce solo Dio e a volte ti dà di scoprirne i segni al di là di ogni tuo calcolo e attesa!

Una terza sfida nella vita del prete è il rapporto con quelli che gli sono affidati: a volte, possiamo dirlo con veracità e umiltà, alcune persone sono proprio insopportabili. C’è chi ci tratta come funzionari del sacro da cui pretendere la disponibilità cieca del burocrate (ammesso che esista!); c’è chi vorrebbe arruolarci nel proprio mondo familiare o affettivo come possesso di cui disporre al momento opportuno; c’è chi ci assale col suo bisogno, rimproverandoci come colpa l’eventuale nostra impossibilità a soddisfare quello che ci viene chiesto. Qui è importante imparare a guardare sempre e solo la nostra gente come quella che Dio ci ha affidato: a guardarla cioè con occhi di amore, con lo sguardo di un padre che ama i propri figli a prescindere dai loro meriti o dalla loro effettiva amabilità. Occorre ricorrere a Lui, Gesù, al Suo esempio, al Suo aiuto: “Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde… Io sono il buon pastore… e do la mia vita per le pecore” (Gv 10,11-15). Non dobbiamo sottrarci alla fatica di chi ci chiede aiuto per portare il suo peso. Se accoglieremo tutti con un cuore disponibile e generoso, un Altro aiuterà noi: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”. Il giogo di chi ci è affidato è il giogo di Gesù: prenderlo su di noi ci fa sperimentare il ristoro e la dolcezza che Lui ci ha promesso!

C’è poi la sfida della comunione col vescovo e con il presbiterio: al vescovo abbiamo promesso fiducia e obbedienza, e questo a prescindere da chi sia o come sia colui che il Signore ci ha dato come pastore. Soprattutto, però, anche il vescovo ha bisogno dell’amore dei suoi sacerdoti, senza cui non potrebbe fare quasi nulla per la crescita del suo popolo nella fede e nell’amore di Dio e degli altri. Da vescovo sto imparando sempre di più a esercitare la carità paterna, a non giudicare, a cercare di comprendere, a valorizzare il bene che c’è in ognuno, specie in ciascuno dei miei preti. Anche voi aiutatemi ad aiutarvi! Pregate per me e cercate di comprendermi e sostenermi, come io desidero fare con voi. Prego tanto per voi, fedelmente, con tutto il mio cuore. Vi chiedo di volervi bene come Gesù ci ha chiesto: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12). “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (13,35). Abbiate a cuore il bene gli uni degli altri. Siate fedeli ai nostri appuntamenti, cercando di viverli come ore di grazia, con spirito di profondo ascolto e partecipazione assidua e attiva. Amiamo i sacerdoti più anziani, riconoscendo in loro tutto il bene della loro vita spesa per il Vangelo. Liberiamoci da ambizioni, confronti, gelosie e piccole invidie. Gesù ce lo chiede come lo aveva chiesto ai suoi: “Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato” (Mt 23,11s). Chiediamo di essere così a Lui, che ci dona di vivere con semplicità quello che ci chiede: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”.

Infine, vorrei dirvi una parola sulla sfida rappresentata dal rapporto con la famiglia, le amicizie e gli affetti: ci sono tanti esempi belli di relazioni umane autentiche del sacerdote con i suoi cari e con i suoi amici; ci sono parimenti rischi e atteggiamenti sbagliati. Fra questi la freddezza di alcuni preti, che appare a volte perfino disumana e alienante, anche se è spesso solo frutto di timidezza e di una mancanza di amore conosciuta nei tempi dell’infanzia o dell’adolescenza (per inciso vorrei ricordare quanto è importante l’aiuto di una psicologia scevra da precomprensioni per aiutare il prete a essere uomo fra gli uomini, costituito a favore degli uomini!). Altri tendono invece a creare legami oppressivi, sentendosi quasi padroni della fede e dell’affetto di quelli che sono loro affidati. Entrambi questi atteggiamenti sono sbagliati: occorre essere tanto umani ed insieme tanto veri nella nostra appartenenza esclusiva a Gesù. Nessun affetto ci deve separare da Lui: meglio morire, che offendere gravemente l’alleanza con Lui! Anche qui è Gesù che ci viene incontro: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. È Lui che ci ama per primo e ci aiuta ad amare gli altri con verità e libertà se solo ci lasciamo amare da Lui. Diamogli tempo e cuore: adoriamolo con tutto il nostro essere, regalandogli lunghi momenti davanti alla Sua Presenza sacramentale e in ascolto della Sua Parola di vita. Allora, ci sentiremo in pace e nessun surrogato potrà esercitare il suo fascino malizioso sul nostro cuore innamorato di Dio ed abitato da Gesù.

Vi ho esposto questi pensieri con semplicità, dopo averci un po’ pregato. Ora, vorrei che li condividiate con me, lasciando che la ricchezza del nostro essere insieme moltiplichi la luce di grazia che il Signore vuol far risplendere in ciascuno di noi, per sperimentare nel vivo del nostro cuore e del nostro ministero la forza liberante e salutare della promessa che Gesù ha fatto ai discepoli che tanto ama: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-30).

+ Bruno

Padre Arcivescovo

4 Maggio 2010

Publié dans:ANNO SACERDOTALE, Bruno Forte |on 14 mai, 2010 |Pas de commentaires »

Bruno Forte: Confessio Fidei – Narratio amoris

dal sito:

http://www.qumran2.net/ritagli/ritaglio.pax?id=6286

Confessio Fidei – Narratio amoris

(Bruno Forte, Confessare la fede narrando l’Amore)

Una confessione di fede cristiana non è altro che la «sanctae Trinitatis relata narratio» (Concilio XI di Toledo: DS 528): il racconto dell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cui abbiamo creduto sulla parola dei testimoni delle nostre origini, trasmessa nella vivente tradizione ecclesiale («relata narratio»). Chi confessa la fede, parla di Dio raccontando l’Amore, così come si è rivelato nell’evento trinitario di Pasqua:

Credo in Te, Padre,
Dio di Gesù Cristo,
Dio dei nostri Padri e nostro Dio:
Tu, che tanto hai amato il mondo
da non risparmiare
il Tuo Figlio Unigenito
e da consegnarlo per i peccatori,
sei il Dio, che è Amore.
Tu sei il Principio senza principio dell’Amore,
Tu che ami nella pura gratuità,
per la gioia irradiante di amare.
Tu sei l’Amore che eternamente inizia,
la sorgente eterna da cui scaturisce
ogni dono perfetto.
Ti ci hai fatti per Te,
imprimendo in noi la nostalgia del Tuo Amore,
e contagiandoci la Tua carità
per dare pace al nostro cuore inquieto.

Credo in Te, Signore Gesù Cristo,
Figlio eternamente amato,
mandato nel mondo per riconciliare
i peccatori col Padre.
Tu sei la pura accoglienza dell’Amore,
Tu che ami nella gratitudine infinita,
e ci insegni che anche il ricevere è divino,
e il lasciarsi amare non meno divino
che l’amare.
Tu sei la Parola eterna uscita dal Silenzio
nel dialogo senza fine dell’Amore,
l’Amato che tutto riceve e tutto dona.
I giorni della Tua carne,
totalmente vissuti in obbedienza al Padre,
il silenzio di Nazaret, la primavera di Galilea,
il viaggio a Gerusalemme,
la storia della passione,
la vita nuova della Pasqua di Resurrezione,
ci contagiano il grazie dell’amore,
e fanno di noi, nella sequela di Te,
coloro che hanno creduto all’Amore,
e vivono nell’attesa della Tua venuta.

Credo in Te, Spirito Santo,
Signore e datore di vita,
che Ti libravi sulle acque
della prima creazione,
e scendesti sulla Vergine accogliente
e sulle acque della nuova creazione.
Tu sei il vincolo della carità eterna,
l’unità e la pace
dell’Amato e dell’Amante,
nel dialogo eterno dell’Amore.
Tu sei l’estasi e il dono di Dio,
Colui in cui l’amore infinito
si apre nella libertà
per suscitare e contagiare
amore.
La Tua presenza ci fa Chiesa,
popolo della carità,
unità che è segno e profezia
per l’unità del mondo.
Tu ci fai Chiesa della libertà,
aperti al nuovo
e attenti alla meravigliosa varietà
da Te suscitata nell’amore.
Tu sei in noi ardente speranza,
Tu che unisci il tempo e l’eterno,
la Chiesa pellegrina e la Chiesa celeste,
Tu che apri il cuore di Dio
all’accoglienza dei senza Dio,
e il cuore di noi, poveri e peccatori,
al dono dell’Amore, che non conosce tramonto.
In Te ci è data l’acqua della vita,
in Te il pane del cielo,
in Te il perdono dei peccati
in Te ci è anticipata e promessa
la gioia del secolo a venire.

Credo in Te, unico Dio d’Amore,
eterno Amante, eterno Amato,
eterna unità e libertà dell’Amore.
In Te vivo e riposo,
donandoti il mio cuore,
e chiedendoti di nascondermi in Te
e di abitare in me.
Amen!

Publié dans:Bruno Forte, preghiere |on 22 avril, 2010 |Pas de commentaires »

Mons. Bruno Forte: Nessuna indulgenza, ma preghiamo per i carnefici

dal sito:

http://www.zenit.org/article-21878?l=italian

Nessuna indulgenza, ma preghiamo per i carnefici

La riflessione di mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto

ROMA, giovedì, 25 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’articolo a firma di mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, apparso su Il Corriere della Sera del 23 marzo scorso.

* * *

“Che cosa pensa dei casi di pedofilia tra sacerdoti e religiosi venuti alla luce solo in questi ultimi tempi?”. La domanda del giovane liceale era diretta e richiedeva la risposta leale che mi ero impegnato a dare a quelle diverse centinaia di ragazzi iniziando il mio dialogo con loro. Non esitai a rispondere quello di cui sono convinto: che la pedofilia è un fenomeno mostruoso, di assoluta gravità morale, perché ferisce personalità indifese nella maniera più indegna e brutale. Le si possono applicare senza esitazione le parole di Gesù: “Guai a colui a causa del quale avvengono scandali. È meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli” (Luca 17,1-2).

Aggiunsi, però, quanto sia necessario stare attenti a non generalizzare: alcuni casi – in percentuale pochissimi, sebbene anche uno solo basterebbe a suscitare una rivolta morale – non devono far dimenticare l’immensa maggioranza che c’è fra il clero di persone fedeli alla loro vocazione, serie e generose con Dio e con gli altri. Una maggioranza, questa, che ho potuto conoscere in ogni parte del mondo nel mio servizio di teologo e che ora da Vescovo di una Chiesa diocesana riconosco nella fede e nella carità dei preti e dei consacrati, miei collaboratori. Proprio in nome di questa maggioranza silenziosa è giusto che il Papa e i Vescovi insieme con lui siano inflessibili nel condannare questi scandali, nel sostenere in ogni modo le vittime, nel correggere, punire e curare i colpevoli. Il silenzio sarebbe connivenza. L’indulgenza complicità.

Mai, però, bisogna perdere di vista la persona umana da salvare, tanto nella vittima, quanto nel carnefice. La Chiesa crede nella parola del Signore: “La verità vi farà liberi” (Giovanni 8,32), e perciò non solo non ha paura della verità, ma ha fiducia nella sua forza liberante e sanante. D’altra parte, il fatto che su tanti casi di pedofilia che stanno emergendo quelli che più colpiscono i media e l’opinione pubblica siano gli episodi che coinvolgono sacerdoti e consacrati, è un segno eloquente dell’esigenza con cui giustamente si guarda alla Chiesa, del suo dovere di stare in alto, cioè nella grazia e nella fedeltà dell’amore di Dio e del prossimo. Solo a questo prezzo, la sua parola risuonerà libera e liberante e la fiducia che tanti – credenti e non credenti – ripongono negli uomini di Chiesa non sarà tradita.

E il celibato? Alcuni nel chiasso mediatico sviluppatosi intorno allo scandalo pedofilia hanno puntato il dito contro questa legge ecclesiastica, quasi che chiedere ai sacerdoti l’impegno di rimanere celibi per tutta la vita sia una fonte inevitabile di deviazioni. Se così fosse, non si spiegherebbe quella stragrande maggioranza di cui ho parlato: nel suo senso più vero e profondo, il celibato non è una frustrazione imposta, ma una libera risposta d’amore a una vocazione che supera certamente le capacità umane e che tuttavia è possibile vivere con fedeltà se essa viene da Dio ed è continuamente confortata dal Suo aiuto e dalla Sua presenza.

Vissuto fedelmente, nella durata dei giorni e nel sempre nuovo sì della fede al Signore vicino, il celibato è un segno meraviglioso della verità di ciò in cui crede chi crede: che, cioè, Dio non è una proiezione dei nostri desideri, un frutto del nostro bisogno di rassicurazione e di consolazione, ma il Vivente, che ti sovrasta ed insieme ti accompagna, che è infinitamente sopra di te ed insieme è dentro il tuo cuore umile, aperto a Lui. Chi ha esperienza di preghiera sa bene di che cosa sto parlando. Proprio così, il celibato e la verginità consacrata, vissuti con serena convinzione come una risposta alla chiamata e al dono di Dio, sono come una freccia puntata verso il cielo: ci dicono che Dio c’è, che Lui solo basta al nostro cuore inquieto, che Lui è la speranza del mondo e la patria promessa del nostro comune cammino.

Così il Signore ha dato a me e a tanti la grazia di vivere la nostra consacrazione a Lui: e questo, lungi dal farci sentire meno umani, più fragili o vuoti di amore, ci fa sentire una grandissima gioia, lo slancio di donarci e di testimoniare con la vita l’amore che viene dall’alto e che ci fa liberi, la bellezza di Dio che supera ogni bellezza e dà senso alle opere e ai giorni. Dico queste parole con umile fierezza: umilmente, perché tutto in questa esperienza è grazia immeritata; ma con fierezza, perché nessuno va ingannato, soprattutto i giovani, e ad essi la Chiesa può e deve continuare a dire a testa alta non solo che Cristo è la verità e il bene, ma anche che Lui è il pastore bello, e la bellezza del Suo amore crocifisso e risorto è la sola che salverà il mondo. Con buona pace di quanti vorrebbero vedere nella triste e squallida infedeltà di qualche pedofilo, ahimé presente fra le file del clero, la smentita della buona novella, che è il Vangelo dell’amore più grande, speranza per tutti.

Publié dans:Bruno Forte |on 26 mars, 2010 |Pas de commentaires »

Mons. Bruno Forte: Lettera sulla preghiera

dal sito:

http://www.levanto.com/preghiera/lettera_sulla_preghiera.htm

Lettera sulla preghiera

Mi chiedi: perché pregare? Ti rispondo: per vivere.

Sì: per vivere veramente, bisogna pregare. Perché? Perché vivere è amare: una vita senza amore non è vita. È solitudine vuota, è prigione e tristezza. Vive veramente solo chi ama: e ama solo chi si sente amato, raggiunto e trasformato dall’amore. Come la pianta che non fa sbocciare il suo frutto se non è raggiunta dai raggi del sole, così il cuore umano non si schiude alla vita vera e piena se non è toccato dall’amore. Ora, l’amore nasce dall’incontro e vive dell’incontro con l’amore di Dio, il più grande e vero di tutti gli amori possibili, anzi l’amore al di là di ogni nostra definizione e di ogni nostra possibilità. Pregando, ci si lascia amare da Dio e si nasce all’amore, sempre di nuovo. Perciò, chi prega vive, nel tempo e per l’eternità. E chi non prega? Chi non prega è a rischio di morire dentro, perché gli mancherà prima o poi l’aria per respirare, il calore per vivere, la luce per vedere, il nutrimento per crescere e la gioia per dare un senso alla vita.

Mi dici: ma io non so pregare! Mi chiedi: come pregare? Ti rispondo: comincia a dare un po’ del tuo tempo a Dio. All’inizio, l’importante non sarà che questo tempo sia tanto, ma che Tu glielo dia fedelmente. Fissa tu stesso un tempo da dare ogni giorno al Signore, e daglielo fedelmente, ogni giorno, quando senti di farlo e quando non lo senti. Cerca un luogo tranquillo, dove se possibile ci sia qualche segno che richiami la presenza di Dio (una croce, un’icona, la Bibbia, il Tabernacolo con la Presenza eucaristica…). Raccogliti in silenzio: invoca lo Spirito Santo, perché sia Lui a gridare in te « Abbà, Padre! ». Porta a Dio il tuo cuore, anche se è in tumulto: non aver paura di dirGli tutto, non solo le tue difficoltà e il tuo dolore, il tuo peccato e la tua incredulità, ma anche la tua ribellione e la tua protesta, se le senti dentro.

Tutto questo, mettilo nelle mani di Dio: ricorda che Dio è Padre – Madre nell’amore, che tutto accoglie, tutto perdona, tutto illumina, tutto salva. Ascolta il Suo Silenzio: non pretendere di avere subito le risposte. Persevera. Come il profeta Elia, cammina nel deserto verso il monte di Dio: e quando ti sarai avvicinato a Lui, non cercarlo nel vento, nel terremoto o nel fuoco, in segni di forza o di grandezza, ma nella voce del silenzio sottile (cf. 1 Re 19,12). Non pretendere di afferrare Dio, ma lascia che Lui passi nella tua vita e nel tuo cuore, ti tocchi l’anima, e si faccia contemplare da te anche solo di spalle.

Ascolta la voce del Suo Silenzio. Ascolta la Sua Parola di vita: apri la Bibbia, meditala con amore, lascia che la parola di Gesù parli al cuore del tuo cuore; leggi i Salmi, dove troverai espresso tutto ciò che vorresti dire a Dio; ascolta gli apostoli e i profeti; innamorati delle storie dei Patriarchi e del popolo eletto e della chiesa nascente, dove incontrerai l’esperienza della vita vissuta nell’orizzonte dell’alleanza con Dio. E quando avrai ascoltato la Parola di Dio, cammina ancora a lungo nei sentieri del silenzio, lasciando che sia lo Spirito a unirti a Cristo, Parola eterna del Padre. Lascia che sia Dio Padre a plasmarti con tutte e due le Sue mani, il Verbo e lo Spirito Santo.

All’inizio, potrà sembrarti che il tempo per tutto questo sia troppo lungo, che non passi mai: persevera con umiltà, dando a Dio tutto il tempo che riesci a darGli, mai meno, però, di quanto hai stabilito di poterGli dare ogni giorno. Vedrai che di appuntamento in appuntamento la tua fedeltà sarà premiata, e ti accorgerai che piano piano il gusto della preghiera crescerà in te, e quello che all’inizio ti sembrava irraggiungibile, diventerà sempre più facile e bello. Capirai allora che ciò che conta non è avere risposte, ma mettersi a disposizione di Dio: e vedrai che quanto porterai nella preghiera sarà poco a poco trasfigurato.

Così, quando verrai a pregare col cuore in tumulto, se persevererai, ti accorgerai che dopo aver a lungo pregato non avrai trovato risposte alle tue domande, ma le stesse domande si saranno sciolte come neve al sole e nel tuo cuore entrerà una grande pace: la pace di essere nelle mani di Dio e di lasciarti condurre docilmente da Lui, dove Lui ha preparato per te. Allora, il tuo cuore fatto nuovo potrà cantare il cantico nuovo, e il « Magnificat » di Maria uscirà spontaneamente dalla tue labbra e sarà cantato dall’eloquenza silenziosa delle tue opere.

Sappi, tuttavia, che non mancheranno in tutto questo le difficoltà: a volte, non riuscirai a far tacere il chiasso che è intorno a te e in te; a volte sentirai la fatica o perfino il disgusto di metterti a pregare; a volte, la tua sensibilità scalpiterà, e qualunque atto ti sembrerà preferibile allo stare in preghiera davanti a Dio, a tempo « perso ». Sentirai, infine, le tentazioni del Maligno, che cercherà in tutti i modi di separarti dal Signore, allontanandoti dalla preghiera. Non temere: le stesse prove che tu vivi le hanno vissute i santi prima di te, e spesso molto più pesanti delle tue. Tu continua solo ad avere fede. Persevera, resisti e ricorda che l’unica cosa che possiamo veramente dare a Dio è la prova della nostra fedeltà. Con la perseveranza salverai la tua preghiera, e la tua vita.

Verrà l’ora della « notte oscura », in cui tutto ti sembrerà arido e perfino assurdo nelle cose di Dio: non temere. È quella l’ora in cui a lottare con te è Dio stesso: rimuovi da te ogni peccato, con la confessione umile e sincera delle tue colpe e il perdono sacramentale; dona a Dio ancor più del tuo tempo; e lascia che la notte dei sensi e dello spirito diventi per te l’ora della partecipazione alla passione del Signore. A quel punto, sarà Gesù stesso a portare la tua croce e a condurti con sé verso la gioia di Pasqua. Non ti stupirai, allora, di considerare perfino amabile quella notte, perché la vedrai trasformata per te in notte d’amore, inondata dalla gioia della presenza dell’Amato, ripiena del profumo di Cristo, luminosa della luce di Pasqua.

Non avere paura, dunque, delle prove e delle difficoltà nella preghiera: ricorda solo che Dio è fedele e non ti darà mai una prova senza darti la via d’uscita e non ti esporrà mai a una tentazione senza darti la forza per sopportarla e vincerla. Lasciati amare da Dio: come una goccia d’acqua che evapora sotto i raggi del sole e sale in alto e ritorna alla terra come pioggia feconda o rugiada consolatrice, così lascia che tutto il tuo essere sia lavorato da Dio, plasmato dall’amore dei Tre, assorbito in Loro e restituito alla storia come dono fecondo. Lascia che la preghiera faccia crescere in te la libertà da ogni paura, il coraggio e l’audacia dell’amore, la fedeltà alle persone che Dio ti ha affidato e alle situazioni in cui ti ha messo, senza cercare evasioni o consolazioni a buon mercato. Impara, pregando, a vivere la pazienza di attendere i tempi di Dio, che non sono i nostri tempi, ed a seguire le vie di Dio, che tanto spesso non sono le nostre vie.

Un dono particolare che la fedeltà nella preghiera ti darà è l’amore agli altri e il senso della chiesa: più preghi, più sentirai misericordia per tutti, più vorrai aiutare chi soffre, più avrai fame e sete di giustizia per tutti, specie per i più poveri e deboli, più accetterai di farti carico del peccato altrui per completare in te ciò che manca alla passione di Cristo a vantaggio del Suo corpo, la chiesa. Pregando, sentirai come è bello essere nella barca di Pietro, solidale con tutti, docile alla guida dei pastori, sostenuto dalla preghiera di tutti, pronto a servire gli altri con gratuità, senza nulla chiedere in cambio. Pregando sentirai crescere in te la passione per l’unità del corpo di Cristo e di tutta la famiglia umana. La preghiera è la scuola dell’amore, perché è in essa che puoi riconoscerti infinitamente amato e nascere sempre di nuovo alla generosità che prende l’iniziativa del perdono e del dono senza calcolo, al di là di ogni misura di stanchezza.

Pregando, s’impara a pregare, e si gustano i frutti dello Spirito che fanno vera e bella la vita: « amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé » (Gal 5,22). Pregando, si diventa amore, e la vita acquista il senso e la bellezza per cui è stata voluta da Dio. Pregando, si avverte sempre più l’urgenza di portare il Vangelo a tutti, fino agli estremi confini della terra. Pregando, si scoprono gli infiniti doni dell’Amato e si impara sempre di più a rendere grazie a Lui in ogni cosa. Pregando, si vive. Pregando, si ama. Pregando, si loda. E la lode è la gioia e la pace più grande del nostro cuore inquieto, nel tempo e per l’eternità.

Se dovessi, allora, augurarti il dono più bello, se volessi chiederlo per te a Dio, non esiterei a domandarGli il dono della preghiera. Glielo chiedo: e tu non esitare a chiederlo a Dio per me. E per te. La pace del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con te. E tu in loro: perché pregando entrerai nel cuore di Dio, nascosto con Cristo in Lui, avvolto dal Loro amore eterno, fedele e sempre nuovo. Ormai lo sai: chi prega con Gesù e in Lui, chi prega Gesù o il Padre di Gesù o invoca il Suo Spirito, non prega un Dio generico e lontano, ma prega in Dio, nello Spirito, per il Figlio il Padre. E dal Padre, per mezzo di Gesù, nel soffio divino dello Spirito, riceverà ogni dono perfetto, a lui adatto e per lui da sempre preparato e desiderato. Il dono che ci aspetta. Che ti aspetta.

Mons. BRUNO FORTE
Vescovo di Chieti

Publié dans:Bruno Forte, preghiera (sulla) |on 13 mars, 2010 |Pas de commentaires »

Bruno Forte : Giovanni, il contemplativo dell’amore

dal sito:

http://www.zenit.org/article-21533?l=italian

Giovanni, il contemplativo dell’amore

ROMA, sabato, 27 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il Messaggio per la Quaresima di quest’anno di mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto.

* * *

In quest’Anno Sacerdotale, indetto da Papa Benedetto XVI nel centocinquantesimo anniversario della nascita al cielo del Santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney (1786-1859), dedico alla figura dell’Apostolo Giovanni, che la tradizione identifica col “discepolo che Gesù amava”, il messaggio per la Quaresima, tempo forte di preghiera e di riflessione, di conversione e di carità operosa. Vorrei così offrire un piccolo aiuto alla conoscenza e all’imitazione del discepolo dell’amore, modello non solo per tutti i sacerdoti e i consacrati, ma anche per ogni battezzato che voglia prendere sul serio la chiamata alla sequela di Gesù nel sacerdozio battesimale. Che la grazia del Signore renda sempre più luminoso, vero e fecondo il nostro cammino comune nell’imitazione e nella testimonianza di Cristo! Che il Signore doni alla nostra Chiesa numerosi e santi sacerdoti e tanti giovani desiderosi di diventarlo sull’esempio del discepolo amato…

1. Il discepolo dell’amore L’Autore del quarto Vangelo resta avvolto da una grande discrezione: gli ultimi versetti del capitolo 21 lo identificano con il “discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si era trovato al suo fianco e gli aveva domandato: ‘Signore, chi è che ti tradisce?’” (v. 20). Di lui Pietro chiede a Gesù: “Signore, e lui?”. E Gesù gli risponde: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te?” (vv. 21-22). Con questo Gesù non vuol dire che quel discepolo non sarebbe morto (v. 23), ma che è per eccellenza il discepolo dell’attesa, proteso all’incontro con l’Amato andato a prepararci un posto nel seno del Padre. Questo discepolo è evidentemente uno dei tre più intimi del Signore, che sono Pietro, Giacomo e Giovanni. Non è Pietro, in quanto si accompagna a lui (come nella visita al sepolcro al mattino del giorno dopo il sabato: Giovanni 20,2-10); non è Giacomo, fatto uccidere di spada da Erode molto presto, come ci dice At 12,2 (intorno al 44). Dunque, è Giovanni. Già questo essere avvolto dalla discrezione ce ne fa intravedere le caratteristiche: è il contemplativo dell’amore, il discepolo tradizionalmente indicato come il più giovane, perché presenta i tratti dell’audacia e della tenerezza che proprio i giovani sono capaci di avere (è l’unico che resta ai piedi della Croce, l’amato per eccellenza) e vede l’invisibile, perché guarda con gli occhi dell’amore. Così lo percepisce la tradizione cristiana, come testimonia ad esempio Clemente di Alessandria (210): “Vedendo che gli altri avevano riferito solo i fatti materiali, Giovanni, l’ultimo di tutti, incoraggiato dai suoi amici e divinamente ispirato dallo Spirito santo, scrisse il vangelo spirituale”. Dal cuore dell’Amato scaturisce la buona novella dell’amore…

2. Alcuni tratti storici Giovanni è figlio di Zebedeo e proviene dall’ambiente della Galilea. Insieme a Giacomo, suo fratello, era socio di una piccola azienda di pesca, di cui facevano parte altri due fratelli, Simone e Andrea. Probabilmente, Giovanni aveva seguito inizialmente il Battista, e potrebbe essere quello dei due discepoli non nominato (l’altro è Andrea, che subito dopo va a chiamare suo fratello Simone), che erano accanto a Giovanni quando questi indicò in Gesù che passava l’Agnello di Dio (Giovanni 1,35), e che seguirono Gesù. La discrezione con cui si presenta non impedisce che traspaiano i momenti salienti della sua storia di fede e d’amore al Cristo: la vocazione (Giovanni 1,35-39); la presenza accanto al Maestro nell’Ultima Cena (13,23); la domanda sul traditore (13,25s); il dialogo con Gesù accanto alla Madre ai piedi della Croce (19,26s); la visita con Pietro al sepolcro la mattina di Pasqua (20,2-10). A lui anziano è attribuita l’Apocalisse, nella quale sono innegabili gli influssi della sua attitudine simbolica e contemplativa. Del suo cammino di fede ripercorriamo sette tratti, che parlano specialmente alla vita spesa nella sequela di Gesù e su cui vorrei invitare tutti a verificarsi …

3. La vocazione Giovanni è un vero cercatore di Dio: è andato dal Battista, ma quando il Battista indica Gesù come l’Agnello di Dio, non esita a lasciarlo per andare da Gesù. La domanda: “Maestro, dove abiti?”, dice il desiderio di restare con lui (cf. 1,35-39). Giovanni ha capito che seguire Gesù è trovare la dimora vera della propria vita. La risposta di Gesù è un invito a fidarsi, a credere senza vedere: “Venite e vedrete”. Prima si va, poi si vede! I due fanno così: per Giovanni è talmente grande l’impressione di quell’incontro, che segnerà per sempre la sua vita, che ne ricorda l’ora precisa con un’accuratezza cronachistica: “Erano circa le quattro del pomeriggio”. La vocazione è l’incontro con Qualcuno, non con qualcosa, un incontro che avviene nel tempo e nello spazio, in un’ora decisiva e in un contesto che ci restano scritti nel cuore. È così che matura la decisione di seguire Gesù per stare con Lui e vivere di Lui…

4. L’intimità con Gesù Nel cosiddetto “libro dell’addio” (i capitoli 13-17 del Quarto Vangelo), nel momento drammatico in cui si consuma il tradimento di Giuda, ora dell’amore supremo (“li amò sino alla fine”: 13,1) e di supremo dolore (è giunta “l’ora”), Giovanni è colui che sta vicino a Gesù più di ogni altro. Egli dimostra con la sua vita che fede e amore sono inseparabili, come lo sono amore e dolore, vicinanza all’Amato e partecipazione al suo soffrire. I segni dell’amore sono chiari: è il discepolo amato (v. 23), figura d’ogni discepolo dell’amore, che sta nel seno di Gesù (v. 23), come il Figlio sta e si muove nel seno del Padre ((cf. 1,18). È alla domanda di Giovanni che Gesù rivela la sua conoscenza del traditore, che continua però ad essere amato da Lui, come dimostra l’offerta del boccone (v. 26: gesto di predilezione e di riguardo), che seguirà Giuda anche nella notte, senza lasciarlo (v. 30: l’amore non abbandona l’amato infedele). La confidenza mostra l’intimità di Giovanni con Gesù: la fede è un essere così innamorati di Dio, da entrare nella relazione più profonda con Lui, dove ci si dice tutto, in una trasparenza totale di dolore e amore.

5. Il destinatario del testamento del Signore Il dialogo con Gesù ai piedi della Croce (19,26s) rivela il tesoro che il Maestro affida al discepolo. È l’ora in cui tutto viene a compiersi. In quest’ora suprema e definitiva, Giovanni è con la Madre di Gesù ai piedi della Croce. È il testamento del Profeta abbandonato, che si rivolge alla “donna”, figura d’Israele e della Chiesa e Madre sua, ed al discepolo dell’amore, figura d’ogni discepolo, stabilendo fra loro un rapporto così profondo, che il discepolo prende la donna nel cuore del suo cuore. Gesù lascia in testamento all’amato un triplice tesoro: Israele, la Chiesa, la Madre. Il discepolo dell’amore amerà la “santa radice” Israele come l’ha amata Gesù, amerà la Chiesa come il frutto della passione di Gesù, amerà la Madre come sua. Gesù lascia il discepolo in una rete di rapporti d’amore, che al tempo stesso gli affida: la fede è accogliere patti di pace, legami di unità, e viverli nella fedeltà dei giorni, in obbedienza al Signore crocifisso. La sequela dell’Amato si compie nella Chiesa dell’Amore…

6. Il testimone della resurrezione Andando con Pietro al sepolcro la mattina di Pasqua (20,1-8), Giovanni corre per andare a vedere Gesù: è mosso dalla sete di chi ama. Arriva per primo e aspetta: è il rispetto dell’amore, che sa far posto all’altro. Vede e crede: sarà il testimone oculare, colui che ha visto e può perciò contagiare l’amore che apre gli occhi della fede e fa riconoscere il Signore. Dichiarerà in maniera toccante all’inizio della prima lettera: “Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi –, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena” (1 Giovanni 1,1-4). Chi ha conosciuto e visto e toccato l’Amato, non può tenerselo per sé: ne diventa il testimone innamorato e irradiante. La fede vive nell’amore diffusivo di sé. La testimonianza scaturisce dalla sovrabbondanza del cuore toccato dal Maestro e ardente di amore…

7. Il discepolo dell’attesa Il misterioso dialogo fra Gesù e Pietro riguardo al discepolo amato (Giovanni 21,20-24) ne mette in luce un tratto peculiare: Giovanni è colui che attende il ritorno di Gesù. Il discepolo dell’amore è proteso nella speranza verso la gioia dell’incontro faccia a faccia. Il ricordo dell’Amato non è in lui nostalgia o rimpianto, ma tenerezza, speranza, vigilanza, attesa. L’amore non vive di passato, ma schiude al futuro e lo tira nel presente per il suo stesso ardore. Chi è innamorato di Dio è anche inseparabilmente testimone di speranza, perché sa che il futuro sta nelle mani dell’Amato, fedele per sempre. Proprio così è e resta un cercatore di Dio (come ricorda la Lettera ai cercatori di Dio dei Vescovi Italiani, che consiglio a tutti, credenti e non credenti, per aprirsi alle sorprese del Vivente!).

8. Il contemplativo dell’amore Giovanni è ormai vecchio: vive raccolto in Dio. Si presenta come fratello e compagno nella tribolazione a causa del suo amore fedele a Gesù. Vive la gioia dell’incontro liturgico nel giorno del Signore. È allora che è rapito in estasi, in Spirito (Apocalisse 1,9-19). Vede la voce: come solo il contemplativo sa fare, sa “vedere” attraverso le parole della rivelazione, ha l’intelligenza del simbolo, il gusto delle cose di Dio. E la rivelazione che vede è il grande messaggio di richiamo, di consolazione e di speranza per le “sette Chiese”, simbolo di tutta la Chiesa in ogni tempo e in ogni luogo (come dice il numero sette), che sono provate dalla persecuzione esterna e dalla prova interna della fede legata a quello che appare a molti il ritardo della venuta del Signore. Il discepolo dell’amore, carico di vita e di esperienza di fede, sa orientare gli occhi suoi e altrui all’Agnello immolato in piedi, al Cristo morto e risorto, mostrando come la prova presente è nient’altro che un lavare le proprie vesti nel sangue dell’Agnello per entrare con Lui nella sua gloria. La fede del discepolo dell’amore introduce alla speranza dell’amore vittorioso, della gioia senza tramonto della Gerusalemme celeste: “Colui che attesta queste cose dice: ‘Sì, verrò presto!’ Amen. Vieni, Signore Gesù” (22,20).

9. Il settimo sigillo: la settima caratteristica del discepolo amato è avvolta nel silenzio di Dio. È quanto l’iniziativa sorprendente del Signore prepara dall’eterno per ognuno di noi ed a cui dobbiamo aprirci nella docilità del cuore e nella perseveranza della fede orante ed amorosa. Possiamo aiutarci a farlo rispondendo alle domande che Giovanni pone alla vita di ognuno di noi. Sono le domande a cui vorrei chiedervi di dare risposta nella preghiera, nella penitenza e nei gesti dell’amore di questa Quaresima, offrendo in modo speciale tutto a Dio per la santificazione dei sacerdoti e per le vocazioni sacerdotali: sono pronto a rispondere all’invito di Gesù: “Vieni e vedi” o voglio vedere prima di affidarmi? Amo il Signore? Accetto di lasciarmi amare da Lui? Vivo il mio amore a Cristo nell’amore agli altri, alla Chiesa? Sono testimone dell’Amato? È vivo in me il desiderio di Dio, l’attesa del Suo volto? Ho la speranza dell’amore che sa attendere e invocare? Comunico agli altri la speranza anche nelle ore più buie della vita e della storia?

10. Proviamo a dare risposta a queste domande dopo aver invocato così il Maestro, il Dio con noi e per noi: Signore Gesù, Tu vieni a noi nel Tuo Spirito come il Vivente, che sovverte e inquieta i nostri progetti e le nostre difese. Aiutaci, Ti preghiamo, a non crocefiggere Te sulla croce delle nostre attese, ma a crocefiggere le nostre attese sulla Tua croce. Fa’ che ci lasciamo turbare da Te, perché, rinnegando noi stessi, possiamo prendere la nostra croce ogni giorno e seguirTi. Tu sai che noi non sappiamo dirTi la parola dell’amore totale: ma noi sappiamo che anche il nostro povero amore Ti basta, per fare di noi dei discepoli fedeli fino alla fine. È questo umile amore che T’offriamo: prendilo, Signore, e dì ancora e in modo nuovo la Tua parola per noi: “Seguimi”. Allora, la nostra vita si aprirà al futuro della Tua croce, per andare non dove avremmo voluto o sognato o sperato, ma dove Tu vorrai per ciascuno di noi, abbandonati a Te, come il discepolo dell’amore e dell’attesa, in una confidenza infinita. Allora, non saremo più noi a portare la croce, ma sarà la Tua croce a portare noi, colmando il nostro cuore di pace, e i nostri giorni di speranza e di amore. Amen! Alleluia!

Publié dans:Bruno Forte |on 1 mars, 2010 |Pas de commentaires »
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