Archive pour la catégorie 'biblica'

ANIMALI E PROFETI: LA TRADIZIONE BIBLICA

http://www.istitutobioetica.org/Bioetica%20animale/Teologia%20degli%20animali/Bormolini%20Animali%20e%20profeti.htm

ANIMALI E PROFETI: LA TRADIZIONE BIBLICA

Guidalberto Bormolini

(per gentile concessione della Rivista Appunti di Viaggio)

1. La creazione degli esseri viventi
Un’attenta rilettura della Bibbia può riservarci inaspettate sorprese[1]. Come hanno evidenziato numerosi studiosi, tornando alle fonti scritturistiche potremmo accorgerci che «La teologia occidentale appare non solo povera, ma addirittura non legittima rispetto alla verità profonda contenuta nelle fonti cristiane: la Bibbia, ma anche i testi dei padri. Se, infatti, rileggiamo con attenzione le Scritture ebraiche, il Nuovo Testamento […] restiamo stupiti dell’attenzione riservata alle creature tutte e al loro rapporto con gli uomini»[2].
Già dalle prime pagine della Bibbia si può constatare quanta importanza venga riconosciuta a tutta l’opera di Dio, tanto che la Creazione può essere intesa come un «co-creaturalità tra uomo, animali, piante e cose»[3]. Vi è una grande solidarietà originaria tra l’uomo e l’intero universo circostante, perché in profonda dipendenza dalla terra:
Dio plasmò Adam che è polvere del suolo» (Gen 2, 7), sicché la terra in un certo senso è matrice dell’uomo. Non è madre, perché Dio ha creato l’uomo liberamente, senza un consenso della terra, ma la solidarietà creaturale, l’immanenza tra «terra e terreste» è subito affermata. L’uomo viene dalla terra, è fatto di terra, ritornerà alla terra, sarà di nuovo terra! E la terra fornisce all’uomo piante e frutti perché egli viva […][4].
Nel secondo millennio, soprattutto dopo Cartesio, in Occidente prevalse l’idea di credere l’uomo padrone e sfruttatore del creato, quando invece nel racconto biblico il Creatore lo pose nel giardino «affinché lo coltivasse e lo custodisse». Difatti l’uomo è da subito un essere-in-relazione: nel giardino dell’Eden non vive da solo, perché «non è bene che l’uomo sia solo» (Gen. 2, 18)[5]. L’annotazione divina non si riferisce al rapporto con il mondo animale, ma allude chiaramente alla presenza della donna sua compagna; nondimeno subito dopo aver osservato quanto la solitudine sia negativa per l’uomo, il Creatore plasma dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo, e li conduce all’uomo perché dia loro il nome. C’è quindi una concordia originaria che consente all’uomo di vivere in armonioso e intenso rapporto con tutti gli esseri viventi.
In fin dei conti la prima azione dell’uomo- Adamo è un atto a favore degli animali. Nel dare il nome ad ogni animale l’uomo instaura con loro un rapporto speciale, poiché i nomi delle Scritture racchiudono un significato spirituale; non sono certo casuali i nomi biblici ad esempio di Michele, Gabriele, Raffaele, Abramo o Sara. A questo riguardo Origene afferma che «dunque è certo che gli angeli e gli uomini ricevono il nome in conformità alla loro funzione, o ai loro atti personali»[6]. Per un ebreo le parole aderiscono sempre al referente, e Adamo nomina tutti gli animali: «intendendo esattamente la realtà significante, in modo che nello stesso tempo la loro natura fosse pensata ed enunciata»[7]. L’etimologia è rivelazione della natura di un oggetto: Dio ha creato tutte le cose con la sua parola, pertanto il nome è tutt’uno con la persona[8].
Nella concezione biblica evidentemente il rapporto uomo-animale non è paritario, ma non rientra nemmeno in quello tra soggetto ed oggetto: «perché entrambi rimangono soggetti, anche se la relazione resta asimmetrica»[9]. Dando il nome all’animale l’uomo compartecipa al potere creativo divino, enuncia una parola co-creatrice. È indubbio che non sia una relazione alla pari, ma a maggior ragione ciò comporta una grave responsabilità dell’uomo su tutto ciò che gli è stato affidato e che Dio stesso vide come «buono e bello» (Gen 1, 25). In fin dei conti, come afferma Qohelet, l’animale in parte condivide il destino dell’uomo: «Chi sa se il soffio vitale dell’uomo salga in alto e se quello della bestia scenda in basso nella terra?» (Qo 3, 21).
A conclusione del racconto della creazione Dio benedice gli uomini e gli animali e dà loro la medesima esortazione: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra» (Gen 1, 22.28). Per rimarcare questo rapporto vitale e di solidarietà, all’uomo delle origini non è consentito nutrirsi con la carne degli animali, infatti, suo unico cibo saranno i cereali, «ogni erba che produce seme» (Gen 1, 29), e i frutti degli alberi. Nemmeno gli animali, di qualsiasi specie essi siano, possono divorarsi tra loro, ma si nutriranno pascolando l’erba.
Il racconto biblico non contempla una logica di sfruttamento, e il testo di Genesi, come esorta Enzo Bianchi, non dev’essere travisato:
quanto poi ai verbi che conferiscono all’uomo un mandato sulla terra-normalmente tradotti: «Soggiogate la terra e dominate [...]» (Gen 1, 28)-, occorre comprenderli bene: l’uomo deve essere fecondo, lottare contro la morte affermando la vita, deve occupare e abitare lo spazio terrestre; ma questo riempire la terra non può significare calpestarla […] Questo dunque il senso del verbo kavash: non tanto «soggiogare», quanto piuttosto possedere la terra in un rapporto amoroso, armonioso e ordinato. Quanto al verbo tradotto usualmente con «dominare», radah, si ricordi che esso indica reggere, guidare, pascolare, con un’azione che è quella del re e del pastore capace di governare sostenendo e custodendo lo shalom, la vita piena nella pace[10].
2. Le storie bibliche e i profeti
L’alleanza che Dio ha stabilito con Noè, valida fino alla fine del mondo, è un patto sancito anche con tutti gli animali:
Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e bestie selvatiche, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, né più il diluvio devasterà la terra» (Gen 9, 8-11).
In molte occasioni il Creatore manifesta premura per le Sue creature animali e vegetali: «Non dovrei aver pietà di Ninive […] nella quale sono più di centoventimila persone […] e una grande quantità di animali?» (Gio. 4, 11), d’altronde anche gli animali fecero penitenza con tutto il popolo per porre rimedio ai mali commessi. La Sua cura è così affettuosa da proclamare nel Salmo che sarà Lui, al tempo opportuno, a fornire il cibo necessario affinché gli animali si sazino[11]. Il decalogo consegnato a Mosè in fin dei conti fa dono del riposo settimanale, «“la delizia del sabato”, come dicono i maestri di Israele»[12], sia agli uomini che agli animali[13]. Nel Deuteronomio Egli mostra tenero riguardo anche per le piante e ammonisce: «Quando cingerai d’assedio una città per lungo tempo, per espugnarla e conquistarla, non ne distruggerai gli alberi colpendoli con la scure; ne mangerai il frutto, ma non gli taglierai, perché l’albero della campagna è forse un uomo, per essere coinvolto nell’assedio?» (Dt. 20, 19). Per riconoscere l’impronta della Sua mano nella nostra vita, ci esorta a rivolgerci agli animali:
Ma interroga pure le bestie, perché ti ammaestrino,
gli uccelli del cielo, perché ti informino,
o i rettili della terra, perché ti istruiscano,
o i pesci del mare perché te lo facciano sapere.
Chi non sa, fra tutti questi esseri,
che la mano del Signore ha fatto questo? (Giobbe 12, 7-10).
Nella discussione con Giobbe, il Signore fa un lungo elenco delle meraviglie del mondo animale per mostrare all’uomo la mirabile sapienza divina[14]. Il profeta Natan viene inviato dal Signore a redarguire il re David; il profeta si serve di un racconto che narra la storia di un povero che aveva allevato un’agnellina insieme ai suoi figli, e l’amava tanto da farla mangiare dal suo piatto e bere dalla sua coppa, e le permetteva anche di dormirgli in grembo. Finché un ricco prepotente, anziché sacrificare un suo capo di bestiame, rubò al povero l’agnellina per offrirla come cena ad un ospite. Il racconto accese l’ira di David verso quell’uomo crudele, ma il profeta fece notare al re che era lui stesso a comportarsi in quel modo. La parabola non avrebbe senso se «l’intimità affettuosa e tenera tra il povero e la sua agnellina non fosse preziosa agli occhi di Dio»[15].
Sono numerosi gli episodi biblici in cui il protagonista ha un rapporto significativo col mondo animale. Come il profeta Gioele, che si preoccupò per la sete degli animali della valle quando le acque dei fiumi si prosciugarono[16]. Il profeta Giona ebbe un legame profondo con un animale: rimase tre giorni nel ventre di una balena, poiché Dio si servì di questo grosso pesce per far capire a Giona che direzione doveva prendere per obbedire alla Sua volontà. L’immagine sarà poi ripresa da Gesù per indicare i tre giorni della sua morte che anticiparono la resurrezione. Il profeta Daniele, durante la sua prigionia in Babilonia, rimase per sei giorni nella fossa dei leoni e ne uscì illeso[17].
Il Signore, talvolta, si serve di animali per nutrire, guidare o consigliare i Suoi profeti. È un volatile che reca l’aiuto celeste al profeta Elia, perseguitato per la giustizia: «Ed io ho ordinato ai corvi di fornirti il cibo» (1Re 17, 4). Un’asina parlò con voce umana per ammonire il profeta Balaam[18].
Tra le storie più toccanti vi è sicuramente quella di Tobia, che parte per un lungo viaggio accompagnato dall’angelo Raffaele e dal suo cane fedele[19], «piccola solidale comitiva in cammino secondo il disegno di Dio»[20].
3. Il nuovo testamento e gli animali
Nelle primissime righe del Vangelo di Marco, subito dopo il battesimo nel Giordano, si racconta che la prima cosa che fece Gesù, mosso dallo Spirito, fu quella di andare nel deserto a vivere con le bestie selvatiche[21].
Sono numerose le parabole del Maestro nelle quali si fa riferimento al mondo animale e vegetale. Gesù sottolinea l’attenzione della Provvidenza per gli animali che, anche se non seminano e non mietono « il Padre vostro celeste li nutre» (Mt 6, 26). Le piante, offrendoci i loro frutti, ci insegnano a riconoscere i segni dei tempi[22], e il giglio del campo, vestito più elegantemente di Salomone, ci ricorda il ricco amore della Provvidenza[23]. Con grande tenerezza il Maestro si identifica con una chioccia che raduna e difende i suoi pulcini[24], e il canto di un gallo risveglierà la coscienza impaurita di Pietro[25].
Sarà poi una colomba a simboleggiare la discesa dello Spirito Santo su Gesù[26], e lui stesso si è identificato con un agnello[27].
4. La profezia di Isaia e la reintegrazione finale
Molte profezie bibliche che riguardano i tempi finali, quando l’uomo ritornerà ad uno stato paradisiaco, raccontano di una recuperata, totale armonia col mondo animale:
Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullino li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme, si sdraieranno insieme i loro piccoli; il leone si ciberà di erba, come il bue; il lattante si trastullerà sulla buca della vipera, il bambino metterà la mano nel covo dei serpenti velenosi (Is 11, 6-8).
La mistica ebraica descrive spesso la serenità che si crea attorno alle persone pure, e quell’atmosfera di beatitudine è un’anticipazione di ciò che ci attende alla fine dei tempi. Nel Talmud e in numerosi racconti rabbinici si esorta a vivere da subito in affiatamento e in concordia con tutto il creato, con le piante e gli animali, ed è per questo motivo che un rabbino si chiede: «Se gli uomini hanno peccato, quale fu la colpa degli animali [per essere sacrificati?]»[28]. Nel Talmud viene espressa una norma di comportamento da seguire nei confronti degli animali: «Disse rabbi Giuda in nome di Rav: “A un uomo è vietato mangiare alcunché finché non ha dato da mangiare alla sua bestia”»[29]. Questo amore per il creato, che ricorda l’Eden delle origini, aveva un grande portavoce in rabbi Nachman di Brazlav, che arrivò ad affermare: «se un uomo uccide un albero prima del suo tempo, è come se avesse ucciso un’anima vivente»[30].
Il Signore ha creato il mondo come un paradiso di pace e armonia, ma la libertà dell’uomo non ha reso possibile la realizzazione di questo progetto, che prevede per gli animali una particolare considerazione: «In quel tempo farò per loro un’alleanza con le bestie della terra e gli uccelli del cielo e con i rettili del suolo: arco e spada e guerra eliminerò dal paese» (Os 2, 20).

[1] Cfr. E. Bianchi, Adamo, dove sei?, Magnano 2007, pp. 97-198.
[2] E. Bianchi, Uomini, animali e piante, Magnano 2008, p. 5.
[3] E. Bianchi, Uomini, animali e piante, Magnano 2008, p. 7.
[4] E. Bianchi, Uomini, animali e piante, Magnano 2008, p. 7.
[5] Cfr. E. Bianchi, Uomini, animali e piante cit., p. 8.
[6] Origene, Omelie su Giosuè, 23, 4.
[7] Filone Alessandrino, De opificio mundi
[8] B. Teyssedre, Angeli, astri e cieli. Figure del Destino e della Salvezza, Genova 1991, p. 20.
[9] E. Bianchi, Uomini, animali e piante cit., p. 8.
[10] E. Bianchi, Uomini, animali e piante cit., p. 10.
[11] Cfr. Sal 104, 27-28; 136, 25; 147, 9.
[12] P. De Bendetti, E l’asina disse…, Magnano 1999, p. 40.
[13] Cfr. Dt 5, 12-14.
[14] Giobbe 39-41.
[15] P. De Bendetti, E l’asina disse… cit., p. 44.
[16] Gl 1, 15.
[17] Dan 6, 17-25.
[18] Cfr. Nm 22, 21-35.
[19] Cfr. Tb 6, 1; 11, 4.
[20] P. De Bendetti, E l’asina disse… cit., p. 46.
[21] Cfr. Mc 1, 13.
[22] Cfr. Mc 13 28.
[23] Cfr. Mt 6, 28-29.
[24] Cfr. Mt 6, 26.
[25] Mc 14, 72.
[26] Cfr. Mc 1, 10; Gv 1, 32.
[27] Gv 1, 29.36.
[28] Pesiqta de-rav kahana 65b
[29] Talmud Babilonese, Ghittin 62a.
[30] Cit. in P. De Bendetti, E l’asina disse…, Magnano 1999, p. 35.

Publié dans:ANIMALI, BIBBIA, biblica |on 12 août, 2013 |Pas de commentaires »

PERCHÉ GLI EMPI PROSPERANO? – UNO SGUARDO ALLA BIBBIA

http://camcris.altervista.org/empi.html

IL CAMMINO CRISTIANO

PERCHÉ GLI EMPI PROSPERANO?

UNO SGUARDO ALLA BIBBIA

(testo adattato da « Perché prospera la via degli empi? » di G. Butindaro)

Asaf disse nei salmi: « Ma, quant’è a me, quasi inciamparono i miei piedi; poco mancò che i miei passi non sdrucciolassero. Poichè io portavo invidia agli orgogliosi, vedendo la prosperità degli empi. Poichè per loro non vi sono dolori, il loro corpo è sano e pingue. Non sono travagliati come gli altri mortali, nè sono colpiti come gli altri uomini. Perciò la superbia li cinge a guisa di collana, la violenza li copre a guisa di vestito. Dal loro cuore insensibile esce l’iniquità; le immaginazioni del cuore loro traboccano. Sbeffeggiano e malvagiamente ragionano d’opprimere; parlano altezzosamente. Mettono la loro bocca nel cielo, e la loro lingua passeggia per la terra. Perciò il popolo si volge dalla loro parte, e beve copiosamente alla loro sorgente… Ecco, costoro sono empi: eppure, tranquilli sempre, essi accrescono i loro averi » (Sal. 73:2-10,12).
Giobbe disse: « Perchè mai vivono gli empi? Perchè arrivano alla vecchiaia ed anche crescono di forze? La loro progenie prospera, sotto ai loro sguardi, intorno ad essi, e i loro rampolli fioriscono sotto gli occhi loro. La loro casa è in pace, al sicuro da spaventi, e la verga di Dio non li colpisce. Il loro toro monta e non falla, la loro vacca figlia senz’abortire. Mandano fuori come un gregge i loro piccini, e i loro figliuoli saltano e ballano » (Giob. 21:7-11).
Geremia disse a Dio: « Tu sei giusto, o Eterno, quand’io contendo teco; nondimeno io proporrò le mie ragioni: Perchè prospera la via degli empi? Perchè sono tutti a loro agio quelli che procedono perfidamente? Tu li hai piantati, essi hanno messo radice, crescono, ed anche portano frutto; tu sei vicino alla loro bocca, ma lontano dal loro interiore » (Ger. 12:1,2).
Davide disse nei salmi: « Sta’ in silenzio dinanzi all’Eterno, e aspettalo; non ti crucciare per colui che prospera nella sua via, per l’uomo che riesce nei suoi malvagi disegni » (Sal. 37:7).
Diletti, pure noi siamo testimoni in questa generazione delle cose di cui furono testimoni Asaf, Giobbe, Geremia, e Davide ai loro tempi, infatti anche noi vediamo tanta gente empia prosperare. Non solo gli empi del mondo, ma anche quelle persone che dicono di avere creduto e che onorano Dio con la loro bocca ma hanno il loro cuore lontano da Dio ed esercitato alla cupidigia. Sono conosciuti, parlano anche del vangelo, sono rispettati ed applauditi da molti, prosperano perchè accrescono sempre i loro averi, hanno buona salute, eppure dentro di sè sono orgogliosi, superbi, affaristi, adulteri.
Diletti, che Dio ci dia la grazia di perseverare nel suo timore fino alla fine e di rimanere calmi e fiduciosi in Lui, senza portare la benchè minima invidia agli empi.

La sofferenza e i credenti
(testo adattato da una predicazione del past. David Wilkerson)
Asaf era un maestro cantore, un Levita e una guida dei cori di adorazione del re Davide. Inoltre lui e il suo gruppo suonavano i cembali durante la lode. Gli sono attribuiti undici Salmi.
Quest’uomo era un collaboratore di Davide e un amico molto intimo. Infatti, nessuno poteva essere un Levita e servire nella casa di Dio senza essere vicino a Davide — perchè è lì che Davide si trovava la maggior parte del tempo. Davide amava Dio, e amava stare nella casa di Dio.
Eppure, a dispetto della sua grande chiamata e delle benedizioni, Asaf confessò, « Ma quanto a me, quasi inciampavano i miei piedi, e poco mancò che i miei passi sdrucciolassero » (Salmi 73:2).
Ora, sappiamo che Asaf era un uomo dal cuore puro. Aveva il giusto concetto del Padre celeste, credendo che Dio era buono. Iniziò anche il suo discorso in questo salmo dicendo, « Certamente Dio è buono verso Israele, verso quelli che sono puri di cuore » (verso 1).
Eppure nel verso che segue subito dopo quest’uomo dal cuore puro confessa, « Sono quasi scivolato. Sono quasi caduto! » Perchè Asaf dichiarò questo?
Egli dice: « …portavo invidia ai vanagloriosi, vedendo la prosperità dei malvagi » (verso 3). Quando Asaf si guardava intorno, tutto quello che vedeva era gente malvagia con grandi beni — gente che apparentemente viveva senza problemi, godeva una vita ricca, colma di benedizioni materiali, e aveva tutto quello che avrebbe mai potuto volere o aver bisogno. Forse Asaf sentiva il dolore della sua povertà in modo più acuto. Quel musicista dal cuore puro non riusciva a capire — e gridò, « Signore, questo non ha senso! »
La sofferenza di Asaf lo portò sull’orlo di un peccato mortale: attribuire a Dio infedeltà e noncuranza. Quest’uomo disse a se stesso, « Guarda tutti quei malvagi peccatori. Non pregano. Rigettano la parola di Dio. Ignorano i comandi del Signore. Eppure non sono afflitti come gli altri! »"…non sono tribolati come gli altri mortali » (Salmi 73:5).
Quello che Asaf intendeva qui era, « I malvagi non sono afflitti come me. Essi fanno solo il male — eppure prosperano! Mentro io vivo con abnegazione, essi vivono ricchi e prosperi. Mentre io sono indebolito dai problemi, la loro forza aumenta continuamente » (vedi verso 4).
Quindi Asaf chiede, « Com’è possibile che vi sia… conoscenza nell’Altissimo? » (verso 11). In altre parole: « Dio non vede quello che sta succedendo qui? Non si rende conto della disparità tra i suoi figli sofferenti e giusti, e quelli malvagi? Subiamo costantemente privazioni, mentre gli empi ottengono tutto quello che il loro cuore desidera. E Dio permette che tutto questo continui! »
Secondo il modo di pensare degli uomini, la vita dovrebbe essere così: se diamo tutto a Dio, dobbiamo avere una via sicura alla gloria; niente deve mettersi sul nostro cammino — nessuna sofferenza e nessuna prova. Infatti, molti predicatori stanno cercando di propinare questa falsa dottrina.
Ma la verità è che se cerchi di capire le tue prove con il ragionamento umano, non avranno senso. Non importa quanto ti sforzi, nessuna di esse sembrerà avere senso!
Ti chiedo: hai mai attraversato un periodo in cui ogni giorni ti alzi con una nuvola sulla tua testa? Forse era un periodo di prova, o forse un periodo di allontanamento, di freddezza nella tua vita. O forse, potrebbe anche esserti accaduto durante i tuoi periodi migliori con Dio. Il tuo cuore era aperto alla sua voce; eri pronto per essere un sacrificio vivente per lui; hai pregato, « Padre, sto camminando con te al massimo delle mie possibilità. Se c’è qualcosa nel mio cuore che non va bene davanti a te, toglilo! »
Ma le tue preghiere non sono state esaudite. Non hai sentito niente. E, come Asaf, alla fine ti sei chiesto: « Perchè è così difficile fare il bene? »
Questo è il Punto Più Pericoloso — il Luogo In Cui Si Inizia a Scivolare!
« Invano dunque ho purificato il mio cuore e ho lavato le mie mani nell’innocenza » (Salmi 73:13).
Asaf era così confuso dalle sue sofferenze in confronto alla vita facile dei malvagi, che quasi scivolò in un pozzo di incredulità assoluta. Era pronto ad accusare Dio di averlo dimenticato — di averlo abbandonato, di non curarsi di lui. E per un momento fu pronto ad abbandonare la battaglia — e lasciar perdere completamente.
Questo uomo devoto deve aver pensato, « Ho fatto il bene e ho sopportato le difficoltà tutto questo tempo — ma inutilmente! Tutto il mio rigore, la mia diligenza, le mie lodi e la mia adorazione, il mio studio della Parola di Dio — è stato inutile, in vano. Mi è stato dato tutto per servire il Signore — ho fatto solo quello che era giusto — eppure continuo a soffrire! Queste afflizioni, punizioni e dolori non hanno senso. Che motivo ho per andare avanti? »
Amati, è allora che dovete essere attenti! Quando la calamità cade su di voi, quando una prova arriva, quando state soffrendo — avete bisogno di guardare il vostro cuore dallo scivolare!
Potreste non essere nelle condizioni di Asaf — a un punto di grandi prove e dubbi personali. Ma potreste conoscere qualcuno che sta attraversando quello che lui ha attraversato. Una calamità improvvisa può essere venuta su un parente devoto, un amico o un membro della chiesa — qualcuno che sapete comportarsi fedelmente. E vi siete chiesti, « Perchè, Dio? Come puoi permettere questo? Quella persona è così santa, così giusta! »
Una volta conoscevo una giovane coppia sui trent’anni con due figli. Il marito era un uomo giusto, un marito e un padre affettuoso. Non era mai stato malato un solo giorno in vita sua — ma improvvisamente si ammalò e morì in poco tempo. Sua moglie rimase con i suoi due figli, non sapendo cosa fare.
Tutti intorno a loro si chiedevano, « Perchè, Dio? Questo non ha senso. Come puoi permetterlo? Perchè la sia vita deve essere così dura ora, con questi bambini — dopo tutti gli anni che lei e suo marito ti hanno servito tanto fedelmente? Perchè non è successo a qualcun altro? »
Questo modo di pensare può sembrare innocente — ma rappresenta l’orlo stesso del pozzo dell’incredulità! Mancò poco che Asaf scivolasse in questo pozzo. Ed è il pozzo in cui cadde Israele. Passarono quarant’anni nel deserto dicendo, « Questo non ha senso. La vita è troppo dura! » E morirono dubitando di Dio — in totale apostasia!
Quando Asaf Considerò Tutte Queste Cose, Alla Fine Concluse: « Questo è Troppo
Doloroso per Me. Voglio Andare Alla Casa di Dio! »
« Allora ho cercato di comprendere questo, ma la cosa mi è parsa molto difficile. Finchè sono entrato nel santuario di DIO e ho considerato la fine di costoro » (Salmi 73:16-17).
Asaf andò al tempio. E mentre meditava sul Signore, diceva a se stesso, « Non lascerò che il diavolo mi faccia cadere. Non scivolerò nell’abisso dell’incredulità. Pregherò, per discuterne col Signore ».
Amati, anche quando arriva il vostro periodo di dolore, affanno, o sofferenza dovete andare nel vostro angolo segreto. Non mettetevi al telefono con qualcuno. State da soli con Dio! Gridate col vostro cuore a lui. Andate al santuario per trovare la risposta! Nessun libro, predicatore o registrazione di qualche sermone vi permetterà mai comprendere le vostre prove. Ma se rimanete da soli col Padre, egli vi darà conoscenza!
E’ allora che lo Spirito Santo parlò ad Asaf. E la risposta venne forte e chiara: « Certo, tu li metti in luoghi sdrucciolevoli e così li fai cadere in rovina » (verso 18). Asaf realizzò, « Non sono io quello che sta scivolando. Sono i malvagi a scivolare. Stanno finendo direttamente nella distruzione! »
Il Signore stava dicendo a quest’uomo, « Il tuo problema, Asaf, è che sei rimasto a guardare alle apparenze esteriori — i falsi sogni, le bolle in cui vivono. Non hai mai visto il terrore che c’è nei loro cuori! » « …[sono] consumati con improvvisi terrori » (verso 19).
Dio stava mostrando ad Asaf, « E’ tutto fumo! Se potessi vedere dietro ai loro beni e alle loro apparenze, ti renderesti conto che vivono nel panico e nel terrore. Tutti questa gente malvagia che sembra tanto felice — che passa il tempo bevendo e festeggiando — vanno a casa ogni notte nel panico e nel terrore dei loro cuori. In profondità sanno che un giorno saranno di fronte a me al giudizio — e io li giudicherò. Stanno vivendo in un mondo di sogni, Asaf — e improvvisamente il loro sogno finirà! »
Dio stava dicendo ad Asaf, « Puoi sentirti disprezzato al momento, Asaf. Ma quando tu sarai davanti a me, sarai abbracciato ed amato! »
Improvvisamente, Asaf iniziò a sentire pietà e dolore per quelle persone malvagie che sembravano così benedette: « …mi sentivo trafitto internamente, io ero insensato e senza intendimento » (verso 21-22).
In altre parole: « Come ho potuto essere invidioso di loro? Il loro mondo di sogni è in realtà una vita di terrori nascosti e di paura, di perdizione eterna. Vivranno solo pochi anni nel loro mondo di sogni — ma io ho l’eterna consolazione dello Spirito Santo! Ho un Padre celeste che ha cura di me, indipendentemente da quello che attraverso. E quando sarò di fronte al suo trono, gli sentirò dire, ‘Bene, buono e fedel servitore. Entra nella gioia del tuo Signore!’ »
o — e si rallegrò: « …DIO è la rocca del mio cuore e la mia parte in eterno » (verso 26). Potrebbe dire, « Si, la mia forza può venire meno. Si, sto attraversando una grande battaglia con le mie afflizioni. Ma non sono solo nelle mie lotte. Ho un Padre amorevole in cielo che veglia su di me!
« Signore, non m’importa d’altro in questo mondo al di fuori di te — conoscere te, amare te e credere in te. Chi ho all’infuori di te? Anche se la mia carne e il mio cuore vengono meno, tu sei la forza del mio cuore! »
Fu allora che Asaf entrò davvero nel riposo. Vide che era quasi scivolato — ma si rialzò! Il musicista chiude il suo salmo con questa nota di vittoria: « …io ho fatto del Signore, dell’Eterno, il mio rifugio, per raccontare tutte le opere tue » (verso 28).
Così, caro santo — ti stai mantenendo fermo? O stai credendo alle bugie di Satana secondo cui Dio non può sostenerti? Stai testimoniando la forza di Dio nella tua vita? O stai pensando che il diavolo ha più potere del Dio che abita in te?
Ci deve essere qualcosa in tutti noi che grida, « Oh, Dio, voglio essere liberato! Se sto iniziando a dubitare di te, allora ho iniziato a scivolare. » Questo è il punto in cui dobbiamo credere che Dio sia la nostra forza — non importa quanto deboli ci sentiamo o quanto dolorose sia la nostra prova.
Perciò, smettete di guardare le persone. E fissate i vostri occhi sulla vostra forza — il Signore stesso! Egli ha uno scopo per ogni cosa che permette che accada nella vostra vita. Può non dirvi sempre la ragione — ma Lui sarà la forza del vostro cuore attraverso tutte le avversità. Possa la stessa speranza che provò Asaf venir su dal vostro cuore e gridare, « Signore, tu sei la forza del mio cuore. Vivo o morto, crederò in te! »
Dio aiuti tutti quelli che lo amano a non scivolare mai e a non cadere nell’incredulità.

Publié dans:biblica, meditazioni, meditazioni bibliche |on 22 juillet, 2013 |Pas de commentaires »

ISAIA 66,10-14 – COMMENTO

http://www.nicodemo.net/NN/ms_pop_vedi1.asp?ID_festa=235

ISAIA 66,10-14

10 Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa quanti la amate. Sfavillate di gioia con essa voi tutti che avete partecipato al suo lutto. 11 Così succhierete al suo petto e vi sazierete delle sue consolazioni; succhierete con delizia all’abbondanza del suo seno.
12 Poiché così dice il Signore: « Ecco io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la prosperità; come un torrente in piena la ricchezza dei popoli; i suoi bimbi saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno accarezzati.
13 Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; in Gerusalemme sarete consolati. 14 Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come erba fresca. La mano del Signore si farà manifesta ai suoi servi ».

COMMENTO
Isaia 66,10-14c

La maternità di Dio

Il brano liturgico è ricavato dalla terza parte del libro di Isaia, chiamato Terzo Isaia (Is 56-66), che consiste in una raccolta di oracoli composti dopo il ritorno dei giudei dall’esilio babilonese. Esso si trova al termine della quarta e ultima parte della raccolta (Is 63-66), che si apre con un brano apocalittico (63,1-6), cui fa seguito una lunga meditazione sulla storia di Israele (63,7 – 64,11). Dopo una polemica nei confronti dell’idolatria di Israele (65,1-7) e un testo in cui si contrappone la salvezza dei giusti alla rovina dei malvagi (65,8-16), è affrontato poi il tema apocalittico della nuova creazione (65,17 – 66,24).

In questa sezione viene riportato anzitutto un oracolo in cui il profeta preannunzia l’inizio di un’era di pace, in cui tutti avranno lunga vita e abbondanza di beni materiali, unitamente al favore divino; persino gli animali selvaggi si riconcilieranno con quelli domestici e non faranno più male a nessuno (65,20-25). Il brano successivo inizia con questa domanda: «Quale casa mi potreste costruire?» (Is 66,1-2). Non certo un tempio dove «uno sacrifica un giovenco e poi uccide un uomo, … uno brucia incenso e poi venera l’iniquità» (66,3). Il vero tempio, che Dio vuole, è una comunità nuova, una società di uomini onesti e responsabili. Ma nessuno, all’infuori di Dio, può far nascere questa comunità nuova. Perciò si annunzia che, senza i dolori del parto, viene alla luce un maschio (v. 7). È una nascita che suscita meraviglia e sorpresa: essa è simbolo di qualcosa ancora più incredibile, cioè la nascita simultanea di un popolo intero. Ebbene qui si tratta appunto della nascita di un popolo: la madre Sion ha partorito i suoi figli (v. 8). È un miracolo inatteso e imprevisto, è l’opera stupenda di Dio. Infatti Dio, che «apre» il grembo materno, cioè che ha creato la donna perché partorisca, può dare la fecondità e far generare figli (v. 9).

Inizia qui il brano liturgico, che è un inno di gioia per la rinascita di Gerusalemme. Anzitutto il profeta invita coloro che amano la città santa a rallegrarsi con lei. Essi, che prima erano in lutto, adesso sono invitati a sfavillare di gioia (v. 10). Coloro ai quali è rivolto l’invito sono tutti gli abitanti di Gerusalemme, soprattutto quelli che erano desolati e depressi per la situazione di rovina in cui era caduta la città. Ora tutto è cambiato, la città è risorta, ed essi devono rallegrarsi.

La gioia che esplode nella città santa deriva dalla ricchezza dei beni di cui essa è arricchita, segno della benevolenza divina. Gerusalemme è immaginata come una madre che allatta i suoi figli, li riempie di consolazione e li inonda della sua gloria (v. 11). L’abbondanza di cui gode la città non è frutto del lavoro dei suoi abitanti, ma il segno di una benevolenza divina che raggiunge abbondantemente tutti i suoi abitanti. Infatti essa deriva direttamente da Dio, il quale farà scorrere verso di essa, come un fiume ricco d’acqua, la pace, e con questa la gloria delle genti (v. 12a). Viene qui ripreso un tema tipico del Terzo Isaia che descrive il futuro radioso di Gerusalemme come l’arrivo dei gentili che, in pellegrinaggio, si recano al tempio per adorare il Dio di Israele portando con sé in dono tutti i loro beni (cfr. Is 60,1-22). Ritorna poi nuovamente l’immagine della madre che allatta i suoi figli, li porta in braccio, li fa sedere sulle sue ginocchia e li accarezza (v. 12b). Questa volta però l’uso del passivo significa che il soggetto non è più direttamente la città, ma Dio stesso che ha profuso in essa i suoi doni.

L’immagine della madre viene poi ripresa nel versetto successivo (v. 13). Nei confronti degli abitanti di Gerusalemme, Dio è come una madre che consola il suo figlio, e lo fa proprio nella città in cui vivono. Infine Dio dà una solenne conferma di quanto ha promesso, assicurando che essi, cioè gli abitanti di Gerusalemme, lo vedranno, il loro cuore gioirà e le loro ossa saranno rigogliose come l’erba (v. 14a). La liturgia omette la seconda parte del v. 14 in cui si dice che «la mano del Signore», cioè la sua potenza, sarà causa di causa di benessere per i suoi servi, ma motivo di collera per i suoi nemici. A questo tema sono riservati i successivi vv. 15-18, mentre nel brano successivo, con in quale si chiude il libro di Isaia (Is 66,22-24), si riprende il tema della nuova creazione.

Linee interpretative

In un momento nel quale in primo piano si trova la preoccupazione per la ricostruzione del tempio, questo brano va veramente contro corrente. In esso l’accento viene posto non sull’edificio materiale, ma sulla nascita di un popolo fedele a Dio. Senza di esso il tempio non ha ragione di esistere. Non si tratta però dell’effetto di un’iniziativa umana, ma di un’opera compiuta direttamente da Dio. Solo Dio infatti può dare vita a un popolo. Si tratta quindi di un dono straordinario, di fronte al quale non c’è altro da fare che rallegrarsi con grande riconoscenza. Che nasca una comunità giusta e santa, prospera e pacifica, è un vero miracolo di Dio. La nascita di una tale comunità è una cosa meravigliosa e inattesa. È questa la speranza che il Terzo Isaia coltiva e mantiene viva tra i giudei rimpatriati a Gerusalemme.

La rinascita di cui si parla nel brano non è un evento di carattere puramente spirituale. Esso infatti è accompagnato da un’abbondanza di beni materiali, che non sono riservati solo a qualcuno ma sono equamente distribuiti fra tutti i membri del popolo. Là dove nasce l’autentica comunità del popolo di Dio, non verranno a mancare i beni di questo mondo. In questo testo lo sviluppo materiale viene visto come un dono di Dio, perché viene raggiunto mediante gli sforzi congiunti di tutto un popolo che nella fede ha trovato l’unità dei cuori e delle menti. Il vero sviluppo non dipende solo dalla tecnologia ma anche e soprattutto dalla solidarietà e dalla ricerca della giustizia. Perciò all’origine di tutti i benefici divini viene messa la pace, che è l’ambito in cui tutti gli altri doni trovano significato ed efficacia.

DOVE SEI?

http://camcris.altervista.org/moodyds.html

DOVE SEI?

DI D. L. MOODY

(Dwight Lyman Moody (5 febbraio 1837 – 22 dicembre 1899) è stato un evangelista ed editore statunitense, fondatore della Chiesa Moody, della Northfield School e della Mount Hermon School nel Massachusetts (ora Northfield Mount Hermon School), del Moody Bible Institute e della Moody Press.)

La primissima cosa che accadde quando fu giunta in cielo la notizia della caduta dell’uomo, fu che Dio discese alla ricerca del perduto. Mentre Egli cammina attraverso il giardino nella brezza del giorno lo sentiamo chiamare: « Adamo! Adamo! Dove sei? ». Era la voce della grazia, della misericordia, e dell’amore. Dal momento che era Adamo il trasgressore, avrebbe dovuto essere lui a cercare Dio. Essendo caduto, avrebbe dovuto cercare in tutto Eden gridando: « Dio mio! Dio mio! Dove sei? ». Ma invece fu Dio a lasciare i cieli per cercare nell’oscurità del mondo il ribelle che era caduto – non per cancellarlo dalla faccia della terra, ma per trovare per lui un modo di sottrarlo alla miseria del suo peccato. E infine lo trova – dove? Tra i cespugli del giardino, mentre cerca di nascondersi dal suo Creatore.
Nel momento in cui si interrompe la comunione tra l’uomo e Dio, anche se l’uomo in questione dichiara di essere un figlio di Dio, egli cerca di nascondersi da Lui. Quando Dio lasciò Adamo nel giardino, questi era in comunione col suo Creatore, e Dio parlava con lui; ma in seguito alla sua caduta, Adamo non desiderava vedere il suo Creatore, avendo perso la comunione con Lui. Non può sopportare di vedere Dio, e neppure di pensare a Lui, e così scappa via per nascondersi da Dio. Ma il suo Creatore cerca l’uomo, diretto al suo nascondiglio. « Dove sei, Adamo? Dove sei? ».
Sono passati 6.000 anni e questo testo è giunto di era in era fino a noi. Dubito che tra gli uomini, figli di Adamo, ci sia qualcuno che non ha mai sentito in qualche periodo della sua vita – talvolta nell’ora più buia – « Dove mi trovo? Chi sono? Dove sto andando? E quale sarà la fine di tutto questo? ». Penso sia una buona cosa per l’uomo fermarsi e porsi questa domanda. Vorrei che ve lo chiedeste voi tutti, tanto i piccoli quanto gli anziani. Non vi dico di chiedervi dove vi trovate rispetto al vostro prossimo; non vi chiedo dove vi trovate rispetto ai vostri amici, o rispetto alla comunità dove vivete. Ha ben poca importanza sapere dove siamo agli occhi degli altri, o sapere cosa essi pensano di noi; ma è di grandissima importanza conoscere cosa Dio pensa di noi – sapere dove ci troviamo agli occhi di Dio; è questa la domanda che dobbiamo porci adesso. Sono io in comunione col mio Creatore, o sono al di fuori di questa comunione? Se non sono in comunione con Lui, non ho pace, né gioia, né felicità durevole. Nessun uomo sulla faccia della terra, che non sia in comunione col suo Creatore, può aver mai conosciuto cosa siano la pace, e la gioia, e la felicità, e il vero conforto. Egli è del tutto estraneo a queste cose. Ma quando siamo in comunione con Dio, la Sua luce illumina il sentiero della nostra vita. Ponetevi dunque questa domanda. Non pensiate che io stia predicando ai vostri vicini, ma ricordate che sto cercando di parlare proprio a voi, a ciascuno di voi singolarmente. Fu la prima domanda posta all’uomo dopo la sua caduta, e Dio aveva un auditorio tutt’altro che vasto – solo Adamo e sua moglie. Ma era Dio a predicare; e sebbene essi cercassero di nascondersi, le parole li raggiunsero ugualmente. Lasciate che raggiungano anche voi. Potete pensare che la vostra vita sia nascosta, che Dio non sappia nulla di voi. Ma Egli conosce le nostre vite molto meglio di quando noi crediamo di conoscerle; e i Suoi occhi sono sopra di noi fin dalla nostra più tenera infanzia e fino ad oggi.
« Dove sei? ». Preferisco distinguere coloro che mi stanno ascoltando in tre categorie: i Cristiani professanti, i cristiani caduti, e gli empi.
Prima di tutto, vorrei porre una domanda ai Cristiani professanti, o meglio, lasciare che sia Dio a porgliela: Dove siete?
Qual è la vostra condotta nella chiesa, e tra i vostri conoscenti? I vostri amici riconoscono che appartenete completamente al Signore? Potete essere Cristiani professanti da venti, forse trenta, o anche quarant’anni. Bene, ma dove siete stasera? State procedendo in avanti verso il cielo? E potete rendere conto della speranza che è in voi? Supponete che io ora chieda ai Cristiani professanti presenti in questo luogo di alzarsi in piedi; vi vergognereste di alzarvi? Supponete che io chieda a ognuno che qui si professa figlio di Dio, « Se la morte tagliasse il filo della tua vita adesso, hai buone ragioni di credere che saresti salvato? ». Riusciresti a stare in piedi davanti a Dio e agli uomini, e a dire che hai un buon motivo di credere che sei passato dalla morte alla vita? O ti vergogneresti? Ritorna con la mente agli anni passati: sarebbe coerente che tu dicessi « Sono un Cristiano »? La tua vita coincide con la tua professione di fede? Non si tratta tanto di quello che diciamo, ma di come viviamo. Le azioni parlano più chiaramente delle parole. I tuoi colleghi sanno che sei un Cristiano? La tua famiglia lo sa? Sanno che ti sei dato completamente al Signore? Ogni Cristiano che si professa tale si chieda, « Dove mi trovo agli occhi di Dio? Il mio cuore è fedele al Re del cielo? La mia vita di tutti i giorni è coerente con quella che vivo nella chiesa del Signore? Sono una luce in questo mondo di tenebre? ». Cristo dice, « Voi siete Miei testimoni ». Egli era la Luce del mondo, e il mondo non ha voluto ricevere la vera Luce; il mondo si è ribellato contro di essa, e ora Cristo dice, « Vi lascio in questo mondo perché testimoniate di Me; vi lascio qui perché mi siate testimoni ». Questo si intende quando si dice che i Cristiani devono essere epistole viventi, conosciute e lette da tutti gli uomini. Allora, la mia vita testimonia di Cristo come dovrebbe in questo mondo di tenebre? Se un uomo è per Dio, abbandoni le cose del mondo e si metta a servizio del Signore; e se invece è per il mondo, rimanga nel mondo. Questo servire Dio e il mondo allo stesso tempo – questo stare da entrambe le parti contemporaneamente – è la maledizione della Cristianità presente. Essa ritarda più di qualunque altra cosa il progresso del Cristianesimo. « Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua ».
Ho sentito di tante persone che pensano che far parte della chiesa, e aver fatto una professione di fede, basti per il resto dei loro giorni. Ma c’è una croce che tutti noi dobbiamo portare ogni giorno. Oh, figli di Dio, dove vi trovate? Se Dio vi apparisse stanotte nella vostra camera da letto e vi facesse questa domanda, cosa rispondereste? Credete di poter dire con sincerità: « Signore, ti sto servendo con tutto il mio cuore e con tutta la mia forza; sto facendo fruttare i talenti che mi hai dato e mi sto preparando per il Tuo Regno che sta per venire »? Quando mi trovavo in Inghilterra nel 1867, a Londra, c’era un mercante che veniva da Dublino, e stava parlando con un uomo d’affari; quando mi avvicinai, questi mi presentò al mercante. Alludendo a me, quest’ultimo disse al primo: « Questo giovane si è dato completamente a Cristo? » Queste parole bruciarono nella mia anima. Significa molto darsi del tutto a Cristo; ma è quello che dovrebbero fare tutti i Cristiani, e se lo facessero la loro influenza ben presto si sentirebbe nel mondo; se, cioè, i credenti non si nascondessero e facessero sentire la loro voce in ogni occasione. Come ho detto prima, ci sono molti nelle chiese che fanno una dichiarazione di fede, e quella è l’ultima cosa che senti di loro; e quando muoiono devi andare a leggere in qualche vecchio e polveroso registro di chiesa per sapere se erano Cristiani o no. Credo che quando Daniele morì, tutti gli uomini di Babilonia sapessero chi egli avesse servito durante la sua vita. Non avevano bisogno di informarsi leggendo registri. La sua vita testimoniava con i fatti la professione di fede che aveva fatto. Ciò di cui abbiamo bisogno sono credenti che abbiano un po’ di coraggio per difendere la causa di Cristo. Quando la Cristianità si sveglia, e ogni credente che appartiene al Signore è disposto a prendere posizione per Lui, è disposto a lavorare per Lui, e, se fosse necessario, è disposto a morire per Lui, solo allora la Cristianità avanzerà, e vedremo prosperare l’opera del Signore. C’è una cosa che temo più di ogni altra, ed è vedere quel freddo formalismo nella chiesa di Dio. Tra tutte le cattive abitudini, non c’è niente di tanto pericoloso per la chiesa quanto un morto, freddo formalismo, che è giunto fin dentro il cuore della chiesa. Ci sono così tanti fra noi che dormono e sonnecchiano mentre le anime intorno a noi e in ogni parte del mondo stanno morendo! Onestamente, credo che noi Cristiani professanti, spiritualmente parlando, siamo tutti mezzi assonnati. Alcuni di noi stanno iniziando a strofinarsi gli occhi per riuscire a tenerli mezzi aperti, ma nell’insieme stiamo dormendo.
C’era una breve storia sulla stampa americana che mi è rimasta molto impressa come genitore. Una domenica, un padre portò il suo figlioletto nei campi, e, essendo una giornata calda, si stese sotto un bellissimo albero ombroso. Il figlioletto correva avanti e indietro raccogliendo fiori di campo e piccoli steli d’erba, e tornando da suo padre diceva: « Bello! Bello! ». Dopo un po’, il padre si addormentò, e mentre dormiva il bambino si allontanò. Quando l’uomo si fu svegliato, il suo primo pensiero fu: « Dov’è mio figlio? ». Guardò ovunque, ma non lo vide. Lo chiamò gridando con tutta la voce che aveva, ma poté sentire solo l’eco della sua voce. Corse sulla sommità di una collinetta, si guardò intorno e gridò ancora. Nessuna risposta! Allora si diresse verso un precipizio poco distante, guardò giù, e lì, tra le rocce e i fiori selvatici, vide il corpo lacerato del suo amato figlioletto. L’uomo corse in fretta sul posto, prese quel corpicino senza vita e lo strinse a sé, accusando se stesso della morte del suo bambino. Mentre lui dormiva, il piccolo era caduto dal precipizio. Nell’apprendere questa storia, pensai a quanto essa assomigli alla condizione della chiesa di Dio!
Quanti padri e madri, quanti Cristiani, stanno dormendo ora, mentre i loro figli vagano verso il terribile precipizio delle profondità infernali! Padri, dove sono i vostri figli stasera? Forse saranno solo in qualche luogo di ritrovo pubblico, oppure per strada, o si stanno incamminando verso la tomba ubriacandosi. Madri, dove sono i vostri figli? Forse in un locale dove stanno distruggendo la loro anima – gettando via tutto ciò che c’è di caro e sacro per loro? Sapete dove si trova vostro figlio adesso? Padre, puoi essere stato un Cristiano professante per quarant’anni; dove sono i tuoi figli stasera? Hai vissuto in modo tanto devoto, tanto simile a Cristo, da poter dire « Seguite me come io ho seguito Cristo »? Quei figli stanno camminando nella luce, verso la gloria del Signore? Sono stati raccolti nel gregge di Cristo, e i loro nomi sono stati scritti nel Libro della Vita dell’Agnello? Quanti padri e quante madri oggi sono in grado di rispondere? Vi siete mai fermati a pensare che la colpa possa essere vostra, e che non siete stati fedeli verso i vostri figli? Potete essere certi che fintanto che la chiesa continuerà a vivere come il mondo, non potremo aspettarci di vedere i nostri figli darsi a Cristo. Vieni, O Signore, e sveglia ogni madre, e possa ognuno di noi genitori sentire il valore delle anime dei figli che Dio ci ha donati. Possano essi nella loro vecchiaia non dover temere la morte, ma siano piuttosto una benedizione per la chiesa e per il mondo.
Non molto tempo fa la sola figlia di un mio amico agiato si è ammalata ed è morta. Il padre e la madre rimasero al suo capezzale mentre ella moriva. L’uomo aveva passato tutta la vita ad accumulare beni per lei; le aveva fatto conoscere il fior fiore della società; ma non le aveva insegnato nulla di Cristo. Quando la ragazza giunse a un passo dalla morte, disse: « Aiutatemi; è molto buio, e sento un gelo terribile ». I genitori si strinsero le mani angosciati, ma non potevano fare nulla per lei; e la povera ragazza morì nell’oscurità e nella disperazione. Cosa potevano fare per loro i beni e le ricchezze? E voi, madri e padri, state facendo la stessa cosa oggi, ignorando l’opera che Dio vi ha dato da compiere. Vi supplico, dunque, ciascuno di voi inizi a lavorare adesso per le anime dei vostri figli!
Qualche tempo fa, c’era un giovane, morente, e sua madre pensava che egli fosse Cristiano. Un giorno, passando accanto alla sua stanza, lo sentì dire: « Perduto! Perduto! Perduto! ». La madre corse nella stanza e gridò: « Figlio mio, è possibile che tu abbia perso la tua speranza in Cristo, ora che stai morendo? » « No, madre, non è questo; so che c’è una vita dopo la morte, ma io ho perso la mia vita. Ho vissuto ventiquattro anni, e non ho fatto nulla per il Figlio di Dio, e ora sto morendo. Ho vissuto la mia vita per me stesso; ho vissuto per questo mondo, e solo ora che sto morendo, mi sono dato a Cristo; ma la mia vita è perduta ». Non si potrebbe dire di molti di noi, che se dovessimo essere chiamati a partire da questo mondo, le nostre vite sono state quasi un fallimento – forse un intero fallimento se consideriamo il nostro compito di far conoscere Cristo agli altri uomini del mondo? Giovani donne! State lavorando per il Figlio di Dio? State cercando di portare a lui le anime di qualche peccatore? Avete cercato di convincere qualche amico o compagno affinché i loro nomi siano scritti nel Libro della Vita del Signore? O preferite dire, « Perduto! Perduto! Molti anni sono passati da quando sono diventato un figlio di Dio, e non ho mai avuto il privilegio di portare anime a Cristo »? Se c’è qualcuno che si professa figlio di Dio che non ha mai avuto la gioia di portare anche solo un’anima nel regno di Dio, oh! Che ricominci daccapo. Non esiste un privilegio maggiore sulla terra. E io credo, amici miei, che non ci sia stato un periodo, almeno ai nostri giorni, in cui l’opera per Cristo sia più necessaria di adesso. Non credo che ci sia mai stato nei vostri o nei miei giorni un momento in cui lo Spirito di Dio sia stato sparso maggiormente sul mondo. Non c’è parte della Cristianità dove il lavoro non viene portato avanti; e sembra che nuove notizie liete stiano arrivando da ogni parte del mondo. Non è dunque il momento per la chiesa di Dio di svegliarsi e venire tutti insieme come un uomo solo ad aiutare il Signore, e sforzarci per scacciare quelle orde infernali di morte che vagano per le nostre strade e che portano sul loro petto quanto di più nobile e di meglio abbiamo? Oh, possa Dio svegliare la chiesa dei credenti! Abbandoniamo i piaceri del mondo, e andiamo avanti e lavoriamo per il Regno del Suo Figliuolo.
Ora, come seconda cosa, voglio parlare a coloro che sono tornati nel mondo – ai credenti caduti. Forse qualche anno fa eri un Cristiano professante, e ti sei trasferito in una nuova grande città. Sei diventato membro di una chiesa, e magari insegnante della scuola domenicale; ma vedendo persone che non conoscevi hai pensato di prendertela un po’ più comoda – magari andando al culto una volta si e una volta no. Così hai smesso di insegnare alla scuola domenicale; hai abbandonato l’opera per Cristo. Nella tua nuova chiesa non hai ricevuto l’attenzione e il caloroso benvenuto che ti aspettavi. E hai preso l’abitudine di starne lontano. Ora sei giunto tanto lontano che ti si può trovare nei teatri o nei locali mondani, o addirittura in compagnia di persone che bestemmiano o che si ubriacano. Forse sto parlando a qualcuno che è stato lontano dalla casa di suo padre per molti anni. Torna, ora, figlio prodigo; dimmi, sei felice? Sei mai stato felice anche un’ora sola da quando hai lasciato Cristo? Ti soddisfa il mondo, o quelle cose senza valore che hai trovato lontano da casa? Ho viaggiato molto, ma non ho mai trovato una persona che sia tornato a seguire le cose del mondo e che possa dire con sincerità di essere felice. Conoscevo un uomo che era davvero nato da Dio, che non riuscì mai a trovare alcuna soddisfazione nel mondo. Credete che il figlio prodigo fosse soddisfatto del paese straniero dove andò a vivere? Chiedete ai prodighi in questa città se sono davvero felici. « Non c’è pace per gli empi, dice il mio Dio ». Non c’è pace per l’uomo che si ribella contro il suo Creatore. Supponendo che egli sia stato fatto partecipe del dono celeste, e che sia stato in comunione con Dio, e che abbia avuto la dolce compagnia del Re del Cielo, e che abbia passato felici ore di servizio per il Maestro, ma che ora sia caduto, può quella persona essere felice? Se lo è, è un chiaro segno del fatto che non si è mai davvero convertito. Se un uomo è nato di nuovo, e ha ricevuto la natura divina, questo mondo non potrà mai soddisfare i desideri della sua nuova natura. Oh, caduti, ho pietà di voi! Ma voglio dirvi che il Signore Gesù ha molta più compassione di quanta ne possa avere chiunque altro. Egli sa quanto sia amara la vita; Egli sa quanto sia buia la tua vita; Egli desidera che tu torni a casa. Oh, credente caduto, torna a casa stasera! Ho un messaggio d’amore da tuo Padre. Il Signore ti vuole, e ti invita a tornare a casa stasera. « Torna a casa, figlio smarrito; torna dalle buie montagne del peccato ». Ritorna, e tuo Padre ti accoglierà con amore. So che il diavolo ti ha detto che Dio non vuole avere più niente a che fare con te, perché ti sei allontanato. Se questo fosse vero, ci sarebbero pochissimi uomini in cielo. Davide cadde; Abramo e Giacobbe si allontanarono da Dio; non credo che esista un santo in cielo che in qualche momento della sua vita non si sia allontanato da Dio nel suo cuore. Forse non nella sua vita, ma nel suo cuore. Il figlio prodigo aveva raggiunto la città lontana col suo cuore prima ancora di esserci arrivato fisicamente. Prodigo! Torna a casa stasera. Tuo Padre non vuole che tu rimanga lontano. Pensi forse che il padre del prodigo non fosse ansioso per lui affinché tornasse a casa dopo tutti quei lunghi anni che era stato lontano? Ogni anno il padre aspettava e desiderava che lui tornasse a casa. Allo stesso modo Dio vuole che tu torni a casa da lui. Non importa quanto lontano tu sia andato; il grande Pastore ti riceverà nuovamente tra i suoi figli stasera. Hai mai saputo di un credente che si era allontanato da Dio e che poi, tornato da Lui, sia stato rifiutato dal Signore? Ho sentito di padri e madri terreni che non hanno voluto ricevere i loro figli quando sono tornati; ma sfido ogni uomo ad affermare di conoscere qualche credente che era caduto ma che, con cuore realmente sincero, sia poi tornato a casa e il Signore non abbia voluto riprenderlo con sé.
Diversi anni fa, prima che fosse costruita alcuna ferrovia a Chicago, il grano veniva portato dalle praterie dell’ovest con dei carri per centinaia di miglia, per poi essere spedito. C’era un padre che aveva una grande fattoria da quelle parti, e che era solito predicare il vangelo oltre che a lavorare nei suoi campi. Un giorno che il lavoro per la chiesa richiedeva più tempo del solito, mandò suo figlio a portare il grano a Chicago. Attese a lungo che suo figlio tornasse a casa, ma non fece più ritorno. Alla fine, non potendo più aspettare, l’uomo sellò il cavallo e si diresse verso il luogo dove suo figlio avrebbe dovuto vendere il grano. Seppe che era stato lì e che aveva ottenuto i soldi della vendita del grano; allora cominciò a temere che il figlio potesse essere stato ucciso e derubato. Alla fine, con l’aiuto di un investigatore, lo trovò in una bisca, dove scoprì che aveva perso tutti soldi giocando d’azzardo. Sperando di riguadagnare il denaro, aveva venduto il carro, e aveva giocato di nuovo con quei soldi, perdendo anche quelli. Era così finito tra i ladri, e come l’uomo della parabola che andava a Gerico, lo avevano spogliato di tutti i suoi beni e lo avevano abbandonato a se stesso. Cosa poteva fare? Si vergognava di tornare a casa e di incontrare suo padre, così scappò. Il padre capì cosa provava il giovane. Sapeva che il figlio pensava che egli fosse molto adirato con lui. L’uomo era ferito dal fatto che il ragazzo potesse pensare questo di lui. È proprio quello che accade con il peccatore. Egli pensa che, dal momento che ha peccato, Dio non vorrà mai più vederlo. Ma cosa fece quel padre? Disse forse, « Che se ne vada per la sua strada »? No, anzi lo seguì. Sistemò le sue cose e iniziò a cercare suo figlio. Quell’uomo andò di paese in paese, di città in città. Chiese ai ministri delle chiese di quelle città di lasciarlo predicare e, infine, chiedeva all’auditorio se avessero visto suo figlio. Lo descriveva e chiedeva loro di scrivergli se lo avessero trovato. Alla fine, scoprì che era scappato in California, a migliaia di miglia da casa. Pensate che il padre abbia detto « Se ne vada pure »? No; andò fin laggiù a cercare suo figlio. Andò fino a San Francisco, e fece scrivere sui giornali locali che avrebbe predicato in una chiesa del posto in un certo giorno. Arrivò quel giorno, e quando l’uomo ebbe finito di predicare raccontò ai presenti la sua storia, nella speranza che il figlio potesse aver letto l’annuncio ed essere venuto in chiesa. Quando ebbe terminato il racconto, lontano in fondo alla stanza c’era un giovane che aspettava che le persone fossero uscite tutte; poi si diresse verso il pulpito. Il padre guardò, e riconobbe il ragazzo, e gli corse incontro e lo strinse a sé. Il ragazzo voleva confessare quello che aveva fatto, ma il padre non volle sentire una parola. Lo perdonò senza recriminare, e lo riportò di nuovo a casa sua.

Oh, prodigo, forse ora stai vagando tra le oscure montagne del peccato, ma Dio vuole che tu torni a casa. Il diavolo ti ha raccontato bugie su Dio; credi che non ti vorrà più vedere. Ma ti dico che Egli ti accoglierà in questo stesso istante se tu torni. Dici: « Mi leverò e andrò da mio Padre ». Che Dio ti aiuti a prendere questa decisione. Non c’è nessuno che Gesù non abbia più di quanto abbia fatto quel padre. Non c’è stato giorno da quando Lo hai lasciato che Egli non ti abbia seguito. Non importa quale è stato il tuo passato, o quanto nera sia stata la tua vita, Egli ti riceverà di nuovo. Rialzati dunque, credente caduto, e ritorna ancora una volta a casa di tuo Padre.
Non molto tempo fa, a Edinburgo, una signora che era una Cristiana fervente, trovò una giovane donna la cui vita era stata guidata dall’inferno a una vita di prostituzione. La signora implorò la ragazza di tornare a casa sua, ma ella rispose di no, perché i suoi genitori non l’avrebbero mai voluta dopo quello che era stata. Questa donna Cristiana conosceva il cuore di una madre, così scrisse una lettera alla madre della ragazza, per farle sapere che l’aveva incontrata, che era pentita e che voleva tornare da lei. Giunse la lettera di risposta, e sulla busta era scritto: « Immediatamente – Immediatamente! ». Quello era il cuore di una madre. Aprirono la lettera. Si, la ragazza era perdonata. I genitori volevano che tornasse, e le mandarono dei soldi perché potesse tornare al più presto. Peccatore, ascolta quella dichiarazione: « Torna immediatamente ». È quello che il grande e amorevole Dio sta dicendo a ogni peccatore che sta vagando in questo mondo – immediatamente. Si, figlio traviato, torna a casa stasera. Egli ti darà un caloroso abbraccio, e ci sarà gioia nei cieli per il tuo ritorno. Torna adesso, poiché tutto è pronto.
Un po’ di tempo fa, un mio amico mi disse: Hai mai notato che cosa ha perduto il figlio prodigo andando in quel paese lontano? Ha perso il suo cibo. È proprio quello che perdono i poveri credenti traviati. Non hanno più la manna dal cielo. La Bibbia, il nostro cibo spirituale, è un libro chiuso per essi; non trovano più bellezza o gioia nella Parola di Dio.
Poi il prodigo perse il lavoro. Era un ebreo, ma in quel paese lontano gli facevano pasturare dei porci; si trattava di una perdita per un ebreo. Così pure ogni credente caduto perde il suo lavoro. Non può fare niente per Dio; non può lavorare per il Suo regno. È una pietra d’inciampo per il mondo. Amici miei, non lasciate che il mondo inciampi a causa vostra nell’inferno.
Il prodigo perse anche la sua testimonianza. Chi poteva credere in lui? Immaginate questa scena: alcuni uomini nativi di quel paese vedono quel povero prodigo vestito di stracci, scalzo e senza copricapo. Lo vedono in mezzo ai porci e uno dice all’altro: « Guarda quel povero infelice ». « Cosa? », interviene il giovane, « mi avete chiamato povero infelice? Mio padre è un uomo ricco; ha più vestiti nel suo guardaroba di quanti ne possiate vedere in tutta la vostra vita. Mio padre è un uomo di grande ricchezza e prestigio ». Pensate che quegli uomini gli avrebbero creduto? « Quell’uomo misero… figlio di un uomo benestante! ». Nessuno gli avrebbe creduto. « Se avesse davvero un padre tanto ricco, andrebbe da lui ». Questo vale anche per i credenti traviati; il mondo non crede che siete figli di un Re. Essi dicono, « Perché non vanno a Lui, se c’è tanto cibo alla Sua mensa? Perché non sono a casa del loro Padre? ».
E poi, un’altra cosa che il prodigo perse fu la sua casa. Non aveva un posto dove abitare in quel paese straniero. Fintanto che aveva del denaro, era stato piuttosto popolare nei luoghi di ritrovo pubblici e tra i suoi conoscenti; aveva tante persone attorno che si professavano suoi amici, ma non appena i suoi beni furono finiti, dov’erano andati a finire tutti quei suoi amici? È questa la condizione di ogni povero credente caduto.
Ma ora immagino che qualcuno dica: « Sarebbe inutile che io tornassi. Dopo qualche giorno tornerei un’altra volta dov’ero. Mi piacerebbe molto ritornare a casa di mio Padre, ma temo che non ci rimarrei a lungo ». Allora immaginate questa scena: il povero prodigo è tornato a casa, e il padre ha ammazzato il vitello ingrassato, e sono tutti lì, seduti a tavola, e mangiano. Immagino che quelli fossero i bocconi più dolci che il giovane abbia mai mangiato – forse la cena più bella che abbia mai fatto in vita sua. Suo padre è seduto all’altro capo del tavolo; è ricolmo di gioia, e il suo cuore si commuove dentro di lui. Improvvisamente vede il ragazzo piangere. « Figlio mio, perché stai piangendo? Non sei felice di essere tornato a casa? » « Oh, si, padre; non sono mai stato tanto felice quanto lo sono oggi: ma ho tanta paura di poter andare di nuovo in quel paese straniero! ». Come, trovate difficile immaginare una scena simile? Se tornate a casa del vostro Padre e cenate con Lui, non sarete mai inclini ad allontanarvi di nuovo.
Ora desidero parlare alla terza categoria. La Scrittura dice: « Se il giusto è salvato a stento, dove finiranno l’empio e il peccatore? ». Peccatore, che ne sarà di te? Come scamperai? « Dove sei? ». È vero che stai vivendo nel mondo senza Dio e senza speranza? Ti sei mai fermato a pensare che ne sarà della tua anima se una malattia improvvisa dovesse colpirti e tu ne morissi? Dove vivresti per l’eternità? Da quello che leggo, il peccatore è senza Dio, senza speranza, e senza scuse. Se non sei salvato, che scusa hai? Non puoi dire che è colpa di Dio. Egli è fin troppo ansioso di salvarti. Voglio dirti stasera che tu puoi essere salvato se lo vuoi. Se davvero vuoi passare dalla morte alla vita, se vuoi diventare un erede della vita eterna, se vuoi diventare un figlio di Dio, impegnati stasera a cercare il Regno di Dio. Ti dico, per l’autorità della Sua Parola, che se cerchi il Regno di Dio tu lo troverai. Nessun uomo ha mai cercato Cristo con tutto il cuore e non l’ha trovato. In quest’ultimo anno ho provato una sensazione solenne. Sono in quelli che chiamano il fiore degli anni, nel mezzo della vita. Guardo la vita come un uomo che ha raggiunto la sommità di una collina, e inizia a scendere dall’altro lato. Ho raggiunto la cima della collina – ammesso che io raggiunga i settant’anni – e ho appena incominciato a discendere dall’altra parte. Sto parlando a molti che si trovano come me in cima a quella collina, e vi chiedo, se non siete Cristiani, fermatevi un paio di minuti, e chiedetevi dove vi trovate. Guardiamo di nuovo alla collina che stiamo salendo. Cosa vedete? Quella laggiù è la culla. Non è lontana. Quanto è breve la vita! Sembra come se fosse ieri. Guardate sulla collina: è una tomba; forse quella di una madre tanto amata. Quando ella è morta, non avete promesso a Dio che lo avreste servito? Non avete detto che il Dio di vostra madre sarebbe diventato il vostro Dio? E non avete preso la mano di vostra madre in quell’ora triste e interminabile, dicendo, « Si, mamma, ci incontreremo in cielo! » State mantenendo quella promessa? Ci state provando? Sono passati dieci anni, quindici – ma siete più vicini a Dio? La promessa ha prodotto qualche frutto di ravvedimento in voi? No, il vostro cuore sta diventando sempre più duro: la notte diventa più buia; giorno dopo giorno si avvicina l’ora in cui la morte vi coprirà con le sue tenebre. Amico mio, dove sei? Guarda ancora. Un po’ più sopra la collina c’è un’altra tomba. È quella di un fanciullo. Forse una bellissima bambina, oppure un bambino; e quando quel bambino vi è stato portato via, non avete promesso a Dio, e a vostro figlio, che vi sareste incontrati di nuovo in cielo? State mantenendo la promessa? Pensateci! O state ancora combattendo contro Dio? State ancora indurendo il vostro cuore? I sermoni che fino a cinque anni fa toccavano il vostro cuore, ora non riescono più a scuotervi?
Guardiamo ancora una volta giù dalla collina. Lì c’è una tomba; non sapete quanti giorni, settimane, o anni, vi separano da essa, ma è lì che, come ogni uomo, vi state dirigendo. Anche se doveste vivere tutti gli anni di vita concessi a un uomo, amici miei, non è da pazzi rifiutare la salvezza così a lungo? Può darsi che tra le persone a cui sto parlando ci sia qualcuno che tra una settimana sarà nell’eternità. In un auditorio vasto come questo, fino alla prossima settimana la morte potrebbe reclamare qualcuno tra noi; forse io che vi parlo, o forse qualcuno che mi sta ascoltando. Perché lasciare trascorrere un altro giorno senza rispondere? Perché stasera per l’ennesima volta dici al Signore Gesù: « Lasciami stare per questa volta; quando lo riterrò opportuno e ne avrò voglia, Ti chiamerò »? Perché non Lo lasci entrare stasera? Perché non apri il tuo cuore, e dici, « Entra, Re di Gloria »?
Ci sarà mai un’occasione migliore? Non hai promessi dieci, quindici, venti, trent’anni fa che avresti servito Dio? Alcuni di voi hanno detto che l’avrebbero fatto una volta spostati e sistemati; altri hanno detto che l’avrebbero servito quando sareste riusciti a mettere a posto la vostra vita. Lo avete fatto?
Sapete che ci sono tre passi per raggiungere la perdizione; permettetevi di elencarvi i loro nomi. Il primo è la noncuranza. Basta che un uomo si ostini a rifiutare la salvezza, per essere perduto per l’eternità. Alcune persone dicono: « Che cosa ho fatto! ». Se rifiuti la salvezza, sarai perduto. La nostra vita è come un fiume che corre veloce verso una grande cascata. Raggiungerla significa morire. Perché ciò avvenga non è necessario capovolgere la barca; basta anche solo lasciare i remi e incrociare le braccia e non curarsi di niente. Così è per gli uomini che incrociano le braccia nella vita rifiutando la salvezza.
Il secondo passo è il rifiuto. Se vi incontrassi alla porta e vi facessi questa domanda, mi direste: « Non stanotte, signor Moody, non stanotte »; e se io vi ripetessi: « Insisto perché accettiate di entrare nel Regno di Dio ed essere salvati », potreste educatamente rifiutare: « Non diventerò un Cristiano stanotte, grazie; so che dovrei, ma non stanotte ».
L’ultimo passo è il disprezzo. Alcuni tra voi sono già giunti su questo che è il gradino più basso della scala. Disprezzate Cristo. Lo odiate, odiate la Cristianità; detestate le persone più care di questo mondo, gli amici più cari che potreste mai avere; e se vi offrissi una Bibbia, la gettereste via. Oh, voi che disprezzate! Presto sarete in un altro mondo. Ravvedetevi ora e volgetevi a Dio. Ora, dove ti trovi amico: forse stai trascurando, rifiutando, o disprezzando? Fai attenzione: sono molti quelli che sono perduti per sempre già al primo passo; muoiono nella noncuranza. E molti sono coloro che non hanno accettato il Signore, ma lo rifiutano. E infine, molti sono quelli che disprezzano la salvezza.
Solo pochi anni fa la trascuravano, poi l’hanno rifiutata; e ora disprezzano la Cristianità e Cristo. Odiano il suono delle campane delle chiese; odiano la Bibbia e i Cristiani; maledicono il suolo stesso sul quale camminano. Ma solo un passo ancora e scompaiono per sempre nelle tenebre. Oh voi che disprezzate, vi è posta davanti la vita e la morte; quale scegliete? Quando Pilato aveva Cristo in suo potere, disse: « Che volete dunque che faccia di lui? » e la folla gridò: « Via, via, crocifiggilo! » Giovani, è questo il vostro linguaggio stasera? Direte: « Basta con questo vangelo! Basta con la Cristianità! Basta con le vostre preghiere, i vostri sermoni, gli inni! Non voglio Cristo »? O sarete saggi e direte: « Signore Gesù, voglio Te, ho bisogno di Te, desidero Te »? Oh, possa Dio spingervi a una tale decisione!

LA «VITA ETERNA» NELLA TESTIMONIANZA BIBLICA E NELLA TRADIZIONE CRISTIANA

http://www.credereoggi.it/upload/2009/articolo173_19.asp

LA «VITA ETERNA» NELLA TESTIMONIANZA BIBLICA E NELLA TRADIZIONE CRISTIANA

RICCARDO BATTOCCHIO

La vita è fragile e precaria. Di questo come essere umani abbiamo coscienza, con questo dato siamo chiamati a confrontarci, implicitamente o esplicitamente, in tutto ciò che pensiamo e operiamo. «Noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni…»[1]: non è detto sia l’ultima parola possibile per descrivere la nostra condizione, ma è una voce che non sarebbe giusto mettere a tacere in modo troppo sbrigativo.
Da dove sorge allora la prospettiva di una vita non minacciata dall’estinzione, sottratta alla provvisorietà, tutelata rispetto all’azione divorante della morte e in grado di adempiere le promesse di bene che sembrano trovare posto anche nelle pieghe delle più tormentate esistenze? Dal desiderio, forse. Da uno sguardo che non si rassegna e non si limita a constatare il nulla che sta dietro e di fronte agli attimi che ci sono da vivere, ma ardisce volgersi al di là del tempo che consuma. Cosa però ci assicura che questo levarsi in alto degli occhi del desiderio non sia un’illusione, una proiezione al di fuori di noi di un abisso che è solo nostro, oppure una strategia adattiva, effetto di una serie di mutazioni più o meno casuali, che ci permette di sopravvivere a un ambiente ostile grazie alla costruzione mentale di un mondo stabile e sicuro?
Se la via del desiderio sembra poco praticabile, almeno a prima vista, si può pensare che la speranza nella reale possibilità di un’esistenza umana che permane nella e oltre la morte sia il dono offerto da una parola che non nasce dal cuore dell’uomo, ma da un “Altro”, il quale dice: «Tu non morrai» perché egli stesso è più forte della morte, avendola sofferta, combattuta e sconfitta.
Il cristianesimo, con la sua storia complessa e i suoi volti differenziati, si propone nel quadro variegato delle esperienze religiose dell’umanità come annuncio di quella parola. Essa ha preso corpo in un momento particolare, all’interno della lunga storia di un piccolo popolo, ma si rivolge a tutti, al di là di ogni appartenenza, offrendo motivi per credere che se è vero che nel mezzo della vita facciamo sempre esperienza della morte, è ancor più vero che nella morte e oltre la morte ci è donata una vita «eterna».
Vita eterna è una delle formule che i cristiani hanno privilegiato per esprimere il contenuto della speranza sorta dall’incontro, nella fede, con il Crocifisso risorto[2]. Una formula paradossale: come può la vita (realtà che sembra implicare, in qualche modo, il divenire) essere eterna (appartenere all’ambito di ciò che non muta)? Ci si può effettivamente chiedere se ci sia un contenuto di verità nell’affermazione: «credo la vita eterna», o se si tratti solo dell’espressione di un sentimento per mezzo di un ossimoro, una poetica accoppiata di opposte qualità, come “una dolce amarezza”, “una lieta tristezza”.
Prima però di liquidare come falsa o persino dannosa la nozione di vita eterna, o prima di ribadirne semplicemente la legittimità, come se il suo significato fosse da sempre chiaro e univoco, è opportuno interrogarsi su ciò che queste parole hanno inteso e intendono effettivamente comunicare[3].
Non possiamo occuparci delle differenti rappresentazioni della condizione umana nella morte e al di là della morte, alcune delle quali (non tutte!) sono chiaramente associate alla prospettiva di una vita “altra” rispetto a quella sperimentata nel tempo dell’esistenza cosiddetta «terrena»[4]. Il nostro percorso si colloca all’interno dell’orizzonte di comprensione della realtà che si lascia istruire dal vangelo di Gesù Cristo, così come risuona nell’uno e nell’altro Testamento e in alcune figure significative della tradizione cristiana. Senza ricapitolare i contenuti della speranza cristiana (a cui si riferisce quell’ambito della riflessione teologica che, con termine moderno, viene chiamato escatologia), ci concentreremo su una delle sue nozioni chiave, quella appunto di vita eterna, considerandone sinteticamente la storia.

1. Passaggi e tensioni nell’Antico Testamento
È necessaria una certa cautela quando, leggendo una traduzione italiana dell’Antico Testamento, ci imbattiamo in espressioni quali «amore eterno», «alleanza eterna», «vita eterna». Il termine ebraico ‘olam, tradotto generalmente in greco con aión e in italiano con eterno, non indica di per sé una condizione che si colloca «al di là» del tempo, quanto piuttosto un tempo lontano, passato da molto o proiettato nel futuro. Espressioni quali «amore eterno», «alleanza eterna», «regno eterno» e simili, non vanno riferite immediatamente a un futuro definitivo (escatologico) di tipo personale o collettivo: dicono piuttosto il carattere durevole dell’alleanza, dell’amore, del regno[5]. Non è difficile, del resto, osservare come dai libri dell’Antico Testamento non traspaia un’idea univoca del destino che attende l’uomo al momento della morte. La fede che dà stabilità al popolo d’Israele (cf. Is 7,9b) – la fede di Abramo – è fondata su una promessa e, come tale, è rivolta al futuro. Questo futuro però non si configura subito come esistenza personale oltre la morte, essendo sufficientemente rappresentato dalla discendenza, dal possesso della terra, dalla possibilità di godere in essa lo shalom («pace») donato da Dio. I defunti stanno nel «mondo sotterraneo» (lo sheol) come «ombre»: non «anime» in senso platonico, ma esistenze depotenziate, sottratte alla relazione con Dio, al quale non possono «dar lode» (cf. Sal 88,11).
La prospettiva del permanere della relazione personale fra Dio e l’uomo (il giusto) nella morte e oltre la morte emerge nei testi risalenti all’epoca post-esilica. Il tema del «rapimento al cielo» di personaggi particolari (Enoch, Elia), l’esperienza della fedeltà di Dio nel momento della prova, l’esigenza di una ricompensa per il giusto sofferente di fronte alla prosperità del malvagio, interagiscono fra loro e portano a esprimere in alcuni salmi (ad es.: 49,16; 73,24; cf. anche 16,10) l’idea di un legame tra Dio e il giusto tale non solo da permettere la salvezza “dalla morte” ma anche da permanere (almeno secondo un lettura possibile dei testi) “al di là della morte”.
Intorno al II secolo a.C., all’epoca delle rivolte contro la politica anti-giudaica dei Seleucidi, diventa esplicita la consapevolezza di un «risveglio» dei morti (nella totalità del loro essere personale) al momento dell’instaurazione definitiva della signoria di Dio, in vista della ricompensa dei giusti e della punizione dei malvagi. Così in Daniele:
Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre (Dn 12,2-3)[6].
Se in questo passo l’attesa è quella di un risveglio dei morti a una vita «eterna» (su questa terra), il secondo libro dei Maccabei dà voce anche alla speranza che i giusti, uccisi a causa della loro fedeltà alla legge, siano accolti «in cielo» al momento stesso della morte:
Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna [letteralmente: in una reviviscenza eterna di vita] (2Mac 7,9).
Il contrasto fra la sorte degli empi e quella dei giusti è in primo piano nei capitoli iniziali (1-5) del libro della Sapienza:
La speranza dell’empio è come pula portata dal vento, come schiuma leggera sospinta dalla tempesta; come fumo dal vento è dispersa, si dilegua come il ricordo dell’ospite di un solo giorno. I giusti al contrario vivono per sempre, la loro ricompensa è presso il Signore e di essi ha cura l’Altissimo (Sap 5,14-15).
Vita «eterna» è quindi la relazione personale con Dio che continua, per chi è fedele all’alleanza, anche oltre la morte, non come prolungamento indefinito dell’esistenza terrena, ma come partecipazione alla vita di Dio, l’Eterno, il Vivente, che si manifesta tale rimanendo fedele alla sua promessa.
La speranza nell’adempimento delle promesse di Dio può essere espressa con immagini diverse e con linguaggi non sempre facilmente sovrapponibili. L’interpretazione cristiana delle Sacre Scritture del popolo ebraico coglie volentieri una dinamica progressiva nel modo in cui la speranza d’Israele passa da una rappresentazione del futuro promesso da Dio come legato alla terra, a una coscienza più marcatamente “escatologica” di tale futuro, orientato al compimento che è il Cristo. Questa prospettiva, in sé legittima, non dovrebbe far dimenticare i caratteri specifici di ogni tradizione (legge, profeti, scritti) o le tensioni presenti all’interno dell’esperienza di fede d’Israele, con le quali il Nuovo Testamento si confronta a partire dal criterio interpretativo rappresentato dalla vicenda di Gesù, dalla sua morte e risurrezione[7].

2. Prospettive nel Nuovo Testamento
Bíos, psyché, zoé sono i tre termini del greco neotestamentario che in italiano possono essere tradotti con «vita». Se i primi due si riferiscono al dato biologico, la condizione dell’uomo in quanto essere vivente tra gli altri esseri viventi o, nel caso di bíos alle esigenze dell’esistenza materiale, il terzo dice una modalità dell’esistenza possibile solo grazie a una particolare iniziativa di Dio. Anche quando non viene qualificato dall’aggettivo «eterna» (aiónios), il sostantivo zoé ha una connotazione teologica: è tuttavia alla formula vita eterna che intendiamo prestare ora attenzione[8].
– In Paolo, vita eterna è la ricompensa che Dio concede «a coloro che, perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità» (Rm 2,7). Contesto e linguaggio non sono lontani da quelli dell’apocalittica, con al centro il tema del giudizio di Dio (cf. Dn 12,2): la novità è rappresentata dal riferimento a «Gesù Cristo nostro signore», per mezzo del quale regna la grazia «mediante la giustizia per la vita eterna» (Rm 5,21). La vita eterna è il destino / il fine (télos) e il dono (chárisma) concesso a quanti, tramite la fede e il battesimo, per l’azione dello Spirito (principio datore di vita), sono resi partecipi della morte e della vita di Cristo crocifisso e risorto (cf. Rm 6,22-23). La comunione con Cristo inizia nella vita terrena, ma si compie nella risurrezione dei morti:
Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita (zoopoiethésovtai) (1Cor 15,22).
– Lo sguardo rivolto al futuro accompagna l’utilizzo, non frequente, della nostra espressione nei Sinottici. Vita eterna è ciò che il giovane di Mt 19,16-22 desidera avere: «Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?» (Mt 19,16, cf. Mc 10,17; Lc 18,18). Per Gesù, essa è l’eredità («nel tempo che verrà») di quanti avranno lasciato «case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi» per il suo nome (cf. Mt 19,29; Mc 10,30; Lc 18,30); è la condizione a cui avranno accesso «i giusti», coloro che si sono messi a servizio «di uno dei fratelli più piccoli» (Mt 25,46).
– Anche negli Atti degli Apostoli, la vita eterna è quella a cui sono «destinati» (tetagménoi) quanti accolgono nella fede la parola di Dio annunciata da Paolo e Barnaba (At 13,4-48).
– A enunciare il carattere non solo futuro della vita «eterna» sono soprattutto gli scritti giovannei. La vita eterna è il dono del Figlio unigenito, inviato dal Padre. Ad essa si accede fin da ora tramite la fede e l’obbedienza, accogliendo cioè la rivelazione («l’esegesi», cf. Gv 1,18) offerta da Gesù, il Logos incarnato, del Dio che «nessuno ha mai visto»:
E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna [altra traduzione possibile: «perché chiunque crede, in lui abbia la vita eterna»]. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna [...] Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui (Gv 3,15-16.36; cf. anche 6,47).
Il luogo in cui avviene il passaggio «dalla morte alla vita» è l’ascolto della parola di Gesù (cf. Gv 5,24: «In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita») e, insieme, l’osservanza del comandamento dell’amore (cf. 1Gv 3,15: «Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida ha più la vita eterna che dimora in lui»). La parola di Gesù è «sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14) e «cibo che rimane per la vita eterna» (Gv 6,27). Egli «ha parole di vita eterna» (Gv 6,68) e «dà la vita eterna» alle pecore di cui è pastore e dalla cui mano non potranno essere rapite (Gv 10,28). Gesù stesso, come si legge all’inizio della prima lettera di Giovanni, è «la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi» (1Gv 1,2; cf. anche la conclusione della lettera, 1Gv 5,20: «Egli è il vero Dio e la vita eterna»). La vita eterna che Dio ci ha dato è la vita «nel suo Figlio» (1Gv 5,11).
Se la vita eterna è sperimentata fin da ora nella relazione con Gesù (la fede), il suo compimento è collegato all’evento escatologico della risurrezione:
Questa infatti è la volontà del Padre: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno (Gv 6,40).
È una realtà data ora e, allo stesso tempo, “promessa” (cf. 1Gv 2,25).
Il carattere insieme “presente” e “futuro” della vita eterna, con la tensione che ne deriva, è analogo a quello che connota l’immagine del «regno di Dio», a cui ricorrono con maggior frequenza i Sinottici per dire l’attuarsi di una situazione nuova e definitiva nel rapporto fra Dio e l’umanità. “Presente” e “futuro” s’intrecciano, tanto nella nozione di vita eterna, tanto in quella di «regno di Dio».
Abbiamo lasciato per ultimo un testo giovanneo nel quale la nozione di vita eterna viene caratterizzata come «conoscenza». Rivolgendosi al Padre, nel momento della sua «ora», Gesù chiede che sia manifestata la sua «gloria» di Figlio e aggiunge:
Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo (Gv 17,2-3).
Non si tratta di una conoscenza di tipo puramente intellettuale o gnostica (abbiamo appena visto come la vita eterna presupponga e implichi l’obbedienza ai comandamenti e come essa sia mediata da un evento storico), quanto piuttosto dell’esperienza diretta e intima del Padre resa possibile da Gesù, dalla fede in lui, che pure non esclude una dimensione “dottrinale”, almeno incoativamente[9]. Il v. 17,3 assume un rilievo particolare se considerato in rapporto ad altri due passi neotestamentari (uno giovanneo, l’altro paolino) nei quali il compimento futuro della storia della creatura umana viene rappresentato nei termini della «visione di Dio». Così in 1Gv 3,2: «Sappiamo [...] che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è» e in 1Cor 13,12: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto».
È partendo da questi testi che la tradizione cristiana successiva ha in molti casi privilegiato l’idea della «visione di Dio» come contenuto proprio del concetto di vita eterna[10].

3. Ireneo, Agostino, la tradizione orientale, Tommaso d’Aquino
– Il motivo del «vedere Dio» occupa un posto di rilievo nell’elaborazione del tema escatologico proposta verso la fine del II secolo da Ireneo di Lione (130-202), come si ricava da un passaggio giustamente celebre del quarto libro della sua opera Contro le eresie:
L’uomo [...] non può vedere Dio da sé; ma egli di sua volontà si farà vedere dagli uomini che vuole, quando vuole e come vuole. Dio è potente in tutte le cose: fu visto allora profeticamente mediante lo Spirito, fu visto poi adottivamente mediante il Figlio e lo sarà poi anche nel regno dei cieli paternalmente, perché lo Spirito prepara in precedenza l’uomo per il Figlio di Dio, il Figlio lo conduce al Padre e il Padre gli dà l’incorruttibilità per la vita eterna che tocca a ciascuno per il fatto di vedere Dio. Come coloro che vedono la luce sono nella luce e partecipano del suo splendore, così coloro che vedono Dio sono in Dio, partecipando del suo splendore. Perché lo splendore di Dio vivifica! Dunque coloro che vedono Dio parteciperanno della vita. E per questo colui che è incomprensibile, inafferrabile e invisibile si presenta agli uomini come visibile, afferrabile e comprensibile, per vivificare coloro che lo comprendono e lo vedono. Come la sua grandezza è imperscrutabile, così è inesprimibile anche la sua bontà, grazie alla quale si fa vedere e dà la vita a coloro che lo vedono. Infatti, è impossibile vivere senza la vita, l’esistenza della vita è possibile grazie alla partecipazione di Dio e la partecipazione di Dio consiste nel vedere Dio e godere della sua bontà.
Gli uomini, dunque, vedranno Dio per vivere, divenendo immortali, grazie a questa visione, e arrivando fino a Dio (IV, 20,5-6)[11].
Nei testi patristici in cui la vita eterna è associata alla «visione di Dio» – oltre a Ireneo, dobbiamo ricordare Clemente di Alessandria, Origene, Gregorio di Nissa, Basilio di Cesarea, per i greci; Ambrogio e Agostino, per i latini[12] – non è difficile riconoscere l’intrecciarsi della tematica propriamente scritturistica con la spiccata preferenza, non priva di problemi, che la tradizione greca (e, in genere, occidentale) accorda al “vedere”, considerato come il modo migliore per entrare in rapporto con la realtà[13].
– La dimensione affettiva, non solo intellettuale, del «vedere Dio» è tuttavia ben presente in Agostino di Ippona (354-430): basti pensare al modo in cui egli collega desiderio di verità e desiderio di felicità (di una vita “beata”), giungendo a definire quest’ultima come gaudium de veritate, «piacere del vero»[14]. Tutta la storia è chiamata a sfociare nella visione, nell’amore, nella lode:
Là [nel sabato senza tramonto, nell’ottavo giorno della vita eterna, consacrato nella risurrezione di Cristo] riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo[15].
Possiamo aggiungere che, per Agostino, vita eterna significa «essere in Dio»: è lui «il nostro luogo», come spiega commentando il v. 21 del Sal 31(30): «Tu li nascondi al riparo del tuo volto[16]. In questo modo egli offre un importante criterio ermeneutico delle affermazioni ricavate dalla Scrittura, riprese tanto dai Padri quanto dagli autori medievali, dalla predicazione e dalla catechesi, relative a una localizzazione “in cielo” della vita eterna.
– La riflessione sulla vita eterna come “visione di Dio” è stata approfondita dalla teologia dell’Oriente cristiano soprattutto in reazione agli scritti di Eunomio (330 ca. – 392/5), avversario della dottrina nicena della omousia («consustanzialità») del Figlio rispetto al Padre e sostenitore della tesi secondo la quale la ragione può conoscere Dio come egli stesso si conosce. Tra IV e V secolo, autori come Teodoreto di Ciro e Giovanni Crisostomo svilupparono l’idea di una distinzione tra la visione della «gloria» e la visione dell’«essenza» di Dio: solo la prima è accessibile all’uomo, mentre la seconda rimane incomprensibile. Su questa distinzione s’innesteranno dibattiti di lunga durata, all’interno del mondo teologico di lingua greca e nel confronto tra questo e l’Occidente latino[17].
– Un esempio efficace del modo in cui la vita eterna era intesa nell’ambito della riflessione latina medievale si può trovare in un testo che deriva da una serie di prediche nelle quali, durante la quaresima del 1273, Tommaso d’Aquino (1224-1274) ha commentato il Simbolo apostolico. Ecco quanto si legge a proposito dell’articolo conclusivo:
La vita eterna, in quanto meta finale di tutti i nostri desideri, giustamente nel Simbolo viene posta al termine di tutte le altre verità da credere, quando vi si dice: «Credo la vita eterna».
Sono contrari a questa verità coloro che sostengono che l’anima muore col corpo. Ma se ciò fosse vero, non ci sarebbe differenza tra l’uomo e i bruti. [...]. L’anima, invece, per la sua immortalità è simile a Dio, è simile ai bruti solo per la parte sensitiva [...].
In questo articolo della nostra fede dobbiamo innanzitutto considerare che tipo di vita sia la vita eterna. Orbene, essa consiste:
1. Nell’unione con Dio. Premio e fine di tutte le nostre fatiche è infatti Dio in persona [...]. Questa unione consiste poi innanzitutto in una perfetta visione di lui [...]. Consiste poi anche in un ferventissimo amore, perché più uno lo si conosce, e più lo si ama; e in una somma lode di lui [...].
2. Nell’appagamento totale e perfetto di ogni desiderio. Nella vita eterna ogni beato troverà l’appagamento di quanto ha desiderato e sperato. La ragione è, che niente nella vita presenta può appagare pienamente i desideri dell’uomo, né vi è alcunché di creato che possa soddisfare le sue aspirazioni. Soltanto Dio può saziarle e sorpassarle infinitamente [...]. Tutto ciò che può recare diletto si trova infatti nella vita eterna e in sovrabbondanza. Se si desiderano godimenti, là vi sarà il sommo e perfetto godimento, perché avrà come oggetto Dio che è il sommo bene [...]. Se si desiderano onori, là si avranno tutti [...]. Se poi si desidera la scienza, là sarà perfettissima, perché conosceremo la natura delle cose, ogni verità e tutto quello che vorremo sapere. E quanto vorremo avere, lo avremo con la vita eterna [...].
3. Nella perfetta sicurezza. Mentre, infatti, in questo mondo non c’è perfetta sicurezza, perché quanto più ricchezze uno possiede e più onorifiche sono le sue cariche, tanto più ha paura di perderle e gli mancano inoltre tante altre cose, nella vita eterna non c’è invece alcuna tristezza, nessuna fatica, nessun timore [...].
4. Nella lieta compagnia dei beati. Trovarsi insieme a tutti i buoni sarà una compagnia massimamente piacevole, perché ciascuno avrà così tutti i beni in comune a tutti i loro e là ciascuno amerà l’altro come se stesso e godrà di quello altrui come del proprio bene. E ciò farà sì che, aumentando la gioia e la felicità di uno, aumenti la felicità di tutti, come dice il salmista: «Quelli che sono in te, sono tutti lieti e festosi (Sal 87 [86],7)»[18].
Le opere maggiori di Tommaso offrono abbondante materiale per sviscerare quanto è qui ricapitolato. Merita in ogni caso sottolineare come sia il tema del fine ultimo dell’uomo, declinato nei termini di “visione essenziale” di Dio, ad avere un deciso rilievo strutturale. L’uomo è creato per «vedere Dio», al di fuori del quale non può, per sua natura, trovare il pieno compimento del desiderio di conoscere e di amare che lo caratterizza. Tale compimento, a cui l’uomo non giunge da se stesso ma in quanto abilitato dalla grazia, lo pone in un rapporto immediato con Dio, oggetto ma anche mezzo («forma») della visione[19].
Tommaso va segnalato anche per i testi nei quali, in una prospettiva che si collega a quella giovannea, egli raccorda il presente dell’esistenza umana nella fede e nella grazia con la sua condizione futura nella gloria. In questo senso, egli propone di definire la fede come l’inclinazione o disposizione stabile dello spirito (habitus mentis) grazie alla quale «inizia in noi la vita eterna»[20].
4. Questioni relative alla visione beatifica
Se la tradizione cristiana registra un ampio consenso nell’identificazione della vita eterna con la “visione beatificante di Dio”, i problemi sorgono quando si va a considerare il modo in cui è pensata tale «visione». La storia della teologia ci consegna due momenti, in parte connessi e cronologicamente vicini (siamo nel XIV secolo), nei quali il tema è stato oggetto di controversie e di intensi dibattiti.
– Nel mondo latino, la discussione si è incentrata sul carattere immediato o meno della retribuzione dei giusti (visione di Dio) e dei malvagi (dannazione) al momento della loro morte. La vicenda è nota: dal 1331 al 1334 papa Giovanni XXII pronunciò una serie di sei omelie nelle quali, riprendendo idee presenti in alcuni autori dell’antichità cristiana e appoggiandosi all’autorità di san Bernardo, sosteneva che prima della risurrezione e del giudizio finale le anime dei giusti possono contemplare solo l’umanità di Cristo, non l’essenza stessa di Dio. L’opinione del papa fece scalpore e suscitò una vasta opposizione, nella quale s’intrecciavano motivi dottrinali e politici. Dopo aver incaricato una commissione di studiare l’argomento, Giovanni XXII fece in tempo a preparare una bolla, sottoscritta il 3 dicembre 1334, un giorno prima della sua morte, con la quale prendeva le distanze da affermazioni da lui pronunciate che fossero eventualmente apparse dissonanti dalla fede cattolica[21]. Poco più di un anno dopo, il suo successore, Benedetto XII, con la costituzione Benedictus Deus (19 gennaio 1336) definì come verità di fede la retribuzione immediata, dopo la morte, per i giusti e per i malvagi. Le anime dei giusti
subito dopo la loro morte, e la purificazione [...] in coloro che erano bisognosi di tale purificazione, anche prima della risurrezione dei loro corpi e del giudizio universale [...] furono, sono e saranno in cielo, nel regno dei cieli e del celeste paradiso, con Cristo, associate alla compagnia degli angeli santi; e [...] queste [anime] [...] hanno visto e vedono l’essenza divina con una visione intuitiva e, più ancora, faccia a faccia, senza che ci sia, in ragione di oggetto visto, la mediazione di nessuna creatura, rivelandosi invece a loro l’essenza divina in modo immediato, scoperto, chiaro e palese[22].
– Un secondo motivo di dibattito riguarda la possibilità per l’uomo di vedere “l’essenza” di Dio che la Scrittura dichiara essere invisibile e inaccessibile[23]. La ripresa operata da Gregorio Palamas (1296-1359) della distinzione tra «essenza» (inaccessibile) ed «energie divine increate» (che agiscono, come la luce del Tabor, “divinizzando” la creatura umana) indicò un percorso seguito volentieri dalla tradizione orientale ma accolto con perplessità dall’Occidente latino, dove si preferì ribadire la dottrina della grazia “creata” e la differenza fra «visione» e «comprensione» di Dio: la prima possibile grazie a un dono (il lumen gloriae) che permette all’intelligenza umana di partecipare, rimanendo nella sua finitezza, alla vita di Dio; la seconda inaccessibile anche nella gloria all’intelletto umano finito.

5. Istanze di rinnovamento nell’escatologia del XX secolo
L’esigenza di andare oltre la concezione piuttosto individualistica e spiritualistica della vita eterna – quale si era imposta nell’insegnamento, nella predicazione, nella catechesi e nella devozione dei cristiani, anche in seguito ai dibattiti a cui abbiamo accennato – ha segnato il vivace rinnovamento dell’escatologia promosso all’inizio del XX secolo da una rilettura dei testi biblici e, in particolare, del tema del «regno di Dio», accompagnato da una spiccata sensibilità per la dimensione storica e comunitaria dell’esperienza cristiana e dall’individuazione del principio cristologico come chiave di lettura della rivelazione.
Il cattolicesimo ha recepito questi stimoli con il concilio Vaticano II, esplicitando nei nn. 48-51 della Lumen gentium la coscienza della dimensione ecclesiale e insieme cosmica della vita eterna: la vicenda di ogni singola persona, nei suoi diversi passaggi, non può essere interpretata al di fuori del cammino che, in modi diversi e non sempre visibili, la lega agli altri (alla chiesa) e a tutte le realtà che costituiscono il nostro mondo (aspetto, questo, sviluppato nel n. 39 della Gaudium et spes)[24].
Anche la questione del cosiddetto «stato intermedio» (come pensare la condizione dell’individuo tra la morte e il pieno compimento nella risurrezione dei morti?), alla quale nei decenni scorsi hanno prestato attenzione tanto alcuni teologi di diverse confessioni cristiane (O. Cullmann, G. Greshake, N. Lohfink, K. Rahner, J. Ratzinger) quanto alcune istanze dottrinali cattoliche[25], va ripensata in questa prospettiva ecclesiale e cosmica: lo «stato intermedio» è il tempo della chiesa, in cammino verso la piena comunione con Dio uno e trino, nella diversità di condizioni in cui si trovano i suoi membri (Maria, i santi, coloro che «vengono purificati»). In questo quadro, perdono significato le obiezioni di quanti ritengono che l’idea di vita eterna sia sinonimo di staticità e, in definitiva, di noia. Al di là di tutte le rappresentazioni concrete, per loro natura inadeguate, il compimento definitivo annunciato dalla rivelazione cristiana è pienezza e ricchezza di vita, per la singola persona, per l’umanità nel suo insieme e anche per il mondo materiale[26].
Le immagini trasmesse dalla Sacra Scrittura per dire la vita eterna (il banchetto, le nozze, la città illuminata dall’Agnello…) vanno continuamente riprese e interpretate (non “concettualizzate”). L’eternità – la comunione piena con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che è insieme comunione con tutte le creature liberate dalla corruzione del peccato e della morte – è oggetto di speranza, ma può essere anche oggetto di pensiero, partendo anche dalle piccole «esperienze di eternità» che ci sono donate nel tempo: l’esperienza dell’amore, della bellezza, della scoperta di piccole o grandi verità, della gioia di condividere quello che siamo e possediamo.

SALMO 66 – COMMENTO DI PADRE LINO PEDRON

http://www.padrelinopedron.it/edicola.php?cartella=Padre%20Lino%20Pedron%20-%20Salmi

SALMO 66  – COMMENTO DI PADRE LINO PEDRON

66 (65) Ringraziamento pubblico
1 Al maestro del coro. Canto. Salmo.
Acclamate a Dio da tutta la terra,
2 cantate alla gloria del suo nome,
date a lui splendida lode.
3 Dite a Dio: «Stupende sono le tue opere!
Per la grandezza della tua potenza
a te si piegano i tuoi nemici.
4 A te si prostri tutta la terra,
a te canti inni, canti al tuo nome».
5 Venite e vedete le opere di Dio,
mirabile nel suo agire sugli uomini.
6 Egli cambiò il mare in terra ferma,
passarono a piedi il fiume;
per questo in lui esultiamo di gioia.
7 Con la sua forza domina in eterno,
il suo occhio scruta le nazioni;
i ribelli non rialzino la fronte.
8 Benedite, popoli, il nostro Dio,
fate risuonare la sua lode;
9 è lui che salvò la nostra vita
e non lasciò vacillare i nostri passi.
10 Dio, tu ci hai messi alla prova;
ci hai passati al crogiuolo, come l’argento.
11 Ci hai fatti cadere in un agguato,
hai messo un peso ai nostri fianchi.
12 Hai fatto cavalcare uomini sulle nostre teste;
ci hai fatto passare per il fuoco e l’acqua,
ma poi ci hai dato sollievo.
13 Entrerò nella tua casa con olocausti,
a te scioglierò i miei voti,
14 i voti pronunziati dalle mie labbra,
promessi nel momento dell’angoscia.
15 Ti offrirò pingui olocausti
con fragranza di montoni,
immolerò a te buoi e capri.
16 Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio,
e narrerò quanto per me ha fatto.
17 A lui ho rivolto il mio grido,
la mia lingua cantò la sua lode.
18 Se nel mio cuore avessi cercato il male,
il Signore non mi avrebbe ascoltato.
19 Ma Dio ha ascoltato,
si è fatto attento alla voce della mia preghiera.
20 Sia benedetto Dio che non ha respinto la mia preghiera,
non mi ha negato la sua misericordia.
Il salmo si apre con l’acclamazione liturgica che si leva a Dio dall’intera assemblea dei fedeli. Scriveva s. Agostino a Proba: « Davanti a Dio sta il nostro desiderio di inebriarci della ricchezza della sua casa e di bere al torrente della sua delizia; poiché presso di lui è la sorgente della vita e alla sua luce vedremo la luce, quando il nostro desiderio sarà saziato di quei beni e non vi sarà più nulla da cercare fra i gemiti, ma solo da possedere nella gioia ».
Il salmo si muove a livello spirituale tra queste due oscillazioni: il desiderio e la sazietà, la speranza e la certezza.
Scrive S. Kierkegaard: « Padre celeste! Tu, nelle tue mani, tieni tutti i buoni doni. La tua abbondanza è più ricca di quel che l’umana mente non comprenda. Tu sei disposto a dare e la tua bontà è più grande di quel che il cuore umano possa capire: perché tu esaudisci ogni preghiera e concedi ciò che ti si domanda… Dona, però, anche la certezza che tutto viene da te, che la gioia non ci separa da te nell’oblio del piacere, che nessun dolore pone una barriera fra noi e te; ma che nella gioia possiamo andare in cerca di te e nel dolore rimanere presso di te. Così che quando i nostri giorni saranno contati e l’uomo esteriore cadrà in rovina, la morte non ci raggiunga col suo nome freddo e terribile, ma venga mite e amica, col saluto e l’annunzio, con la testimonianza di te, nostro Padre che sei nei cieli! Amen ».
Commento dei padri della Chiesa
vv. 1-2 «La risurrezione è offerta a tutti. E alla chiesa delle genti il Signore dice: « Alzati, vieni sorella mia » (Ct 2,10). L’acclamazione è un grido di vittoria. Il vincitore è Dio» (Origene).
« L’acclamazione è l’ovazione militare: il Cristo è il vincitore. Questa acclamazione gioiosa si fa mediante la preghiera, la conoscenza di Dio, il sacerdozio spirituale che si esercita nel rendimento di grazie e nella celebrazione dei misteri della nuova alleanza » (Eusebio).
« Canto di risurrezione. Annuncio della chiamata delle genti e della loro risurrezione spirituale » (Cirillo di Alessandria).
« Annuncio della vocazione universale e della risurrezione. L’acclamazione è il canto di vittoria che esplode dopo l’annientamento del nemico. Tutte le genti sono invitate a cantare la vittoria del Cristo sui principi di questo mondo » (Atanasio).
« Canto di risurrezione. Tutte le genti gioiscano d’essere restaurate nel loro capo. L’acclamazione è una gioia del cuore tanto grande che non si può esprimere » (Cassiodoro).
« La vostra luce brilli davanti agli uomini perché glorifichino Dio » (Ilario).
v. 3 « L’ ammirazione per Dio si accompagna a un timore rispettoso. È un timore affettuoso e filiale, dolce, senza amarezza, che genera speranza e non sfiducia » (Cassiodoro).
« La tua potenza è grande, anche se i tuoi nemici vogliono chiudere gli occhi davanti alla tua luce e rifiutano di guardare colui che li aiuterebbe a credere. Nonostante i morti risuscitati, i giudei hanno negato la sua risurrezione e l’hanno combattuto dando del danaro alle guardie del sepolcro » (Cirillo di Alessandria).
« Davanti alla grandezza delle tue opere ci saranno ugualmente degli empi che non vorranno credere » (Teodoreto).
v. 4 « I giudei possono rinnegarti, ma tutta la terra ti adorerà, soprattutto le genti » (Cirillo di Alessandria).
« Non insultate quanti sono fuori dalla chiesa: Dio può farli entrare » (Agostino).
v. 5 « Tutto ciò che l’uomo potrà dire non assomiglia ai pensieri di Dio: questi lo riempiono di stupore » (Origene).
v. 6 « Il Dio che è venuto nella carne è lo stesso che, in passato, ha prosciugato il mare Rosso » (Atanasio).
« In passato il Signore camminò innanzi e il popolo passò dietro di lui (cfr. Gs 3); allo stesso modo, lavàti dal battesimo, camminando dietro a colui nel quale siamo rinati, entriamo nella terra dei viventi » (Girolamo).
« Quando il popolo ebreo passò il mare, annunciava il battesimo che il Cristo avrebbe dato. È in lui la sorgente della nostra gioia e il principio della nostra salvezza » (Cassiodoro).
« Non stupirti quando ti si racconta la storia del primitivo popolo di Dio. A te, cristiano, che hai passato i flutti del Giordano col sacramento del battesimo, la parola di Dio promette beni più grandi e più alti. E non credere che questa storia non ti riguardi: tutto si realizza in te, in modo spirituale. Quando arriverai alle fonti spirituali del battesimo e sarai stato iniziato ai misteri sublimi, allora avrai attraversato il Giordano ed entrerai nella terra promessa » (Origene).
« Verrà un tempo in cui gioiremo nel fiume della rigenerazione: è il Giordano ove Giovanni predicherà la remissione dei peccati e ove il Signore stesso verrà per farne il lavacro della nuova nascita » (Eusebio).
« Più grande del Giordano è il battesimo: le sue acque, mescolate all’olio, lavano i peccati di tutti » (Efrem).
« Gioiremo nel Cristo. Lui, che fu umiliato quaggiù, è Signore per l’eternità; anche la nostra gioia, che ci conforma a lui, sarà eterna » (Girolamo).
v. 7 « »Con la sua forza domina in eterno ». Queste parole contrastano con la situazione dei re della terra che non regnano né in virtù di un potere che proviene da loro né per sempre »» (Cassiodoro).
« Lo sguardo di Dio è una promessa di riconciliazione: guarda le genti con uno sguardo propizio. Il Signore volge il suo sguardo sulle genti; i raggi di luce che escono dai suoi occhi rendono le anime capaci di Dio e le mostrano tali » (Eusebio).
« Il Signore illumina quelli che guarda e che ha deciso di visitare per salvarli » (Cassiodoro).
« I ribelli sono quanti rifiutano il vangelo » (Eusebio)
« Un castigo attende gli increduli che si vantano della loro incredulità » (Teodoreto).
« I ribelli sono i giudei che contano troppo sulla discendenza da Abramo » (Girolamo).
« Quanti provocano la collera di Dio sogliono esaltarsi in se stessi: ciò fa parte delle infermità della nostra natura » (Cassiodoro).
v. 8 « Il nostro Dio è il Dio d’Israele. Sulla terra ora si possono vedere tutte le genti lodare non gli dèi dei loro padri, ma l’unico Dio » (Eusebio).
v. 9 « Dio non si è occupato solo degli antichi, ma si occupa di me, di ciascuno. Non ha lasciato vacillare i passi degli evangelizzatori. La predicazione del vangelo, che avrebbe dovuto naufragare mille volte, trionfa ovunque » (Eusebio).
« Dio fa passare da morte a vita » (Atanasio).
« Dio ha fatto entrare nella vita l’anima dei martiri, e questi non sono venuti meno nei tormenti » (Ilario).
vv. 10-12 « Lo Spirito profetizza le afflizioni degli apostoli » (Cirillo di Alessandria).
« È attraverso molte tribolazione che si entra nel regno di Dio (cfr. At 14,21) » (Origene).
« Ci hai fatto passare attraverso il fuoco e l’acqua per mezzo del battesimo » (Atanasio).
« Sei tu che ci hai guidati, sei tu che hai fatto tutto; noi non avremmo potuto sopportare questo né venirne fuori » (Eusebio).
« Dopo aver perdonato i nostri peccati ci hai condotti al luogo del sollievo » (Atanasio).
« Il sollievo è la risurrezione e la beatitudine » (Ilario).
« Il sollievo è il Cristo, al quale giungono i martiri » (Girolamo).
vv. 13-14 « La tua casa è la dimora celeste. Olocausti è un modo di dire per esprimere la totale consacrazione a Dio » (Atanasio).
« È l’olocausto di se stessi che i martiri hanno offerto a Dio » (Ilario).
« Purificàti da tutte le colpe descritte nelle righe precedenti, entreremo nella Gerusalemme celeste » (Atanasio).
« Osserverò ciò che ho promesso nel battesimo » (Atanasio).
v. 15 « Offrirò tutto me stesso, con la mia preghiera e le mie opere » (Atanasio).
« È un simbolo per esprimere che dobbiamo dare a Dio il meglio di noi stessi » (Teodoreto).
v. 16 « Voglio che tutti voi, che servite Dio, sappiate quali grandi benefici ho ricevuto da lui » (Teodoreto).
« Quanto ha fatto per me: mi ha messo in comunicazione con la Vita e mi ha condotto al riposo eterno » (Ilario).
v. 17 « Il grido interiore generato da un cuore ardente d’amore » (Cirillo di Alessandria).
v. 18 « Ha coscienza della sua innocenza. Meravigliosa fiducia dei santi! » (Cirillo di Alessandria).
v. 19 « La preghiera pura del cuore puro non è respinta e la misericordia non è lontana dalla preghiera » (Cirillo d’Alessandria).

LA CONCEZIONE DEL LAVORO NEL MONDO BIBLICO

http://www.liceomedi.com/lavoro/pagina4.htm

LA CONCEZIONE DEL LAVORO NEL MONDO BIBLICO

La posizione della Bibbia ci consente di comprendere l’origine di questa duplicità nel giudizio sul lavoro della cultura occidentale.
L’Antico Testamento insiste su due grandi convinzioni:

Il lavoro è degno dell’uomo visto che Dio stesso opera e lavora. Nella Genesi Dio lavora e si compiace del proprio operato
« Dio disse: Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un solo luogo e appaia l’asciutto.
E così avvenne. Dio chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare. E Dio vide che era cosa buona. » (Gen.1,9-10)

La creazione dell’uomo e della donna e il peccato originale
Il lavoro è dunque buono in sé, anche se il peccato ha turbato l’armonia dell’universo, introducendo l’elemento della sofferenza e della fatica.
« Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai » (Gen.3,19).
Il peccato segna la rottura dell’unità dell’uomo con il creato, al punto che lo stare dell’uomo nel mondo diventa un esser gettato nel mondo come esiliato e straniero. Adamo si vergogna dopo aver commesso il peccato.
« Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: Dove sei? Rispose. Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura perché sono nudo, e mi sono nascosto » (Gen.3,9-10).
L’esperienza dell’esistere nasce come vergogna, in un sentire problematicamente il proprio essere. Scrive Lèvinas in « Dell’Evasione »: La vergogna appare ogni volta che non riusciamo a far dimenticare la nostra nudità. Essa è in rapporto con tutto ciò che si vorrebbe nascondere e a cui non si può sfuggire… Ciò che appare nella vergogna è precisamente il fatto di essere incatenati a sé, l’impossibilità radicale di fuggire da se stessi per nascondersi a sé, l’irremissibile presenza dell’io a se stesso… E’ dunque la nostra intimità, cioè la nostra presenza a noi stessi, che è vergognosa. Essa non rivela il nostro nulla, ma la totalità della nostra esistenza… la vergogna è, in fin dei conti, un’esistenza che cerca per sé delle scuse. Ciò che la vergogna svela è l’essere che si svela ».
« …Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto… »
La problematicità del nostro essere emerge in modo chiaro in un celebre versetto della Genesi, 3-22:23.
« Il Signore Dio disse allora: Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre. Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto ».
L’uomo, dunque, partecipe della divinità, per quanto concerne la coscienza, ma legato irrimediabilmente alla fragilità e alla mortalità dal punto di vista del suo essere.
Emerge una successione di esperienze di frattura legata al peccato: la prima è quella della perdita dell’unità originaria con la natura, la seconda è la dolorosa scoperta del proprio essere come luogo di vergogna, la terza è quella della contraddizione irrisolvibile tra coscienza ed essere.
Il lavoro rappresenta un dovere morale che Dio ha dato all’uomo da integrare con la preghiera e la contemplazione.
In Gen.2,15 leggiamo « Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino dell’Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. » E poco dopo, in Gen.2.19 « Allora il Signor Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche, e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome ».
Il lavoro può diventare una specie di occasione per recuperare l’unità attraverso la cura del mondo.
La Bibbia si forma attraverso una progressiva stratificazione di testi, tra i quali si nota un’influenza proveniente da più culture. In particolare il mito della Genesi risulta fortemente collegato alla civiltà mesopotamica.
A Babilonia ogni anno viene letto pubblicamente il poema  » ENUMA ELIAH (« Quando nell’Alto ») che riassume la cosmogonia mesopotamica:
Marduk capo dei nuovi dei lotta con la divinità malvagia Tianath e vince facendo a pezzi l’avversario
Con i pezzi del corpo dell’avversario sconfitto, Marduk costruisce l’universo
La materia si presenta con una connotazione negativa
Chi si occuperà del funzionamento della Materia?
Viene creato l’uomo, con lo sterco degli dei, per svolgere questa funzione
L’uomo è un servo, per il quale il lavoro è il segno inequivocabile della fragilità e dell’umiliazione
Il racconto della Genesi può essere letto come il controcanto di questa cosmogonia: il protagonista è Dio. Di cui Israele ha già fatto esperienza nell’Esodo (la Genesi viene prodotta dopo l’Esodo, quindi dopo che gli Ebrei hanno conosciuto Dio come liberatore). Al posto di Marduk c’è Ihwh, il Dio padre, e non padrone, liberatore che dona la terra all’uomo. Ciò che Dio dona è buono in sé: Dio dà una forma possente alla materia con la parola (dabar-parola-azione. La parola è manifestazione dell’essere, così come lo è l’azione). Se la creazione è manifestazione di Dio, e Dio è buono, allora la creazione è buona. Quindi la Terra è un dono per l’uomo, che deve abitarla e curarla per se stesso in rapporto a Dio. Il nostro abitare la Terra deve essere un continuo accogliere il dono di Dio.
In quest’ottica, il lavoro diventa:
collaborazione con Dio, nella gratitudine per il dono ricevuto
 responsabilità (l’uomo è custode dei mondo)
libertà per l’uomo
sua dignità
L’uomo è interlocutore di Dio. La Genesi ci ha fatto vedere che Dio dà all’uomo il compito di dare nomi agli enti, cioè di fare presa sull’essere. Ora, il lavoro è precetto e obbedienza a Dio in questo senso: è un gradire il suo dono dando a quest’ultimo la sua identità: tutto diventa riconoscibile, compreso l’uomo stesso, che nel lavoro, appunto, riconosce se stesso.
Ecco dunque che il fine del lavoro non è legato all’utilità, al dominio, all’imposizione sul mondo. Il lavoro è un riconoscere la gratuità del dono di Dio, che ha creato come crea un artista, per sovrabbondanza interiore.
Se questo riconoscere la gratuità dell’atto creativo di Dio si dà, nell’uomo adulto, in forma di lavoro, per il bambino si dà come gioco. (Teniamo presente che nella cultura ebraica grande è il rispetto per il gioco. Secondo la legge ebraica, il bambino non può giocare fino a quando non compie il rito di passaggio all’età adulta).
Il gioco è l’esperienza irrinunciabile per l’uomo nell’aurora della sua esistenza, perché è la prima grande esperienza della gratuità dell’agire. L’esperienza del gioco si pone come condizione forte perché poi si possa accedere al lavoro senza tradire la fondamentale gratuità del dono di Dio.

Publié dans:BIBBIA, biblica |on 1 mai, 2013 |Pas de commentaires »

UN DIO IN ASCOLTO DELL’UOMO

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=154

UN DIO IN ASCOLTO DELL’UOMO

SINTESI DELLA RELAZIONE DI ARMIDO RIZZI
VERBANIA PALLANZA, 19 GENNAIO 2002

Nella prima parte viene proposto un itinerario fenomenologico sul senso dell’udito, di cui l’ascolto è una modalità, con una ripresa simbolica.
La seconda parte sarà interamente dedicata al tema biblico dell’ascolto nel duplice movimento dell’uomo che grida e di Dio che ascolta e poi di Dio che parla e dell’uomo che ascolta.
1. la fenomenologia del suono.
Faremo un’analisi dell’esperienza così come si dà, esplicitando l’intelligenza che è già dentro i sensi e che differenzia i nostri atti sensitivi da quelli animali. L’approccio fenomenologico non comporta visioni del mondo, giudizi di valore ultimativi (tipo: il corpo è il carcere dell’anima o il mondo è definitivamente la nostra abitazione), e non è neppure una lettura scientifica della realtà. Sono riflessioni che non servono a nulla, o, se si crede, servono solo a ringraziare Dio.
Anzitutto gli atti sensitivi hanno due finalità fondamentali: una finalità funzionale: la percezione di un rumore è un segnale che ci fa capire che sta succedendo qualcosa (lo squillo del telefono, il ticchettio che ci segnala che sta piovendo…) e una finalità fruitiva, una finalità fine a se stessa.
Ci sono poi esperienze sensitive che sono segnali che non mi rimandano ad un’altra cosa, ma evocano qualcosa spesso in chiave autobiografica, a volte in senso più generale (un particolare profumo che richiama un’esperienza, una certa persona…). Le due finalità, funzionali e fruitive, si accavallano.
il senso del suono
Il senso del suono ha caratteristiche che lo differenziano dagli altri sensi.
Il suono è essenzialmente legato alla temporalità, a differenza degli altri sensi che esprimono qualità che ineriscono all’oggetto e che quindi producono in noi il senso della durata. Il suono porta dentro di sé la temporalità, il senso dell’accadere. E anche quando il suono ha una sua durata (una melodia) è come se avesse il tempo dentro di sé (la melodia finisce).
Inoltre il suono, rispetto alle altre sensazioni, è più facilmente producibile e riproducibile. E’ molto più difficile riprodurre un profumo o un sapore sentito che un suono. Ecco perché il suono è il segnale privilegiato (tam-tam, campane, squillo del telefono…)
Ci sono poi suoni che hanno un valore altamente fruitivo. La musica è il linguaggio più autosignificante: il segno è lo stesso significato. Non ha senso chiedersi cosa significa quella certa musica…
La musica ha un alto potere evocativo sia di situazioni passate, che della poeticità del mondo.
Il suono inoltre può arrivare da ogni parte e per questo ci sorprende.
Infine il suono per eccellenza è la parola, originariamente orale. Dalla cavità orale si ricavano suoni e segni che riproducono tutto il mondo. Con variazioni minime di lettere (patto, gatto, ratto, fatto, tatto, batto, matto…) o anche con la semplice diversa intonazione della voce posso riprodurre un’infinità di cose.
2. la dimensione simbolica dell’ascolto
Nell’ascolto prevale l’uso simbolico, traslato.
Mentre lo sguardo tende a ridurre l’altro ad oggetto (sentirsi guardati), l’ascolto più facilmente percepisce l’altro come soggetto.
Mentre l’occhio più facilmente scorge l’esteriorità, l’orecchio, o il suono sedimentato per iscritto, coglie l’interiorità. La vista ha a che fare con quanto appare, mentre l’ascolto con ciò che appartiene all’io. Quando vien meno l’ascolto tende a prevalere la superficialità, l’esteriorità, la reificazione nei rapporti.
Non è un caso che tutte le religioni siano più facilmente acclimatabili con il simbolismo dell’ascolto. Mentre l’occhio della filosofia tende a definire, a mettere dei confini, e quello della scienza a cogliere il funzionamento, l’ascolto delle sapienze e delle religioni si apre a qualcosa di ulteriore, al senso profondo del mondo.
3. l’orecchio e la parola di Dio
Due sono i movimenti: il grido dell’uomo che sale all’orecchio di Dio e la parola di Dio che scende attraverso l’orecchio al cuore dell’uomo.
il grido dell’uomo che sale a Dio
La voce del sangue di Abele (Gen 4) grida a Dio dal suolo. E’ la voce della vittima che grida al vendicatore (goel). Ma Dio è uno strano vendicatore: pone un segno di protezione su Caino. Il Dio che è dalla parte di Abele protegge Caino dalla vendetta.
Dalle labbra del fanciullo Ismaele nel deserto (Gen 21,8-21) sale un pianto e un grido che viene ascoltato da Dio.
Gli ebrei in Egitto diventano stranieri, senza identità, un non popolo, e diventano schiavi, costretti a fare lavori in cui non possono riconoscersi. Allora « alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza… se ne prese pensiero » (Es 2,23-25).
Gli ebrei in Egitto non hanno gridato a Dio, perché avevano perso il ricordo del Dio di Abramo e non potevano riconoscersi negli dei degli egiziani, che erano dei egiziani. Gli ebrei possono solo gemere, piangere, gridare. E’ il grido dell’esistenza ferita. E’ Dio che si ricorda dell’alleanza.
Dio non ascolta gli ebrei perché lo hanno invocato, ma il grido degli ebrei diventa preghiera e invocazione perché Dio lo ha ascoltato, accolto. Dio trasvaluta il grido in preghiera.
la fondazione biblica dei diritti umani come diritti del povero
Il grido è l’espressione del bisogno, del bisogno per sopravvivere e del bisogno per vivere, del bisogno di cibo e di salute e del bisogno di affetto. Con un’unica espressione si può parlare di bisogno di casa, nella duplice accezione di house (l’edificio in cui ripararsi e trovar da mangiare) e di home (lo spazio esistenziale e affettivo).
Il bisogno è una specie di muta o anche pronunciata invocazione a qualcuno perché ascolti.
Ora dire che Dio tende l’orecchio al grido del povero, dell’orfano, della vedova, dello straniero, vuol dire che quel bisogno di sopravvivere e di vivere viene trasformato in diritto, nel diritto ad essere ascoltato e accolto, nel diritto di trovare qualcuno che si prenda cura di quel bisogno.
« Tu devi essere colui che accoglie il bisogno dell’altro, il grido formulato o muto dell’altro, perché quel grido, in quanto accolto da me, è diventato il suo diritto ». I diritti umani nella bibbia sono sempre i diritti del povero.
Ora ognuno in quanto è un essere di bisogno è soggetto di diritti sotto lo sguardo di Dio, e ognuno, in quanto è soggetto attivo e dotato, è sotto il segno della responsabilità. Rispondo a Dio rendendogli conto di ciò che faccio all’altro, in negativo delle disattenzioni e delle ferite che infliggo, in positivo del mio rispettare, promuovere, prendermi cura.
la parola di Dio e l’ascolto dell’uomo
Deuteronomio 6, 4 ss.:
« Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti dò ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte. »
E’ il testo della fondazione di Israele. Prima esiste un gruppo che Dio educa con fatica a vivere dentro a situazioni invivibili, a vivere nel deserto, aggrappato solo alla parola Dio: « non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio ». La parola che esce dalla bocca di Dio non è una specie di pane spirituale da mangiare con la meditazione, ma è quella promessa credendo alla quale si avrà ogni giorno da Dio il pane. Il pane parola di Dio è il pane che promette l’altro pane, che promette di rendere vivibile il deserto giorno dopo giorno, in modo che il futuro Israele, l’educando a essere Israele, dovrà giorno dopo giorno rinnovare la propria fiducia in questa strana parola.
C’è la dimensione di assolutezza: « Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore… » ed insieme la dimensione di concretezza dei comandamenti, traduzioni operative dell’amore. L’obbedienza radicale possiamo darla solo a Dio, la cui parola accende il cuore dell’uomo.
La felicità può scaturire solo dall’agire responsabile e l’agire responsabile non può non fiorire in felicità.
La forma originaria della parola di Dio è la voce, messa per iscritto poi nella tavole di pietra (Deut 4,10-14) e che parla al cuore dell’uomo. E’ una parola che risuona nell’oggi e il cui contenuto è la relazione con l’altro: « Così come io ho amato te quando eri nessuno in Egitto, adesso tu ama lo straniero, l’orfano, la vedova ».
L’oggi della parola di Dio percuote il di dentro, il cuore, e invia fuori, verso l’insieme delle relazioni sociali. Le due tavole della legge sono solo il momento istituzionale delle relazioni, sono solo l’obiettivazione di quello che deve essere il cuore giusto. Solo dal cuore, percosso dalla parola di Dio, possono scaturire veramente la giustizia e il suo frutto lo shalom, cioè la pace come pienezza armonica delle relazioni.
Questa voce, sempre attuale, si fissa in forma di libro. Allora ascoltare questa parola è fare memoria, perché la voce torni a risuonare.
Leggere la bibbia è ritrovare un senso già dato in passato perché risuoni oggi, liberandolo dai rivestimenti storici-culturali (lettura storico-critica). Questa voce, così fatta risuonare, si rivolge a me, al mio cuore, per risvegliare la mia responsabilità verso gli altri, la pratica della giustizia.

Publié dans:biblica |on 23 avril, 2013 |Pas de commentaires »

L’AMORE DI DIO È IN MEZZO A NOI – CAPITOLO PRIMO

http://www.murialdomilano.it/LPcap01.htm

L’AMORE DI DIO È IN MEZZO A NOI – CAPITOLO PRIMO  

La prima tappa
del percorso pastorale
(2006-2007)

FAMIGLIA ASCOLTA
LA PAROLA DI DIO

Capitolo Primo

La parola di Dio dimora in voi
Le comunità e le famiglie in ascolto

18.    La prima tappa del Percorso pastorale, come emerge dal titolo Famiglia ascolta la parola di Dio, punta sull’ascolto. Si tratta di ascoltare, anzitutto, la parola di Dio perché è questa a svelare in tutta la sua bellezza il disegno divino sulla realtà dell’amore, del matrimonio e della famiglia, in corrispondenza con i desideri più vivi e le esigenze più profonde che abitano il cuore dell’uomo e della donna.
In tal senso la parola di Dio ha la sua eco nelle parole delle famiglie, ossia nell’esperienza vissuta degli sposi, dei genitori e dei figli, delle famiglie: un’eco che prolunga la parola di Dio e insieme racchiude un’attesa più o meno cosciente, anzi una ricerca della parola colta alla sua stessa origine, dentro il mistero di Dio amore (cfr 1Giovanni 4,16).
Di fronte a questa “Parola” e a queste “parole” vogliamo metterci in ascolto.
 Ascoltare non è una strategia, ma una condizione umana e teologica fondamentale. Parlare e ascoltare non sono nell’uomo solo una capacità fra le altre: sono la facoltà che fa dell’uomo un uomo. Da solo l’uomo non esiste. Esiste solo nella relazione. E nel suo corpo c’è un organo che è sempre in esercizio, che funziona sempre: è l’orecchio. Gli antichi saggi di Israele facevano notare che l’uomo ha due orecchie e una bocca: il tempo dedicato all’ascolto dovrà essere almeno doppio di quello dedicato a parlare.
Il Dio della Bibbia è un Dio che parla (cfr Deuteronomio 4,32ss). Ma un Dio che parla richiede ascolto. In questo sta la differenza tra la preghiera pagana e quella biblica: non un parlare a Dio, ma un ascoltare Dio. «Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore Dio tuo…» (Deuteronomio 6,4-5). Il punto di partenza è l’ascolto, il punto di arrivo è la carità. La regola di san Benedetto, prima regola monastica d’occidente, inizia così: «Ascolta, figlio gli insegnamenti del tuo maestro, apri docile il tuo cuore» (Prologo, 1).
 Se vogliamo allora metterci in ascolto, ci troviamo immediatamente provocati da tante domande: che cosa dice la parola di Dio e come ci raggiunge? Quali risposte possono venire dalle parole delle famiglie a riguardo dei loro problemi e delle loro attese? Quali significati ha la parola di Dio per la nostra vita? Che cosa comporta questo ascolto? Quali disposizioni esige e quali sono i suoi frutti?
Queste e altre domande possono trovare il giusto ascolto e le risposte più persuasive in un ambito ben preciso: quello di comunità e di famiglie capaci di accoglienza.

1. Chiesa e famiglie, comunità accoglienti
    e in ascolto sulla misura del cuore di Cristo
 19.    Ogni parrocchia e realtà di Chiesa e, in esse, le famiglie sono chiamate ad essere comunità di accoglienza, così che chiunque vi si avvicina si senta desiderato, amato, ben accolto e aiutato a stabilire relazioni significative con le persone. Tutti devono contribuire a creare un clima di rapporti cordiali e rispettosi. E il primo passo, la prima espressione dell’accoglienza è l’ascolto.
Come traspare da ogni pagina del vangelo, erano questi l’atteggiamento e lo stile di Gesù. Egli sta in mezzo alla gente, la incontra quotidianamente, la ascolta nelle sue richieste, la previene nelle sue esigenze. E tutto questo ha valore anche in rapporto alla famiglia nei suoi diversi componenti: genitori, figli, fratelli e sorelle, bambini e adulti, sani e malati, ecc. Mentre incontra le persone Gesù ascolta le loro domande, suscita il pentimento e diffonde il perdono, mostra i miracoli della fede e invita a servire con umiltà, guarisce dalle malattie e insegna la riconoscenza (cfr Luca 17,1-19).
È lo stesso atteggiamento e stile che la comunità cristiana e le famiglie sono chiamate a imitare e a rivivere: ogni giorno, nei riguardi di tutti.
 Gesù cammina per le strade di villaggi e città, ascolta, parla, saluta, si ferma.  Nella città di Nain, incontrando l’esperienza del lutto e del dolore, incoraggia una donna vedova che piange per la morte di suo figlio. Porta alla vita questo ragazzo e infonde la pace nel cuore di sua madre (cfr Luca 7,11-17). Anche Giairo, capo della sinagoga, ha bisogno di Gesù e lo prega di recarsi a casa sua: Gesù lo ascolta, lo segue, lo libera dalla paura, lo invita alla fede. Di fronte a due genitori che piangono, prende per mano la loro figlia e la risveglia alla vita (cfr Luca 8,50-56).
          Gesù è attento alle vicende familiari e le persone sanno che possono contare su di lui. Marta e Maria, quando il fratello Lazzaro si ammala, mandano ad avvertire Gesù che il suo amico è malato. Gesù, mai indifferente ai vissuti dolorosi di una vita familiare, ascolta e interviene. Vuole, infatti, molto bene a queste persone e per coloro che ama cambia i suoi programmi. Gesù è così capace di costruire rapporti personali autentici e profondi che va a incontrare i suoi amici nelle loro case ed è atteso: Marta gli va incontro con premura e lo accoglie con gioiosa ospitalità, Maria si siede ai suoi piedi desiderosa di ascoltare la sua parola, Lazzaro offre la sua amicizia. Ora, morto da quattro giorni, Lazzaro riceve da Gesù la pienezza della vita (cfr Giovanni 11,1-44).
          Il Signore si reca dappertutto, ma spesso sceglie la casa come luogo per annunciare il Vangelo e donare la salvezza. Nella casa di Simone, il fariseo, Gesù guarda anzitutto al sovrappiù dell’amore (cfr Luca 7,36-50); di fronte a una donna che ha peccato coglie immediatamente la tenerezza e il pentimento e non esita a dischiudere per lei il torrente della misericordia divina: « Egli disse alla donna: “La tua fede ti ha salvata; và in pace!”» (Luca 7,50).
          Gesù scruta nei cuori e prevede da lontano i desideri della gente. Crea le occasioni per stabilire incontri e colloqui: ascolta e si fa ascoltare, pone domande impegnative e difficili e offre molto di più di quanto ci si potrebbe aspettare. Gesù disse a Zaccheo: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Luca 19,9). Gesù entra con grande libertà in rapporto con la gente e non si preoccupa di un eventuale giudizio, vuole soltanto il bene delle persone e le conduce a incredibili conversioni, come è stato per Zaccheo. Ma tutto questo vale anche oggi quando una comunità e una famiglia sono capaci di trasformare le occasioni quotidiane di incontro e di ascolto in autentici miracoli della grazia. Gesù mostra in questo modo che è possibile andare incontro a tutti e che la relazione umana può essere carica di salvezza per ogni persona e per ogni famiglia. Coloro che credono nel Figlio dell’uomo possono veramente andare a cercare e salvare ciò che è perduto (cfr Luca 19,1-10).
          Gesù sta a tavola con tutti, anche con i pubblicani e i peccatori. A lui presentano tante questioni dibattute, riguardanti anche taluni problemi familiari, come la questione del divorzio (cfr Matteo 19,3-12) o quella dell’’eredità (cfr Luca 12,13). Egli, sfidando senza paura i pregiudizi sociali e le correnti religiose o culturali del proprio tempo, è particolarmente attento ai bambini, alle donne, ai poveri, agli emarginati, ai lebbrosi, agli indemoniati.
          Gesù è l’accoglienza fatta carne. Lo afferma lui stesso quando dice: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato» (Matteo 10,40). Con queste parole egli ci introduce a cogliere la meravigliosa ricchezza dell’accoglienza; soprattutto ci fa in qualche modo penetrare nel segreto e nel mistero divino dell’accoglienza. Il Figlio vive con il Padre dall’eternità il dono della reciproca accoglienza. Per questo Gesù, parola di Dio fatta carne, diviene in mezzo all’umanità il segno luminoso dell’accoglienza che il Padre riserva a tutti e a ciascuno di noi.
          E poiché l’accoglienza si esprime nell’ascolto della parola, il Figlio è colui che in una intensità unica e del tutto singolare sta in ascolto della parola del Padre ed è obbediente alla sua volontà, come ci testimonia il vangelo quando ci riferisce del silenzio e della preghiera di Gesù lungo la notte sul monte, quando lo presenta nell’atteggiamento di chi invoca il Padre prima di compiere i miracoli della guarigione del corpo e dell’anima.  E Gesù si sente perfettamente accolto e ascoltato dal Padre: per questo lo ringrazia, come avviene prima della risurrezione dell’amico Lazzaro: «Padre, ti ringrazio perché mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato» (Giovanni 11.41-42).
          In questa reciproca accoglienza il Figlio e il Padre si pone l’ascolto obbediente delle parole che sono rivolte a Gesù perché questi le faccia risuonare nel cuore degli uomini. In questo senso Gesù, prima, anzi per ascoltare meglio le parole degli uomini – il loro vissuto con tutto il peso delle sofferenze e tragedie della vita –, ascolta le parole del Padre, come lui stesso ama sottolineare nella sua missione di salvezza: «Io dico al mondo le cose che ho udito da lui (dal Padre)» (Giovanni 8,26); e ancora: «Ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre, l’ho fatto conoscere a voi» (Giovanni 15,15).
          E così questo mistero di Gesù diventa la sorgente stessa della sua missione di salvezza: egli ascolta le parole della gente, perché ascolta le parole del Padre, e queste ultime, che vengono dall’amore di Dio, sono le parole di vita eterna che egli dona al mondo bisognoso di salvezza.
 20.    Se da quanto precede emerge chiara l’esigenza dell’ascolto come espressione dell’accoglienza, ora l’atteggiamento di Gesù ci fa cogliere la densità straordinaria di cui è segnato il contenuto dell’ascolto: è l’ascolto di parole umane, talvolta solo sussurrate oppure gridate, parole di timida invocazione e di disperazione senza limiti, comunque parole che rimandano ai problemi, alle fatiche, alle sofferenze, alle tragedie delle persone e delle famiglie. E insieme rimandano all’esigenza di una parola diversa, più alta, più capace di dare ragioni di speranza. Così l’ascolto si fa vera e propria partecipazione profonda delle sofferenze e delle speranze umane, come testimonia la “compassione” del cuore di Gesù più volte ricordata dal vangelo (cfr Matteo 9,36; 14.14; 15,32; Marco 1,14; Luca 7,13; 10,33).
L’ascolto – pur così importante per ridare fiducia alla vita – non è fine a se stesso, ma costituisce un primo dono che si apre a qualcosa di più grande e di più necessario per l’uomo. Gesù dopo aver accolto nel proprio cuore le “parole” degli uomini prosegue il suo incontro personale scendendo nell’intimo segreto dei cuori umani. E così annuncia la “parola di Dio”, la “buona notizia”, il disegno dell’amore di Dio che libera e salva, che consola e dà forza. Ricordiamo qui – per semplice accenno – il suo appello alla fede in Dio e al suo amore, cui abbandonarsi pienamente, prima di compiere il miracolo della guarigione e della salvezza. Infatti, dopo aver accolto le parole di Marta e il suo grande dolore per la morte del fratello, Gesù pronuncia la parola assolutamente nuova che proclama la risurrezione e la vita eterna: «Gesù le disse: “Tuo fratello risusciterà”. Gli rispose Marta: “So che risusciterà nell’ultimo giorno”. Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo? ”. Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”» (Giovanni 11,24-27).
 Accoglienza, dunque, è anzitutto ascolto delle parole e della Parola. Proprio su questo duplice oggetto dell’ascolto vogliamo ora sostare.

2. Alla luce del Vangelo
    e dell’esperienza umana
 21.    Un’espressione particolarmente felice e ricca della Costituzione conciliare Gaudium et spes indica il metodo secondo cui affrontare e risolvere i numerosi, gravi e spesso inediti problemi che travagliano la Chiesa e il mondo di oggi: si tratta di valutare ogni cosa sub luce Evangelii et humanae experientiae.
«Dopo aver esposto – così leggiamo nel testo conciliare – di quale dignità è insignita la persona dell’uomo e quale compito, individuale e sociale, egli è chiamato ad adempiere sulla terra, il Concilio, alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana, attira ora l’attenzione di tutti su alcuni problemi contemporanei particolarmente urgenti che toccano in modo specialissimo il genere umano» (n. 46). E tra questi problemi, il primo affrontato dal Vaticano II riguarda proprio la realtà della famiglia.
Ora il Vangelo, di cui ci parla la costituzione Gaudium et spes, sono sì i quattro vangeli, ma in senso più ampio è il lieto annuncio della parola di Dio che troviamo nelle Sacre Scritture, come ad esempio si esprime il salmista: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Salmo 118,105). Ma in un senso più radicale, vivo e personale, il Vangelo è la parola di Dio fatta carne in Gesù. E, dunque, la vera lampada per il cammino della vita è Gesù stesso, che a tutti proclama: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Giovanni 8,12). Lui, la Parola eterna di Dio, come ha preso dimora nel grembo di Maria (cfr Giovanni 1,14), così chiede di poter abitare nel cuore di ogni uomo, secondo quanto scrive l’evangelista Giovanni ai giovani: «La parola di Dio dimora in voi» (1 Giovanni 2,14).
Quanto poi all’esperienza umana, di cui parla il Concilio, essa è riconducibile alle parole degli uomini, al loro vissuto concreto, con tutto ciò che racchiude e sprigiona.
Non ci deve sfuggire il fatto che il Concilio sollecita una lettura e una valutazione dei problemi alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana come di due realtà profondamente collegate tra loro. È in questione un legame di singolare reciprocità, perché, da un lato, le parole umane contengono una promessa cui dà pieno esaudimento la parola di Dio e perché, dall’altro lato, il dono di Dio si comunica e si trasmette attraverso i linguaggi umani. In realtà, la parola di Dio assume, purifica, esalta la ragione umana e trascende l’esperienza. È quanto dice questo splendido testo del Concilio: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (Gaudium et spes, 22).
Esiste, dunque, una feconda circolarità tra il Vangelo di Gesù e l’esperienza umana che esige che ascolto della parola di Dio e ascolto delle parole delle famiglie siano come due cammini da percorrere in modo convergente e completo, dall’uno all’altro sino in fondo. Ci chiediamo pertanto quale cammino sia preferibile: partire dal Vangelo per leggere il vissuto delle famiglie o da questo vissuto per rileggere il Vangelo?

Dalle parole alla Parola
 22.    Iniziamo dall’ascolto delle parole delle famiglie: è il passo più immediato, più semplice, più comprensibile e condivisibile da tutti, praticanti o non, credenti o non. Dobbiamo avere fiducia perché queste parole rimandano, non raramente, al vissuto propriamente cristiano delle famiglie, a un vissuto di fede, di sequela, di comunione d’amore con Cristo.
Ma analoga fiducia dobbiamo avere quando ci troviamo di fronte al vissuto umano delle famiglie. In realtà le loro parole hanno dentro di sé la luce della ragione umana, che è dono grande di Dio; rimandano alla coscienza morale, che «è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria» (Gaudium et spes, 16). In esse ci sono il desiderio – più o meno intenso – di cercare il vero e il bene, come pure l’impegno di essere coerenti anche nelle situazioni difficili per dare concretezza alla propria maturità morale e spirituale. Vivere così significa essere in cammino e venir introdotti in una luce superiore, secondo la parola stessa di Gesù: «Chi opera la verità viene alla luce» (Giovanni 3,21).
Infine, non dimentichiamo che anche queste parole umane sono raggiunte dalla parola di Dio, che è Creatore e Padre di tutti, di Dio che penetra in tutti i cuori, anche a insaputa della persona, persino là dove apparisse qualche forma di rifiuto di Dio stesso.

Dalla Parola alle parole
 23.    La Parola è Dio stesso che parla. Parla in Gesù, il Verbo fatto carne. E così il Figlio eterno di Dio, facendosi pienamente uomo, condivide le nostre esperienze. Egli infatti «ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato» (Gaudium et spes, 22).
Ha fatto anche l’esperienza umana della famiglia, raggiunto dall’amore materno di Maria e dall’amore di Giuseppe, suo padre secondo la legge. Ha vissuto a Nazaret le vicende familiari, come la “sottomissione” in casa, il lavoro, la lettura e l’ascolto delle sacre Scritture, la pratica religiosa familiare, e ha conosciuto la povertà e l’emarginazione nella sua nascita a Betlemme. Sin da piccolo è stato ricercato a morte e ha sofferto l’esilio. Ha coltivato l’amicizia sincera e tenera con alcune famiglie.
Questa parola di Dio è un singolarissimo dono, che sprigiona per noi luce e forza: luce che ci fa vedere e valutare la realtà e il vissuto, e forza per accogliere e vivere ogni parola che viene dal Signore e ogni sapienza umana autentica. E così la Parola ci si presenta come Vangelo, grazia e promessa, dinamismo e beatitudine. E ci infonde fiducia, speranza, coraggio, gioia.
Straordinaria e consolante l’annotazione dell’evangelista: solo Gesù «sa quello che c’è in ogni uomo» (Giovanni 2,25).

 3. L’ascolto come discernimento
 24.    Che significa ascoltare? Può sembrare domanda inutile, tanto dovrebbe essere ovvio il significato dell’ascolto. Del resto le pagine precedenti l’hanno in qualche modo già indicato. Ma è proprio l’importanza centrale dell’ascolto come tratto qualificante la prima tappa del Percorso pastorale che ci spinge a leggere più in profondità la realtà e il dinamismo di questo atteggiamento del cuore e della mente.
Ci pare che il termine biblico e teologico che coglie gli aspetti più originali e pregnanti dell’ascolto sia quello del discernimento: l’ascolto, cioè, raggiunge la sua verità piena quando si configura come esercizio di discernimento.
Ancora una volta ci è di aiuto il Concilio, quando seguendo l’intuizione di papa Giovanni XXIII parla dei “segni dei tempi”: «È dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto…» (Gaudium et spes, 4). E ancora: «Il popolo di Dio, mosso dalla fede, per cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore, che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio…» (Gaudium et spes, 11).
Il discernimento comporta un duplice e inscindibile elemento: il giudizio e la scelta. È un criterio di giudizio, ossia di lettura, di interpretazione, di valutazione della realtà, degli uomini e delle cose, dei grandi avvenimenti e delle vicende quotidiane, dei valori morali e spirituali e dei problemi materiali, ecc. E tutti noi possiamo e dobbiamo coltivare simile criterio di giudizio, appellandoci alla ragione umana illuminata dalla fede, e dunque dall’esperienza umana e dal Vangelo, per riprendere di nuovo le parole del Concilio.
In particolare il cristiano, nella luce e con la forza dello Spirito, riceve il dono di prendere parte al “pensiero di Cristo”, come testimonia umile e fiero l’apostolo Paolo, lui che ha trattato con singolare profondità la questione della sapienza divina e umana: «Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1 Corinzi 2,16). È ancora Paolo ad ammonirci, come un giorno i cristiani di Efeso: «Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente… Vigilate dunque attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti, ma da uomini saggi» (Efesini 5,8-11. 15; cfr 1 Tessalonicesi 5,4-8).
Queste parole dell’apostolo ci introducono al secondo elemento del discernimento: il criterio di scelta. Si tratta, in forza di un giudizio credente e con l’energia della «legge dello Spirito che dà la vita in Cristo Gesù» (Romani 8,2) di scegliere e di decidersi a utilizzare responsabilmente la propria libertà, a renderla cioè operativa mediante precisi atteggiamenti, comportamenti, opere e gesti. Ed è quanto avviene là dove c’è coerenza, corrispondenza armoniosa, quasi un’inscindibile alleanza tra il giudizio e la scelta, tra il “pensiero” di Cristo e l’“agire” di Cristo, che il discepolo è chiamato a imitare e rivivere nella sua esistenza con la luce e la forza dello Spirito.
          Non ci soffermiamo ora nel rilevare quanto sia importante affrontare i più diversi problemi della vita – non ultimi quelli riguardanti l’amore, il matrimonio e la famiglia – con il discernimento razionale ed evangelico. Tutto ciò è ancora più necessario oggi considerato il nostro contesto sociale e culturale: «Siamo di fronte a una mentalità che coinvolge, spesso in modo profondo, vasto e capillare, gli atteggiamenti e i comportamenti degli stessi cristiani, la cui fede viene svigorita e perde la propria originalità di nuovo criterio interpretativo e operativo per l’esistenza personale, familiare e sociale. In realtà, i criteri di giudizio e di scelta assunti dagli stessi credenti si presentano spesso, nel contesto di una cultura ampiamente scristianizzata, estranei o persino contrapposti a quelli del Vangelo» (Giovanni Paolo II, enciclica Veritatis splendor, 88).
          La Chiesa e, in essa, le famiglie cristiane sono allora chiamate a implorare la grazia del Signore e del suo Spirito, che non solo dona la fede e la carità – i due nuovi criteri di giudizio e di scelta per il cristiano – ma anche “purifica” la ragione umana e “fortifica” la volontà, e dunque l’autentica libertà, orientandola con soavità ed energia al vero e al bene, al compimento della «volontà di Dio», di «ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Romani 12,2).
          Così, identificando l’ascolto con il discernimento, lo stesso ascolto manifesta tutta la sua pregnanza di contenuto, tutta la sua concretezza operativa, tutta la sua bellezza e serietà spirituale: ascoltare le parole delle famiglie – abbiamo detto – è accoglienza, interessamento, partecipazione, aiuto al loro vissuto; così come ascoltare il Vangelo, il Vangelo vivente e personale che è Cristo Signore, è credere in Gesù, ascoltare le sue parole, seguirlo, entrare in comunione di vita, di amore e di destino con lui, camminare nel suo Spirito. Sul versante cristiano c’è dunque un intimo legame tra l’ascolto e la sequela di Cristo: l’ascolto è elemento necessario del discepolato cristiano.
          Proprio in questa direzione si muovono i due successivi capitoli del Percorso pastorale di quest’anno: il primo sul “Vangelo della famiglia”, un Vangelo da accogliere per valutare secondo il pensiero di Cristo, e il secondo sulla “missione della famiglia”, per vivere, annunciare e testimoniare agli altri questo stesso Vangelo secondo lo stile operativo di Cristo.

 4. La pratica dell’ascolto
 25.   Concludiamo questo primo capitolo con alcune indicazioni operative, che richiamano brevemente i contenuti e i tempi, le persone coinvolte e le modalità o condizioni spirituali dell’ascolto.
 I contenuti o luoghi dell’ascolto:
le parole delle famiglie e la parola di Dio
 L’esercizio dell’ascolto dovrà essere sviluppato e approfondito in rapporto a due contenuti o luoghi vitali dell’esistenza delle famiglie: l’esperienza umana (le parole) e la vita di fede (la parola di Dio).
 Il primo contenuto o luogo è la considerazione dell’esperienza concreta della vita e della realtà umana dell’amore nella vita familiare, così come si presenta nel contesto sociale e culturale del nostro tempo. Ascoltare significa raccogliere i vissuti concreti delle nostre comunità, dove le persone hanno un volto, una storia, una loro collocazione vitale. È importante in questa fase dell’ascolto cogliere le abitudini, le tendenze, i comportamenti delle persone che si incontrano ogni giorno e che vivono con noi. Significa interpretare attentamente tutto quello che si pensa, si discute, si propone – a torto o a ragione – nella società d’oggi a proposito del matrimonio e della famiglia. Così l’esperienza umana dell’amore, con tutte le sue possibilità e i suoi drammi, si incontra e si intreccia quotidianamente con la cura pastorale della Chiesa, delle nostre comunità cristiane.
          Il secondo contenuto o luogo è, invece, la considerazione di quanto affermano la parola di Dio e la sapienza cristiana sul matrimonio e sulla famiglia, così come ci viene consegnata dalla tradizione vivente della Chiesa ed è vissuta nella comunità dei credenti. L’amore umano tra l’uomo e la donna, pensato fin dal principio nel progetto originario di Dio, trova nel sacramento del matrimonio il luogo della sua pienezza. La Chiesa ha sempre accompagnato con la sua sapienza e con la sua esperienza la realtà dell’amore e della famiglia e fornisce anche oggi ai credenti quegli aiuti necessari perché il matrimonio e la famiglia raggiungano la loro pienezza e la loro fecondità.
          Per affrontare questi due contenuti della realtà umana e cristiana dell’amore, del matrimonio e della famiglia si potranno opportunamente sfruttare le non poche occasioni pastorali che vedono una certa circolarità di esperienze e di attività tra le famiglie, la comunità ecclesiale e la società civile. Innanzitutto, è buona cosa valorizzare le opportunità che nascono dalla pastorale ordinaria, vivendo questi momenti con autentica attenzione e partecipazione, condividendo comunitariamente ciò che da questi incontri emerge, predisponendo iniziative ed interventi tra loro coordinati e da attuare eventualmente anche nelle prossime tappe del Percorso pastorale.
I momenti dell’ascolto: i due tempi dell’anno
 26.   L’esercizio dell’ascolto può essere declinato in due momenti durante questo anno pastorale.
Il primo momento, dall’inizio dell’anno pastorale fino all’inizio della Quaresima, deve essere inteso come tempo di ascolto per raccogliere una vivace e ricca recensione dei racconti delle persone, in rapporto alle diverse esperienze: la relazione di coppia, l’educazione dei figli, il lavoro, il cammino affettivo dei ragazzi e dei giovani, il matrimonio e la vita familiare nel contesto ecclesiale e sociale di oggi. Il racconto e l’esperienza di molte persone faranno trasparire anche quello che viene recepito dalla parola di Dio e dalla dottrina della Chiesa a proposito del matrimonio, della realtà familiare e dei compiti della famiglia nella vita ecclesiale e sociale.
Il secondo momento si colloca nella parte successiva dell’anno pastorale, dall’inizio della Quaresima fino all’estate. In questo secondo momento – dopo che comunità e famiglia hanno cercato di accostarsi al “Vangelo del matrimonio e della famiglia” – l’ascolto deve essere inteso come una raccolta comune di prospettive e di proposte, adatte alla propria comunità e al proprio territorio, che facciano ripartire una pastorale familiare più dinamica, organica e completa, in conformità alle richieste del Vangelo e aderente alle situazioni e alle esigenze attuali.

 Le persone: i soggetti dell’ascolto
 27.  L’esercizio dell’ascolto, vissuto durante l’anno pastorale nei due momenti indicati e condotto con la guida sapiente del Consiglio pastorale, potrà utilmente avvalersi dell’apporto di idee e di esperienza di due categorie di persone.
Innanzitutto la prospettiva missionaria che caratterizza il Percorso pastorale ci indirizza verso persone o gruppi che, pur vivendo la fede, non sperimentano una particolare frequentazione della comunità cristiana. Sono persone da ricercare tra i giovani, i fidanzati, i conviventi, le famiglie, i divorziati, tra coloro che abbiano competenze relative alla famiglia, all’educazione, alla politica sociale. In questo modo, diamo la possibilità a molte persone, che comunemente non hanno l’occasione o la possibilità di intervenire, di portare alla comunità l’apporto della propria esperienza diretta di vita e di fede. Con delicatezza e coraggio sarebbe opportuno e significativo coinvolgere in questo ascolto della famiglia anche coloro che sono in ricerca o in crisi di fede o in situazioni affettive e familiari difficili e sofferte.
In secondo luogo è indispensabile ascoltare e coinvolgere in questo racconto di esperienza della vita familiare e di adesione alla Parola tutti coloro che sono in grado di osservare la realtà familiare dal punto di vista della cura pastorale della comunità, come i sacerdoti, i diaconi, le persone consacrate, il consiglio pastorale, gli operatori pastorali dei diversi settori, i catechisti, i responsabili di gruppi familiari e tutti coloro che già vivono qualche servizio nella comunità. La responsabilità e il servizio che ciascuno già esercita trova in questo cordiale e sincero confronto un luogo vero e intenso di comunione reciproca tra tutte le componenti della comunità. Comunione e missione si saldano insieme e si rafforzano reciprocamente.
 Le modalità: le condizioni spirituali dell’ascolto
 28.  Per attuare una valida pratica dell’ascolto sono necessari alcuni atteggiamenti virtuosi che aprono a un’autentica sensibilità evangelica, sia individuale sia comunitaria, con cui affrontare i vissuti della vita familiare e le indicazioni della proposta ecclesiale: quasi una spiritualità dell’ascolto.
Grazie a tali modalità interiori ed esteriori ci si rapporta e si interagisce con le altre persone: singoli o coppie di sposi, uomini o donne, giovani o adulti, persone di condizione e appartenenza sociale e culturale diverse, persone conosciute o non conosciute, presenti in modo assiduo alla comunità o solo saltuariamente…
Tra le modalità più significative per aprirci all’ascolto indichiamo la custodia del silenzio, la gioia della gratitudine, il cuore misericordioso e lo spirito di preghiera.
 In tutte le occasioni in cui quest’anno, attraverso uno scambio reciproco, ci troveremo ad ascoltare la vita delle persone, le situazioni delle famiglie e le indicazioni della parola di Dio, dobbiamo amare e custodire il silenzio. Forse potrà sembrare paradossale, ma per ascoltare gli altri occorre anzitutto ascoltare sé stessi. E ci si ascolta nel silenzio, ossia rendendoci davvero presenti a noi stessi e a ciò che facciamo, imparando a conoscerci e a dare un nome a ciò che ci abita, senza scandalizzarci del male che possiamo trovare. Abbiamo bisogno di solitudine interiore per aprirci agli altri: «Nella solitudine, tu ti vedi; e non vedi ciò che ti è esteriore. Finché guarderai altrove, non ti vedrai mai», diceva Isacco il Siro (Lettera a un fratello sull’amore della solitudine).
È necessario custodire il silenzio perché il silenzio custodisca la nostra interiorità. Scava nel profondo del nostro “io” uno spazio per farvi abitare il “tu” dell’Altro e per ascoltare la sua Parola. Un mistico siro-orientale del VII secolo, Giovanni di Dalyatha, diceva: «Fa’ tacere la tua lingua affinché il tuo cuore sia calmo, e fa’ tacere il tuo cuore affinché lo Spirito parli in lui» (Omelie sui doni dello Spirito). Nello steso tempo il silenzio scava nel profondo per farvi abitare il “tu” degli altri e ci dispone a un ascolto attento, intelligente, cordiale e saggio.
 Nell’incontro, nell’accoglienza e nell’ascolto degli altri siamo chiamati a possedere un animo riconoscente, a coltivare la gioia della gratitudine. Molto spesso la maturità di una persona o di una comunità si esprime attraverso il suo spirito di gratitudine di fronte a tanta ricchezza di grazia e di amore che il Signore non si stanca di riversare nei cuori umani e nelle vicende della storia. Siamo dunque chiamati a ringraziare Dio, il datore di ogni bene, ma anche i fratelli per il bene che compiono e per la ricchezza spirituale che in tal modo offrono agli altri. È un dono dello Spirito il renderci conto di tutto quanto abbiamo ricevuto e riceviamo: le grazie del Signore sono sempre più numerose e preziose dei limiti e delle colpe nostre e dell’umanità.
La vera gratitudine è capace di criticità, di coraggio, di innovazione, di profezia. E sa intraprendere tutto questo con intelligenza e determinazione, con perseveranza e serenità. Le nostre comunità siano comunità in cui, nonostante i veloci cambiamenti e le fatiche quotidiane, ci si rende conto del sacrificio e del dono che molti fratelli e sorelle – in ogni vocazione e stato di vita – offrono ogni giorno al Signore come culto spirituale (cfr Romani 12,1-2) nella prospettiva di edificare il Regno di Dio nella storia, di cooperare alla diffusione del Vangelo (cfr Filippesi, 1,3-8).
 Per praticare l’ascolto e per entrare in sintonia con il vissuto degli altri è necessario un cuore misericordioso, senza asprezza, senza giudizio, senza condanna, senza intolleranza. Il cuore misericordioso ama e proclama la verità, ma lo fa con amore e per amore, specie quando la verità è particolarmente esigente. Il cuore misericordioso è innanzitutto cosciente del fatto che ciascuno di noi attraversa le sue difficoltà, conosce le sue povertà, sente il peso dei propri peccati. Per questo lascia a Dio solo il giudizio insindacabile sull’agire umano (cfr 1 Corinzi 4, 3-4).
Riascoltiamo le parole di Paolo VI rivolte ai sacerdoti nel loro ministero verso gli sposi e le famiglie: «Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo è eminente forma di carità verso le anime. Ma ciò deve sempre accompagnarsi con la pazienza e la bontà di cui il Signore stesso ha dato l’esempio nel trattare con gli uomini. Venuto non per giudicare ma per salvare (cfr Giovanni 3,17), egli fu certo intransigente con il male, ma misericordioso verso le persone» (enciclica Humanae vitae, 29).
Un cuore misericordioso sa riconoscere le diversità che ci sono nella storia e nella vita delle persone e delle famiglie, sa correggere e perdonare, incoraggia sempre e valorizza anche la più piccola briciola di bene.
Un cuore misericordioso fa crescere la comunità e aiuta i suoi fratelli a vivere l’autentica carità (cfr 1 Corinzi 13,1-13), ciascuno nella propria vocazione, con umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportando a vicenda con amore e conservando l’unità per mezzo del vincolo della pace (cfr Efesini 4,1-3).
 Infine, è possibile veramente ascoltare soltanto se si coltiva un profondo spirito di preghiera. Il cammino che intraprendiamo insieme quest’anno dovrà essere accompagnato da un’abbondante preghiera personale e comunitaria.È, infatti, nel rapporto superlativamente personale e amicale con Gesù e nella preghiera comune della Chiesa che ci sarà dato di riscoprire e di apprezzare la verità e la bellezza della vita e dell’amore, di individuare i passi da compiere, di ricevere dallo Spirito la forza per superare le nostre difficoltà e per affidarci a lui, che viene in aiuto alla nostra debolezza e sostiene la nostra perseveranza (cfr Romani 8, 24-27).
La preghiera ci introduce nel cuore di Dio e crea uno stile di ascolto reciproco: a Dio noi rivolgiamo la nostra parola e lui dona a noi la sua parola. E ciò è decisivo per l’ascolto delle parole degli uomini. Infatti, solo se e nella misura in cui nella preghiera rimaniamo in ascolto della parola del Signore, potremo ricevere la grazia di ascoltare a nostra volta – e con il cuore stesso di Dio – le parole delle persone e delle famiglie.

Publié dans:biblica, pastorale |on 23 avril, 2013 |Pas de commentaires »

ATTI DEGLI APOSTOLI – 17, 16-21 – Paolo entra in Atene

http://sunfinder.serveftp.org/parrocchia/index.php?option=com_content&view=article&id=99:57-atti-degli-apostoli-17-22-34-discorso-allareopago&catid=17:atti-degli-apostoli&Itemid=122&lang=it

ATTI DEGLI APOSTOLI – 17, 16-21 – Paolo entra in Atene

(il discorso di Paolo ad Atene mi affascina!)

16Mentre Paolo li attendeva ad Atene, fremeva nel suo spirito al vedere la città piena di idoli. 17Discuteva frattanto nella sinagoga con i Giudei e i pagani credenti in Dio e ogni giorno sulla piazza principale con quelli che incontrava. 18Anche certi filosofi epicurei e stoici discutevano con lui e alcuni dicevano: «Che cosa vorrà mai insegnare questo ciarlatano?». E altri: «Sembra essere un annunziatore di divinità straniere»; poiché annunziava Gesù e la risurrezione. 19Presolo con sé, lo condussero sull’Areòpago e dissero: «Possiamo dunque sapere qual è questa nuova dottrina predicata da te? 20Cose strane per vero ci metti negli orecchi; desideriamo dunque conoscere di che cosa si tratta».
21Tutti gli Ateniesi infatti e gli stranieri colà residenti non avevano passatempo più gradito che parlare e sentir parlare.

Riflessione
La persecuzione, per un singolare disegno di Dio, spingeva i discepoli a recarsi verso altri luoghi per comunicare anche lì la buona novella del Regno. Il Signore trasformava in vantaggio per il Vangelo la durezza degli uomini che si opponevano a Lui.
Paolo giunse quindi ad Atene come un fuggitivo. Sebbene la città non fosse più cosi prospera come ai tempi di Platone, era tuttavia ancora una grande capitale. Nella narrazione di Luca, dopo Gerusalemme e prima di Roma, Paolo doveva predicare il Vangelo nella capitale della cultura del tempo. Arrivato in città si mescolò al traffico dell’agorà e del mercato per capire quale fosse la sensibilità degli ateniesi.
La sfida era delicatissima e Paolo lo sapeva. Voleva perciò comprendere dal di dentro, potremmo dire, la vita degli ateniesi. Il grande interrogativo era anche semplice: Gerusalemme avrebbe conquistato Atene? Il Vangelo avrebbe toccato il cuore dell’Areopago‘?
È la stessa domanda che noi oggi continuiamo a porci di fronte ai tanti areopaghi di questo mondo, di fronte alle tante culture che abitano il pianeta e che attraversano il cuore e le menti degli uomini. L’audacia di Paolo, che con coraggio si presenta davanti ai sapienti di Atene, ci mostra che nessun areopago è estraneo alla predicazione, nessuna cultura è estranea al Vangelo. Anzi gli areopaghi di oggi attendono discepoli che annunciano la salvezza.
È la grande sfida che tutti i cristiani hanno davanti a loro e che non possono eludere perché solo il Vangelo può rendere più umano il mondo nel quale viviamo.

ATTI DEGLI APOSTOLI – 17, 22-34 – Discorso all’Areopago
 22Allora Paolo, alzatosi in mezzo all’Areòpago, disse: «Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. 23Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. 24Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo 25né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che da a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. 26Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perche abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, 27perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. 28In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: Poiché di lui stirpe noi siamo. 29Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana. 30Dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, 31poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti». 32Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: «Ti sentiremo su questo un’altra volta». 33Così Paolo usci da quella riunione. 34Ma alcuni aderirono a lui e divennero credenti, fra questi anche Dionigi membro dell’Areòpago, una donna di nome Dàmaris e altri con loro.

Riflessione

Paolo avvia il suo discorso nell’importante piazza dell’Areopago di Atene prendendo spunto da un altare pagano dedicato al Dio Ignoto che aveva notato nella sua visita alla città. L’apostolo afferma di essere venuto ad annunciare il nome di quel Dio che non era quindi più ignoto.
L’attenzione dei sapienti ateniesi era alta e Paolo suscitava interesse tra quegli esigenti ascoltatori mentre, toccando sulle corde della loro cultura, cercava di metterle in dialogo con il Vangelo. Potremmo dire che l’apostolo era riuscito ad entrare nella sensibilità dei suoi ascoltatori, ma ovviamente era necessario a questo punto comunicare loro il cuore del Vangelo, ossia la vittoria di Gesù sul male e sulla morte.
Paolo doveva annunciare la risurrezione di Gesù dai morti. C’è sempre una discontinuità tra il piano della cultura e quello della fede, tra il Vangelo e la mentalità ordinaria. E la risurrezione è un dono straordinario e inaspettato che il Signore ha fatto all’umanità. Forse l’apostolo sperava che quei sapienti, che pure ritenevano l’anima immortale, avrebbero accolto anche il mistero della risurrezione della carne. E nel suo discorso li aveva come portati sulla soglia.
Gli ateniesi, invece, lo interruppero dicendo: su questo ti ascolteremo un’altra volta. Grande fu la delusione di Paolo, ma forse ricordò le parole di Gesù: ti ringrazio, o Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli.

1...56789...16

PUERI CANTORES SACRE' ... |
FIER D'ÊTRE CHRETIEN EN 2010 |
Annonce des évènements à ve... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Vie et Bible
| Free Life
| elmuslima31