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LA VIA DELL’AMORE CI CONDUCE A DIO: IL COMMENTO DI MONS. BRUNO FORTE ALLE PAROLE DEL PAPA SUL MISTERO DELLA TRINITÀ

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LA VIA DELL’AMORE CI CONDUCE A DIO: IL COMMENTO DI MONS. BRUNO FORTE ALLE PAROLE DEL PAPA SUL MISTERO DELLA TRINITÀ

Posted on 9 giugno 2009

Da: RADIO VATICANA

Dagli atomi alle galassie, dalle particelle minuscole all’universo, “tutto proviene dall’amore, tende all’amore, e si muove spinto dall’amore”: è una delle belle immagini che Benedetto XVI ha utilizzato ieri all’Angelus nella Solennità della Santissima Trinità. Usando un’analogia suggerita dalla biologia, il Papa ha inoltre affermato che “l’essere umano porta nel proprio “genoma” la traccia profonda della Trinità, di Dio-Amore”. Una considerazione sulla quale si sofferma l’arcivescovo di Chieti-Vasto, Bruno Forte, intervistato da Alessandro Gisotti: R. – L’ispirazione profonda delle parole di Papa Benedetto sulla Trinità è certamente la teologia agostiniana. Sappiamo quanto Joseph Ratzinger ami Sant’Agostino, quanto vi abbia lavorato; e nel “De Trinitate” ci sono pagine straordinarie in cui Agostino presenta la Trinità alla luce della contemplazione del mistero dell’amore. In altre parole, Agostino dice: “Vides Trinitatem si caritatem vides” – vedi la Trinità se vedi l’amore. Dunque, l’amore dove ci sono sempre i due – l’amante e l’amato – e il loro vincolo di unità è la chiave per entrare, sia pure con la modestia delle nostre capacità e restando in punta di piedi sulla soglia, nel mistero divino di un Dio che è l’eterno amante, il Padre, e l’eterno amato, il Figlio e il loro vincolo d’amore, lo Spirito. Questo messaggio forte, con il linguaggio della scienza e della biologia, che Papa Benedetto ha voluto darci parlando della Trinità inscritta nel genoma umana, cioè nella vocazione stessa dell’uomo a essere se stesso e ad esserlo nell’amore. D. – Siamo nell’Anno dell’astronomia e il Papa ieri ha sottolineato che l’Universo proviene e tende verso l’amore: sembra riecheggiare Dante: “L’amor che move il sole e l’altre stelle” … R. – Questo è certamente un’eco presente nella profonda cultura teologica, letteraria, spirituale di Papa Benedetto. E naturalmente, in questa contemplazione della rete di rapporti che regge l’universo e che è fondamentalmente una rete di sinergie, dunque di relazioni d’amore – potremmo dire – c’è il seguire ancora la via agostiniana delle “vestigia Trinitatis”. Agostino si concentrerà poi in modo speciale sulla psicologia dell’uomo e dunque vedrà la Trinità attraverso un’analisi dell’intelligenza, della memoria, dell’amore. Benedetto estende questa lettura dell’impronta trinitaria nell’essere umano all’armonia e alla sinergia che reggono tutte le forze dell’universo. D. – Per spiegare l’inspiegabile mistero della Trinità, Benedetto XVI ha fatto riferimento a ciò che è immediatamente comprensibile, sperimentabile da ogni uomo: l’amore … R. – Credo che questa via sia la via privilegiata per entrare nel mistero della Trinità. Come tale ce l’ha presentata ieri Papa Benedetto e credo che questo sia molto bello perché abbia anche un forte impatto catechetico-pastorale. E in questo, Papa Benedetto, libero, naturalmente, rispetto ad Agostino, dai vincoli dell’influenza del pensiero essenzialistico del mondo antico, si apre ad una prospettiva più personalistica ed esistenzialistica e ci aiuta a contemplare la Trinità lungo la via dell’amore in maniera semplice e profonda. Credo che sia un apporto bello al kerygma, all’annuncio del Dio-amore che è l’annuncio del Dio-Trinità.

BENEDETTO XVI – Sarà sempre necessario Fabio Zavattaro “La prova più forte che siamo fatti ad immagine della Trinità è questa: solo l’amore ci rende felici, perché viviamo in relazione, e viviamo per amare e per essere amati. Usando un’analogia suggerita dalla biologia, diremmo che l’essere umano porta nel proprio genoma la traccia profonda della Trinità, di Dio-Amore”. Come si fa a non partire proprio da questa frase per iniziare una riflessione sulle parole di Papa Benedetto pronunciate all’Angelus domenicale. Nel giorno in cui la chiesa celebra la festa della Santissima Trinità, Benedetto XVI è tornato a toccare uno dei temi che gli sono più cari, quello di Dio-amore, al quale ha dedicato la sua enciclica Deus Caritas est. Alle 20mila persone presenti in piazza San Pietro, ha detto: “tutto proviene dall’amore, tende all’amore, e si muove spinto dall’amore” che è Dio, “Dio è tutto e solo amore, amore purissimo, infinito ed eterno”. La festa di Pentecoste, celebrata l’ultima domenica di maggio, ricorda il Papa, apre a tre altre solennità liturgiche, e cioè la Santissima Trinità, il Corpus Domini e la festa del Sacro Cuore. In queste tre ricorrenze liturgiche ritroviamo l’intero mistero della fede cristiana; ciascuna è un aspetto “dell’unico mistero della salvezza”, che in un certo senso riassume “tutto l’itinerario della rivelazione di Gesù, dall’incarnazione alla morte e risurrezione fino all’ascensione e al dono dello Spirito Santo”. Così nella festa della Trinità, Cristo ci rivela che “Dio è amore non nell’unità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza: è creatore e Padre misericordioso; è Figlio unigenito, eterna sapienza incarnata, morto e risorto per noi; è finalmente Spirito Santo che tutto muove, cosmo e storia, verso la piena ricapitolazione finale”. Il Padre è amore, il Figlio è amore, lo Spirito è amore: “non vive in una splendida solitudine, ma è piuttosto fonte inesauribile di vita che incessantemente si dona e si comunica”. Bella anche l’immagine del donarsi e del comunicarsi che Benedetto XVI usa per ricordare come l’amore di Dio sia fonte inesauribile di vita. Dice: “lo possiamo in qualche misura intuire osservando sia il macro-universo: la nostra terra, i pianeti, le stelle, le galassie; sia il micro-universo: le cellule, gli atomi, le particelle elementari. In tutto ciò che esiste è impresso il nome della Santissima Trinità, perché tutto proviene dall’amore, tende all’amore, e si muove spinto dall’amore, naturalmente con gradi diversi di consapevolezza e di libertà”. Nel Dio amore, ricorda il Papa citando le parole di Paolo nell’Aeropago di Atene “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”. Scrive il Papa nell’enciclica Deus Caritas est, l’amore deve essere comunicato agli altri, perché Dio ci ricolma del suo amore e questo “è un messaggio di grande attualità e di significato molto concreto” in un mondo in cui “al nome di Dio a volte viene collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza”. Amore, dunque, che “sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo”. La Chiesa attenta alle gioie e speranze, alle tristezze e alle angosce degli uomini di oggi, dei poveri, come recita la Gaudium et spes, vuole essere vicina all’uomo non solo dal punto di vista materiale ma anche da quello spirituale. È chiamata a offrire la testimonianza della comunione, diceva il Papa nell’omelia pronunciata a Genova il 18 maggio dello scorso anno. “Questa realtà non viene dal basso ma è un mistero che ha, per così dire, le radici in cielo: proprio in Dio uno e trino. E’ Lui, in se stesso, l’eterno dialogo d’amore che in Gesù Cristo si è comunicato a noi, è entrato nel tessuto dell’umanità e della storia per condurle alla pienezza. Ed ecco allora la grande sintesi del Concilio Vaticano II: la Chiesa, mistero di comunione, è in Cristo come un sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”. Vengono alla mente le parole pronunciate a Savona il 17 maggio dello scorso anno: “È qui tutta l’essenza del cristianesimo, perché è l’essenza di Dio stesso. Dio è uno in quanto è tutto e solo amore, ma proprio essendo amore è apertura, accoglienza, dialogo; e nella sua relazione con noi, uomini peccatori, è misericordia, compassione, grazia, perdono. Dio ha creato tutto per l’esistenza e la sua volontà è sempre soltanto vita.        

Publié dans:Bruno Forte, TRINITÀ (SS) |on 20 mai, 2016 |Pas de commentaires »

UNA SOLITUDINE ABITATA DALL’AMORE – BRUNO FORTE

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UNA SOLITUDINE ABITATA DALL’AMORE – BRUNO FORTE

Qual è dunque l’ultimo, il supremo grado dell’umiltà? Ignazio lo presenta così: seguire e imitare Cristo umile, crocefisso, abbandonato. È l’umiltà dei folli di Dio, di quelli che non cercano gli applausi delle platee di questo mondo… È la croce il luogo dove la solitudine raggiunge il suo vertice perché lì abita Dio separato da Dio…
C’è nella seconda settimana degli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola – testo la cui bellezza e ricchezza di umanità oltre che di spiritualità non cessa di stupire – un brano in cui egli presenta i tre gradi dell’umiltà.
Ignazio dice che il primo grado dell’umiltà è quello di obbedire ai comandamenti, di osservare la legge: è il compimento del precetto, la legalità. A questo livello, la solitudine è vinta dalla sicurezza di obbedire alla legge. Ma questo non è ancora perfezione.
C’è un secondo grado dell’umiltà: è quello di chi si fa indifferente a ricchezza e povertà, cioè di chi è pronto a tutto ciò che Dio voglia da lui. I mistici definiranno questo grado la resignatio ad infernum, cioè l’amare Dio fino al punto di essere pronti ad andare all’inferno se Dio lo volesse, amandolo dunque non per le sue ricompense, ma di un amore così puro da volere soltanto quello che lui possa volere per noi, perfino l’inferno; ma anche questo non è perfezione.
Qual è dunque l’ultimo, il supremo grado dell’umiltà? Ignazio lo presenta così: seguire e imitare Cristo umile, crocefisso, abbandonato. È l’umiltà dei folli di Dio, di quelli che non cercano gli applausi delle platee di questo mondo, di quelli che vogliono essere nascosti con Cristo in Dio, abitare nella solitudine divina, non per disprezzo del mondo, ma come nel luogo dell’amore.
Solo la consegna della croce, solo l’abbandono del Figlio – «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» – è solitudine scelta per amore.
È questo il vangelo della croce: non la ridicolizzazione del dolore del mondo, anzi, al contrario, l’estrema presa sul serio del dolore del mondo, al punto che Dio fa suo questo dolore, che Dio
La croce è l’ora della morte in Dio.
La croce è l’ora in cui si sperimenta il dolorosissimo momento dell’abbandono, perché nella compagnia dei senza Dio e dei maledetti da Dio il Figlio di Dio fatto peccato per noi, «maledetto» come dice Paolo (Gal 3,13), possa poi portare noi, gli abbandonati, i senza Dio, i maledetti da Dio nella comunione con Dio.
È la croce il luogo dove la solitudine raggiunge il suo vertice perché lì abita Dio separato da Dio, lì è la morte che tocca il cuore divino, non l’atea e banale morte di Dio, ma la tragica, serissima e dolorosissima morte in Dio. Un evento che tocca il mistero della divinità.
Entrato nell’abisso della solitudine, Dio vince però la solitudine: è il momento della risurrezione, inseparabile dalla croce. Non si possono contrapporre questi due momenti: la croce è rivelazione del Deus crucifixus come diceva Agostino, essa è tutta abitata da Colui che vince la morte, e Colui che vince la morte è e resterà l’Agnello sgozzato in piedi, Colui che porta le piaghe della croce nel cuore stesso di Dio.
La croce è dunque storia trinitaria, come lo è la resurrezione. In altre parole, restituendo lo Spirito al Figlio che è entrato nella comunione dei senza Dio, il Padre raggiunge nel Figlio la nostra solitudine («L’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo»: Rm 5,5).
Questo è il vangelo di Paolo, il vangelo di una comunione possibile nonostante la nostra solitudine, il vangelo di un amore che può nascere lì dove sembrerebbe che non ci sia amore: è il vangelo – direbbe Karl Barth – della «impossibile possibilità» di Dio, della solitudine vinta, non perché svuotata della sua tragicità, ma perché abitata dall’amore, da un amore che ama di più e amando di più fa compagnia a Dio nel suo dolore e dunque ai senza Dio nel loro dolore.
Questa è la vittoria di Pasqua, questa è la possibilità promessa, questo è il dono dello Spirito che solo colma la solitudine di comunione e la comunione di solitudine vera.
Dopo la morte e la resurrezione, è questo il momento dell’effusione dello Spirito in noi: che cos’è lo Spirito che vive in noi se non la solitudine di Dio nella solitudine dell’uomo e la solitudine dell’uomo nella solitudine di Dio, al punto che da questa solitudine scaturisca la profondissima comunione, la gioia della vita? Questo è vivere secondo lo Spirito.

Da Bruno Forte, Solitudine dell’uomo solitudine di Dio, Morcelliana 2003.

(Teologo Borèl) Settembre 2005 – autore: mons. Bruno Forte

LA TEOLOGIA, SCUOLA DI UMILTÀ CONTRO IL NICHILISMO (Bruno Forte, Benedetto XVI)

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LA TEOLOGIA, SCUOLA DI UMILTÀ CONTRO IL NICHILISMO

Mons. Forte analizza gli ultimi interventi di Benedetto XVI in materia di teologia

Domanda. Lo scorso anno, nell’omelia per la messa celebrata alla presenza dei membri della Commissione Teologica Internazionale, il Papa ha spiegato che il vero teologo non è colui che cerca di misurare il mistero di Dio con la propria intelligenza ma colui che è cosciente della propria limitatezza. In quell’occasione il Papa ha indicato nell’umiltà la via per giungere alla verità, mettendo in guardia contro i teologi saccenti che si comportano come gli antichi scribi. Crede che il Papa faccia riferimento a una tendenza visibile ai nostri giorni?
Risposta. Io credo che questo sia un punto fondamentale che distingue la teologia cristiana da ogni forma di gnosi. La differenza fondamentale è che nella teologia tutto nasce dall’ascolto, quindi dall’auditus Verbi, mentre nella gnosi tutto è autoproduzione intellettuale del soggetto. Questo è il vero motivo per cui l’unica autentica eresia cristiana è la gnosi: la presunzione di un’autoredenzione dell’uomo che non abbia bisogno dell’intervento dell’Altro e dall’Alto, cioè dell’intervento di Dio. Una teologia che si fondi, com’è nella sua natura, sulla Rivelazione, non può che essere innanzitutto ascolto e quindi è humilitas: un atteggiamento di profonda disponibilità e docilità di fronte all’azione di Dio, che entra nella storia in maniera sorprendente e al tempo stesso la conferma nella sua dignità, aprendola al novum adveniens della sua promessa.
E’ un tema che Ratzinger da teologo ha ripetutamente sottolineato e che gli deriva dalla sua frequentazione di Agostino, che è il genio dell’intellectus fidei vissuto nell’ascolto, nell’uso dell’intelligenza al servizio dell’ascolto della Parola di Dio e gli deriva anche da Bonaventura. Direi che è il filone agostiniano-francescano quello che predomina nella formazione teologica di Joseph Ratzinger, che nel suo magistero di Papa riemerge nel suo richiamo forte all’humilitas e all’auditus. Aggiungerei che questo tema risulta quanto mai importante oggi in una società che ha conosciuto l’ebrezza della ragione e dunque la tentazione gnostica nei vari volti della ideologia moderna e che oggi in questa inquietudine della post-modernità se non si apre all’ascolto e all’humilitas rischia la grande tentazione del nichilismo, cioè del non-senso. In altre parole: chi potrà salvarci? A questa domanda non si può che rispondere: l’Altro che viene a noi, cioè il Dio vivente e questo implica l’umiltà dell’accoglienza. La gnosi in questa società post-moderna, dove la ragione totalizzante ha conosciuto una crisi profonda e il bisogno del suo superamento critico, viene spiazzata nella sua stessa convinzione fondamentale, che è l’assolutezza del soggetto e della sua capacità di conoscenza o di produzione del vero.
Domanda. Nel settembre del 2007, nel visitare l’abbazia cistercense di Heiligenkreuz il Papa ha denunciato una certa “teologia che non respira più nello spazio della fede”, ponendo l’accento invece sulla “teologia in ginocchio”, una bella espressione coniata da Hans Urs von Balthasar. Allo stesso modo nel presentare la figura di san Bernardo di Chiaravalle durante una Udienza generale, Benedetto XVI ha detto che senza fede e preghiera la ragione da sola non riesce a trovare Dio e la teologia diventa un “vano esercizio intellettuale”. E’ questo uno scenario presente nell’ambito della teologia attuale?
Risposta. Il primo elemento decisivo è che proprio perché nasce dall’ascolto della Parola di Dio, la teologia ha bisogno non solo di una radicale humilitas ma anche di una forma di accoglienza amorosa, perciò orante di essa. Von Balthasar ha insistito moltissimo su questo aspetto, sostenendo che la santità non è un superfluo rispetto all’esercizio del teologo, ma ne è una condizione fondamentale. Non è un caso che grandissimi teologi, specie i Padri della Chiesa, sono stati anche dei santi. Dunque il bisogno di mettersi in ginocchio davanti al mistero e di ascoltare, di vivere l’auditus non solo con l’umiltà ma con l’amoroso e perseverante accoglienza della fede orante, è connaturale all’identità della teologia cristiana. E anche in questo nel pensiero di Joseph Ratzinger c’è non solo la continuità con il filone agostiniano e bonaventuriano, ma c’è anche un’altra intuizione molto importante, peraltro ripresa nel Vaticano II, e cioè che c’è un rapporto tra il vissuto cristiano, il pensato cristiano e la liturgia.
La liturgia in quanto culmen et fons, come dice il Vaticano II, è ciò da cui tutto parte e a cui tutto tende dell’esistenza cristiana, sia nel suo vissuto che nella sua dimensione riflessa. Ecco perché una teologia senza anima liturgica, cioè senza capacità di lodare e invocare Dio, è un vano esercizio intellettuale. E’ un’altra forma di quella gnosi che rischia di inquinare la capacità dell’uomo di aprirsi a Dio. Nella grande visione teologica cristiano-cattolica l’uomo è stato fatto capax Dei: ebbene questa capacità è condizionata da una parte dall’humilitas e dall’altra dalla capacità di invocare il dono di Dio e di lasciarsene pervadere in un atteggiamento dossologico e liturgico, e cioè di glorificazione di Dio, che è non di meno disponibilità a lasciarsi plasmare dalla Sua azione nella nostra vita. Quando tutto questo è portato alla parola nasce propriamente la teologia.
E qui c’è anche un’altra considerazione da fare sul rapporto tra teologia e spiritualità. Noi abbiamo vissuto una crisi di questo rapporto nell’epoca della teologia moderna, cioè di quella teologia influenzata dalla contrapposizione illuministica tra Vernunftswahrheit e Geschichtswahrheit, verità di ragione e verità di fatto. Nella concezione illuministica solo la verità di ragione è verità, perché presenta un’assolutezza e universalità che invece le verità di fatto non hanno. Il cristianesimo, al contrario, si fonda su una verità di fatto, che è la rivelazione storica di Dio. Allora sembrava a una certa teologia di impianto illuministico-liberale che non potesse conciliarsi l’esercizio teologico puro con una forma di spiritualità, di vissuto spirituale, lasciato piuttosto alla devozione.
Questo fossato tra teologia e spiritualità ha prodotto grandi danni nell’epoca della teologia moderna: lo si è visto soprattutto nella teologia liberale e in alcune forme del modernismo cattolico, ma continua a produrre danni laddove, per esempio, negli anni ’60 e ’70 alcune forme della teologia cristiana si sono lasciate condizionare dall’ideologia moderna anche rivoluzionaria. Oggi noi sentiamo, invece, di ritornare allo statuto originale fondante del fare teologia che è quello di portare al pensiero l’esperienza del Mistero proclamato e quindi ascoltato e celebrato nella liturgia, vissuto e testimoniato nella fede e nella carità.
Quindi teologia non è solo docta fides, cioè una fides quaerens intellectum, ma anche docta caritas, cioè è il portare alla parola il vissuto dell’amore, il dono dell’amore di Dio che ci viene fatto nella liturgia e nella Grazia dei sacramenti, ma che deve essere poi testimoniato nel vissuto dei gesti dell’eloquenza silenziosa della carità. Teologia e spiritualità così ritrovano il nesso fondamentale che le costituisce reciprocamente come teologia e spiritualità cristiane. Una teologia senza spiritualità rischia di essere vuota, una spiritualità senza teologia rischia di essere cieca, parafrasando il noto detto di Kant su intuizione e concetti.
Domanda. L’adesione al “Processo di Bologna” da parte della Santa Sede ha portato a un riordino globale della formazione teologica in Italia, volto a ricalibrare gli standard curricolari esistenti alla luce di quelli richiesti. Secondo lei, il fatto di doversi conformare a delle precise caratteristiche di “scientificità” non porta l’insegnamento di questa disciplina a mettere da parte una concezione che presuppone la fede nella ricerca teologica?
Risposta. Questa è un’antica questione che ritorna sempre e di nuovo nella storia della teologia. Vorrei dare due risposte: una di carattere storico e una di carattere attuale, ma anche di sapore metodologico. La prima è quella che diede San Tommaso alla stessa questione che lei mi sta ponendo, quando apre la Summa teologica con un’audacia impensabile al tempo dei Padri della Chiesa. Tommaso si chiede: utrum praeter philosophicas disciplinas aliam doctrinam haberi? Cioè si chiede non se siano legittime le discipline filosofiche, ma se sia legittima la teologia, con un impianto assolutamente moderno che sembra rivendicare l’autonomia della ragione. La sua risposta è che la razionalità richiesta alle discipline scientifiche è soprattutto nello scire per causas, nel conoscere attraverso le connessioni tra premesse e deduzioni. Ora questo scire per causas può essere esercitato in due modi: partendo dai principi primi interni alla scienza, le cosiddette scienze subalternanti (egli parla ad esempio della matematica che ha dei suoi principi più intrinseci dai quali si parte e che sono indimostrabili – in questo Tommaso anticipa Goedel – e da cui si deducono delle conseguenze); dall’altra parte ci sono però ci sono però delle scienze subalternate che usano i principi offerti loro da altre scienze. A questo proposito, Tommaso fa come esempio intrigante quello della musica che dipende dalla matematica, proprio per le sue armonie e i suoi rapporti di proporzione. Analogamente – dice Tommaso – la teologia dipende dalla scientia Dei et beatorum cioè dalla Rivelazione. In altre parole, la fonte della conoscenza teologica è lumen fidei per il naturale, quanto però all’argomentare essa ha lo stesso statuto epistemologico di tutte le altre scienze e quindi ha piena dignità della universitas scientiarum.
Come risponderemmo oggi di fronte agli sviluppi della teologia, ma anche della epistemologia moderna? Io risponderei rifacendomi alla grande conquista del Novecento filosofico e teologico che è la riscoperta poderosa della ermeneutica, cioè della scienza dell’interpretazione. Quando molti anni fa da Decano della Facoltà Teologica a Napoli invitai a una quaestio quodlibetalis Hans-Georg Gadamer, il padre dell’ermeneutica contemporanea, autore di “Verità e metodo”, un giovane di primo anno gli pose questa domanda: “che cos’è l’ermeneutica?”. Al che Gadamer, senza scomporsi, dopo un attimo di riflessione, disse: “Ermeneutica significa che quando lei ed io parliamo ci sforziamo di raggiungere il mondo vitale che è dietro le parole dell’altro e da cui esse provengono”.
Allora, l’epistemologia illuminata dall’ermeneutica vuol dire non solo comprendere l’immediatamente percettibile, il visibile, il fenomenico, il razionale, ma comprendere anche o perlomeno cercare di raggiungere quei mondi vitali da cui queste espressioni provengono. In questo contesto si scopre che scienza non è solo quella dei fenomeni, ma che c’è un insieme di scienze, che sono le scienze dello spirito, le quali si sforzano di raggiungere un non detto, un non dicibile, un non totalmente tematizzabile, che però è il mondo vitale in cui si situano i processi umani, i processi storici e così via. E c’è un ulteriore livello che attinge a quell’esperienza del mistero della vita e del mondo che noi tutti facciamo e che non è riconducibile a una mera formula linguistica o razionale, cioè un eccesso del Mistero che circonda il mondo, che circonda la vita di ognuno di noi e che noi attingiamo continuamente nella sorpresa, nello stupore, che soltanto fino a un certo punto riusciamo a ricondurre alla parola.
Ora, una scienza che prenda sul serio lo stupore davanti a questo Mistero, la possibilità che esso si dica senza tradirsi, cioè la possibilità della Rivelazione, e che ne faccia materia del suo pensare, diventa una scienza assolutamente preziosa. In una simile dimensione ermeneutica, interpretativa della realtà, che non si ferma all’immediato ma cerca sempre di cogliere le ulteriorità, le connessioni profonde, la teologia mi sembra che si presenti con piena dignità come una scienza di cui l’uomo ha bisogno per vivere e per morire, come ha bisogno per vivere e per morire di Dio e del senso della vita.
Domanda. Nel 1986 intervenendo a Brescia a un incontro organizzato dalla redazione italiana della rivista “Communio” Ratzinger aveva affermato che nella coscienza diffusa della teologia cattolica l’autorità della Chiesa appare spesso come un’istanza estranea alla scienza, come qualcosa che limita se non mortifica la ricerca. Secondo lei, soprattutto dopo quanto avvenuto con la Teologia della Liberazione, è ancora così avvertita questa percezione?
Risposta. Il compito del Magistero nella Chiesa non è un compito regressivo, ma un compito quasi prospettico. In un famoso saggio del 1953 che fece storia nel dibattito teologico, Karl Rahner interrogandosi sul Concilio di Calcedonia e sulla sua definizione dogmatica, che resta vincolante per ogni cristiano qualunque sia la sua appartenenza confessionale, di Cristo come una persona divina nelle due nature umana e divina, si chiedeva “Chalkedon – Ende oder Anfang?” (Calcedonia è una fine o un inizio?). La sua risposta era molto chiara: il dogma non è una fine, non arresta il pensiero, non lo paralizza, ma pone quei paletti rispetto ai quali indietro non si torna, perché voler tornare indietro significherebbe cadere da una parte nelle forme dell’arianesimo, cioè una visione solo umana e mondana di Cristo, che così non sarebbe più mediatore dell’Alleanza e Salvatore, dall’altra in una forma di modalismo, cioè un Dio che appare tra gli uomini ma che non ha veramente assunto la nostra carne mortale, non s’è veramente compromesso con l’umano.
Diceva Karl Rahner, giustamente, che la definizione dogmatica di Calcedonia in questo senso è un baluardo contro il regresso, non contro il progresso. Ilario di Poitiers, a sua volta, intuiva una bellissima dimensione di questo esercizio del discernimento magisteriale della Chiesa. Egli diceva: il dogma viene definito per una esigenza di carità, per aiutare a non perdere la rotta, a non perdere la strada rispettosa, quella che Dio ci ha indicato. Anche qui la visione era chiaramente non difensiva o repressiva, ma prospettica.
E proprio il caso della Teologia della Liberazione che lei citava, mi sembra un esempio eloquente, perché gli interventi fondamentali in proposito da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede sono stati due: uno eminentemente critico, che ha messo in luce i limiti spesso connessi con la dipendenza ideologica di questa teologia; l’altro che ne ha messo in luce invece le acquisizioni, i contributi positivi soprattutto in vista di una teologia ispirata al primato della carità e del servizio. Io credo che in questa azione il magistero abbia compiuto esattamente ciò che diceva Ilario di Poitiers, e che molto più recentemente affermava Karl Rahner, cioè una azione non repressiva per spegnere la vita, ma di custodia e di promozione di quella vita autentica che soltanto la verità di Dio riesce a far sprigionare in noi. Riassumerei con la frase di Giovanni 8,32, che Giovanni Paolo II amava ripetere e che ripetè ancora a noi della Commissione Teologica Internazionale quando si lavorava sul documento “Memoria e riconciliazione” per accompagnare la richiesta di perdono per le colpe della Chiesa: “La verità vi farà liberi”.
E allora, quanto più si serve la causa della verità, quanto più il magistero si pone al sevizio della testimonianza della verità, tanto più esso favorisce la libertà, l’autentica libertà che dà senso, pienezza, vita e salvezza al cuore dell’uomo.

( da Zenit, Intervista di Mirko Testa, 20 gennaio 2010)

Publié dans:Bruno Forte, Papa Benedetto XVI, Teologia |on 19 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

IL DISCORSO DELLA MONTAGNA E IL DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO – Bruno Forte

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IL DISCORSO DELLA MONTAGNA E IL DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO

Bruno Forte

Discorso a un dialogo pubblico con il biblista ebreo americano Jacob Neusner – Auditorium di Roma, 18 gennaio 2010

L’insegnamento di un Maestro ebreo?

Il Mahatma Gandhi, padre dell’India moderna e apostolo della non-violenza, ricordando il suo primo incontro con il « discorso della montagna », diceva che gli era andato dritto al cuore: « The Sermon on the Mount went straight to my heart… ». E aggiungeva: « È stato grazie a questo discorso che ho imparato ad amare Gesù ». Questa testimonianza mostra in maniera eloquente come la lettura dei capitoli 5-7 del Vangelo di Matteo possa essere decisiva per l’incontro col Profeta galileo e il suo messaggio. Si può perfino dire che la storia delle interpretazioni del discorso della montagna è la storia delle diverse auto-comprensioni del cristianesimo.
L’esegeta protestante Joachim Jeremias riconduce a tre modelli fondamentali queste interpretazioni[1]. Il primo riflette una concezione perfezionistica: « Gesù dichiara ai suoi discepoli ciò ch’egli esige da loro » (67). Il discorso sarebbe « legge, non evangelo » (68). Gesù si presenterebbe né più né meno che come un maestro della Torah. Questa interpretazione non è però condivisibile, perché contrasta col fatto che nello stesso sermone « Gesù osa opporsi alla Torah » (70). Una seconda lettura è quella ispirata alla teoria dell’inattuabilità: è l’interpretazione dell’ortodossia luterana. Gesù « vuole rendere consci i suoi ascoltatori della loro inettitudine a compiere con le loro forze quanto Dio esige… (e così) indurli a disperare di sé » (72) per confidare in Dio solo. Il Nazareno, però, « s’attende che i suoi discepoli attuino ciò ch’egli chiede » (73), come è evidente nella parte finale del discorso stesso: « Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano » (Mt 7,13: cf. tutto il brano da 13 a 27). Anche questa interpretazione, allora, non può essere accolta. Infine, l’interpretazione dell’etica temporanea, propria degli « escatologisti conseguenti » di fine Ottocento (quali Johannes Weiss e Albert Schweitzer), legge nel discorso un insieme « di leggi d’eccezione, valide in epoca di crisi », nella forma di un « incitamento alla tensione estrema delle forze prima della catastrofe » (74). Il discorso della montagna, però, non sembra aver nulla di un’ »etica dell’ultima ora »: al contrario, « in Gesù l’accento essenziale non cade sull’affaticarsi degli uomini, ma sulla certezza che la salvezza di Dio è presente » (75s).
Caratteristica comune alle tre interpretazioni è quella di considerare il discorso come una sorta di legge, ponendo così « Gesù nell’ambito del tardo giudaismo » (76). Che questa operazione sia legittima e in parte feconda lo mostra la possibilità di rintracciare nelle parole del Profeta galileo numerose eco della tradizione ebraica: Paul Billerbeck – nel Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash[2]- ha potuto raccogliere in corrispondenza alle scarse cinque pagine del discorso della montagna ben trecento e nove pagine di analogie e paralleli rabbinici! Il rapporto con l’insegnamento dei maestri ebrei è dunque decisivo per comprendere e valutare l’insegnamento di Gesù sul monte: e tuttavia non è sufficiente. Perché? In che senso Gesù non è un Rabbi come gli altri? E in che senso, invece, si pone in continuità con la Torah di Mosè?

Gesù rompe con la Torah
A queste domande prova a dare risposta Jacob Neusner nel suo libro Un Rabbino parla con Gesù[3]: l’originalità di questo lavoro sta nel fatto che l’Autore si immagina contemporaneo del Maestro galileo e intavola con lui una discussione serrata. Nella prospettiva rabbinica questo è un atto di profondo rispetto e di forte tensione spirituale: « Una buona, argomentata discussione è considerata dalla Torah il mezzo più giusto di rivolgersi a Dio, ossia un atto di grandissima devozione » (34). Peraltro, la fiducia nell’intelligenza è un tratto comune a ebraismo e cristianesimo: « Come i cristiani noi diamo importanza alla ragione e alla fede razionale… noi diamo valore all’uso dell’intelligenza, allo scambio di pensieri, di affermazioni, di ragioni, di prove, di analisi; noi consideriamo la discussione un esercizio nell’uso di ciò che ci fa simili a Dio, cioè la nostra intelligenza » (41).
La tesi di Neusner è che « Gesù insegna la Torah al pari di altri maestri, ma pretende di porsene al di sopra » (29). Intento dichiarato del Rabbino è perciò quello di « riaffermare semplicemente la Torah del Sinai sopra e contro il Gesù di Matteo » (43). E questo in nome del principio espresso all’inizio del trattato della Mishnah (200 d.C.) chiamato Avot (detti dei Padri dell’ebraismo): « Fate una siepe intorno alla legge » (1,1). Secondo Neusner Gesù ha distrutto questa siepe, disponendo della Torah in maniera inaudita e perfino insegnando a violare alcuni dei Comandamenti: il terzo, che impone la santificazione del sabato, il quarto, quello dell’amore verso i genitori, e infine la prescrizione della santità. Gesù pretende di prendere il posto del sabato (cf. Mt 12,8: « Il Figlio dell’uomo è signore del sabato ») e dei genitori (cf. Mt 10,37: « Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me’ ») e fa consistere la santità nella sequela di sé: in tal modo egli dissolve ciò che tiene unito Israele in quanto Israele, mettendo in pericolo l’essenziale della fede del popolo dell’alleanza.
A proposito, poi, di Matteo 5,38-39 (« Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra ») e 43-44. 48 (« Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano » e « Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste »), Neusner afferma che un tale insegnamento non concorda con la Torah perché « è un dovere religioso resistere al male, combattere per il bene, amare Dio e combattere quelli che diventeranno nemici di Dio… La Torah richiede sempre dall’Eterno Israele di combattere per la causa di Dio; la Torah ammette la guerra, riconosce l’uso legittimo della forza » (57). Più in generale, le antitesi del discorso della montagna appaiono intollerabili al Rabbino: « La frase di Gesù ‘voi avete inteso che fu detto… ma io vi dico’ si pone in aperto contrasto con la frase di Mosè sul monte Sinai » (61). Gesù parla « attraverso un ‘io’, ma la Torah parla soltanto a ‘noi’, a noi che formiamo Israele » (63). « Solo Dio può esigere da me quello cha sta chiedendo Gesù » (86). « L’alternativa è tra ‘Ricordati di santificare il sabato’ e ‘Il Figlio dell’uomo è il signore del sabato’. Non possiamo scegliere entrambi » (105). « In discussione è la rivendicazione di autorità da parte di Gesù » (107). Il nocciolo della questione è dunque questo: « Cristo prende il posto della Torah » (109). La conclusione del Rabbino Neusner è tranciante: « Un grande maestro non è colui che dice qualcosa di nuovo, ma colui che dice quello che è vero » (112s). Perciò Gesù non è per lui un maestro credibile e la differenza con la fede del popolo eletto è radicale: « Il messaggio della Torah riguarda sempre l’Eterno Israele, mentre il messaggio di Gesù riguarda quelli che lo seguono » (126).

Gesù radicalizza la Torah
Non così vede le cose un altro pensatore ebreo, Pinchas Lapide, che nel suo libro Il Discorso della Montagna. Utopia o Programma?[4] mette parimenti a confronto l’insegnamento di Gesù con la tradizione rabbinica: diversamente da Neusner, egli sottolinea che Gesù si colloca totalmente all’interno del pensiero ebraico, portandolo solo alle estreme conseguenze. Dunque, non la Torah, ma l’interpretazione che Neusner ne dà sarebbe in contrasto con quello che Gesù dice nel discorso della montagna. Per Lapide il Maestro galileo non chiede altro che « un’esistenza ebraica di fede… È un ideale realizzabile, un’utopia realistica che non deve rimanere sulla carta se l’ebreo credente trova il coraggio di superare se stesso… nell’instancabile imitazione di Dio che nell’ebraismo è considerata il più santo dei comandamenti. In questa grande spinta messianica verso l’incarnazione voluta da Dio di tutti i figli di Adamo e verso l’umanizzazione di questa terra… Gesù di Nazaret è stato ‘l’ebreo centrale’, come lo definisce Martin Buber, colui che ci invita tutti a imitarlo » (15). La tesi di Lapide è pertanto che « il discorso della montagna non è altro che la spiegazione della Torah fatta da Gesù di Nazaret, che prendendo spunto dal duplice comandamento dell’amore ha come obiettivo la sua concretizzazione, allo scopo di favorire la manifestazione del regno di Dio sulla terra » (24). Nell’insegnamento sul monte siamo di fronte alla semplice « riscrittura escatologica di tutti i comandamenti dell’amore… che dalle tavole di pietra del Sinai verranno impressi nel cuore degli uomini » (36).
Se Neusner contrappone troppo, Lapide concilia altrettanto: la radicalità di Gesù rispetto alla Torah non è un semplice sviluppo nella continuità, ma implica un elemento di assoluta novità. È Joachim Jeremias a sottolineare come la differenza fra Gesù e il giudaismo non stia nei singoli precetti, ma nel presupposto fondamentale che sta dietro ad essi e che nella testimonianza del Profeta galileo è l’avvento del Regno di Dio nella sua persona[5]: « A ogni detto del discorso della montagna… è sottintesa la predicazione del regno di Dio… la testimonianza che Gesù diede di sé con la parola e coi fatti » (89). « Al kerygma fa seguito la didaché » (90): e il kerygma « apre il discorso della montagna sotto la forma delle beatitudini e delle frasi relative alla splendida sorte di chi è discepolo di Cristo » (90). « Solo per la grandezza del dono divino diviene comprensibile la gravità della richiesta di Gesù » (91). La differenza fondamentale fra l’insegnamento di Gesù e la Torah di Mosè sta allora nel fatto che « il discorso della montagna non è legge, ma evangelo… La legge affida l’uomo alle sue proprie forze e lo incita a impegnarsi fino all’estremo. L’evangelo invece pone l’uomo di fronte al dono di Dio e lo incita a fare, di tale inesprimibile dono, il fondamento della vita. Sono due mondi… Dalla riconoscenza del figlio di Dio redento ha inizio una nuova vita. Ecco il significato del discorso della montagna » (93). La Torah dice: « Fa’ quanto insegno, e vivrai ». Gesù dice: « Vivi la vita che ti dono, e farai quello che ti chiedo ». Gesù non abolisce la Torah, non abbatte la siepe intorno alla Legge, come vorrebbe Neusner. E neppure radicalizza la Torah innalzando di qualche gradino le sue esigenze. Gesù dona la vita nuova che viene da Dio per realizzare e superare la Torah.

In Gesù il compimento della Torah
Siamo così giunti al punto decisivo: « Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento » (Mt 5,17). È il punto che si sforza di chiarire Joseph Ratzinger – Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret[6]: fra la semplice contrapposizione e la concordanza, la relazione fra l’insegnamento di Gesù sul monte e quello di Mosè al Sinai va intesa come novità non nella rottura, ma nel compimento. « La ‘Torah del Messia è del tutto nuova, diversa – ma proprio così ‘porta a compimento’ la Torah di Mosè » (126). « Non è più la ‘carne’ – la discendenza fisica da Abramo – a decidere, ma lo ‘spirito’: l’appartenenza all’eredità di fede e di vita di Israele attraverso la comunione con Gesù Cristo, il quale ha ‘spiritualizzato’ la Legge trasformandola così in un cammino di vita aperto a tutti. Nel Discorso della montagna Gesù parla al suo popolo, a Israele, in quanto primo portatore della promessa. Ma nel consegnargli la nuova Torah, lo apre in modo che ora da Israele e dagli altri popoli possa nascere una nuova grande famiglia di Dio » (127).
La continuità implicita nell’idea di compimento sta nel fatto che proprio in base alla Torah si può dire che « Israele non esiste semplicemente solo per se stesso, per vivere delle ‘eterne’ disposizioni della legge – ma per diventare luce dei popoli » (143). Gesù « ha portato il Dio di Israele ai popoli così che tutti i popoli ora lo pregano e nelle Scritture di Israele riconoscono la sua parola, la parola del Dio vivente. Ha donato l’universalità, che è la grande e qualificante promessa per Israele e per il mondo… È questo che lo qualifica come il ‘Messia’ e dà alla promessa messianica una spiegazione, che ha il suo fondamento in Mosè e nei Profeti, ma che dona a essi anche un’apertura completamente nuova » (144). La comunione con Gesù è comunione filiale col Padre e come tale « è un sì al quarto comandamento su una base nuova e a un livello più elevato. È l’ingresso nella famiglia di coloro che a Dio dicono Padre e possono dirlo nel ‘noi’ di coloro che con Gesù e mediante l’ascolto a Lui prestato sono uniti alla volontà del Padre e così stanno nel nucleo di quella obbedienza a cui la Torah mira » (145). Insomma, sono le stesse promesse contenute nella Legge che implicano il suo compimento: « Nella struttura intrinseca della Torah, nella sua evoluzione mediante la critica profetica e nel messaggio di Gesù che riprende entrambe, si trova insieme l’ampiezza per i necessari sviluppi storici e la base stabile che garantisce la dignità dell’uomo a partire dalla dignità di Dio » (156).
Perciò, Matteo ci presenta Gesù come il nuovo Mosè. E, perciò, la fedeltà alla Torah non può fermarsi all’applicazione legalistica di essa, ma deve aprirsi al compimento della promessa fatta a Israele dal suo Dio per bocca dello stesso Mosè: « Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto » (Dt 18,15). L’ebraicità di Gesù è dunque fuori discussione, e si deve essere grati a chi – come Neusner o Lapide – la rivendica con onestà e rispetto. Parimenti, però, è innegabile la novità del suo insegnamento e della sua opera: non si tratta né di una semplice radicalizzazione di quanto già detto a Israele, né di una blasfema violazione dei comandamenti dati sul Sinai. La novità è la persona stessa di Gesù e l’avvento del tempo messianico che in Lui si offre, come tempo della grazia e della misericordia del Dio dell’alleanza: è la novità dell’amore effuso dall’alto attraverso di Lui nei cuori di chi crede. È quel possibile, impossibile amore – impossibile agli uomini, reso possibile dal dono divino – che il discorso della montagna descrive come frutto dell’accoglienza della buona novella che Gesù annuncia, che Gesù è. Gesù di Nazaret, Ebreo per sempre, è il Figlio di Dio dall’eternità, fattosi uomo per aprire a chiunque creda la porta del cielo. La differenza – accettata o rifiutata – sta tutta qui: come sta qui l’esigenza imprescindibile per un discepolo del Maestro galileo di amare Israele e la sua fede per sempre.

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1) Il discorso della montagna, in Id., Gesù e il suo annuncio, Paideia, Brescia 1993, 65-93.
2) H.L. Strack – P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash, Beck, München 1922, 1. Bd. Das Evangeluium nach Matthäus.
3) San Paolo, Cinisello Balsamo 2007 (originale inglese: A Rabbi talks with Jesus, McGill-Queen’s University Press 2000).
4) Paideia, Brescia 2003.
5) Il discorso della montagna, in Id., Gesù e il suo annuncio, Paideia, Brescia 1993, 65-93.
6) Rizzoli, Milano 2007.

SE LA MORTE SI ECLISSA NEL CIELO DELLA VITA – EDITORIALE DI MONS. BRUNO FORTE

http://www.zenit.org/it/articles/se-la-morte-si-eclissa-nel-cielo-della-vita

SE LA MORTE SI ECLISSA NEL CIELO DELLA VITA

EDITORIALE DI MONS. BRUNO FORTE

 su « Il Sole 24 Ore » di domenica 3 novembre

Roma, 04 Novembre 2013 (Zenit.org) Bruno Forte

Riprendiamo il testo dell’editoriale firmato da mons. Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, pubblicato sul quotidiano “Il Sole 24 Ore” di domenica 3 di novembre 2013, pp. 1 e 16.

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Questi giorni d’inizio Novembre, specialmente dedicati alla memoria di chi non è più fra noi, ci hanno inevitabilmente ricordato un tratto costitutivo della nostra condizione umana, la sua caducità. Martin Heidegger ne parlava come del nostro essere “gettati verso la morte”, e rifletteva: “La morte non è affatto un mancare ultimo… essa è, prima di tutto, un’imminenza che sovrasta”. Con la morte tutti dobbiamo fare i conti, anche se volessimo illuderci che non c’è! È per questo che la vita risulta tanto spesso impastata di malinconia e la sottile striscia di terra, su cui poggiano i nostri piedi, appare fasciata dall’abisso del nulla. Da questa vertigine scaturiscono tanto la situa­zione emotiva dell’an­goscia, così diffusamente umana, quanto quella ripulsa del nulla che suscita, come per contraccolpo, la forza del domandare. È così che il pensiero nasce dalla morte: “Dalla morte, dal timore della morte – afferma Franz Rosenzweig – prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto”. Eppure, nella modernità occidentale e in larga parte fino ai nostri giorni la morte sembra aver conosciuto un oblio. L’ottimismo della ragione adulta, dall’Illuminismo in poi, aveva esorcizzato la morte, relegandola a semplice momento di passaggio nel processo totale dello Spirito. Per l’uomo emancipato della modernità tutto ciò che è notte deve cedere il posto alla luce della ragione. Il mito moderno del progresso svuotava la morte della sua tragicità, perché ne faceva una tappa marginale della storia dell’individuo totalmente assimilato alla causa, sacrificato al trionfo dell’idea. Quest’“eclissi della morte” è culminata nella figura della “morte rovesciata”, espulsa dallo svolgersi della vita, che sembra non sopportare le interruzioni e i silenzi. La morte, quando non può esser taciuta, viene trasformata in spettacolo, in modo che ne sia esorcizzato il pungolo doloroso. È il trionfo della maschera a scapito della verità: scompaiono i segni del lutto; la rassicurazione evasiva e consolatoria sembra averla vinta su tutti i fronti rispetto alla serietà tragica dell’interruzione senza riparo. Eppure, nelle inquietudini del nostro presente, pare profilarsi una “nostalgia di perfetta e consumata giustizia” (Max Horkheimer), una sorta di ricerca del senso perduto, ultimo e più forte della morte. Non si tratta di un’operazione soltanto emotiva, ma di uno sforzo di ritrovare il senso al di là del naufragio: “restituer la mort” (Ghislain Lafont) diventa un compito, che ci sfida tutti.
In questa ripresa della domanda sulla morte, trova nuovo spazio anche l’interrogativo sulla vita e il suo oltre: la morte è il “vallo estremo” o è la sentinella del futuro assoluto, decisivo per le scelte del vivere, anche se non deducibile dal nostro presente? L’interrogativo compendia l’enigma della condizione umana. La fede cristiana, che ha plasmato le culture dell’Occidente e non solo esse, pone dinanzi a quest’enigma un annuncio paradossale: Dio ha fatto sua la morte per dare a noi la vita. C’è una morte, in cui si è consumata la morte della morte: è il morire del Figlio di Dio nella tenebra del Venerdì Santo e nella luce del Suo risorgere alla vita. Nell’evento della morte in Dio avvenuta sulla Croce è rivelato agli occhi della fede il senso ultimo del vivere e del morire umano. Ad esso si volge la ricerca di una via, che faccia non solo della vita il cammino responsabile dell’imparare a morire, ma anche della morte il “dies natalis”, la porta misteriosa del nascere al di là della vita. Un pensatore del calibro di Hans Georg Gadamer ha potuto perciò affermare: “Che Dio abbia fatto sua la morte è quanto di più grande la mente umana abbia mai concepito, e questo le è stato donato”. L’uscita di Dio da sé, l’“exitus a Deo” del Figlio venuto nella carne, culmina nell’evento della Sua morte, rivelata nella sua profondità abissale dall’altra “trasgressione” divina, la resurrezione, il “reditus ad Deum”, in cui la morte è stata ingoiata per la vittoria (cf. 1 Cor 15,54). Fra queste due soglie, che spezzano il cerchio della vita chiusa nel silenzio del nulla, la morte del Figlio si presenta come l’evento al tempo stesso di un supremo abbandono e di una comunione suprema: nel supremo abbandono l’Eterno ha fatto sua l’esperienza della caducità dell’esistere e l’ha assunta in una comunione più grande, quella per la quale il Dio Crocifisso si abbandona a Colui che l’abbandona. La Croce rivela così la possibilità di vivere la lontananza più alta come profondissima vicinanza: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46). Morire in Dio diventa l’evento per il quale la persona, consegnata al supremo abbandono, accetta con Cristo e per Lui di vivere la morte come offerta totale di sé, in un atto di povertà e di obbedienza pura: morire è “abbandonarsi” nel seno di Dio, lasciando che tutto si trasfiguri in Colui che ci accoglie. Lo esprime con rara efficacia la parola poetica: “Portami via per mano ad occhi chiusi / senza un addio che mi trattenga ancora / tra quanti amai, tra le piccole cose / che mi fecero vivo. / Non credevo, Signore, tanto profondo fosse / questo sfiorarsi d’ombre, questo lieve / alitarsi la vita nello specchio / fragile di uno sguardo, / né pensavo che il mondo / divenisse, abbuiando, così acceso / di impensate bellezze” (Renzo Barsacchi, Le notti di Nicodemo). L’audacia divina rende possibile la suprema trasgressione dell’uomo: la vittoria sulla morte. Una vittoria che, certo, resta immersa nel silenzio e nell’oscurità della fede, e che tuttavia apre all’esperienza di un possibile, impossibile amore, fondato sul rapporto con il Trascendente, sul Suo eterno e fedele venire a ciascuno, chiamandolo a sua volta ad andare verso di Lui nella vita, come nella morte. Affacciarsi su quest’ultima sponda equivale a poter trasgredire la soglia in Dio e con Lui. Una soglia che diventa misura di opere e giorni, in cui la morte sia vinta grazie a sempre nuove scelte d’amore. Una sfida per tutti. Una possibile promessa, su cui vale la pena di riflettere insieme, credenti e non credenti, per cogliere in tutta la sua radicalità la dignità della vita personale, senza pregiudizi e senza alibi, liberi dalla paura.

Publié dans:Bruno Forte |on 4 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

CONFESSARSI, PERCHÈ? (BRUNO FORTE)

http://pastorale.myblog.it/archive/2009/10/01/confessarsi-perche-bruno-forte.html

CONFESSARSI, PERCHÈ? (BRUNO FORTE)

LA RICONCILIAZIONE E LA BELLEZZA DI DIO

01/10/2009

Proviamo a capire insieme che cos’è la confessione:
se lo capisci veramente, con la mente e col cuore,
sentirai il bisogno e la gioia di fare esperienza di questo incontro,
in cui Dio, donandoti il Suo perdono attraverso il ministro della Chiesa,
crea in Te un cuore nuovo, mette in te uno Spirito nuovo,
perché Tu possa vivere un’esistenza ricon­ciliata con Lui, con Te stesso e con gli altri,
divenendo a tua volta capace di perdono e di amore
al di là di ogni tentazione di sfiducia e di ogni misura di stanchezza


1. Perché confessarsi? Fra le domande che vengono poste al mio cuore di Vescovo, ne scelgo una che mi è stata fatta spesso: perché bisogna confessarsi? È una domanda che ritorna in molteplici forme: perché si deve andare da un sacerdote a dire i propri peccati e non lo si può fare direttamente con Dio, che ci conosce e comprende molto meglio di qualunque interlocutore umano? E, ancora più radicalmente: perché parlare delle mie cose, specie di quelle di cui ho vergogna perfino con me stesso, a qualcuno che è peccatore come me, e che forse valuta in modo completamente diverso dal mio ciò di cui ho fatto esperienza o non lo capisce affatto? Che ne sa lui di che cosa è veramente peccato per me? Qualcuno aggiunge: e poi, esiste veramente il peccato, o è solo un’invenzione dei preti per tenerci buoni? A quest’ultima domanda sento di poter rispondere subito e senza timore di smentita: il peccato c’è, e non solo è male, ma fa male. Basta guardare la scena quotidiana del mondo, dove violenze, guerre, ingiustizie, sopraffazioni, egoismi, gelosie e vendette si sprecano (un esempio di questo “bollettino di guerra” ce lo danno ogni giorno le notizie su giornali, radio, televisione e internet!). Chi crede nell’amore di Dio, poi, percepisce come il peccato sia amore ripiegato su se stesso (“amor curvus”, “amore curvo”, dicevano i Medioevali), ingratitudine di chi risponde all’amore con l’indifferenza e il rifiuto. Questo rifiuto ha conseguenze non solo su chi lo vive, ma anche sulla società tutta intera, fino a produrre dei condizionamenti e degli intrecci di egoismi e di violenze che costituiscono delle vere e proprie “strutture di peccato” (si pensi alle ingiustizie sociali, alla sperequazione fra paesi ricchi e paesi poveri, allo scandalo della fame nel mondo…). Proprio per questo non si deve esitare a sottolineare quanto sia grande la tragedia del peccato e quanto la perdita del senso del peccato – ben diverso da quella malattia dell’anima che chiamiamo “senso di colpa” – indebolisca il cuore davanti allo spettacolo del male e alle seduzioni di Satana, l’Avversario che cerca di separarci da Dio.
2. L’esperienza del perdono Nonostante tutto, però, non mi sento di dire che il mondo è cattivo e che fare il bene è inutile. Sono, anzi, convinto che il bene c’è ed è molto più grande del male, che la vita è bella e che vivere rettamente, per amore e con amore, vale veramente la pena. La ragione profonda che mi fa pensare così è l’esperienza della misericordia di Dio, che faccio in me stesso e che vedo risplendere in tante persone umili: è un’esperienza che ho vissuto tante volte, sia dando il perdono come ministro della Chiesa, sia ricevendolo. Sono anni che mi confesso regolarmente, più volte al mese e con la gioia di farlo. La gioia nasce dal sentirmi amato in modo nuovo da Dio ogni volta che il Suo perdono mi raggiunge attraverso il sacerdote che me lo dà in Suo nome. È la gioia che ho visto tanto spesso sul volto di chi veniva a confessarsi: non il futile senso di leggerezza di chi “ha vuotato il sacco” (la confessione non è uno sfogo psicologico né un incontro consolatorio, o non lo è principalmente), ma la pace di sentirsi bene “dentro”, toccati nel cuore da un amore che sana, che viene dall’alto e ci trasforma. Chiedere con convinzione, ricevere con gratitudine e dare con generosità il perdono è sorgente di una pace impagabile: perciò, è giusto ed è bello confessarsi. Vorrei far partecipi delle ragioni di questa gioia tutti coloro che riuscirò a raggiungere con questa lettera.
3. Confessarsi da un sacerdote? Mi chiedi dunque: perché bisogna confessare a un sacerdote i propri peccati e non lo si può fare direttamente a Dio? Certamente, è sempre a Dio che ci si rivolge quando si confessano i propri peccati. Che sia, però, necessario farlo anche davanti a un sacerdote ce lo fa capire Dio stesso: scegliendo di inviare Suo Figlio nella nostra carne, egli dimostra di volerci incontrare mediante un contatto diretto, che passa attraverso i segni e i linguaggi della nostra condizione umana. Come Lui è uscito da sé per amore nostro ed è venuto a “toccarci” con la sua carne, così noi siamo chiamati ad uscire da noi stessi per amore Suo e andare con umiltà e fede da chi può darci il perdono in nome Suo con la parola e col gesto. Solo l’assoluzione dei peccati che il sacerdote ti dà nel sacramento può comunicarti la certezza interiore di essere stato veramente perdonato e accolto dal Padre che è nei cieli, perché Cristo ha affidato al ministero della Chiesa il potere di legare e sciogliere, di escludere e di ammettere nella comunità dell’allean­za (cf. Mt 18,17). È Lui che, risorto dalla morte, ha detto agli Apostoli: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi ri­mette­rete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteran­no non rimessi” (Gv 20,22s). Perciò, confessarsi da un sacerdote è tutt’altra cosa che farlo nel segreto del cuore, esposto alle tante insicurezze e ambiguità che riempiono la vita e la storia. Da solo non saprai mai veramente se a toccarti è stata la grazia di Dio o la tua emozione, se a perdonarti sei stato tu o è stato Lui per la via che Lui ha scelto. Assolto da chi il Signore ha scelto e inviato come ministro del perdono, potrai sperimentare la libertà che solo Dio dona e capirai perché confessarsi è fonte di pace.
4. Un Dio vicino alla nostra debolezza La confessione è dunque l’incontro col perdono divino, offertoci in Gesù e trasmessoci mediante il ministero della Chiesa. In questo segno efficace della grazia, appuntamento con la misericordia senza fine, ci viene offerto il volto di un Dio che conosce come nessuno la nostra condizione umana e le si fa vicino con tenerissimo amore. Ce lo dimostrano innumerevoli episodi della vita di Gesù, dall’incontro con la Samaritana alla guarigione del paralitico, dal perdono all’adultera alle lacrime di fronte alla morte dell’amico Lazzaro… Di questa vicinanza tenera e compassionevole di Dio abbiamo immenso bisogno, come dimostra anche un semplice sguardo alla nostra esistenza: ognuno di noi con­vive con la propria debolezza, attraver­sa l’infermità, si affaccia alla morte, avverte la sfida delle domande che tutto questo accende nel cuore. Per quanto, poi, possiamo desiderare di fare il bene, la fragilità che ci caratterizza tutti ci espone conti­nuamente al rischio di cadere nella tentazione. L’Apostolo Paolo ha descritto con precisione questa esperienza: “C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rom 7,18s). È il conflitto interiore da cui nasce l’invocazione: “Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rom 7, 24). Ad essa risponde in modo particolare il sacra­mento del perdono, che viene a soccor­rerci sempre di nuovo nella nostra condi­zione di peccato, rag­giun­gendoci con la po­tenza sanante della grazia divina e trasfor­mando il nostro cuore e i compor­tamenti in cui ci esprimiamo. Perciò, la Chiesa non si stanca di proporci la grazia di questo sacramento durante l’intero cammino della nostra vita: attraverso di essa è Gesù, vero medico cele­ste, che viene a farsi carico dei nostri peccati e ad accompagnarci, con­ti­nuando la sua opera di guari­gione e di salvezza. Come accade per ogni storia d’amore, anche l’alleanza col Signore va rinnovata senza sosta: la fedeltà è l’impegno sempre nuovo del cuore che si dona e accoglie l’amore che gli viene donato, fino al giorno in cui Dio sarà tutto in tutti.
5. Le tappe dell’incontro col perdono Proprio perché desiderato da un Dio profondamente “umano”, l’incontro con la misericordia offertaci da Gesù avviene attraverso varie tappe, che rispettano i tempi della vita e del cuore. All’inizio c’è l’ascol­to della buona novella, in cui ti raggiunge l’appello dell’Amato: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Attraverso questa voce è lo Spirito Santo ad agire in te, dandoti dolcezza nel consentire e credere alla Verità. Quando ti rendi docile a questa voce e decidi di rispondere con tutto il cuore a Colui che ti chiama, intraprendi il cammino che ti porta al dono più grande, quel dono tanto prezioso da far dire a Paolo: “Vi sup­plichiamo in nome di Cristo: la­sciatevi riconciliare con Dio” (2 Cor 5,20). La riconciliazione è appunto il sacramento dell’incontro con Cristo, che attraverso il ministero della Chiesa viene a soccorrere la debolezza di chi ha tradito o rifiutato l’alleanza con Dio, lo riconcilia col Padre e con la Chiesa, lo ricrea come creatura nuova nella forza dello Spirito Santo. Questo sacramento è chiamato anche della penitenza, perché in esso si esprime la conversione dell’uo­mo, il cammino del cuore che si pente e viene ad invocare il perdo­no di Dio. Il termine confessione – usato comunemente – si riferisce invece all’atto di confessare le proprie colpe davanti al sacerdote, ma richiama anche la triplice confessione da fare per vivere in pienezza la celebrazione della riconciliazione: la confessione di lode (“confessio laudis”), con cui facciamo memoria dell’amore divino che ci precede e ci accompagna, riconoscendone i segni nella nostra vita e comprendendo meglio in tal modo la gravità della nostra colpa; la confessione del peccato, con la quale presentiamo al Padre il nostro cuore umile e pentito riconoscendo i nostri peccati (“confessio pecca­ti”); la confessione di fede, infine, con cui ci apriamo al perdono che libera e salva, offertoci con l’assoluzione (“confessio fidei”). A loro volta, i gesti e le parole in cui esprimeremo il dono che abbiamo ricevuto confesseranno nella vita le meraviglie operate in noi dalla misericordia di Dio.
6. La festa dell’incontro Nella storia della Chiesa la peni­ten­za è stata vissuta in una grande varietà di forme, comunitarie e individuali, che hanno però tutte mante­nuto la struttura fondamentale dell’incontro personale fra il peccatore pentito e il Dio vivente attraverso la media­zione del ministero del vescovo o del sacerdote. Attraverso le parole dell’assoluzio­ne, pro­nunciate da un uomo peccatore, che però è stato scelto e consacrato per il ministero, è Cristo stesso che accoglie il peccatore pentito e lo riconcilia col Padre e nel dono dello Spirito Santo lo rinnova come mem­bro vivo della Chiesa. Riconciliati con Dio, veniamo accolti nella comunione vivificante della Trinità e riceviamo in noi la vita nuova della grazia, l’amore che solo Dio può effondere nei nostri cuori: il sacra­mento del perdono rinnova, così, il nostro rapporto col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, nel cui nome ci è data l’assoluzione delle colpe. Come mostra la parabola del Padre e dei due figli, l’incontro della riconciliazione culmina in un banchetto di vivande saporite, cui si partecipa col vestito nuovo, l’anello e i calzari ai piedi (cf. Lc 15,22s): immagini che esprimono tutte la gioia e la bellezza del dono offerto e ricevuto. Veramente, per usare le parole del Padre della parabola, “bisogna far festa e rallegrarsi, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,24). Come è bello pensare che quel figlio può essere ognuno di noi!
7. Il ritorno alla casa del Padre In rapporto a Dio Padre la peni­ten­za si presenta come un “ritorno a casa” (questo è propriamente il senso della parola “teshuvà”, che l’ebraico usa per dire “conversione”). Attraverso la presa di co­scien­za delle tue colpe, ti accorgi di essere in esilio, lontano dalla patria dell’amore: avverti disagio, dolore, perché capisci che la colpa è una rottura dell’alleanza col Signore, un rifiuto del Suo amore, è “amore non amato”, e proprio così è anche sorgente di alie­nazione, perché il peccato ci sradica dalla nostra vera dimora, il cuore del Padre. È allora che occorre ricordarci della casa dove siamo attesi: senza questa memoria dell’amore non potremmo mai avere la fiducia e la speranza necessarie a prendere la decisione di tornare a Dio. Con l’umiltà di chi sa di non essere degno di venir chiamato “figlio”, possiamo deciderci di andare a bussare alla porta della casa del Padre: quale sorpresa scoprire che lui è alla finestra a scrutare l’orizzonte, perché aspetta da tanto il nostro ritorno! Alle nostre mani aperte, al cuore umile e pentito risponde la gratuita offerta del perdo­no, con cui il Padre ci riconcilia con sé, “convertendosi” in qualche modo a noi: “Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incon­tro, gli si gettò al collo e lo baciò” (Lc 15,20). Con straordinaria tenerezza Dio ci introduce in modo rinnovato nella condizione di figli, offerta dall’alleanza stabilita in Gesù.
8. L’incontro con Cristo, morto e risorto per noi In rapporto al Figlio il sacra­men­to della riconciliazione ci offre la gioia dell’incontro con Lui, il Signore crocifisso e risorto, che attraverso la Sua Pasqua ci dona la vita nuova infondendo il Suo Spirito nei nostri cuori. Questo incontro si compie attraverso l’itinerario che porta ognuno di noi a confessare le nostre colpe con umiltà e dolore dei peccati e a ricevere con gratitudine piena di stupore il perdono. Uniti a Gesù nella Sua morte di Croce, moriamo al peccato e all’uomo vecchio che in esso ha trionfato. Il Suo sangue sparso per noi ci riconcilia con Dio e con gli altri, abbattendo il muro dell’inimicizia che ci teneva prigionieri della nostra solitudine senza speranza e senza amore. La forza della Sua resurrezione ci raggiunge e trasforma: il Risorto ci tocca il cuore, lo fa ardere in noi di una fede nuova, che schiude i nostri occhi e ci rende capaci di riconoscere Lui accanto a noi e la Sua voce in chi ha bisogno di noi. Tutta la nostra esistenza di peccatori, unita a Cristo crocifisso e risorto, si offre alla misericordia di Dio per essere sanata dall’angoscia, liberata dal peso della colpa, confermata nei doni di Dio e rinno­vata nella potenza del Suo amore vittorioso. Liberati dal Signore Gesù, siamo chiamati a vivere come Lui nella libertà dalla paura, dalla colpa e dalle seduzioni del male, per compiere opere di verità, di giustizia e di pace.
9. La vita nuova nello Spirito Grazie al dono dello Spirito che effonde in noi l’amore di Dio (cf. Rm 5,5), il sacramento della riconciliazione è sorgente di vita nuova, comunione rinnovata con Dio e con la Chiesa, di cui proprio lo Spirito è l’anima e la forza di coesione. È lo Spirito a spingere il peccatore perdonato a esprimere nella vita la pace ricevuta, ac­cettando anzitutto le conseguenze della colpa com­messa, e cioè la cosiddetta “pena”, che è come l’effetto della malattia rappresentata dal peccato e va considerata come una ferita da sanare con l’olio della grazia e la pazienza dell’amore da avere verso noi stessi. Lo Spirito, poi, ci aiuta a maturare il proposito fermo di vivere un cammino di conversione fatto di impegni concreti di carità e di preghiera: il segno penitenziale richiesto dal confessore serve appunto ad esprimere questa scelta. La vita nuova, a cui così rinasciamo, può dimostrare più di ogni altra cosa la bellezza e la forza del perdono sempre di nuovo invocato e ricevuto (“perdono” vuol dire appunto dono rinnovato: perdonare è donare all’infinito!). Ti chiedo, allora: perché fare a meno di un dono così gran­de? Accostati alla confes­sione con cuore umile e contrito e vivila con fede: ti cambierà la vita e darà pace al tuo cuore. Allora, i tuoi occhi si apriranno per riconoscere i segni della bellezza di Dio presenti nel creato e nella storia e ti sgorgherà dall’anima il canto della lode. Ed anche a te, sacerdote che mi leggi e come me sei ministro del perdono, vorrei rivolgere un invito che mi nasce dal cuore: sii sempre pronto – a tempo e fuori tempo – ad annunciare a tutti la misericordia e a dare a chi te lo chiede il perdono di cui ha bisogno per vivere e per morire. Per quella persona potrebbe trattarsi dell’ora di Dio nella sua vita!
10. Lasciamoci riconciliare con Dio! L’invito dell’Apostolo Paolo diventa, così, anche il mio: lo esprimo servendomi di due voci diverse. La prima è quella di Friedrich Nietzsche, che negli anni della giovinezza scrive queste parole appassionate, segno del bisogno della misericordia divina che tutti ci portiamo dentro: “Ancora una volta, prima di partire e volgere i miei sguardi verso l’alto, rimasto solo, levo le mie mani a Te, presso cui mi rifugio, cui dal profondo del cuore ho consacrato altari, affinché ogni ora la voce Tua mi torni a chiamare… ConoscerTi io voglio, Te, l’Ignoto, che a fondo mi penetri nell’anima e come tempesta squassi la mia vita, inafferrabile eppure a me affine! ConoscerTi, io voglio, e anche servirTi” (Scritti giovanili, I, 1, Milano 1998, 388). L’altra voce è quella attribuita a Francesco d’Assisi, che esprime la verità di una vita rinnovata dalla grazia del perdono: “Signore, fa’ di me uno strumento della Tua pace. Dove è odio, che io porti l’amore. Dov’è offesa, che io porti il perdono. Dov’è discordia, che io porti l’unione. Dov’è errore, che io porti la verità. Dov’è dubbio, che io porti la fede. Dov’è disperazione, che io porti la speranza. Dove sono tenebre, che io porti la luce. Dov’è tristezza, che io porti la gioia. Maestro, fa’ che io non cerchi tanto di essere consolato quanto di consolare, di essere compreso quanto di comprendere, di essere amato quanto di amare”. Sono questi i frutti della riconciliazione, invocata ed accolta da Dio, che auguro a tutti Voi che mi leggete. Con questo augurio, che diventa preghiera, Vi abbraccio e benedico uno per uno

+ Bruno, Vostro Padre nella fede
Per l’esame di coscienza

Publié dans:Bruno Forte, liturgia, LITURGIA: SACRAMENTI |on 17 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

PARLAMI DELLA CHIESA CHE AMI… – PARLAMI DELLA CHIESA CHE AMI…

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PARLAMI DELLA CHIESA CHE AMI…

DI BRUNO FORTE

Mi dici: parlami della Chiesa che ami! Sì, amo la Chiesa: la amo come un figlio ama la madre che gli ha dato la vita. La trovo bella e degna d’amore anche quando qualche ruga copre il suo volto o quando mi sembra di non capire fino in fondo le sue scelte e i suoi tempi. Perciò Ti parlerò di lei come mi detta l’amore….

Mi dici: parlami della Chiesa che ami! Sì, amo la Chiesa: la amo come un figlio ama la madre che gli ha dato la vita. La trovo bella e degna d’amore anche quando qualche ruga copre il suo volto o quando mi sembra di non capire fino in fondo le sue scelte e i suoi tempi. Perciò Ti parlerò di lei come mi detta l’amore. Se penso al dono che la Chiesa mi ha fatto generandomi alla vita divina col battesimo, o all’aiuto che mi ha dato facendomi crescere nella fede alla scuola della Parola di Dio, se rifletto su come mi ha nutrito e mi nutre col pane della vita che è il corpo stesso di Gesù o mi ricordo di tutte le volte che ha perdonato i miei peccati col sacramento della riconciliazione, se medito sulla grazia della mia vocazione e missione fra gli uomini, riconosciuta e sostenuta dalla Chiesa, come avviene per la vocazione di tutti i consacrati e degli sposi cristiani, sento la gratitudine riempirmi il cuore e l’impulso ad amarla e a renderla sempre più credibile e bella mi appare superiore a ogni ragione contraria.
È mia convinzione profonda, maturata nell’esperienza degli anni e alimentata dalla fiamma viva della fede e dell’amore, che la Chiesa non nasce da una convergenza di interessi umani o dallo slancio di qualche cuore generoso, ma è dono dall’alto, frutto dell’iniziativa divina: dire che la Chiesa è il popolo di Dio non è per me una espressione qualunque, una definizione astratta, ma la confessione umile che è lei ad avermi fatto incontrare il Dio vivente, Signore, origine e meta del Suo popolo! Pensata da sempre nel disegno del Padre, la Chiesa è stata preparata attraverso l’alleanza con il popolo eletto Israele, affinché, compiutisi i tempi, fosse donata a tutti gli uomini come la casa e la scuola della comunione con Dio grazie alla missione del Figlio venuto nella carne e all’effusione dello Spirito Santo.
Sì: credo la Chiesa, “credo Ecclesiam”, come dicevano sin dall’inizio i cristiani, credo che essa è opera di Dio e non dell’uomo, inaccessibile nel suo cuore pulsante ad uno sguardo puramente umano. Credo che la Chiesa è “mistero”, tenda di Dio fra gli uomini, frammento di carne e di tempo in cui lo Spirito dell’Eterno ha preso dimora. E perciò so che la Chiesa non si inventa né si produce, ma si riceve: è dono che va accolto incessantemente con l’invocazione e il rendimento di grazie, in uno stile di vita contemplativo ed eucaristico. Allo sguardo della mia fede, generata nel cuore della Chiesa Madre per l’azione della Trinità divina, la Chiesa mi appare come “icona della Trinità”, immagine vivente della comunione del Dio che è Amore, popolo generato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Proprio così so che la varietà dei doni e dei servizi suscitati in ciascuno di noi battezzati dall’azione dello Spirito Santo, e tanto più accolti e vissuti quanto più viviamo di fede, di amore e di preghiera, non solo non compromette, ma esprime la profonda unità che viene da Dio per tutti i battezzati. E riconosco quali segni e servitori di questa unità i pastori, dal Papa, Vescovo della Chiesa di Roma, che presiede nell’amore alla comunione di tutta la Chiesa, ai Vescovi in comunione con Lui, ai Sacerdoti che in ogni comunità sono inviati dal Vescovo. Nell’amore al Papa e al Vescovo, segno di Cristo Pastore, nella docilità alla loro guida, quanti hanno ricevuto i diversi doni entrano in dialogo fra di loro e crescono nella comunione. È la comunione di un popolo di credenti adulti e responsabili nella fede e nell’amore, capaci di pronunciare con la vita tre grandi “no” e tre grandi “sì”.
Il primo “no” è quello al disimpegno, cui nessuno ha diritto, perché i doni ricevuti da ognuno vanno vissuti nel servizio degli altri: a questo “no” deve corrispondere il “sì” alla corresponsabilità, per cui ognuno si faccia carico per la propria parte del bene comune da realizzare secondo il disegno di Dio. Il secondo “no” è alla divisione, cui nessuno può sentirsi autorizzato, perché i carismi vengono dall’unico Signore e sono orientati alla costruzione dell’unico Corpo, che è la Chiesa: il “sì” che ne consegue è quello al dialogo fraterno, rispettoso della diversità e volto alla costante ricerca della volontà del Signore per ciascuno e per tutti. Il terzo “no” è quello alla stasi e alla nostalgia del passato, cui nessuno deve acconsentire, perché lo Spirito è sempre vivo ed operante nella vita e nella storia: a questo “no” deve corrispondere il “sì” alla continua riforma, per la quale ognuno possa realizzare sempre più fedelmente la chiamata di Dio, e la Chiesa tutta possa celebrarne la gloria. Attraverso questo triplice “no” e questo triplice “sì”, la Chiesa si presenta come icona viva della Trinità, comunione di uomini e donne, adulti e responsabili nella loro diversità, uniti fra loro nell’amore.
Quanto bisogno c’è di questa comunione! Di fronte all’arcipelago, che è spesso la società in cui ci troviamo, in cui ognuno sembra estraneo all’altro e fatica a uscire da sé nel dono dell’amore, la comunione della Chiesa rappresenta veramente la buona novella contro la solitudine: è così che vorrei si mostrasse a tutti la Chiesa, e a questo scopo vorrei portare con generosità il mio contributo di discepolo e di pastore per suscitare e coltivare con tutti relazioni di rispetto e di reciproco amore, che siano un’immagine eloquente della comunione trinitaria, e accendano in chi è lontano il desiderio del Dio dei cristiani e dell’esperienza di Lui, offerta nella Chiesa dell’amore. In questo consiste la missione affidata alla Chiesa: essere luce delle genti per la forza della fede e della carità, attrarre gli uomini a Dio con vincoli di amore, mostrando credibilmente a tutti la bellezza dell’incontro con Gesù, capace di cambiare il cuore e la vita.
Sì: sogno la Chiesa che amo sempre più missionaria, non in uno spirito di conquista che sappia di logica di potere umano, ma in una passione d’amore, in uno slancio di servizio e di dono, che vuol dire a tutti quanto è bello essere discepoli di Gesù e quanto il Suo amore possa riempire il cuore e la vita! Certo, la Chiesa è e resta un popolo in cammino, pellegrino verso la patria del cielo. Ogni presunzione di essere arrivati va considerata una tentazione: sogno la Chiesa impegnata nella sua continua purificazione e nel suo rinnovamento, inappagata da qualsiasi conquista umana, solidale con il povero e con l’oppresso vigile, sovversiva e critica verso tutte le realizzazioni miopi di questo mondo. Beninteso, questo non significherà disimpegno o critica a buon mercato: la vigilanza che ci è chiesta in quanto discepoli di Gesù è costosa ed esigente. Si tratta di assumere le speranze umane e di verificarle al vaglio della Sua risurrezione, che da una parte sostiene ogni impegno autentico di liberazione dell’uomo, dall’altra contesta ogni assolutizzazione di mete terrene. La patria, che fa stranieri e pellegrini in questo mondo, non è sogno che alieni dal reale, ma forza stimolante e critica dell’impegno per la giustizia e per la pace nell’oggi del mondo. Sogno che la Chiesa sia sempre più popolo della carità, testimone della gioia e della speranza, che non delude, libera e generosa nel suo impegno al servizio della giustizia per tutti, del dialogo fra tutti e della pace che solo così può nascere stabilmente fra gli uomini.
Chiesa dell’amore, che nel Simbolo della fede professiamo una, santa, cattolica e apostolica, e che il Redentore del mondo, dopo la sua risurrezione, diede da pascere a Pietro, affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida, “colonna e sostegno della verità” come dice l’Apostolo (cfr. 1Tm 3,15), la Chiesa cattolica è non di meno aperta al riconoscimento di tutto il patrimonio di grazia e di santità che lo Spirito ha reso e rende presente nelle tradizioni cristiane, che non sono in piena comunione con lei. Con esse dialoga offrendo loro i doni di cui è portatrice e ricevendo da esse la testimonianza del bene, che il Signore opera in loro, in vista del comune annuncio del Vangelo di Gesù a tutti gli uomini. Fedele poi alla propria origine divina e alla propria missione, la Chiesa avverte l’esigenza del dialogo con Israele, con cui sa di avere un rapporto privilegiato ed esclusivo, perché la fede del popolo eletto è – come dice l’apostolo Paolo – la “primizia”, la “santa radice”, su cui il buon olivo del cristianesimo è innestato (cfr. Rm 11,16-24). Senza rinunciare alla novità del messaggio evangelico, il popolo di Dio che è la Chiesa può crescere nella conoscenza del mistero di Dio e nella speranza della vita insieme al popolo d’Israele, che resta avvolto dalla grazia dell’elezione divina. Sogno una Chiesa viva nel dialogo, tesa a realizzare il progetto di Dio, che è progetto di unità e di pace per tutti.
Infine, nell’epoca del mondo percepito come “villaggio globale”, caratterizzata anche da un nuovo incontro fra i credenti delle diverse religioni, la Chiesa si riconosce chiamata con essi al comune servizio all’uomo a favore della giustizia e della pace e alla testimonianza del divino nella storia. Fondate sull’iniziativa misteriosa di Dio verso ogni uomo e sull’atteggiamento di inquietudine, di desiderio e di accoglienza del Mistero santo presente in ogni cuore, le grandi religioni universali sono accomunate da una sorta di spiritualità dell’ascolto, che implica l’apertura radicale del cuore al Dio che parla, nella disponibilità a lasciarsi gestire la vita da Lui in obbedienza d’amore. Certamente per i credenti in Cristo l’ascolto non è solo l’attitudine dell’uomo davanti a Dio, ma è anche lo stare in Dio, nello Spirito, uniti al Figlio, dinanzi al Padre. Il cristiano non rinuncerà perciò mai ad annunciare con la parole e con la vita, con dolcezza e rispetto, che Dio si è coinvolto nella storia degli uomini con l’incarnazione del Verbo e la missione dello Spirito: è questo, però, un annuncio di amore, che dovrà coniugare la proclamazione del Vangelo, a cui tutti hanno diritto, con l’autenticità del dialogo, per far avanzare l’intera famiglia umana verso la pienezza del tempo in cui “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28) e il mondo intero sarà la Sua patria.
Questa Chiesa del dialogo e della missione è la Chiesa dell’amore per cui Gesù ha pregato: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola” (Gv 17,21). È la Chiesa di cui mi riconosco figlio, che amo e propongo a tutti come dono d’amore per imparare ad amare nel cuore di Dio. È la Chiesa che vedo realizzata nella donna Maria, Vergine Madre del Figlio, che accoglie il dono di Dio e lo dona, pronta sempre a intercedere per noi. È la Chiesa che vorrei costruire insieme anche a Te, con l’aiuto di Dio, cui Ti invito a rivolgerti con me nella forza dello Spirito e nella fiducia dell’intercessione di Gesù, Sommo ed eterno Sacerdote: Dio, Trinità Santa, da Te viene la Chiesa, popolo pellegrino nel tempo chiamato a celebrare senza fine la lode della Tua gloria. In Te vive la Chiesa, icona del Tuo amore, comunione nel dialogo e nel servizio della carità. Verso di Te tende la Chiesa, segno e strumento della Tua opera di riconciliazione e di pace nella storia del mondo. Donaci di amare questa Chiesa come nostra Madre e di volerla con tutta la passione del cuore Sposa bella del Cristo, senza macchia né ruga, una, santa, cattolica e apostolica, partecipe e trasparente della vita dell’eterno Amore nel tempo degli uomini, perché sia luce di salvezza per tutte le genti.
(Teologo Borèl) Agosto 2006 – autore: mons. Bruno Forte

LA CROCE UN APPELLO ALLA SEQUELA – DI MONS. BRUNO FORTE

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LA CROCE UN APPELLO ALLA SEQUELA

DI MONS. BRUNO FORTE

I cristiani sanno di dover vivere nel segno della croce le opere e i giorni del loro cammino. Sanno anche che nulla è più lontano dall’immagine del discepolo del Crocifisso che una Chiesa tranquilla e sicura, forte dei propri mezzi e delle proprie influenze.
La croce è il luogo in cui Dio parla nel silenzio: quel silenzio della finitudine uma­na, che è diventata per amore la sua finitudine. Il mistero ­nascosto nelle tenebre della croce è il mistero del dolore di Dio e del suo amore per gli uomini. L’un aspetto esige l’altro: il Dio cristiano soffre perché ama e ama in quanto soffre. Egli è il Dio che patisce con noi e per noi, che si dona fino al punto di uscire totalmente da sé nell’alienazione della mor­te, per accoglierci pienamente in sé nel dono della vita.
Nella morte di croce il Figlio è entrato nella ‘’fine” dell’uomo, nell’abisso della sua povertà, del suo dolore, della sua solitudine, della sua oscurità. E soltanto lì, bevendo l’amaro calice, ha fatto fino in fondo l’esperienza della nostra condizione uma­na: sulla via del dolore è diventato uomo fino alla possibilità estrema. Ma proprio così anche il Padre ha conosciuto il dolore: nell’ora della croce, men­tre il Figlio si offriva in incondizionata obbedienza a lui e in solidarietà con i peccatori, anche il Pa­dre ha fatto storia! Egli ha sofferto per l’Innocente consegnato ingiustamente alla morte: e tuttavia ha scelto di offrirlo, perché nell’umiltà e nell’ignominia della croce si rivelasse agli uomini l’amore trinita­rio di Dio per loro e la possibilità di divenirne partecipi. E lo Spirito, consegnato da Gesù morente al Padre suo, non è stato meno presente nel nascon­dimento di quell’ora: Spirito dell’estremo silenzio, egli è stato lo spazio divino della lacerazione dolo­rosa e amante, che si è consumata fra il Signore del cielo e della terra e colui che si è fatto peccato per noi, in modo che un varco si aprisse nell’abisso e ai poveri si schiudesse la via del Povero verso la pienezza della vita.

È SULLA VIA DELLA CROCE CHE TROVEREMO DIO
 Questa morte in Dio non significa in alcun modo la morte di Dio che “l’uomo folle” di Nietzsche va gridando sulle piazze del mondo: non esiste né mai esisterà un tempio dove si possa cantare nel­la verità il “Requiem aeternam Deo”! L’amore che lega l’Abbandonante all’Abbandonato, e in questi al mondo, vincerà la morte, nonostante l’apparen­te trionfo di questa. La sorprendente identità del Crocifisso e del Risorto mostra apertamente quan­to sulla croce è rivelato “sub contrario” e garantisce che quella fine è un nuovo inizio: il calice del­la passione di Dio si è colmato di una bevanda di vita, che sgorga e zampilla in eterno (cf. Gv 7,37-­39). Il frutto dell’albero amaro della croce è la gioiosa notizia di Pasqua: il Consolatore del Crocifisso viene effuso su ogni carne per essere il Conso­latore di tutti i crocefissi della storia e per rivelare nell’umiltà e nell’ignominia della croce, di tutte le croci della storia, la presenza corroborante e trasformante del Dio cristiano. In questo senso, la sofferenza divina rivelata sulla croce è veramente la buona novella: «Se gli uomini sapessero… – scrive Jacques Maritain – che Dio “soffre” con noi e molto più di noi di tutto il male che devasta la ter­ra, molte cose cambierebbero senza dubbio, e molte anime sarebbero liberate».
La “parola della croce” (1 Cor 1,18) chiama co­sì in maniera sorprendente il discepolo alla sequela: è sulla via della croce – nella povertà, nella de­bolezza, nel dolore e nella riprovazione del mondo – che troveremo Dio. Non gli splendori delle perfezioni terrene, ma precisamente il loro contrario, la piccolezza e l’ignominia, sono il luogo privilegiato della sua presenza fra noi, il deserto fiorito dove egli parla al nostro cuore. La perfezione del Dio cristiano si manifesta proprio nelle sofferenze, che per amore nostro egli assume: la finitudine del patire, la lacerazione del morire, la debolezza della povertà, la fatica e l’oscurità del domani, sono al­trettanti luoghi, dove egli mostra il suo amore, per­fetto fino alla consumazione totale. Nella vita di ogni creatura umana può ormai essere riconosciu­ta la croce del Dio vivo: nel soffrire diventa possibile aprirsi al Dio presente, che si offre con noi e per noi, e trasformare il dolore in amore, il soffrire in offrire.

EGLI VIVE CON NOI E IN NOI LE AGONIE DELLA VITA
Lo Spirito del Crocifisso opera il miracolo di questa rivelazione salvifica: egli è il Consolatore della passione del mondo, colui che proclama la verità della storia dei vinti, confondendo la storia dei vincitori. Egli vive con noi e in noi le agonie del­la vita, facendo presente nel nostro patire il patire del Figlio, e perciò aprendovi un’aurora di vita, rivelazione e dono del mistero di Dio. La “kènosi” dello Spirito nelle tenebre del tempo degli uomini non è che il frutto della “kènosi” del Verbo nella storia della passione e morte di Gesù di Nazaret, l’estrema conseguenza del più grande amore, che ha vinto e vincerà la morte.
La Chiesa e i singoli discepoli del Dio trinitario, che soffre per amore nostro, vengono allora a con­figu­rarsi come il popolo della “sequela crucis”, la comunità e il singolo sotto la croce: preceduti da Cristo nell’abisso della prova, attraverso cui si apre la via della vita, i cristiani sanno di dover vivere nel segno della croce le opere e i giorni del loro cam­mino. Nulla è più lontano dall’immagine del discepolo del Crocifisso che una Chiesa tranquilla e sicura, forte dei propri mezzi e delle proprie influenze: «La cristianità stabilita dove tutti sono cristiani, ma in interiorità segreta, non somiglia alla Chiesa militante più che il silenzio della morte all’eloquenza della passione» (Kier­kegaard). La Chiesa sotto la croce è il popolo di coloro che, con Cristo e nel suo Spirito, si sforzano di uscire da sé e di entrare nella via dolorosa dell’amore: una comunità di discepoli del Dio Crocifisso al servizio dei poveri, capace di confutare con la vita i falsi sapienti e potenti di questa terra. Una Chiesa sotto la croce dice anche una comunità feconda nel dolore dei suoi membri: la sequela del Nazareno, fonte di vita che vince la morte, esige di percorrere con lui l’oscuro cammino della passione: “Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me” (Mt 10,38 e Lc 14,27).
Il discepolo dovrà dunque “completare nella sua carne quello che manca ai patimenti del Cristo” (Col 1,24): lo farà se riuscirà a portare la più pesante di tutte le croci, la croce del presente a cui il Padre lo chiama, credendo anche senza vedere, lottando e sperando, anche senza avvertire la germinazione dei frutti, nella solidarietà con tutti colo­ro che soffrono (cf. 1 Cor 15,26), nella comunione a Cristo, compagno e sostegno del patire umano, e nell’oblazione al Padre, che valorizza ogni nostro dolore. Questa croce del presente è il travaglio della fedeltà e insieme l’esperienza della persecuzione messa in atto dai “nemici della croce di Cristo” (Fil 3,18). La “via crucis” della fedeltà è fatta dalla lotta interiore e dalle agonie silenziose dei momenti di prova, di solitudine e di dubbio, ed è sostenuta dalla preghiera perseverante e tenace di una povertà che aspetta la misericordia del Padre: la stessa “via crucis” della fedeltà di Gesù, con la differenza che egli fu solo a percorrerla, mentre noi siamo preceduti e accompagnati da lui. Questa prossimità del Signore crocifisso ai sofferenti specialmente a quelli che si trovano nella fragilità della malattia è la buona novella che come discepoli siamo chiamati ad annunciare a tutti e sempre. La croce della persecuzione è invece la conseguenza dell’amore per la giustizia e della relativizzazione di ogni presunto assoluto mondano da parte dei discepoli del Crocifisso: la loro spe­ranza nel Regno che viene, li fa inquietanti verso le miopie di tutti i vincitori e i dominatori della storia. “Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi…E sarete odiati da tutti a causa del mio nome” (Mc 10,16.22; cf. 16ss).

Il Crocifisso si identifica con i crocifissi della storia
La Chiesa sotto la croce diventa così, per la sua stessa fame e sete del mondo nuovo di Dio e per la grazia di cui è strumento, il popolo che aiuta a portare la croce e che combatte le cause ini­que delle croci di tutti gli oppressi: essa si confron­ta con le prigionie di ogni sorta di legge e con le schiavitù di ogni sorta di potere, e, come il suo Si­gnore, si pone in alternativa umile e coraggiosa nei loro confronti. Il Crocifisso non esita a identificarsi con tutti i crocefissi della storia, fino al punto di poter riconoscere nell’altro bisognoso d’amore e di cura il sacramento di lui, il “sacramento del fratello”.
Chi ama il Crocifisso e lo segue, non può non sentirsi chiamato a lenire le croci di tutti coloro che sof­frono e ad abbatterne le cause inique con la parola e con la vita. La croce della liberazione dal peccato e dalla morte esige la liberazione da tutte le croci frutto di morte e di peccato: l’ imitatio Christi crucifixi non potrà mai essere accettazione passiva del male presente! Essa si consumerà, al contrario, nell’attiva dedizione alla causa del Regno che viene, che è anche impegno operoso e vigilante per fare del Calvario della terra un luogo di risurrezione, di giustizia e di vita piena. La compassione verso il Crocifisso si traduce nella compassione operosa verso le membra del suo corpo nel­la storia: per una Chiesa, che si dibatte nel proble­ma del rapporto fra la sua identità e la sua rilevanza, fra la fedeltà e la creatività audace, questo significa il riconoscimento della possibilità risolutrice. La Chiesa si ritroverà perdendosi, porrà la sua identità esattamente nel metterla al servizio degli altri, per ritrovarla all’unico livello degno dei segua­ci del Crocifisso: l’amore.
Essere cristiani, allora, non vorrà dire soltanto andare da Dio perché lui ci faccia compagnia nel­la nostra solitudine, cercando in lui consolazione e pace: il cristiano va dal Dio sofferente anche per fargli compagnia nel suo dolore. È quello che hanno insegnato i mistici.
Al discepolo, cha fa compagnia al suo Signore schiacciato sotto il peso della cro­ce, è rivolta però la parola della promessa, dischiusa nella risurrezione, contraddizione di tutte le croci della storia: parola di consolazione e di impegno, che ha sostenuto già la vita, il dolore e la morte di tutti quanti ci hanno preceduto nel combatti­mento della fede. “Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione” (2 Cor 1,5). “Siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; persegui­tati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi; portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si ma­nifesti nel nostro corpo” (2 Cor 4,8-10). In colui che si sforza di vivere così, la Croce di Cristo non è stata resa vana (cf. 1 Cor 1,17): in lui si manifesterà anche la vittoria dell’Umile, che ha vinto il mondo (cf. Gv 16,33), quella vittoria promessa dal Vangelo della sofferenza di Dio, sorgente di forza cui si appella e potrà sempre appellarsi l’invocazione della fede pellegrina nel tempo.

FERRAGOSTO DI CRISI, CERCHIAMO RISPOSTE NELLA LUCE DI MARIA – MONS. BRUNO FORTE

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FERRAGOSTO DI CRISI, CERCHIAMO RISPOSTE NELLA LUCE DI MARIA

La riflessione di mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, sulla Festa dell’Assunzione

di S.E. Mons. Bruno Forte

ROMA, martedì, 14 agosto 2012 (ZENIT.org) – Si avvicina il “ferragosto” di quest’estate, calda non solo per il clima, ma anche per le fiammate della crisi che continua a colpire insieme con l’intero “villaggio globale” la nostra Europa. E ritorna nella liturgia della Chiesa la celebrazione dell’Assunzione di Maria.
Una memoria fuori del tempo? Un’evasione spirituale, proposta per estraniarsi dalle inquietanti provocazioni della storia? La risposta può sembrare paradossale, perché per certi aspetti è sì, per altri no. In realtà, la liturgia per sua natura celebra lo splendore dell’eternità nel tempo e tende a cogliere il senso del divenire temporale nell’orizzonte pacificante dell’eternità: la sua “attualità” sta spesso nel riproporre fedelmente ciò che è apparentemente “inattuale”, e tuttavia necessario.
Si tratta di un estraniarsi per appartenere: lo faceva comprendere il teologo evangelico Karl Barth, quando – nel profilarsi della barbarie nazista e delle sue violenze, di cui fu sempre fiero oppositore – osservava quanto fosse importante che i Benedettini della vicina Abbazia di Maria Laach continuassero a cantare le lodi di Dio senza fermarsi (l’osservazione è nel testo Esistenza teologica oggi del 1933).
Anche la celebrazione dell’assunzione della Madre di Gesù in cielo, nella pienezza della sua condizione corporea e spirituale, va letta in questa luce. Mi chiedo, dunque, in che senso può essere significativa per noi, figli di questa post-modernità spesso distratta rispetto alle cose ultime e indaffarata a risolvere i problemi dell’ora, e come può aiutarci ad alzare lo sguardo per scrutare nel mistero che la liturgia propone qualcosa del nostro destino ultimo e della luce che da esso viene su ciò che è penultimo.
È il teologo ortodosso Pavel Evdokimov, voce autorevole della tradizione orientale, a osservare che la storia di Maria è «la storia del mondo in compendio, la sua teologia in una sola parola» e che nell’integralità della sua vicenda ella è come «il dogma vivente, la verità sulla creatura realizzata» (La donna e la salvezza del mondo, 54 e 216). Nella Vergine Madre gli occhi della fede riconoscono la logica di Dio, manifestata in tutto l’arco della storia della salvezza: Maria è la donna, icona del Mistero.
Il riferimento a la donna intende evidenziare la concretezza di questa ragazza della terra d’Israele, cui secondo la fede cristiana è stato dato di vivere la singolare esperienza di diventare la madre del Messia. La grandezza di ciò che agli occhi di chi crede è avvenuto in lei non deve far dimenticare la quotidianità delle sue fatiche nella famiglia di Nazaret, l’oscurità dell’itinerario di fede in cui è avanzata, i condizionamenti ricevuti dall’ambiente che la circondava, l’aver conosciuto gli stati differenti dell’esperienza femminile.
Maria non è un mito, né un’astrazione, come mostrano i tratti profondamente ebraici della sua personalità di donna nutrita della spiritualità dell’ascolto, che fa nella storia la grandezza del popolo ebraico: “Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno” (Dt 6,4). Maria non è un caso dell’universale, ma la «Virgo singularis», la donna irripetibile nella sua storicità unica, il concreto femminile della persona, che l’Eterno ha eletto per la rivelazione del Mistero, «benedetta fra tutte le donne», come è «benedetto il frutto del suo grembo», Gesù (cf. Lc 1,42).
Non si tratta di sviluppare un’«ontologia del femminile», partendo dalla figura di Maria: i rischi di astrattezza di una simile ricerca dell’«eterno femminino» (Goethe) sono stati giustamente denunciati dal pensiero femminista. Si tratta piuttosto di indagare il mistero racchiuso in ogni donna, e quindi reciprocamente in ogni essere umano, a partire dal «caso» assolutamente singolare, che è la «Vergine Madre, figlia del suo Figlio».
Il significato universale di Maria, insomma, sta o cade con la sua singolarità di donna concreta: quanto più questa singolarità femminile sarà colta, tanto più il suo valore di archetipo per la dimensione femminile dell’essere umano si lascerà percepire e il mistero in lei riposto si farà penetrare.
Proprio così, nel cuore dell’estate, la celebrazione dell’assunzione di Maria diventa un richiamo a rispettare la dignità di ogni donna, a valorizzarne il mistero, a umanizzare il mondo rendendolo più accogliente nell’irripetibilità di ciascuno e nella reciprocità delle relazioni di vita e d’amore, che fanno la storia di tutti.
È questo gioco di visibile concretezza e d’invisibile profondità, che fa parlare di Maria come di un’icona del Mistero: in lei si offre il duplice movimento, che ogni icona tende a trasmettere, la discesa e l’ascesa, l’antropologia di Dio e la teologia dell’uomo. In lei risplende l’elezione dell’Eterno e il libero consenso della fede in Lui. C
ome «l’icona è la visione delle cose che non si vedono» (P. Evdokimov), così la Vergine è, allo sguardo della fede, l’«arca dell’alleanza», coperta dall’ombra dello Spirito, la dimora santa del Verbo della vita tra noi, la Madre cui rivolgersi con fiducia perché ci accompagni al Figlio. E come l’icona ha bisogno del colore e della forma per rendere presente il mistero che annuncia, così la Madre del Signore veicola il dono, che in lei si è reso presente, nella concretezza dei suoi tratti di donna libera e credente, nella sua corporeità destinata a vincere la morte, nel suo essere capace di speranza fino alla fine, oltre la fine.
Assunta in cielo nell’integralità del suo essere umano, la Vergine Madre testimonia l’infinita dignità di ogni persona, il valore del corpo da custodire e amare, il destino eterno da non obliare. Così la figura di Maria di Nazaret può divenire un singolare incoraggiamento a credere e sperare nel tempo che ci è dato di vivere, dove proprio la speranza appare dono prezioso e forza necessaria di trasformazione del presente.
Ci aiuta a comprenderlo il Poeta, con versi che – come sta mostrando in maniera singolare ai nostri giorni Roberto Benigni – riescono a parlare a tutti, credenti e non credenti, illuminando di luce e di bellezza la vita delle donne e degli uomini di ogni tempo: “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso, d’eterno consiglio, / tu se’ colei che l’umana natura, / nobilitasti sì, che ’l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura. / Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo nell’eterna pace / così è germinato questo fiore. / Qui se’ a noi meridïana face / di caritate, e giuso, intra mortali, / se’ di speranza fontana vivace. / Donna, se’ tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia, e a te non ricorre, / sua disianza vuol volar sanz’ ali. / La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre. / In te misericordia, in te pietate, / in te magnificenza, in te s’aduna / quantunque in creatura è di bontate” (Dante Alighieri, Paradiso, Canto XXXIII, 1-21).

Publié dans:Bruno Forte, feste di Maria, Maria Vergine |on 6 septembre, 2012 |Pas de commentaires »

LA CRISI DELL’ETICA E LA FRAGILITÀ NEL VILLAGGIO GLOBALE

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LA CRISI DELL’ETICA E LA FRAGILITÀ NEL VILLAGGIO GLOBALE

Una riflessione di mons. Bruno Forte su « Vatileaks » e la statura spirituale di Benedetto XVI

ROMA, lunedì, 18 giugno 2012 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il fondo a firma di monsignor Bruno Forte, arcivescovo della diocesi di Chieti-Vasto (in Abruzzo), pubblicato ieri, domenica 17 giugno, sul quotidiano Il Sole 24 Ore.
***
La pubblicazione di alcune carte private di Benedetto XVI (per lo più missive riservate, a Lui indirizzate), in un libro dal fin troppo facile successo editoriale, rappresenta una grave caduta sotto il profilo dell’etica della comunicazione. In quest’operazione giornalistica il rispetto dovuto a ogni persona non è stato minimamente tenuto in conto, in particolare quello più che doveroso alla persona del Papa e di quanti con confidenza e senso di responsabilità gli scrivevano. Se lo scopo era quello di far passare la comunità ecclesiale nel suo centro universale, la Curia romana, come una sorta di “nido di vipere”, screditando in tal modo allo stesso tempo l’autorità morale della Chiesa cattolica, esso sembra del tutto fallito: e questo specialmente nell’ambito del popolo di Dio, dove proprio il voler mostrare il Successore di Pietro in una condizione di fragilità e di solitudine ha suscitato verso di lui un’ondata di affetto e di vicinanza nella preghiera di proporzioni impressionanti. Le ovazioni rivolte al Papa dal milione di persone presenti alla Messa celebrata all’aeroporto di Bresso a Milano in occasione del VII Incontro Mondiale delle Famiglie quindici giorni fa, come gli innumerevoli segnali di devozione e di affetto che si vanno moltiplicando nelle Chiese locali di tutto il mondo, ne sono una riprova.
Anche protagonisti della cultura “laica” e della vita pubblica hanno mostrato la loro giusta indignazione di fronte a questo sfruttamento mediatico della “privacy” di tanti, in primo luogo di quel riferimento morale e spirituale altissimo che è per il mondo intero Benedetto XVI. Ciò che più colpisce dolorosamente in questa vicenda è la figura del cosiddetto “corvo”, di chi cioè quelle carte ha passato all’esterno, facendole uscire dalla riservatezza che ad essa competeva: si è trattato di un grave tradimento della fiducia ricevuta, di un atto moralmente riprovevole al grado più alto. Peraltro, al tradimento la comunità dei discepoli di Cristo è abituata sin dai suoi albori, a partire dal dramma di Giuda e da quei famigerati “trenta denari” che – macchiati di sangue – sono stati ritenuti adatti solo a comprare un campo di morti per gli stranieri. Eppure, in questa vicenda emerge uno straordinario aspetto positivo, legato alla testimonianza più che mai luminosa e credibile di Benedetto XVI, dalla fede veramente rocciosa.
Ne sono prova le parole pronunciate dal Papa all’udienza di mercoledì scorso nell’Aula Nervi in Vaticano, su cui merita più che mai soffermarsi: il contesto era quello della riflessione sulla preghiera, “oasi di pace in cui possiamo attingere l’acqua che alimenta la nostra vita spirituale e trasforma la nostra esistenza”. Il modello che il Pontefice ha proposto è stato l’Apostolo Paolo, che in un tempo di gravi sofferenze “per tre volte ha pregato insistentemente il Signore di allontanare questa prova”. Ed è in questa situazione che, nella contemplazione profonda di Dio, riceve risposta alla sua supplica: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Corinzi 12, 9). La logica dell’Apostolo è lineare: egli “non si vanta delle sue azioni, ma dell’attività di Cristo che agisce proprio nella sua debolezza”. Commenta Benedetto XVI: “Questo atteggiamento di profonda umiltà e fiducia di fronte al manifestarsi di Dio è fondamentale anche per la nostra preghiera e per la nostra vita, per la nostra relazione a Dio e alle nostre debolezze… Paolo comprende con chiarezza come affrontare e vivere ogni evento, soprattutto la sofferenza, la difficoltà, la persecuzione: nel momento in cui si sperimenta la propria debolezza, si manifesta la potenza di Dio, che non abbandona, non lascia soli, ma diventa sostegno e forza”.
Segue qui una toccante dichiarazione del Papa, in cui sembra manifestarsi con discrezione e modestia qualcosa della sofferenza da Lui provata: “Certo, Paolo avrebbe preferito essere liberato da questa sofferenza; ma Dio dice: No, questo è necessario per te. Avrai sufficiente grazia per resistere e per fare quanto deve essere fatto. Questo vale anche per noi. Il Signore non ci libera dai mali, ma ci aiuta a maturare nelle sofferenze, nelle difficoltà, nelle persecuzioni… Non è la potenza dei nostri mezzi, delle nostre virtù, delle nostre capacità che realizza il Regno di Dio, ma è Dio che opera meraviglie proprio attraverso la nostra debolezza, la nostra inadeguatezza all’incarico. Dobbiamo, quindi, avere l’umiltà di non confidare semplicemente in noi stessi, ma di lavorare, con l’aiuto del Signore, nella vigna del Signore, affidandoci a Lui come fragili vasi di creta”.
Traspare qui la testimonianza dell’uomo di fede, che sa bene quanto importante siano “la costanza, la fedeltà del rapporto con Dio, soprattutto nelle situazioni di aridità, di difficoltà, di sofferenza, di apparente assenza di Dio”. E questo è frutto di un grande amore: “Soltanto se siamo afferrati dall’amore di Cristo, saremo in grado di affrontare ogni avversità come Paolo, convinti che tutto possiamo in Colui che ci dà la forza”. Proprio così, sullo squallore della vicenda “Vatican Leaks” si leva la grandezza della statura spirituale di questo Papa, che diventa un messaggio di vita e di speranza per tutti noi: di fronte alle prove della vita e della storia, specie di quelle che ci arrivano tanto inaspettate, quanto dolorose, da quelle morali a quelle fisiche (come ad esempio nelle vicende drammatiche del recente terremoto in Emilia), di fronte alla crisi etica che è alla radice delle difficoltà odierne nel “villaggio globale”, occorre soprattutto mantenere alta la fiducia nella forza del bene, della capacità della verità di risultare alla fine vincente, e la serena certezza – vivissima in chi crede – di non essere soli, ma di poter contare sulla fedeltà di un amore che non verrà mai meno e che sosterrà nei flutti la barca della Chiesa e di chiunque si affidi al Dio vivente su una rotta sicura, verso un porto di giustizia e di pace per tutti.

Publié dans:Bruno Forte, Papa Benedetto XVI |on 18 juin, 2012 |Pas de commentaires »
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