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«RIMETTERE CRISTO AL CENTRO DELLA STORIA»

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-rimettere-cristo-al-centro-della-storia-7808.htm

«RIMETTERE CRISTO AL CENTRO DELLA STORIA»

DI MASSIMO INTROVIGNE

25-11-2013

Il 24 novembre Papa Francesco ha concluso l’Anno della fede, prima di ricordare all’Angelus due anniversari: uno ucraino, alla presenza dei Patriarchi delle Chiese Orientali cattoliche, «l’80° anniversario dell’Holodomor, la « grande fame » provocata dal regime sovietico che causò milioni di vittime», e uno californiano, relativo al «Beato Junípero Serra [1713-1784], missionario francescano spagnolo, di cui ricorre il terzo centenario della nascita». Due riferimenti non banali, se si considera che l’Olocausto ucraino fu censurato dagli storici per decenni prima di essere «sdoganato» dal beato Giovanni Paolo II (1920-2005), e che il beato Serra è la «bestia nera» di un certo progressismo che accusa le missioni francescane di avere sradicato la cultura – ritenuta, a torto, superiore e più «ecologica» – delle tribù indiane d’America.
La celebrazione più solenne è stata dedicata, nella festa di «Cristo Re dell’universo, coronamento dell’anno liturgico», alla «conclusione dell’Anno della fede, indetto dal Papa Benedetto XVI, al quale va ora il nostro pensiero pieno di affetto e di riconoscenza per questo dono che ci ha dato», che Francesco ha definito «provvidenziale iniziativa».
Perché provvidenziale? A che cosa è servito, a che cosa doveva servire l’Anno della fede? A rimettere al centro del messaggio della Chiesa una verità insieme semplice e complessa, ha detto il Papa: «la centralità di Cristo. Cristo è al centro, Cristo è il centro. Cristo centro della creazione, Cristo centro del popolo, Cristo centro della storia».
Questa centralità, ricordata dalla festa di Cristo Re, ha un forte radicamento nella Scrittura. San Paolo presenta Gesù «come il Primogenito di tutta la creazione: in Lui, per mezzo di Lui e in vista di Lui furono create tutte le cose. Egli è il centro di tutte le cose, è il principio: Gesù Cristo, il Signore. Dio ha dato a Lui la pienezza, la totalità, perché in Lui siano riconciliate tutte le cose».
Se «Gesù è il centro della creazione», l’Anno della fede e la festa di Cristo Re ci ricordano che «l’atteggiamento richiesto al credente, se vuole essere tale, è quello di riconoscere e di accogliere nella vita questa centralità di Gesù Cristo, nei pensieri, nelle parole e nelle opere. E così i nostri pensieri saranno pensieri cristiani, pensieri di Cristo. Le nostre opere saranno opere cristiane, opere di Cristo, le nostre parole saranno parole cristiane, parole di Cristo». Invece, «quando si perde questo centro, perché lo si sostituisce con qualcosa d’altro, ne derivano soltanto dei danni».
Tutta la storia d’Israele è la storia della ricerca di un re saggio e giusto. «Attraverso la ricerca della figura ideale del re, quegli uomini cercavano Dio stesso: un Dio che si facesse vicino, che accettasse di accompagnarsi al cammino dell’uomo, che si facesse loro fratello». Con la venuta di Cristo, la storia trova il suo re. «Cristo, discendente del re Davide, è proprio il « fratello » intorno al quale si costituisce il popolo, che si prende cura del suo popolo, di tutti noi, a costo della sua vita. In Lui noi siamo uno; un solo popolo uniti a Lui, condividiamo un solo cammino, un solo destino. Solamente in Lui, in Lui come centro, abbiamo l’identità come popolo».
La regalità di Cristo – la centralità di Cristo, che per un anno l’Anno della fede ha cercato di ricordarci ogni giorno – è insieme sociale e individuale. «Cristo è il centro della storia dell’umanità, e anche il centro della storia di ogni uomo. A Lui possiamo riferire le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce di cui è intessuta la nostra vita. Quando Gesù è al centro, anche i momenti più bui della nostra esistenza si illuminano». È capitato al buon ladrone, citato nel Vangelo della domenica, nei cui confronti «Gesù pronuncia solo la parola del perdono, non quella della condanna; e quando l’uomo trova il coraggio di chiedere questo perdono, il Signore non lascia mai cadere una simile richiesta».
«Oggi tutti noi – ha detto il Papa – possiamo pensare alla nostra storia, al nostro cammino. Ognuno di noi ha la sua storia; ognuno di noi ha anche i suoi sbagli, i suoi peccati, i suoi momenti felici e i suoi momenti bui. Ci farà bene, in questa giornata, pensare alla nostra storia, e guardare Gesù, e dal cuore ripetergli tante volte, ma con il cuore, in silenzio, ognuno di noi: « Ricordati di me, Signore, adesso che sei nel tuo Regno! Gesù, ricordati di me, perché io ho voglia di diventare buono, ho voglia di diventare buona, ma non ho forza, non posso: sono peccatore, sono peccatore. Ma ricordati di me, Gesù! Tu puoi ricordarti di me, perché Tu sei al centro, Tu sei proprio nel tuo Regno! »».
È il Vangelo della misericordia di Papa Francesco: «la grazia di Dio è sempre più abbondante della preghiera che l’ha domandata. Il Signore dona sempre di più, è tanto generoso, dona sempre di più di quanto gli si domanda: gli chiedi di ricordarsi di te, e ti porta nel suo Regno!».
Entrare nel Regno, personale e sociale, di Gesù Cristo significa metterlo al centro. Al servizio di questo progetto l’Anno della fede ci lascia due documenti: l’enciclica «Lumen fidei», che Papa Francesco ricorda quasi ogni settimana e che molti nella Chiesa hanno troppo presto dimenticato, un grande affresco del ruolo della fede nella costruzione di una civiltà dove Gesù possa regnare; e l’esortazione apostolica «Evangelii gaudium», simbolicamente consegnata alla Chiesa domenica e che sarà pubblicata martedì. Come sempre, se non si studiano i documenti difficilmente si capisce il senso degli avvenimenti ecclesiali

L’UOMO/DONNA ALL’ORIGINE – DEL CARDINALE ANGELO SCOLA

http://www.sanpaolo.org/vita/0907vp/0907vp68.htm

L’UOMO/DONNA ALL’ORIGINE

DEL CARDINALE ANGELO SCOLA

Festival biblico di Vicenza
La bellezza della Scrittura svela il mistero di Dio e risponde agli interrogativi che emergono dall’esperienza più profonda dell’uomo. Fin dalle prime pagine della Bibbia viene affermato che l’uomo/donna, la differenza sessuale, è connessa all’essere a immagine e somiglianza di Dio.
Il dossier raccoglie alcuni interventi tenuti durante il Festival della comunicazione di Alba (Cn) e il 5° Festival biblico di Vicenza. Si passa così dai mezzi di comunicazione ai contenuti, come l’analisi del card. Scola in apertura.
«Tre cose sono troppo ardue per me, anzi quattro, che non comprendo affatto: la via dell’aquila nel cielo, la via del serpente sulla roccia, la via della nave in alto mare, la via dell’uomo in una giovane donna» (Pr 30,18-19).
Con potenti immagini l’autore del libro dei Proverbi esprime la meraviglia carica di ontologico timore dell’uomo, creatura finita, di fronte all’infinito da cui pure è attratto. La coscienza della propria strutturale sproporzione a comprendere il senso della totalità del reale è certo la cifra della sua piccolezza, ma anche della sua grandezza. L’ampiezza del cielo in cui l’aquila vola indica la possibilità di uno sguardo senza confini. La solidità della roccia fa sì che il serpente possa attraversarla ma non sgretolarla: il male non riesce a conquistare definitivamente la vita. La profondità del mare sostiene il viaggio dell’uomo nella vita. Ma più enigmatica ancora di tale ampiezza, solidità e profondità, è la via dell’uomo in una giovane donna.

I bambini e i ragazzi in generale sono stati i destinatari principali dei due festival.
A Vicenza hanno costruito il più lungo disegno del mondo sulla Bibbia (30 maggio).

L’uomo/donna
L’icastica bellezza di quest’ultima affermazione ci introduce di schianto nel tema. L’uomo/donna è la via attraverso cui ognuno di noi è inoltrato nel mistero della vita. Molto acuto è il commento che ci propone Paul Beauchamp, uno dei più importanti esegeti del nostro tempo: «L’enigma che sorpassa gli altri, secondo i Proverbi, è la « strada dell’uomo attraverso la donna » (Pr 30,18s.), ossia è ciò che fa passare l’uomo attraverso l’immagine di colei che sta al suo inizio e che lo fa uscire da essa quando nasce, il che fa dell’incontro tra i due al tempo stesso un ricominciamento e qualcosa di nuovo» (L’uno e l’altro Testamento, Paideia 1985, Brescia, p. 144).
Beauchamp richiama un tratto costitutivo dell’esperienza elementare di ogni uomo, a cui le Scritture rendono testimonianza, svelandone anche la ragion d’essere: nell’incontro tra l’uomo e la donna accade un ricominciamento e qualcosa di nuovo.
Il nuovo è possibile perché l’incontro amoroso pone inevitabilmente all’uomo la domanda ontologica sulla propria origine. Potremmo dirla così: chi sono io che incontrando te incontro me stesso? Questa novità avviene perché la donna dice l’alterità ultimamente da me inafferrabile, quell’alterità che mi « sposta » (differenza) in continuazione, impedendomi di rimanere rinchiuso in me stesso. Così la donna, ponendosi, mi impone, attraverso il suo volto amante, di ricominciare. Nella sorpresa davanti al volto della donna, misteriosa eppure familiare alterità, è donato all’uomo il proprio volto, cioè la propria irriducibile identità.

A immagine di Dio
Il volto biblico dell’uomo/donna dice ad un tempo identità e alterità.
Come mai? Fin dalle prime pagine della Genesi, la Scrittura risponde a questo interrogativo che emerge dal profondo dell’esperienza di ogni uomo e di ogni donna. E lo fa, anzitutto, con un’affermazione potente e radicale: l’uomo/donna, la differenza sessuale, è connessa all’essere a immagine e somiglianza di Dio: «Dio disse: « Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra ». E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e Dio disse loro: « Siate fecondi e moltiplicatevi »» (Gen 1,26-28). A proposito di questo passo un detto del Talmud giunge ad affermare: «Chi non ha una moglie non è uomo».

Aldo M. Valli con il cardinale Scola che sta esponendo la lectio magistralis
da noi pubblicata.
Insiste poi lo straordinario racconto della creazione della donna: «E il Signore Dio disse: « Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda ». [...] Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: « Questa volta è osso delle mie ossa, carne della mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta ». Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne. Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna» (Gen 2,18-25).
Il racconto della creazione della donna descrive bene l’irriducibile differenza dell’uomo maschio, pur nella sua essenziale identità con la donna. Eva è cavata dal corpo di Adamo per essere differente, anche se ha in comune con lui l’essenza personale. Dio non consulta previamente l’uomo. Plasma Eva con la costola di Adamo e gliela pone di fronte, come un interlocutore che egli non si può dare, né può tanto meno dominare, come invece può fare con tutti gli altri esseri viventi (imporre il nome, nel linguaggio biblico, significa stabilire la propria signoria). Si capisce perché per il libro della Genesi a un certo punto della vita l’uomo lascia i genitori e si unisce a sua moglie per formare con lei una carne sola. Perché lei è carne tolta dalla sua carne.

La differenza sessuale
Proviamo a raffigurarci – molti artisti lo hanno fatto – lo sguardo di Adamo che vede per la prima volta Eva vicino a sé… Fin dal principio la donna è posta davanti all’uomo (e viceversa) come un dono. Una presenza inimmaginabile, del tutto irriproducibile, eppure profondamente corrispondente a sé. L’uomo e la donna sono identicamente persone, ma sessualmente differenti. Tale differenza pervade tutto l’essere umano, fin nell’ultima sua particella: il corpo dell’uomo, infatti, è in ogni sua cellula maschile, come quello della donna è femminile.
La differenza sessuale svela che l’alterità è una dimensione interna alla persona stessa, che ne segna la strutturale insufficienza, aprendola in tal modo al « fuori di sé ». E così l’altro è per me tanto inaccessibile (mi resta sempre altro) quanto necessario. L’uomo/donna rappresenta uno dei luoghi originari in cui ognuno di noi fa l’esperienza della propria dipendenza e della conseguente capacità di relazione. Come, con impareggiabile intensità, recita il Cantico dei Cantici: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, mia sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana!» (4,9).
Il disegno originario di Dio nel crearci sempre e solo come maschi o come femmine (Mulieris dignitatem 1) vuol educarci a capire il peso dell’io e il peso dell’altro. La differenza sessuale si rivela così come una grande scuola. Si tratta d’imparare l’io attraverso l’altro e l’altro attraverso l’io.
Il bisogno/desiderio dell’altro che, a partire dall’uomo/donna, come uomo e come donna, ogni persona sperimenta non è pertanto il marchio di un handicap, di una mancanza, ma piuttosto l’eco di quella grande avventura di pienezza che vive in Dio Uno e Trino, perché siamo stati creati a sua immagine.

La Premiata Forneria Marconi con il concerto « La Buona Novella e altre storie di volti »
chiude il Festival il 2 giugno a Piazza dei Signori.
E in questo modo la via dell’uomo in una giovane donna, la via della differenza sessuale, dell’amore per sempre, dell’apertura alla vita appare come via privilegiata di accesso a Dio, come una strada a tutti possibile per intuire che all’origine della nostra esistenza c’è un Mistero buono che ci chiama a sé.
La Scrittura insiste sulla possibilità dell’uomo di risalire dalla contemplazione del creato all’affermazione del Creatore: «Se affascinati dalla loro bellezza, li hanno presi per dèi, pensino quanto è superiore il loro sovrano, perché li ha creati colui che è principio e autore della bellezza» (Sap 13,3). Sul volto pieno di attrattiva della donna risplende il Volto di colui che l’ha creata e condotta verso l’uomo. Per ogni uomo e per ogni donna l’esperienza dell’amore è via di accesso al riconoscimento di Dio.
Scrive ancora Beauchamp: «Ecco perché il Cantico dei Cantici, o Canto dei Canti, è un poema sapienziale. Si offende l’amore dei due fidanzati che vi dialogano se si crede che, per dare a questo poema un senso spirituale, occorra trovargli un altro tema. Inversamente, è troppo spiccio anzi sciocco pretendere che il Cantico non significhi niente altro. Che gli rimarrebbe di enigmatico se la mente non fosse sollecitata dal fatto che l’uomo vi chiama felicità la novità dell’origine, trovata sulle tracce del suo inizio? Per tale ragione, l’esperienza della Sapienza è legata a quella della differenza dei sessi. Là dove l’uomo ritrova come la propria sorgente e da cui esce un altro uomo, là è il luogo di elezione della Sapienza» (op. cit., pp. 144-145).

La tentazione dell’idolatria
Proprio per questa sua necessaria ma enigmatica profondità l’esperienza dell’amore non è esente dalla più grande tentazione che minaccia l’uomo: quella dell’idolatria. L’ingiunzione di Dio al suo popolo nel deserto – «Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra» (Es 20,3-4) – è rivolta ad ogni uomo e ad ogni donna perché non si arresti al volto dell’amato/a, ma in esso renda gloria a colui che gli ha donato un/a compagno/a di cammino.

L’intervento di mons. Giancarlo Bregantini.
Siamo tutti ben consapevoli di cosa succede quando nell’esperienza dell’amore si confonde l’altro con Dio. Quando cioè ci si aspetta – addirittura si pretende – dall’altro tutto, cioè il compimento della propria vita. Delusione e scetticismo fino alla violenza prendono il posto prima occupato dallo stupore e dalla gratitudine. Con potente lucidità lo descrive il libro del Siracide: «Speranze vane e fallaci sono quelle dello stolto, e i sogni danno le ali a chi è privo di senno. Come uno che afferra le ombre e insegue il vento, così è per chi si appoggia sui sogni. Una cosa di fronte all’altra: tale è la visione dei sogni, di fronte a un volto l’immagine di un volto» (34,1-3).
Negata la natura di segno del volto dell’amata, la consistenza di tale volto sfuma e non resta altro che la sua pallida immagine. Ma un’immagine non basta a soddisfare la nostra sete profonda. Il desiderio si spegne nella malinconia o facilmente si dissolve sulla superficie di uno specchio che non ci rimanda altro che il nostro volto. Abbiamo bisogno di una presenza che ci insegni ad amare, a imparare la strada dell’altro/altra quale cammino concreto e possibile verso l’Altro alla cui immagine e somiglianza siamo stati creati. Ma a questo bisogno non possiamo rispondere con le nostre forze. Dio stesso ha voluto mostrarci la via, o meglio ha mandato suo Figlio tra noi come via alla verità e alla vita.

La parola e i gesti di Gesù
Numerose sono le occasioni in cui i vangeli ci presentano Gesù Cristo, il nuovo Adamo, che incontra e si coinvolge con donne di diversa età e condizione sociale, svelandoci in tal modo il volto pieno dell’uomo/donna. E sempre lo sguardo che egli, in netta antitesi con i costumi del suo tempo, porta alla figura femminile è uno sguardo integrale che ne afferma l’assoluta dignità e la singolare vocazione.
Il più delle volte questo suscita stupore, sorpresa al limite dello scandalo. E non solo tra i farisei (cf Lc 7,37-47), ma anche tra i suoi discepoli: «Si meravigliavano che parlasse con una donna» (Gv 4,27). Nell’incalzante e decisivo dialogo che Gesù intrattiene con lei (cf Gv 4,5-30) la Samaritana è un interlocutore reale anche dei più profondi misteri di Dio, comprese quelle questioni circa il culto cui la donna, nell’Antico Testamento, non è abilitata.

Un altro dei relatori: Enzo Bianchi.
Il dono di sé, fattore costitutivo del mistero nuziale, connota i tanti decisivi incontri di Gesù con le figure femminili: da quello con la peccatrice, che non cessava di bagnare i piedi di Gesù con le sue lacrime «poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (Lc 7,38) e per questo Gesù dice «le sono perdonati i suoi peccati perché ha molto amato» (Lc 7,47); a quello con l’adultera cui il Signore dona il perdono che responsabilizza: «Neanch’io ti condanno, va’ in pace e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11); a quello con la vedova di Nain cui riserva un’indimenticabile espressione di affettuosa pietà: «Donna, non piangere!» (Lc 7,13); a quello con la Cananea per la cui fede ha parole di grande apprezzamento (Mt 15,21-28).
«[L’uomo e la donna]», scrive Giovanni Paolo II nella Mulieris dignitatem, «furono reciprocamente affidati l’uno all’altra come persone fatte a immagine e somiglianza di Dio stesso. In tale affidamento è la misura dell’amore» (14). Di tale affidamento, di tale compagnia amorevole nella suprema prova della morte, ci dà, ancora una volta, splendida testimonianza un memorabile passaggio del vangelo di Giovanni: «Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: « Donna, ecco tuo figlio! ». Poi disse al discepolo: « Ecco tua madre! »» (Gv 19,26-27).
Per questo la Lettera agli Efesini svela il volto biblico dell’uomo/donna inserendo il matrimonio nel « luogo » deputato all’esperienza compiuta del bell’amore: il rapporto nuziale tra Cristo e la Chiesa. «Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Così anche voi: ciascuno da parte sua ami la propria moglie come sé stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito» (5,32-33).

cardinale Angelo Scola
patriarca di Venezia

Il Volto dei volti
Il tema di questa edizione del Festival biblico è stato
« I volti delle Scritture ». Dai volti biblici ai nostri il passo è breve e passa per quello di Cristo.
Il Festival biblico è un’idea tutta vicentina che gli scorsi anni ha riscosso un buon successo di pubblico e di critica e che in tante diocesi italiane è stata seguita con curiosità e ammirazione. La formula, infatti, è parsa originale e interessante sia per i contenuti che per le modalità e i linguaggi adoperati.
Il tema di questa quinta edizione del Festival è « I volti delle Scritture ». Esso, oltre a porre attenzione ai vari « volti », alle varie « facce » dell’esperienza umana « configurata » dai diversi libri della Bibbia con i loro generi letterari, stili e contesti, allude primariamente e direttamente ai « volti » dei « personaggi » umani e divini che parlano e agiscono nella Bibbia e attraverso essa, in particolare al « Volto dei volti », quello di Gesù Cristo, in cui si rivela il Volto di Dio e la sua viva presenza. Un richiamo particolare viene anche fatto al « volto » di Paolo di Tarso di cui quest’anno celebriamo il bimillenario della nascita.
Quelli biblici sono volti che ci vengono incontro, ci guardano in faccia, ci parlano. Come diceva il filosofo di origine ebraica Emmanuel Levinas, il volto dell’altro, traccia dell’infinito, m’incontra nella sua maestà e umiltà parlandomi e così mi invita a una relazione che non ha misura comune con il potere che normalmente si tende a esercitare gli uni sugli altri. In questo – sempre secondo Levinas – il volto altrui, povero e signore, non limita ma promuove la mia libertà facendo nascere in me la bontà come responsabilità per l’altro.
Ora si può dire che se questo vale per ogni volto umano, vale ancor più per quello di Gesù Cristo, volto del Dio vivente, e affidabile. Così sono i « volti » di tutti gli uomini e le donne del mondo, dunque anche quello di ciascuno di noi, che ritrovano nel « volto » di Gesù – il volto che svela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione – e nei volti dei personaggi biblici lo specchio e le parole nei quali comprendersi più profondamente riconoscendo la bellezza della propria e dell’altrui vita e la chiamata a una fraternità/responsabilità dalle dimensioni universali.

+ Cesare Nosiglia
arcivescovo di Vicenza

GIANFRANCO RAVASI – QUATTRO SCRITTI SU GESÙ

http://www.tanogabo.it/religione/ravasi_gesu.htm

GIANFRANCO RAVASI – QUATTRO SCRITTI SU GESÙ

GESU’ DI EMMAUS

Nel 1623 un grande musicista tedesco, Heinrich Schùtz, compose uno stupendo oratorio intitolato « Storia della risurrezione » (op. 3). Alla partitura egli aggiunse un post-scriptum di poche ma intense righe: «Signore Gesù Cristo, tu mi hai concesso di cantare la tua risurrezione su questa terra. Nel giorno del tuo giudizio, Signore, richiamami dalla mia tomba e, in cielo, il mio canto, mescolato a quello dei serafini, ti renderà grazie in eterno!». La narrazione evangelica della Pasqua di Cristo, pur nella sua estrema sobrietà, ha una potenza di speranza da aver mosso tanti cuori, in particolare quelli di coloro che hanno voluto riproporre la loro fede attraverso la bellezza dell’arte. Si pensi solo all’indimenticabile cascata di alleluia del Messia di Hàndel (1742). Ci fermiamo ora su una delle pagine più affascinanti del Vangelo di Luca: i discepoli di Emmaus (24,13-35). La cornice cronologica è proprio quella del giorno di Pasqua. Due discepoli stanno camminando sulla strada che da Gerusalemme conduce a un non meglio identificabile villaggio di Emmaus. Il Cristo della gloria pasquale non è riconoscibile coi sensi soltanto: è necessaria una via superiore di conoscenza. Due sono le tappe di questo processo di fede: prima l’ascolto delle Scritture spiegate da Cristo in chiave cristiana; poi lo “spezzare il pane” che, nel linguaggio neotestamentario, allude all’eucaristia. In questi termini abbiamo già ciò che ogni domenica facciamo all’interno delle chiese, ascoltando la Parola di Dio e accostandoci alla mensa del Signore. Nell’ascolto della Parola «il cuore arde nel petto»; allo spezzare del pane «gli occhi si aprono e lo riconoscono». Ma c’è anche quell’indimenticabile implorazione finale: «Rimani con noi perché si fa sera e il giorno sta ormai declinando!». Lasciamo la parola al grande scrittore francese, Francois Mauriac (1885-1970), e alla sua Vita di Gesù (1936): «A chi di noi, dunque, la casa di Emmaus non è familiare? Chi non ha camminato su quella strada, una sera che tutto pareva perduto? Il Cristo era morto in noi. Ce l’avevano preso il mondo, i filosofi e gli scienziati, nostra passione. Non esisteva più nessun Gesù per noi sulla terra. Seguivamo una strada, e qualcuno ci veniva a lato. Eravamo soli e non soli. Era la sera. Ecco una porta aperta, l’oscurità d’una sala ove la fiamma del caminetto non rischiara che il suolo e fa tremolare delle ombre. O pane spezzato! O porzione del pane consumata malgrado tanta miseria! Rimani con noi, perché il giorno declina…! Il giorno declina, la vita finisce. L’infanzia sembra più lontana che il principio del mondo, e della giovinezza perduta non sentiamo più altro che l’ultimo mormorio degli alberi morti nel parco irriconoscibile…». Cristo, presenza ineludibile, è «con noi sino alla fine del mondo» (Matteo 28,20). Il celebre scrittore Kafka all’amico Gustav Janouch che lo interrogava su Cristo aveva risposto: «Questo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitare».

I VOLTI DEL CRISTO  

Agli inizi della tradizione artistica cristiana si fu incerti sul raffigurare Cristo con un aspetto brutto – per renderlo vicino agli ultimi e ai sofferenti – o con un profilo affascinante, per far risplendere la perfezione della sua umanità. I Vangeli non ci dicono nulla sulla sua fisionomia esteriore. Molto, invece, sappiamo dei suoi atti e delle sue parole ed è questa la vera bellezza che ha catturato l’umanità. In questa luce si devono leggere le parole che il grande scrittore russo Fiodor Dostoevskij scriveva alla nipote Sonia in una lettera del gennaio 1868: «Tutti gli scrittori che hanno pensato di raffigurare un uomo positivamente bello si sono sempre dati per vinti. Poiché si tratta di un compito sconfinato. Il bello, infatti, è l’ideale. Al mondo c’è una persona sola positivamente bella: Cristo. L’apparizione di questa persona sconfinatamente, infinitamente bella è già un miracolo infinito». E nei Demoni, ancor più provocatorio, il romanziere russo farà di Gesù anche il segno della verità assoluta: «Se mai si dimostrasse matematicamente che la verità è fuori di Cristo, io starei dalla parte di Cristo!». Certo è che sempre sono state vere le parole lapidarie pronunziate dal vecchio Simeone mentre stringeva tra le sue braccia Gesù neonato: «Egli è segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Luca 2,34-35). Così il filosofo anticristiano tedesco Friedrich W.Nietzsche, che aveva considerato Cristo l’unico cristiano della storia, finito però in croce, nella sua opera Così parlò Zarathustra (1883-85) reagirà in questa maniera: «È morto troppo presto: avrebbe ritrattato lui stesso la sua dottrina, se fosse giunto alla mia età». Eppure anche Nietzsche non poteva prescindere da quella figura di «ebreo pieno di lacrime e di malinconia», come lo definiva al punto tale da intitolare un suo libro L’Anticristo! È la stessa confessione che farà in piena rivoluzione sovietica (1918) un conterraneo di Dostoevskij, il poeta Alexander Biok (1880-1921) che, al termine dell’opera I Dodici, confessava: «Quando l’ebbi finita, mi meravigliai io stesso: perché mai Cristo? Davvero Cristo? Ma più il mio esame era attento, più distintamente vedevo Cristo. Annotai allora sul diario: Purtroppo Cristo! Purtroppo proprio Cristo!». Una figura imprescindibile, quindi, e “inevitabile” come lo sono le 64.327 parole greche di quei quattro libretti, i Vangeli. A proposito delle parole di Gesù, della loro bellezza e forza è suggestivo quello che scrisse un altro scrittore ateo, il francese André Gide (1869-1951), che ebbe un rapporto tormentato con Cristo. Confessava nella sua opera Numquid et tu? (1922): «Penso che non si tratti di credere alle parole del Cristo perché il Cristo è figlio di Dio, quanto di comprendere che egli è figlio di Dio perché la sua parola è divina e infinitamente più alta di tutto ciò che l’arte e lasaggezza degli uomini possono proporci. Signore, non perché mi sia stato detto che tu eri il figlio di Dio ascolto la tua parola; ma la tua parola è bella al di sopra di ogni parola umana, e da questo io riconosco che sei il figlio di Dio».  

L’ « AGONIA » DI GESU’

Ci stiamo avvicinando al vertice della Quaresima: i giorni ci conducono a quell’evento capitale della fede cristiana che èla morte e la risurrezione di Gesù Cristo. Quella vicenda è giunta a noi attraverso le pagine altissime dei Vangeli che sono divenute anche una sorgente di arte e di bellezza. Lo stesso dolore è trasfigurato, la morte è glorificata, il silenzio di Dio diventa parola misteriosa. Noi ora ci fermeremo su una scena preliminare, quella che si consuma sotto gli ulivi del Getsemani: alcime analisi scientifiche hanno rivelato nei loro ceppi una datazione di 2.500 anni. Gesù sotto lo stormire di quelle fronde aveva a lungo pregato in solitudine, rivelando in quell’appello rivolto al Padre celeste tutta la realtà della sua umanità: «Padre, se è possibile, passi da me questo calice…». Luca, l’evangelista che era stato medico, aveva segnalato anche quella terribile “diapedesi” della pelle di Cristo, giunta persino a trasudare sangue. L’intensità di questa “agonia” di Gesù potrebbe essere riproposta anche attraverso la forza dell’arte che l’ha voluta spesso raffigurare. Pensiamo solo alI’emoziònante tela di Andrea Mantegna(1460), conservata al museo di Tours, con la pesante materialità dei discepoli assonnati in primo piano e col Cristo sospeso su una rupe, solitario in tesa orazione. «Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo: non bisogna dormire fino a quel momento», scriveva Pascal, il celebre filosofo francese nei suoi Pensieri (n. 736). Un tema che percorrerà anche un notissimo romanzo – divenuto anche un film bellissimo di Bresson- dello scrittore francese Bernanos, il Diario di un curato di campagna (1936), il cui protagonista è definito «prigioniero della santa Agonia». Un altro francese, il poeta Alfred de Vigny, nel 1839 aveva proposto nel Monte degli Ulivi quelle ore notturne vissute da Gesù e le aveva trasformate nei simbolo dell’angoscia di ogni persona, quando attorno ad essa si addensa il silenzio di un Dio apparentemente «muto, cieco, sordo al grido delle sue creature». Un’esperienza drammatica per il Figlio di Dio fatto uomo, come ricordava un altro poeta francese, Gérard de Nerval, nel suo sonetto Il Cristo degli Ulivi (1854): «Dio manca all’altare del mio sacrificio… Dio non c’è! Dio non è più! Ma essi continuano a dormire…». Ma vorremmo invitare chi conosce bene la musica a meditare su quella scena ascoltando l’unico oratorio scritto da Beethoven, Cristo al monte degli Ulivi op. 85 (1802-1803), che io ebbi la fortuna di ascoltare eseguito sullo sfondo del monte degli Ulivi nel 1995, per la celebrazione del terzo millennio di Gerusalemme. Tre sono i protagonisti: Gesù (tenore), Pietro (basso) e un serafino (soprano). Emozionante è l’aria del serafino che dialoga col coro e con Gesù per consolarlo (è un recitativo). Ma le ultime parole di Cristo sulla croce, secondo Luca, saranno una preghiera di fiducia e non di desolazione: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (23,46).

CRISTO SAMARITANO

Lo scrittore Luigi Santucci (19 18-1999) in un suo racconto intitolato Samaritano apocrifo ricorda che questo personaggio evangelico — che abbiamo iniziato a presentare la scorsa settimana, attingendo alla parabola di Luca 10,25-37 — è divenuto nei secoli cristiani una specie di icona posta nei «vestiboli dei lazzaretti e dei luoghi pii». Ma qua! è il vero senso della parabola di Gesù, una delle più celebri e più belle del Vangelo? La risposta è da cercare in un abile contrasto tra due domande presenti nella cornice del racconto. In essa un dottore della legge chiede a Cristo: «Chi è mai il mio prossimo?». L’ebraismo Ilsolveva questo interrogativo “oggettivo” sulla base di una serie di cerchi concentrici che si allargavano ai parenti e agli Ebrei. Gesù, in finale di parabola, rilancia la domanda allo scriba ma con un mutamento significativo: «Chi ha agito come prossimo?». Come è evidente, c’è un ribaltamento: invece di interessarsi “oggettivamente” a definire il vero o falso prossimo, Gesù invita a comportarsi “soggettivamente” da prossimo nei confronti di tutti coloro che sono nella necessità. In questa luce il Samaritano — a differenza del levita e del sacerdote ebreo che «passano òltre dall’altra parte» della strada su cui giace lo sventurato, mezzo morto — autenticamente è prossimo del sofferente, senza interrogarsi su chi è questo prossimo da aiutare. È per questo che una tradizione posteriore ha visto nel ritratto del buon Samaritano un’immagine di Cristo stesso. E, infatti, interessante notare che sulle mura di un edificio crociato diroccato, chiamato liberamente “il khan (caravanserraglio) del buon Samaritano” posto proprio sulla strada che scende da Gerusalemme a Gerico, un anonimo pellegrino medievale ha inciso in latino questo graffito: «Se persino sacerdoti o leviti passano oltre la tua angoscia, sappi che Cristo è il buon Samaritano che avrà sempre compassione di te e nell’ora della tua morte ti porterà alla locanda eterna». Questa pagina evangelica di forte tensione drammatica ma anche di grande fragranza spirituale e lettera-~ ria illustra in modo esemplare il messaggio cristiano dell’amore che pervade tante parole di Gesù, a partire dall’appello del Discorso della Montagna: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Matteo 5,43-44). Per giungere fino al testamento dell’ultima sera di Gesù: «Vi do un comandamento nuovo: Amatevi gli uni gli altri; come io vi ho amati, così anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo tutti vi riconosceranno come miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Giovanni 13,34-35). Anche nell’apocrifo Vangelo di Tommaso Gesù ripete: «Ama il tuo fratello come l’anima tua. Proteggilo come la pupilla dei tuoi occhi». 

Publié dans:biblica, CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 19 février, 2014 |Pas de commentaires »

PAROLA DI DIO E SCRITTURA SANTA – ENZO BIANCHI

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/bianchi_ascoltare_laparola2.htm

ENZO BIANCHI – PRIORE DI BOSE – ASCOLTARE LA PAROLA

Bibbia e Spirito: la « lectio divina » nella chiesa

PAROLA DI DIO E SCRITTURA SANTA

Se i primi due capitoli di questa riflessione fornivano alcuni elementi di risposta al perché dell’esegesi spirituale, quelli che seguono si interrogano sul come, sul chi e sul dove della stessa, ovvero sul modo, sul soggetto e sul luogo della lettura spirituale della Scrittura. Per far questo occorre preliminarmente dire qualcosa riguardo allo statuto proprio della Scrittura e sul suo posto all’interno della chiesa.

La Scrittura contiene la parola di Dio
Che rapporto intercorre tra parola di Dio e Bibbia, tra Parola e Scrittura? È la stessa testimonianza biblica che mostra che non vi è coincidenza tra le due realtà e che la Parola eccede la Scrittura e non ne è esaurita.
La parola di Dio è un’energia, una realtà vivente, operante, efficace (cf. Is 55, 10-11; Eb 4,12-13), eterna (cf. Sal 119,89; Is 40,8; 1Pt 1,25), onnipotente (cf. Sap 18,15). Dio parla e la potenza della sua parola si manifesta negli ambiti della creazione e della storia. Dio parla e la sua parola « chiama all’essere ciò che non è » (Rm 4,17), è parola creatrice (cf. Gen 1,3 ss.; Sal 33,6.9; Sap 9,1; Eb 11,3) ed è parola instauratrice di storia: non a caso il termine davar (« parola ») è utilizzato dalla Bibbia anche nel significato di « storia » (cf. 1Re 11,41; 14,19.29; 15,7.23.31 e passim). La parola di Dio è dunque realtà ben più ampia della Scrittura. Il davar è essenzialmente realtà teologica, è rivelazione di Dio, « è l’intervento di Dio nell’evoluzione morale e fisica del mondo » (1), è il dirsi di Dio che sempre si accompagna all’invio del suo spirito, della sua ruach – nella Bibbia infatti « lo spirito e la parola sono due forme di rivelazione costantemente contemporanee » (2) – e diviene così un darsi, un instaurare una presenza dialogica che incontra l’uomo nella berit, nell’ alleanza.
Il Nuovo Testamento dirà che negli ultimi giorni « Dio ha parlato nel Figlio » (Eb 1,2): questi, l’Unigenito del Padre, è la Parola definitiva di Dio. Egli è il Logos che era in principio presso Dio, era Dio, ha presieduto alla creazione (cf. Gv 1,1 ss.) e si è fatto carne (cf. Gv 1,14) nascendo da donna (cf. Gal 4,4) per la potenza dello Spirito santo (cf. Lc 1,35). Nell’economia neotestamentaria la parola di Dio diventa il « tu » del Padre, il Figlio stesso che narra il Padre e che apre ai credenti la via alla comunione con il Dio che nessuno ha mai visto (cf. Gv 1,18). Appare allora chiaro che la Scrittura non è immediatamente parola di Dio e che pertanto non è esatto dire che la Bibbia è parola di Dio.
È estremamente significativo, a questo proposito, l’iter percorso da un passaggio della Dei Verbum (nr. 24) prima di giungere alla formulazione finale. Nel textus prior si diceva:
Le sacre Scritture non solo contengono la parola di Dio, ma sono veramente parola di Dio.
Nel textus emendatus questo passo conobbe un primo ritocco consistente nell’omissione del « non solo » (non tantum), così che suonava:
Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e sono veramente parola di Dio.
Giustamente però i padri conciliari non si limitarono a questa correzione e rielaborano ulteriormente il testo con l’inserzione di un’ espressione di capitale importanza che si trova sia nel textus denuo emendatus che nel textus adprobatus:
Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate (quia inspiratae), sono veramente parola di Dio (verbum Dei).
Questa affermazione va accostata a quella di Dei Verbum 9 (assente nel textus prior):
La sacra Scrittura è parola di Dio (locutio Dei) in quanto è messa per iscritto sotto l’ispirazione dello Spirito divino (3) .
La Scrittura è verbum Dei o locutio Dei in quanto ispirata divinamente: dall’evoluzione dei testi sembra emergere la preoccupazione dei padri conciliari di evitare l’affermazione che la Bibbia è direttamente e immediatamente parola di Dio. Quest’ultima infatti trascende la Scrittura, e poiché gli autori biblici sono e restano uomini, noi dobbiamo dire che « la parola di Dio è contenuta nelle Scritture » e che queste sono parola di Dio solo grazie allo Spirito santo. Riprendendo da Origene l’interpretazione allegorica dell’ episodio in cui Gesù, montato su un’ asina e un puledro, entra in Gerusalemme, possiamo dire che « le Scritture, Antico e Nuovo Testamento, trasportano il Logos di Dio » (4), la parola di Dio. Oppure, con Gaudenzio da Brescia:
« L’intero corpo della divina Scrittura, sia dell’ Antico che del Nuovo Testamento, contiene il Figlio di Dio » (5).
Nell’economia giudaica la Scrittura è un « portaparola », « l’interprete di una parola originaria essa stessa sottratta all’interpretazione », « il testimone del processo per cui il davar, questa parola infinita, si è contratta nelle lettere quadrate pur senza sincronizzarsi con i segni che la captano », senza esserne esaurita (6). La Torà scritta è ormai codificata, un insieme definito: per aprirla (patach) occorre scrutarla, sollecitarla (darash) con l’infinito lavoro di interpretazione. La Torà stessa esige di essere interpretata, come appare dalle parole che si trovano al suo cuore: il Talmud riferisce una tradizione secondo cui il computo delle parole della Torà mostra che il suo centro è costituito dal verbo raddoppiato darosh darash (« fece intense ricerche ») di Levitico 10,16. Da questa radice verbale proviene anche il termine midrash.
I primi sapienti erano chiamati soferim perché contavano (verbo safar) ogni lettera della Torà. Essi dicevano che … l’espressione darosh darash (Lv 10,16) segna la metà delle parole della Torà (7) .
Analogamente, nell’economia cristiana, la Scrittura è il testimone della parola di Dio, ma non coincide con essa. Il Figlio Gesù Cristo, parola eterna di Dio, non è contenuto solamente nella parola umana ed esaurito da essa, e anche i quattro evangeli, con parole umane differenti e da diverse prospettive, si avvicinano alla parola eterna, ma non la esauriscono. E poiché non vi è immediatezza di coincidenza tra Parola e Scrittura (8), ma la Parola è infinitamente più grande di tutto ciò che è nella Scrittura, essa può essere ascoltata, colta, solo grazie all’interpretazione dello Spirito, il quale deve spiegare ciò che è depositato nelle Scritture sul Figlio e sul Padre. Gesù non ha scritto nulla e il Nuovo Testamento è già interpretazione: esso è testimonianza del Cristo che ha interpretato la Torà compiendola, è rilettura delle Scritture (cioè dell’ Antico Testamento) alla luce della fede nel Cristo risorto e testimonianza della vita e del ministero, della morte e della resurrezione di Gesù alla luce delle Scritture (cioè dell’Antico Testamento).
Se dunque la Parola precede ed eccede la Scrittura, è anche vero che, per certi aspetti, la Scrittura precede la Parola, sicché tra Parola e Scrittura si instaura una pericoresi, una circolarità: « La Parola avvenuta diviene Scrittura proprio per tornare sempre di nuovo a essere Parola con l’aiuto della Scrittura e cosi realizzarsi come Parola interpretante la Scrittura » (9).
La comprensione cristiana ribadita in tutta la tradizione è che « Christus in littera continetur » (10): « La Scrittura è dunque tutta intera un grande ‘sacramento’ che contiene in una specie di involucro sensibile il mistero della salvezza che si incentra in Cristo (11). Sotto la guida dello Spirito devo inoltrar mi attraverso la ‘lettera’ fino alle profondità del mistero ove mi incontro con lui » (12). La comprensione tradizionale della Scrittura ha perciò sempre fatto ricorso all’analogia dell’incarnazione.

L’analogia dell’incarnazione
La lettura credente della Scrittura la confessa come corpo di Cristo: « Il suo corpo è la trasmissione ininterrotta delle Scritture » (13); il corpo scritturistico è tradizionalmente considerato, per analogia con il corpo fisico del Cristo, come forma di incorporazione (ensomatosis) del Logos.
Il Credo stesso pone uno stretto parallelismo tra l’incarnazione del Verbo nella vergine Maria (et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine) e il farsi carne della parola di Dio nella parola dei profeti (credo in Spiritum Sanctum … qui locutus est per prophetas): l’una e l’altra operazione sono presiedute dallo Spirito santo.
Come c’è una kenosi, una discesa della Parola nella carne (sarx), cosi c’è una kenosi, un abbassamento della Parola in parole umane, in parole scritte (graphé). Questa analogia dell’incarnazione, che ritorna continuamente nei padri, è ripresa dalla Dei Verbum:
Nella sacra Scrittura, restando sempre intatta la verità e la santità di Dio, si manifesta l’ammirabile condiscendenza dell’eterna Sapienza, affinché comprendiamo l’ineffabile benignità di Dio e quanto egli, sollecito e provvido nei riguardi della nostra natura, abbia contemperato il suo parlare. Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze della natura umana, si fece simile agli uomini (nr. 13).
La Dei Verbum riprende il tema biblico e poi patristico della condiscendenza (synkatdbasis) di Dio, l’atteggiamento cioè che designa il piegarsi, il discendere di Dio necessario perchél’uomo venga da lui raggiunto nella situazione in cui si trova. La condiscendenza è l’atto misericordioso con cui Dio pone la sua dimora tra gli uomini: questo atto è rivelato sia dal farsi Scrittura che dal farsi carne della parola di Dio. Ma la condiscendenza, che pure ha portato la Parola a rendersi presente in testi scritti sottomessi ai rischi della redazione e della trasmissione di un testo e che ha presieduto all’incarnazione del Verbo fino alla morte e alla morte di croce, non ha pregiudicato la verità e la santità di Dio.
Se il Figlio si è fatto carne ed è divenuto simile in tutto agli uomini « eccetto il peccato » (Eb 4,15), la parola di Dio è entrata nella parola umana, nella Scrittura, senza divenire per questo « menzogna » o « peccato », ma « fatta salva la verità e la santità ».
Ecco lo scandalo dell’incarnazione e della Scrittura! Come si deve riconoscere il Cristo in Gesù di Nazaret (cf. Mc 8,29), il Figlio di Dio nel crocifisso (cf. Mc 15,39), il Santo in colui che è stato reso peccato (cf. 2Cor 5,21), il Giusto nell’annoverato tra i malfattori (cf. Lc 22,37), la Presenza di Dio nel luogo a-teo della crocifissione (14), cosi si è chiamati a discernere la parola di Dio nella Scrittura umana, l’unica Parola nella molteplicità dei libri, nella diversità delle forme espressive, nelle tensioni e nelle contraddizioni dei contenuti e delle prospettive teologiche, a riconoscere l’azione dello Spirito nella storicità costitutiva del testo scritturistico: tradizione orale, stesura scritta, rilettura e riscrittura, corruzioni, glosse e rimaneggiamenti nella trasmissione del testo… Chi accetta il mistero dell’incarnazione può anche accettare il mistero della parola di Dio nelle Scritture, e viceversa: ma questa è operazione pneumatica che avviene nella fede.
La parola di Dio va accettata nell’espressione incompleta e umana, così come la qualità divina del Figlio va accettata nella carne fragile e umana di Gesù. Questa analogia tra Scrittura e incarnazione è stata molto sondata dai padri della chiesa, soprattutto a partire da Origene (15), e in occidente è soprattutto Agostino che ha saputo mostrare come la pienezza della rivelazione di Dio sia avvenuta tramite una kenosi che si è evidenziata nell’umiltà della lettera e nell’umiltà della carne:
Ben ricorda la vostra carità come, pur essendo uno solo il discorso di Dio che si sviluppa in tutta la sacra Scrittura, e uno solo il Verbo che risuona sulla bocca di tanti santi, il quale essendo in principio Dio presso Dio, non conosce sillabazione perché è fuori del tempo (né dobbiamo meravigliarci se, a motivo della nostra debolezza, egli si abbassò ad articolare le nostre parole, quando si abbassò per assumere la debolezza stessa del nostro corpo) (16)…

In oriente, sulla scia della tradizione origeniana, Massimo il Confessore ribadisce questa comprensione:
Il Logos di Dio è detto carne non solo perché si è incarnato, ma perché il Dio Logos inteso semplicemente nel principio presso Dio Padre (cf. Gv 1,1) … quando viene agli uomini… dialogando a partire da cose a essi familiari, cioè presentandosi per mezzo di una varietà di racconti, enigmi, parabole e discorsi oscuri, diventa carne. Infatti, al primo contatto, il nostro intelletto non può accostarsi al Logos nudo, ma incarnato, cioè alla varietà delle sue espressioni: Logos nella sua natura, ma carne nel suo apparire. Cosicché i più credono di vedere la carne e non il Logos, anche se è in verità il Logos. Infatti il senso della Scrittura non è quello che sembra ai più. Perché il Logos diventa carne mediante ciascuno dei termini scritti (17).
Come l’incarnazione è finalizzata all’incontro e alla comunione, al dialogo e all’alleanza tra Dio e uomo, così anche la Scrittura: « Sempre il Verbo si è fatto carne nelle Scritture per porre la sua tenda tra di noi », scrive Origene (18), applicando alla Scrittura ciò che il Prologo del quarto evangelo dice dell’incarnazione (cf. Gv 1,14). Nelle Scritture è contenuto il Cristo come Verbum abbreviatum (19), come Parola unica di Dio che condensa e sintetizza in sé le molte parole attraverso cui Dio si è progressivamente rivelato, Parola già presente come Verbum incarnandum nell’ Antico Testamento.
La Scrittura è così costituita mediatrice dell’unico Verbo di Dio: analogamente all’eucaristia, essa « contiene il Signore come Verbo e come Spirito (20) e, come l’eucaristia, comunica il Signore a chi l’accosta nella fede e sotto la guida dello Spirito.

Parola ed eucaristia
Questo parallelismo tra Parola ed eucaristia è stato insistentemente ribadito dal concilio Vaticano II in molti testi: Sacro sanctum Concilium 48; 51; Dei Verbum 26; Ad Gentes 6; 15; Presbyterorum Ordinis 18; Perfectae caritatis 6; ma soprattutto in Sacrosanctum Concilium 56 e Dei Verbum 21.

Dice la costituzione liturgica:
La liturgia della Parola e la liturgia eucaristica sono congiunte tra di loro così strettamente da formare un solo atto di culto (SC 56).
Viene così affermato che la chiesa realizza la sua essenza nella liturgia in cui Scrittura e pane diventano, attraverso il metabolismo, parola e corpo del Signore. Vi è cioè un’unità intrinseca tra Parola e sacramento, realtà inclusive l’una nell’ altra che, nella loro pericoresi, epifanizzano nell’oggi la pienezza dell’evento di salvezza compiutosi nel Signore Gesù Cristo.

La Dei Verbum afferma:
La chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per (sicut et) il corpo stesso del Signore, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli (nr. 21).
Il testo finale, purtroppo, ha molto affievolito il parallelismo tra Scrittura e corpo del Signore sostituendo il « velut » del textus denuo emendatus con « sicut et » per venire incontro a quei padri che temevano la troppo stretta assimilazione (nimis assimilare) della mensa della Parola e di quella dell’eucaristia.
Lo slittamento da « velut » a « sicut et », rispetto alla precedente stesura, sottolinea così il diverso modo in cui la chiesa venera Scrittura e corpo del Signore. Questo e anche altri testi conciliari sopra ricordati risentono certo delle strozzature congiunturali che durante i dibattiti in aula portarono a soluzioni di compromesso, e tuttavia hanno aperto una strada che occorre proseguire per attuare lo spirito del concilio stesso. Del resto l’intima connessione tra Parola ed eucaristia è radicata nella stessa testimonianza scritturistica, è attestata dai padri della chiesa fin da Ignazio di Antiochia, è ribadita dagli autori cistercensi e vittorini nel medioevo, ed è confermata dall’uso, almeno a partire da Origene, di uno stesso linguaggio simbolico e teologico per parlare dell’incarnazione, delle Scritture e dell’eucaristia. Nel capitolo 6 dell’Evangelo di Giovanni il Cristo si proclama « pane di vita » (vv. 35.41.48.51) in un duplice senso: in quanto Logos, parola di Dio, rivelatore del Padre, e in quanto cibo e bevanda eucaristici (21). Se Ignazio di Antiochia afferma di rifugiarsi « nell’evangelo come nella carne di Gesù » (22), Girolamo scrive:
Poiché la carne del Signore è vero cibo e il suo sangue vera bevanda, secondo il senso anagogico, questo è l’unico bene nel mondo presente: cibarsi della sua carne e del suo sangue non solo nel mistero dell’altare, ma anche nella lettura delle Scritture. Vero cibo e vera bevanda, infatti, è quello che si riceve dalla parola di Dio, cioè la conoscenza delle Scritture (23) .
Nella tradizione si arriva così a parlare di Gesù che spezza il pane e spezza le Scritture, di manducazione del pane e manducazione delle Scritture (del resto esistevano già gli esempi biblici di Ezechiele che mangia il rotolo scritto che Dio stesso gli porge: cf. Ez 2,8-3,3, e di Giovanni il veggente che divora il piccolo libro preso dalla mano dell’angelo: cf. Ap 10,8-11), della Parola che si fa carne in Maria e della Parola che si incarna nelle Scritture, del Verbo concepito per opera dello Spirito santo in Maria e del Verbo concepito nella lectio divina per Spirito santo in ogni credente.
I padri mostrano di avere chiara coscienza del fatto che la lettura della Scrittura è incontro con Dio e instaurazione della comunione con lui come avviene nel sacramento eucaristico. Girolamo scrive: « Preghi? Parli con lo Sposo. Leggi? È lui che ti parla » (24), e Ambrogio di Milano: « Parliamo con lui [Dio] quando preghiamo; lo ascoltiamo quando leggiamo gli scritti ispirati da Dio » (25).
Quando dunque la Scrittura è accostata nello Spirito santo, è letta nella sua unità in Cristo, è accolta con fede nel cuore del credente all’interno della comunità ecclesiale, allora essa dispiega la sua efficacia di nutrimento potente, di cibo dato da Dio, di « pane di vita ». A partire dalle affermazioni bibliche che parlano di fame e sete della parola di Dio, e dunque di questa come cibo e nutrimento spirituale (26), è scaturita una tradizione patristica che ha sviluppato questo tema mostrando il legame fra cibo della Parola e cibo eucaristico e giungendo a parlare delle due mense: la tavola della Parola e la tavola del pane e del vino eucaristici.
La parola di Dio è cibo vitale per il credente: « Chi non si nutre della parola di Dio, non vive » (27). Questa parola è efficace, non è neutrale, anzi porta con sé un giudizio: « La parola di Dio è la nostra manna; e la parola divina, venendo a noi, porta agli uni la salvezza, agli altri il castigo » (28).
La Scrittura ha dunque una valenza sacramentale in quanto può operare il contatto con il Cristo che tramite essa parla:
Chi comprende perfettamente il significato di uno scritto apostolico senza deformarlo riceve, con l’apostolo, il Cristo che parla e che vive con l’apostolo, e possiede pure l’insegnamento del Cristo (29).

Scriverà Ruperto di Deutz:
La totalità della Scrittura è l’unica parola di Dio … Quando dunque leggiamo la santa Scrittura, tocchiamo la parola di Dio e abbiamo dinanzi agli occhi il Figlio di Dio come in uno specchio e in enigma (1Cor 13,12) (30).
L’autore del De unitate Ecclesiae conservanda afferma in modo lapidario: « Per corpo di Cristo si intende anche la Scrittura di Dio » (31).
Scrittura ed eucaristia sono dunque entrambe corpo sacramentale del Cristo: le parole dell’istituzione eucaristica si riferiscono adeguatamente anche alla parola della Scrittura. Scrive Origene:
Non quel pane visibile che teneva tra le mani, il Dio Verbo chiamava suo corpo, bensì il Verbo nel cui mistero quel pane doveva essere spezzato. E non quella bevanda visibile chiamava suo sangue, ma il Verbo nel cui mistero quella bevanda doveva essere versata (32).

E Girolamo, sulla scia di Origene:
Io considero l’evangelo come il corpo di Gesù… E quando dice « chi mangia la mia carne » … benché questo possa intendersi anche del sacramento, tuttavia corpo e sangue di Cristo, in senso più vero, è la parola delle Scritture (33) .
Questo non significa negare la realtà di quel corpo eucaristico che Origene chiama « tipico e simbolico » (34), ma attestare che il corpo ricevuto nell’eucaristia è simbolico in rapporto al Logos stesso di cui la Scrittura è, in senso più proprio e profondo, corpo e sangue (35).
La Scrittura, carne e sangue della parola di Dio, è cibo e bevanda destinata a saziare tutta l’umanità (36); accostarsi alle Scritture significa pertanto mangiare e bere il Cristo presente nelle Scritture:
Bevi tutt’e due i calici, dell’Antico e del Nuovo Testamento, perché in entrambi bevi Cristo (quia in utroque Christum bibis) … La Scrittura divina si beve, la Scrittura divina si divora … non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola di Dio (Lc 4,4) (37).
La liturgia eucaristica è il memoriale dell’evento in cui Gesù ha raccolto la Scrittura tutta nelle sue mani, proprio come il pane eucaristico e l’ha offerta ai credenti affinché diventasse loro cibo e sostentamento. Val la pena di ricordare l’audace testo di Ruperto di Deutz contenuto nel suo commento a Giovanni:
[Gesù] prese il libro … e lo aprì, cioè ricevette dalla potenza di Dio tutta la santa Scrittura per adempierla in se stesso … Il Signore Gesù dunque prese il pane delle Scritture nelle sue mani quando, incarnato secondo le Scritture, subì la passione e resuscitò; allora egli prese il pane nelle sue mani e rese grazie quando, adempiendo le Scritture, offrì se stesso al Padre in sacrificio di grazia e di verità (38).
La tradizione liturgica delle chiese d’oriente e d’occidente ha sempre venerato la Scrittura come la persona vivente del Signore riconoscendone la presenza in essa come nel pane e nel vino eucaristici (39). Tra Scrittura ed eucaristia vi è dunque un rapporto intrinseco, una pericoresi. Di entrambe l’unico fondamento è l’autodonazione di Dio che emette il Verbo: in entrambe Dio si dona e questa donazione avviene in virtù dello Spirito santo. L’epiclesi è dunque essenziale a ogni celebrazione della Parola – che in virtù della sacramentalità della Scrittura ha non solo una propria legittimità, ma anche una dignità ed efficacia autonome – come lo è per la celebrazione eucaristica. Occorre allora riconoscere che vi è uno statuto ecclesiale della Scrittura che possiamo enunciare così: la Scrittura è un sacramento.

La Scrittura è un sacramento
« Nei libri sacri il Padre che è nei cieli viene con sovrabbondanza di amore incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con loro; nella parola di Dio poi è insita tanta potenza ed efficacia … da essere sorgente perenne della vita spirituale » (DV 21); nella liturgia « il Cristo è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la sacra Scrittura » (SC 7): tramite le Scritture dunque « Dio parla al suo popolo, Cristo annunzia ancora l’evangelo » (SC 33). Il concilio ha aperto la strada per giungere a riconoscere alla Parola la capacità efficace dell’ alleanza, la sua qualità di dono offerto a tutto il popolo santo e di luogo della presenza divina.
Permane ancora, purtroppo, nella ricezione postconciliare la separazione tra sacramento e Parola, la concezione che il sacramento dona la grazia mentre la parola biblica dona la dottrina, che il sacramento è efficace mentre la parola può solo preparare il sacramento e insegnare. Ma se la parola di Dio non è vissuta nell’ economia sacramentale fino a essere accolta come sacramento, come trasmissione di potenza e di grazia – e non solo come comunicazione di verità, di precetto e di dottrina -, resterà sempre parola su Dio e sarà soltanto un preludio alla celebrazione del sacramento (40). Si deve sottolineare che unica è la presenza del Cristo nella parola di Dio come nell’eucaristia. Il Cristo ha donato la vita predicando la Parola e spiegando la Scrittura, e ha spiegato la Scrittura e svelato la Parola consegnando il suo corpo e il suo sangue. L’eucaristia è dunque al contempo gesto e annuncio (cf. 1Cor 11,26), e la parola efficace, che si realizza, è a sua volta annuncio e gesto. « L’economia della rivelazione avviene con eventi e parole interamente connessi tra loro, in modo che le azioni compiute da Dio nella storia della salvezza manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le azioni e chiariscono il mistero in esse contenuto » (DV 2). La rivelazione non è soltanto locutio Dei, perché dicere Dei est facere e facere Dei est dicere!
Dunque, questa economia della rivelazione in cui Dio « nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici (cf. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con loro (cf. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé » (DV 2), e che ha in Cristo il suo sacramento primordiale (Origene) perché egli è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini (cf. 1Tm 2,5), trova un suo sacramento nella chiesa, « che svela e insieme realizza il mistero dell’amore di Dio per l’uomo » (GS 45), nell’eucaristia, che è epifania dell’amore fino alla fine con cui il Cristo ha amato l’umanità, e nella Scrittura, che comunica la parola di Dio e in cui « il Padre viene con sovrabbondanza d’amore incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con loro » (DV 21). Secondo modalità differenti Scrittura, eucaristia e chiesa sono « corpo » del Cristo che si illuminano e interpretano reciprocamente e ci dicono che la lettura del testo scritturistico deve sempre avvenire in un organico legame con la comunità ecclesiale e deve sempre avere come proprio télos l’eucaristia.
La Scrittura dunque, con la sua qualità teandrica, è un sacramento: signum dotato di un elemento sensibile che contiene e manifesta il mistero di Cristo, luogo di un vero incontro personale tra noi che ascoltiamo e il Dio che parla e parlando ci rivela il suo mistero personale facendosi conoscere nel volto del Cristo e cosi offre a noi una potenzialità nuova di amore e di comunione con lui. La lettura della Scrittura realizza cosi quella dinamica di ascolto-conoscenza-amore che è esigenza centrale di tutta la Scrittura, come appare dallo Shema’: « Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Amerai il Signore tuo Dio… » (Dt 6,4-5; Mc 12,29). Come Cristo nella sua incarnazione è stato il sacramentum Dei, cosi la Scrittura è nell’economia rivelativa il sacramentum Dei che prolunga l’azione, l’evento di Cristo nella chiesa insieme a tutti gli altri sacramenti. Gregorio Magno pone la Scrittura e Cristo in rapporto intrinseco e afferma la presenza reale dell’ opera salvifica del Redentore nelle Scritture: in esse « è contenuta l’incarnazione, la passione, la morte, la resurrezione e l’ascensione del Signore » (41). « Gregorio descrive la natura del rapporto Scrittura-Cristo in termini sacramentali: la Scrittura, infatti, oltre a essere una significazione anticipata del mistero di Cristo, ne sarebbe anche un’iniziale attuazione » (42).
La Scrittura è un sacramento. Possiamo anche dire che la Scrittura è un libro, come l’eucaristia è pane e vino, ma dobbiamo subito aggiungere che essa è un sacramento e dunque un luogo di effusione della grazia, un mezzo di comunione con Dio, una rivelazione della sua presenza. Il « libro » che è la Scrittura in verità è un segno della comunicazione che avviene tra Dio e noi e, come ogni sacramento, va accolto nella fede, altrimenti non produce grazia né genera comunione. Solo quando è accostata nella fede la Scrittura può liberare « l’evangelo che è potenza di Dio per la salvezza di chiunque ha fede… La giustizia di Dio infatti si rivela in esso di fede in fede, come sta scritto: il giusto vivrà mediante la fede » (Rm 1,16-17).
La Scrittura ha dunque una struttura sacramentale in quanto riveste un aspetto esteriore e uno interno, cosi che il credente deve passare dal primo al secondo grazie all’azione rivelante di Dio attuata dallo Spirito santo. Qui si innesta la necessità della lettura spirituale della Scrittura come – secondo le espressioni patristiche – passaggio dalla lettera allo spirito, rinvenimento del midollo dietro la corteccia, del frutto dietro il fogliame… non però nel senso di rinvenire un « altro » significato in base a inaccettabili allegorizzazioni, ma la profondità relativa e comunionale del testo stesso. Questa profondità si identifica con il Cristo che è l’unità e il compimento di tutte le Scritture e che vuole stabilire un’ alleanza con il credente-lettore. Occorre dunque chinare il capo sulle Scritture come il discepolo amato sul petto di Gesù, sul suo cuore: infatti « per cuore di Cristo si intende la sacra Scrittura che rivela il cuore di Cristo » (43). Il lettore deve poi tener presente il fatto che la Scrittura è costitutivamente storica, teologica e liturgica al tempo stesso: testimonianza di eventi storici interpretati teologicamente alla luce della fede e rivissuti e rigenerati all’interno della celebrazione liturgica.
La struttura sacramentale della Scrittura è inscindibile dalla struttura sacramentale dell’ eucaristia, come ricordava il vescovo melkita, monsignor Neophytos Edelby, arcivescovo titolare di Edessa e consigliere patriarcale, in un intervento in aula il 5 ottobre 1964 durante la terza sessione del concilio mentre si discuteva la seconda parte dello schema sulla divina rivelazione. Dopo aver affermato che « il primo principio teologico di ogni interpretazione della sacra Scrittura » è che « non si può separare !’invio dello Spirito santo dall’invio del Verbo incarnato » e dopo aver ricordato che « il fine dell’esegesi cristiana è l’intelligenza della Scrittura alla luce di Cristo risorto », con estrema forza monsignor Edelby ha proseguito: « La Scrittura è realtà liturgica e profetica, è annuncio (kérygma) prima di essere libro, è la testimonianza dello Spirito santo sulla venuta di Cristo, di cui il momento privilegiato è la liturgia eucaristica ». Se « la controversia post-tridentina ha soprattutto visto nella Scrittura una norma scritta », essa invece va considerata come « la consacrazione della storia della salvezza sotto le specie della parola umana che non può essere separata dalla consacrazione eucaristica in cui tutta la storia è ricapitolata nel corpo di Cristo ». A questo punto si inserisce anche il rapporto con la tradizione: « Questa consacrazione necessita di una epiclesi, e questa è appunto la sana tradizione. La tradizione è l’epiclesi della storia di salvezza, la teofania dello Spirito santo, senza la quale la storia è incomprensibile e la Scrittura resta lettera morta » .
La Scrittura deve perciò essere interpretata « nella totalità della storia di salvezza » (44). Certamente, è soprattutto nella liturgia, e sommamente nella celebrazione eucaristica, che la proclamazione della Scrittura può dispiegare la sua efficacia di emergenza della presenza del Signore e di comunione con lui, ma è pur vero che anche nella lectio divina personale (e tanto più se comunitaria) può autenticamente avvenire un’ esperienza reale di comunione con il Cristo. Quando attraverso la Scrittura noi ascoltiamo e accogliamo la parola di Dio nella fede, non soltanto la sentiamo rivolta in modo personalissimo a noi, ma di essa facciamo l’esperienza reale vedendo, ascoltando, toccando il Verbo di vita (cf. IGV l,I). La Scrittura infatti si rivolge sempre contemporaneamente a tutti e a ciascuno: quando la parola della Scrittura si rivolge al « voi » dell’intera comunità radunata, lo fa coinvolgendo il « tu » di ciascun membro; e quando si rivolge al singolo, lo fa avendo di mira la sua collocazione ecclesiale, il suo essere destinatario della Parola in quanto organicamente inserito nella struttura comunitaria.

Publié dans:BIBBIA, biblica, Enzo Bianchi, spiritualità  |on 17 février, 2014 |Pas de commentaires »

DOMANDE SULLA CLAUSURA: OSSIA L’INCONTRO CON GESÙ IN UN LUOGO APPARTATO (TITOLO MIO)

http://carmeloquart.wordpress.com/la-clausura-2/fondamenti-biblici/

FONDAMENTI BIBLICI -

DOMANDE SULLA CLAUSURA: OSSIA L’INCONTRO CON GESÙ IN UN LUOGO APPARTATO (TITOLO MIO)

«IO STESSO – PAROLA DEL SIGNORE – LE FARÒ DA MURO DI FUOCO ALL’INTORNO E SARÒ UNA GLORIA IN MEZZO AD ESSA» (ZC 2,9)

La gente spesso dice:

“La clausura se la sono inventata gli uomini! Non esiste nella Bibbia! E Gesù non ha mai detto “Beato chi si rinchiude per amor mio!… Cosa c’entrano con la vita evangelica le grate che separano i nostri parlatori, il coro monastico dalla chiesa, ecc. ecc.? Non sarà una scelta che mette al riparo dalla sofferenza, dalle difficoltà di una vita nel mondo? Una fuga dettata dalla paura di affrontare la vita?” Per rispondere a questi interrogativi, più che legittimi, cominciamo a gettare uno sguardo alla Sacra Scrittura. È proprio vero che la clausura, la necessità di uno spazio sacro riservato all’incontro con Dio e di creature scelte da Dio per questo, è estranea all’Antico e al Nuovo Testamento?

Proponiamo alcuni spunti La Montagna dell’Incontro Dio chiama. Mai si stanca di chiamare l’uomo alla comunione con Lui. La storia della salvezza è intessuta di questo dialogo d’amore tra il Creatore e la sua creatura. Dio chiama Mosè per liberare gli israeliti dalla schiavitù d’Egitto e poi lo guida fino al Monte Sinai. Dio sceglie un monte, come segno, come luogo privilegiato dell’incontro con Lui. Che disposizioni dà il Signore a Mosé? Di delimitare la base del monte e di impedire al popolo persino di toccarne la base. Perché questa separazione? Perché il Dio si Israele è il Dio Santo, e la sua santità lo separa da tutto ciò che è profano. Così il Signore stesso sceglie un mezzo: la montagna strettamente delimitata. Oggi come allora, Dio sceglie un mezzo, la clausura, spazio sacro dove avviene l’incontro con Lui. Mosè, scelto senza suo merito, immerso nella contemplazione di Dio, si dimentica forse del suo popolo rimasto alle pendici del monte? No!! Anzi ne diviene il grande difensore di fronte al Signore: «Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato… E se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,32).  Mosè insomma, anche se fisicamente separato dalla sua gente, grazie all’intimità con Dio che lo ha reso simile a Lui, pieno di mitezza e di misericordia, non vive per se stesso, ma per Dio e per gli altri. La sua contemplazione fiorisce in una continua intercessione per il suo popolo.

Il giardino nel deserto «La attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2,16) Dio introduce il suo popolo nel deserto, quasi una “clausura naturale” dove, lontano dagli altri popoli e dagli idoli che avrebbero potuto distoglierlo dal Signore, imparerà a conoscere il Suo amore, a non fidarsi che di Lui, a nutrirsi della Sua volontà… insomma il Signore si è scelto una sposa e la prepara all’unione con sé proprio nel deserto! «Ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2,22). «Volete ottenere questa richiesta, vedere il volto di Dio? Non fatene nessun’altra. Fissatevi unicamente su quest’ultima perché essa sola vi basterà… Colui che ama Dio dice: tutto ciò che non è Lui non ha per me nessuna dolcezza. Se il mio Signore mi vuol fare un dono, che Egli mi tolga tutto e che si doni Egli stesso a me»

S. Agostino Dio vuole che la sua creatura faccia esperienza in prima persona del suo amore e per questo la attira a sé in un luogo dove sia possibile realizzare una vera e intima vita “a due” un “continuo cuore a Cuore” tra Lui e la sua creatura.  «Ti ho amato di amore eterno» (Ger 31,3)

Gesù chiama a venire in disparte «La vita solitaria fu praticata familiarmente dallo stesso Signore mentre era insieme con i discepoli, quando si trasfigurò sul Monte santo, suscitandone in loro un tale desiderio che Pietro immediatamente disse: Quanto sarei felice di dimoravi per sempre!»

Guglielmo di Saint Thierry Gesù ha voluto darci l’esempio, per trent’anni, di una vita ritirata, semplice e umile, fatta di preghiera, di lavoro. Le Sue prime parole che il Vangelo ci riporta, al ritrovamento al Tempio ci rivelano la sua vita di intima comunione col Padre: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» La vita di Gesù è abitata da un grande amore: quello di Dio Padre. Anche durante il periodo pubblico, che inizia dopo 40 giorni di ritiro nel deserto, Gesù spesso si ritira per passare notti intere in preghiera di fronte al Padre. Ai suoi discepoli insegna a «venire in disparte», a cercare per prima cosa la comunione con Dio,ad essere piccoli come i bambini… «Quando preghi, entra nella tua camera e chiusa la porta prega il Padre tuo nel segreto» (Mt 6,7) Sotto la guida dello Spirito molti uomini e donne si sono sentititi chiamati ad imitare Gesù in preghiera sul monte, Gesù che vive del suo rapporto col Padre, che si nutre della Sua volontà. «Associare la vita contemplativa alla preghiera di Gesù in luogo solitario denota un modo singolare di partecipare al rapporto di Cristo con il Padre. Lo Spirito, che ha condotto Gesù nel deserto, invita la monaca e condividere la solitudine di Gesù Cristo, che, con “Spirito eterno” offrì se stesso al Padre. La cella solitaria, il chiostro chiuso, sono il luogo nel quale la monaca, sposa del Verbo Incarnato, vive tutta raccolta con Cristo in Dio. […] Ella fissa lo sguardo sul Suo volto e si lascia conformare alla Sua vita, fino alla suprema oblazione al Padre come espressa lode di gloria.»  (Verbi Sponsa) Gesù è lo Sposo della monaca e la clausura il Suo abbraccio, l’anello nuziale, pegno d’amore e di fedeltà

Publié dans:biblica, meditazioni bibliche |on 17 décembre, 2013 |Pas de commentaires »

LETTERE PER MEDITARE: ALEF  » א

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/alfabeto_ebraico1.htm

LETTERE PER MEDITARE

ALEF «   א

SALMO 119

(ALEF) 1 Beati quelli che sono integri nelle loro vie, che camminano secondo la legge del SIGNORE. 2 Beati quelli che osservano i suoi insegnamenti, che lo cercano con tutto il cuore 3 e non commettono il male, ma camminano nelle sue vie. 4 Tu hai dato i tuoi precetti perché siano osservati con cura.  5 Sia ferma la mia condotta nell’osservanza dei tuoi statuti! 6 Non dovrò vergognarmi quando considererò tutti i tuoi comandamenti. 7 Ti celebrerò con cuore retto, imparando i tuoi giusti decreti. 8 Osserverò i tuoi statuti, non abbandonarmi mai.

Alef – Lettera muta o vocale

Pronuncia: A,E,I,O,U – a seconda della vocale*

Esempio: ECHAD (uno) oppure ACH (fratello).

Il valore numerico (Ghematria) della Alef è 1

La lettera alef rappresenta Dio, Uno, Unico ed Eterno. La forma grafica della lettera alef simbolizza la natura infinita ed eterna di Dio. Essa consiste di tre parti: il segmento superiore destro è una Yod, quello inferiore sinistro è, ancora, una Yod, e queste due lettere sono connesse da una Vav diagonale. Ogni Yod vale 10, e la Vav vale 6. La somma è 26, che è esattamente il valore della somma delle lettere del Nome Divino formato da quattro lettere (Tetragramma Yod=10, He=5 Vav=6, He=5). Questo è il nome che rappresenta Dio come Eterno, perché con queste quattro lettere si possono formare le parole HAYA’ (era) HOVE’ (presente) e IHIE’ (sarà). ALEF sta anche per ADAM (Uomo), la più nobile tra le creazioni di Dio. Le tre lettere che formano la parola ADAM alludono all’unicità dell’essere umano: ALEF per ADAM (uomo), DALET per DIBUR (la capacità di parlare), MEM per MAASE’ (la capacità di fare ). Tutte le grandi cose si fanno con un primo piccolo passo. Mattone su mattone si costruisce una casa, soldo per soldo si mette su una fortuna. La ALEF (uno), cresce e diventa ELEF (mille), semplicemente cambiando una vocale. Ma come puo’ un medio essere umano raggiungere la saggezza della Tora’, che e’ profonda come il mare? Come fa un principiante a partire dal riconoscere una alef per diventare un ALUF (maestro) di Tora’? La risposta è data nella Tora’ stessa: « Perche’ questi precetti che io ti comando oggi non sono una cosa straordinaria oltre le tue forze nè sono cosa lontana da te; non è nel cielo.. e neppure al di là del mare..questa cosa è molto vicina a te: è nella tua bocca, è nel tuo cuore perchè tu possa eseguirla. » (Deuteronomio 30:11) Per spiegare questo un Midrash descrive un ignorante che entra in Sinagoga. Vedendo la gente che studiava la Torà, egli chiese: « Come posso io studiare tutto questo? » Chi ascoltava gli rispose: « Comincia con l’alfabeto, continua con le Scritture, e quindi vai avanti con la Mishnà e la Ghemarà ». Dopo aver sentito ciò, egli pensò e concluse: « Come farò a studiare così tanto? » e se ne andò.

Publié dans:BIBBIA, BIBBIA. A.T. SALMI, biblica, ebraismo |on 27 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

IL VOLTO DI GESU’ NEL CONFLITTO DELLE INTERPRETAZIONI

http://www.jesus1.it/Pages/it_gesu_riflessioni.aspx?arg=110&rec=1333

IL VOLTO DI GESU’ NEL CONFLITTO DELLE INTERPRETAZIONI

Monza, 2 ottobre 2007

Mons. Franco Giulio Brambilla, Vescovo, Vicario per la cultura della Diocesi di Milano

Alla ricerca del volto di Gesù. Il volto è ad un tempo l’identità di una persona e il varco aperto sul suo segreto. Nel volto la persona ti guarda e chiede di essere riconosciuta. Il volto è il luogo dove la persona comunica quando vuole aprirsi e rendersi accessibile, il volto è il cristallo trasparente dove brilla l’inte­riorità della vita o diventa uno schermo quando la persona vuole nascondersi e sottrarsi ad uno sguardo invadente e indagatore. “Ricerca” e “volto”, allora vedete, vanno insieme: un volto va cercato, un volto non può essere posseduto, o meglio può essere posseduto solo nella forma dell’affidamento. È consegnandomi ai suoi segni, alle sue indicazioni, alla sua mimica, che entro nel mistero dell’altro. E’ solo perché lo lascio essere, che l’altro mi viene incontro, e l’altro ha bisogno che il suo volto sia ri-conosciuto (sempre da capo) da uno che lo lascia essere, che entra in un legame di fiducia, che apre lo spazio di una relazione di fede e di fedeltà. Attenzione: non è questa una realtà che ha scoperto l’antropologia. E’ una realtà che è iscritta nella nostra carne: il bimbo si scopre nello specchio del volto della madre, mentre la prima volta che si riflette nello specchio di casa si spaventa, teme di vedersi per così dire raddoppiato. Il proprio volto, la propria identità scaturisce dallo sguardo di un altro, della madre che ti offre lo sguardo così come ti dona la sua vita. Non ci è mai concesso di vedere – neppure da grandi – il nostro volto, lo vediamo solo riflesso nello specchio, possiamo vederlo soltanto lasciandoci guardare, possiamo identificarlo solo lasciandoci riconoscere. E lasciandoci chiamare… Il volto è insieme allora il luogo del legame all’altro e della propria identità. Già solo da questo breve accenno si vede che “volto” – “ricerca” – “fede” vanno insieme. Ma, diciamolo subito sin dall’inizio, il volto sfocia in un appello, lo sguardo invita a un legame, la fede richiede fedeltà. Per questo il tema della “ricerca del volto di Gesù” implica subito anche che si sia disposti a mettere in gioco i nostri legami (con gli altri, con se stessi e con il proprio destino) e a mettere in moto la nostra identità. Dentro una storia e un racconto.
Partiamo da un dato sconcertante e sorprendente. Nella storia della coscienza di fede della Chiesa è facile notare un contrasto paradossale: da una parte, i quattro vangeli e tutta la testimonianza del NT non hanno indugiato sulla nostra naturale curiosità di conoscere i tratti del volto di Gesù, dall’altro, la storia della fede è costellata nell’iconografia e nell’arte musiva, nella pittura e nella scultura, ma anche nella liturgia e nella teologia, nelle immagini della letteratura, filosofia e filmografia da una galleria impressionante di volti e figure del Cristo. Potremmo dire che alla prudenza, starei per dire alla reticenza, del NT nel disegnare i tratti somatici e fisionomici di Cristo corrisponde l’affanno e, a tratti, la concitazione con cui la vicenda storica ha riflesso come in un’infinita galleria di specchi la luce abbagliante e inaccessibile dell’Unico che è l’“Immagine” del Dio invisibile. Sarebbe bello fare una visita ideale alla storia delle immagini e delle figure di Gesù, forse la visita più affascinante che possiamo pensare per conoscere la storia degli uomini e dei loro desideri, ma anche la nostalgia di Dio, o di qualcosa che si avvicini a Lui. Questo paradosso però contiene già le traiettorie della nostra ricerca.

Lo sguardo di Gesù
 Il paradosso ricordato non comporta che il NT sia silente sul volto di Gesù. C’è un aspetto del volto che il racconto evangelico predilige ed è il suo sguardo, lo sguardo di Gesù. Potremmo dire che se il NT non ci dice nulla sul colore dei suoi occhi, sulla forma dei suoi capelli, sulla configurazione del volto, sull’inflessione della voce, sulla mimica del suo viso, come avrebbe fatto ogni buon biografo e narratore appena all’altezza del suo compito, è stato invece sorprendentemente fulminante nel descrivere lo sguardo di Gesù. Lo sguardo è forse la parte più interiore del volto di Gesù, ma si potrebbe dire è anche l’aspetto più estroverso della sua persona, il più mobile, il tratto che muta continuamente, che indica ad un tempo il segreto degli affetti, dei pensieri e dei desideri e l’invito suadente, l’approccio tenerissimo o la presa di distanza tagliente nei confronti dell’interlocutore. Lo sguardo s’accompagna alla voce, e anche la voce di Gesù, si coniuga con la tonalità variegatissima della parole pronunciate da Gesù. Gli evangeli non hanno un’attenzione per così dire psicologica alla differenza di tonalità e di parola, ma ognun s’avvede che non può dire tutte le parole di Gesù con lo stesso tono: alcune sono solenni, altre persuasive, alcune sono durissime, altre suadenti; qualche volta egli usa il linguaggio tagliente dei profeti e dei riformatori, qualche altra volta la lingua trasognata dei poeti e dei mistici. La voce di Gesù fa corpo con la sua parola, è proprio il caso di dirlo: è la sua parola che si fa carne nella voce dalle infinite sfumature. Come per il suo sguardo. Lasciamoci guardare dallo sguardo di Gesù. La nostra ricerca del Volto parte da questo sguardo, si colloca dentro l’irradiazione della sua luce. Così mi piace iniziare il nostro cammino. Così desidero anche per voi. E per far questo vi offro brevemente tre immagini: lo sguardo di Gesù che chiama e perdona, lo sguardo di Gesù sulla realtà, lo sguardo di Gesù sul Padre.
Lo sguardo di Gesù che chiama e perdona è quello che più s’è impresso nel­l’esistenza delle persone. Come non ricordare lo sguardo fisso che ama il giovane ricco: «Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”». (Mc 10,21). Credo che la vicenda spirituale di molti credenti, da Antonio in avanti, non avrebbero seguito l’invito pressante di Gesù se non fosse accompagnato, in ogni stagione della vita e in ogni epoca della storia, da quello sguardo penetrante e struggente. Eppure nessuno fa mai notare il paradosso di questo testo: lo sguardo di Gesù che è andato incontro all’insuc­cesso è stato il paradigma di un’ininterrotta storie di chiamate, che hanno voluto quasi sostituirsi nel luogo di quello sguardo senza risposta. Molti credenti hanno seguitato a leggere il brano sentendo che l’invito era rivolto a loro. Pochi versetti dopo leggiamo: «Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: “Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!”». Per sentire concludere l’evangelista: «Ma Gesù, guardandoli, disse: “Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio”» (Mc 10,23.27). La chiamata può essere ascoltata solo dentro uno sguardo, o meglio nasce da un lasciarsi guardare e amare. E come non sentire lo sguardo di Gesù che perdona, quando incontra Pietro nel cortile del sommo sacerdote: «Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”» (Lc 22,61). Il Signore va diritto per la sua strada verso la croce, ma prima si volta verso Pietro, perché si ricordi che nessuno, anche quando la paura o il compromesso ci fa nascondere prima a noi stessi che a Lui, resta escluso dallo sguardo di Gesù. Solo così si può avere il coraggio di passare a vita nuova.
Lo sguardo di Gesù sulla realtà e sul mondo è ancora più sconvolgente. Dopo anni in cui liquidavo il testo di Matteo sui gigli del campo e sugli uccelli del cielo (Mt 6,25-34 // Lc 12,22-30) come un brano di troppo facile poesia, a un certo punto mi ha colpito la profondità di questo brano evangelico. Mi è brillato davanti agli occhi lo sguardo di Gesù, che m’invitava ad uno sguardo nuovo sul mondo: «Guardate gli uccelli del cielo… Osservate come crescono i gigli del campo… » (vv. 26.28). Gesù guarda la realtà e spinge ad osservarla con i suoi stessi occhi. Gesù riprende lo sguardo di Dio di Genesi («E Dio vide che ogni cosa era buona») e ci incalza a guardare/osservare. Ora il suo invito è rivolto agli ascoltatori (discepoli/folla): essi possono “vedere” la creazione mediante il “suo” sguardo. Lo sguardo di Gesù rivela il mondo non come gettato-là, ma come donato. L’incanto di queste parole affascinanti di Gesù chiede di accendere uno sguardo nuovo e insieme antico sul mondo, ricuperando la meraviglia originaria (il thaumázein degli antichi). Lo sguardo di Gesù ci fa procedere oltre: «eppure il Padre vostro celeste li nutre!» (v. 26), «Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro!» (v. 29). Il mondo rivela una cura amorevole e lo splendore di una gloria che fa porre la domanda sulle sue origini. E’ solo ripartendo dallo stupore e dall’esclamazione, dal debito impensato da cui sorge il nostro essere-nel-mondo, che è possibile far sorgere l’inter­rogativo: perché c’è qualcosa? Anzi Gesù precisa questa domanda: essa non riguarda la questione del “perché c’è qualcosa piuttosto che il nulla” (Leibniz-Heidegger). Questa è una formula che ha inaridito lo stupore iniziale, anche se resta la domanda delle domande! Gesù ci dice che bisogna portare alla parola lo splendore che “veste” il mondo e la cura amorevole del Padre vostro che lo “nutre”. Non è un caso che i due verbi siano quelli della “nutrizione” e del “vestire”, in cui bisogna riconoscere “di più” del cibo e del vestito materiale, ma la cura e lo splendore del “Padre” nostro («eppure il Padre vostro!), che “Gesù” ci comunica in modo definitivo(eppure io vi dico!»). L’appello di Gesù al Padre nostro che nutre gli uccelli del cielo, e ancor di più il “ma io vi dico” di Gesù che “Dio veste così i gigli e l’erba del campo” con uno splendore e una sapienza maggiore a quella di Salomone accendono anche uno sguardo nuovo sul mondo come “creazione”. Se lo “sguardo” di Gesù ci fa risalire allo splendore della cura del Padre per il mondo, ancora di più alla fine del brano matteano la parola di Gesù rappresenta il verticedella “visione” di Gesù: «Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,32-33). La maniera con cui i pagani si occupano del mondo così, sottoponendolo ad essere la riserva di uno sfruttamento indiscriminato che assoggetta l’uomo al suo lavoro, è contrapposta da Gesù alla cura preveniente di Dio: «il Padre vostro celeste sa che ne avete bisogno…». Tuttavia questo atteggiamento non rende l’uomo passivo, quasi un fannullone in attesa di un intervento provvidenzialista. Il fatto che Dio “sa che ne avete bisogno…” libera il cuore e la mano dell’uomo per la “ricerca del Regno e della sua giustizia”, nella cui luce il mondo (“tutte queste cose”) ci viene dato in aggiunta, vale a dire donato in sovrabbondanza. Gesù porta alla Parola – è Gesù che rivela il senso radicale del suo “sguardo” – il criterio con cui il mondo perviene al dono che fin dall’inizio porta con sé come promessa. Occorre “cercare il Regno e la sua giustizia”, cioè bisogna affidarsi al senso del mondo che è quello di condurci a scoprirne il Donatore, e ad abitare la relazione con Lui. Anche lo sguardo di Gesù sulla realtà ci dice l’impor­tanza della nostra ricerca del volto di Gesù. Vedremo che il brano parallelo di Luca (Lc 12,22-32) sarà al centro del nostro cammino.
Infine, lo sguardo di Gesù sul Padre. Non abbiamo comprensibilmente molti squarci su questo aspetto, ma tutti sono decisivi. Mi piace immaginare Gesù che alzando gli occhi al cielo (Matteo ha un incipit generico; Luca: «In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo») proclami il suo inno di giubilo: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,25-27). La piena rivelazione del mistero del Figlio e del Padre è cresciuta lungamente dentro lo sguardo della preghiera, che gli evangelisti ricordano moltissime volte. Giovanni lo afferma esplicitamente con la sua espressione caratteristica:«Gesù, alzati gli occhi al cielo, disse: “Padre, è giunta l’ora, glorifica il tuo Figlio» (Gv 17,1, ma anche 11,41). Lo sguardo sul mistero del Padre è la sorgente segreta a cui si alimenta lo sguardo di Gesù che chiama e perdona, lo sguardo di Gesù sulle cose, sui gesti e sul cuore degli uomini (cf l’episodio dell’obolo della vedova: Lc 21,1-4: …vide alcuni ricchi, …vide anche una vedova povera).

L’unico volto e le molte immagini
Lo sguardo di Gesù è dunque il primo luogo di accesso al suo volto. Eppure dicevano del paradosso tra la mancanza di un volto certo di Gesù e del proliferare dei molti volti lungo la storia della fede e della cultura. Bisogna che sostiamo un po’ su questo paradosso. Le immagini con cui si è rappresentato il Cristo sono praticamente incalcolabili: la sua effigie ha preso il volto dell’umano ideale di ogni tempo. La proiezione su Gesù di esperienze, idee e persino di filosofie, tipiche di un epoca, colpisce in modo sorprendente. Basti ricordare, da un lato, il Cristo glorioso degli orientali, rivestito con gli abiti dell’imperatore; e, dall’altro, il Cristo scarnificato e trucidato delle acqueforti di Rouault, con il volto sfigurato. Si pensi all’intensità del Cristo di Giotto, alla trasparenza di quello del Beato Angelico, alla vivacità di quello di Masaccio, all’impassibile bellezza dei cristi di Raffaello (niente meno dell’im­magine di un signore del Rinascimento), all’umano morente nella serena Pietà romana di Michelangelo o al sublime non finito della Pietà Rondinini. O, infine, alla potenza espressiva del Cristo giudice, ancora con le piaghe del Crocifisso, della cappella Sistina. E poi si scorra la letteratura: Dante, Petrarca su su fino a Dostoievskj, Pasternack, per giungere ai nostri Caproni, Pomilio, Luzi, ecc. Mille immagini, mille figure, in cui si esprime insieme la proiezione del desiderio umano e la ricerca del volto autentico di Cristo. Le stesse teologie sottendono immagini diverse di Cristo. E’ una esperienza affascinante anche solo una scorsa ai ritratti più importanti di questa galleria storica. Ireneo, Origene, Agostino, Leone, Tommaso, Francesco. E poi ancora Cusano, Erasmo, Lutero, Pascal, Barth, Bonhoeffer, Guardini, Rahner, von Balthasar. Bisognerebbe anche ricordare il contrasto tra il fascino che Cristo ha prodotto negli ultimi secoli e il risultato ottenuto, spesso così arbitrario e sognante. Tutti i nomi più noti del pensiero fanno passerella: Spinoza, Rousseau, Lessing, Kant, Hegel, Schleiermacher, Feuerbach, Marx, Kierkegaard, Proudhon, Strauss, Renan, Nietzsche. E poi nel Novecento gli accostamenti tormentati e i silenzi espressivi di Heidegger, Bergson, Blondel, Sartre, Jaspers, Weil, Marcel, Bloch e la lunga teoria dei marxisti incontro a Cristo.[1]
            Questo ci può sconcertare: l’assenza del volto di Cristo ha portato la storia quasi a farlo scomporre in una miriade di figure. Appare chiaramente che la figura di Cristo si dà nel prisma delle attese umane. È evidente come esperienza, tradizione, arte e pensiero rappresentino come un enorme gioco di proiezione sul Cristo dei desideri, delle attese e dei progetti di ogni uomo, gruppo o epoca storica. La proiezione non è subito un fatto sconveniente, perché non si può esprimere l’oggetto della esperienza e conoscenza che a partire dal proprio mondo di immagini, valori e idee. L’esperienza cristiana, con tutto il suo complesso di devozione, arte, pensiero, ha mantenuto vivo il ricordo promettente di e su Gesù. Il nostro stesso linguaggio e l’immaginario attuale sarebbero impensabili senza col­locarli nel grande fiume di questa tradizione. Si scopre qui un aspetto inevitabile del nostro rapporto con Cristo: ogni generazione si appropria in forme sempre nuove del ricordo di Cristo, come qualcosa di vitale, di irrinunciabile, di decisivo per la propria vicenda e per la storia degli uomini. E perciò lo esprime in immagini!

Il volto autentico e il vangelo quadriforme
 Il gioco incrociato delle proiezioni sembra porci una domanda pressante: «qual è l’immagine autentica di Gesù?». Occorre dire con chiarezza che è un’illusione pensare di poter saltare tutta la tradizione per andare a distillare, come in provetta, il Gesù autentico. La questione dell’immagine autentica di Gesù è una questione delicata: qui voglio solo evitare l’ingenuità di chi pensa che prendendo in mano il vangelo si possa sfilare quasi in filigrana una sorta di quintessenza del Cristo “autentico”, con la stessa facilità con cui la bimbe sfilano le loro bambole dal vestito. Tutta la ricerca sul Gesù storico, giustamente necessaria per dire che questi quattro libretti ci parlano di una storia e non di un idea o di un simbolo, ci mostra anche la sua radicale insufficienza.[2] La verità di Gesù (il suo volto!) non ci è accessibile – come vedremo anche nel Vangelo di Luca – che attraverso il prisma della risposta credente, di quei credenti della prima ora, Marco, Luca, Matteo, Giovanni, e poi di quelli che sono seguiti, tra cui svetta Paolo. Il documento incontestabile di questo fatto è che Gesù di Nazaret ci è dato in un vangelo quadriforme. Quello che viene ritenuto uno svantaggio, per le differenze e talvolta le incoerenze che vi sono tra i testi, mi sembra che sia anzitutto un “caso singolare” della letteratura mondiale: dell’unica storia, della stessa vicenda si danno ben quattro attestazioni, convergenti sui tratti essenziali. Ormai oltre duecento anni di critica storica hanno certificato la solidità di questa conclusione, non – come si dice – nonostante le differenze dei testi, ma proprio attraverso di esse.
            Tutto ciò però ci lascia ancora con la nostra domanda sul volto “autentico” di Gesù. Trovo, allora, quasi un segno nel fatto che nessun vangelo ce ne descriva l’aspetto esteriore, perché nessuno, né oggi né domani, possa afferrarlo come sua proprietà. Allora, preferisco farmi accompagnare dagli amici di Gesù. Dietro questa decisione, c’è una scelta teorica che spiego brevemente. Essi non hanno avuto paura di raccontare ciascuno “secondo” il suo racconto (di Marco, di Luca, di Matteo e di Giovanni) l’unico volto del Signore. Dopo la prima stesura (che di solito si fa risalire a Marco), gli altri avrebbero potuto solo proporre delle aggiunte, dei materiali nuovi, dei racconti inediti. Nulla di tutto ciò. E anche in presenza di una racconto già concluso (Matteo e Luca conoscevano almeno una stesura del vangelo di Marco), essi hanno incominciato da capo un racconto completo, con la coscienza che ciascuno (cf Lc 1,3: «così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teofilo») dovesse narrare di nuovo l’unico volto di Gesù. Perché tutto questo? Qual è la sapienza teologale che vi si nasconde? La risposta più semplice è gia stata anticipata sopra. L’identità di un volto si dà dentro molti legami. L’identità di Gesù avviene nella risposta credente dei suoi discepoli. Come Gesù non ha lasciato nulla di scritto se non i labili segni sulla sabbia davanti alla donna peccatrice, perché ciò che egli ha detto è stato scritto dalla penna di coloro che lo hanno conosciuto e lo hanno seguito, così non ha lasciato tracce del suo volto, né di quello esteriore, né di quello interiore (anche quello della Sindone ne è un…negativo), se non attraverso l’atte­stazione quadruplice degli evangelisti. Se, come abbiamo detto, c’è una stretta connessione tra “volto”, “ricerca” e “fede”, questo non è solo la “realtà” che cerchiamo, ma anche il “modo ” con cui la raggiungiamo. O, meglio, con cui anche oggi possiamo affidarci a Lui. Trovo sorprendente – forse la forma di credibilità più alta – che questo “cammino” (questo “metodo”) sia anche il principio generatore del vangelo: la ricerca di Gesù non è solo un tema del Vangelo, ma ne è anche il suo motore segreto. Come il vangelo è nato, così è stato scritto e così va anche letto, perché ogni lettore futuro possa viverlo come la ricerca del volto di Gesù!

[1]              X. Tilliette, Filosofi davanti a Cristo [1989], Queriniana, Brescia 21991, pp. 544.
[2]              Anche l’ultimo decennio registra imponenti ricerche in questa direzione: G. Theissen – A. Merz, Der historischen Jesu, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1996; tr. it., Il Gesù storico. Un manuale, Queriniana, Brescia 1999; J.P. Meier, Un Ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico (= BTC 117.120. 125), Queriniana, Brescia, 2001.20002.2003; G. Barbaglio, Gesù l’ebreo, Dehoniane, Bologna 2002.

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«IL SIGNORE PROTEGGE LO STRANIERO» (SAL 146,9).

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«IL SIGNORE PROTEGGE LO STRANIERO» (SAL 146,9). RIFLESSIONI DI TEOLOGIA BIBLICA

GABRIELE F. BENTOGLIO

1. Bibbia e migrazioni
La rivelazione biblica dedica numerosi riferimenti alle relazioni interpersonali, e non solo a quelle che spiegano l’interazione tra i membri del popolo dell’alleanza, ma anche a quelle che coinvolgono gruppi di diversa estrazione etnica. Il fatto non stupisce, dal momento che la Bibbia, benché si presenti oggi nella veste di un’opera letteraria, non proviene dall’astrazione né da pura immaginazione, ma soprattutto dalla sperimentazione, prima, e poi da una caratteristica comprensione e interpretazione della realtà, specialmente di eventi, persone e fatti, alla luce della personale rivelazione divina. Anche il forestiero, perciò, è costantemente presente, spesso in chiave positiva, sebbene non manchino occorrenze adombrate da sospetto e diffidenza, soprattutto nella letteratura veterotestamentaria più recente (cf. Sir 11,29.34; 29,22-28).
2. Lo straniero nell’Antico Testamento
Nell’Antico Testamento, il forestiero trova posto in particolare nei testi legislativi e negli oracoli profetici. Qui, si focalizzano diversi modi per qualificare lo straniero: c’è l’estraneo che viene da fuori e, dunque, non appartiene al popolo eletto, ma intrattiene con esso rapporti di stretta continuità: è l’immigrato che fissa la sua dimora tra la gente di Israele, definito dal vocabolo ger. Poi c’è il forestiero di passaggio, che non intende stabilirsi nel nuovo territorio sul quale si trova a transitare: in questo caso, il termine che lo indica è nekar (nokrî nella forma aggettivale), al quale la Bibbia riserva meno attenzione che all’immigrato residente, proprio per il diverso statuto, che non esige una precisa regolamentazione di rapporti occasionali.
a) Prospettiva spirituale
Il libro del Levitico, dal canto suo, assimila al ger il tôšab, quasi a renderli sinonimi: «Voi siete presso di me come forestieri (gerîm) e inquilini (tôšabîm)» (Lv 25,23.35.47), in corrispondenza alla raccomandazione di non alienare in perpetuo la terra, perché Dio assicura che «la terra è mia» (Lv 25,23). Il ricordo di essere stati stranieri in Egitto ha segnato duramente la storia degli israeliti, al punto che gli scrittori biblici richiamano alla memoria più volte quel fatto del passato, sia per tracciare i lineamenti dell’identità nuova, acquisita con l’esperienza dell’itineranza dell’esodo, sia per orientare il positivo comportamento verso il forestiero. In effetti, il riferimento allo straniero rimanda in primo luogo all’esistenza terrena, con le sue caratteristiche di provvisorietà e di transitorietà, oltre a includere la dimensione geografica della lontananza dalla patria. Del resto, questa è la prospettiva di valore tipica della rivelazione biblica, ben riassunta nella preghiera che Davide rivolge a Dio: «Noi siamo stranieri davanti a te e pellegrini come tutti i nostri padri» (1Cr 29,15). A questo passo corrispondono, nella traduzione greca (LXX), i moduli linguistici paroikoi kai… paroikountes, che contengono l’idea di paroikia come «condizione di vita nell’estraneità», designando plasticamente la situazione che si trova ad affrontare il migrante lontano da casa sua, dalla sua patria, dal suo ambiente d’origine. Vi confluiscono i temi dello sradicamento, del disagio e dello smarrimento, così come la speranza di un avvenire più prospero e il sogno di migliori prospettive. L’argomento ritorna, ad esempio, nella fiduciosa invocazione del salmista, che confessa davanti al Signore la precarietà tipica del migrante, con queste parole:
Ascolta la mia preghiera, Signore… non essere sordo alle mie lacrime, poiché io sono un forestiero, uno straniero (paroikos kai parepidemos) come tutti i miei padri (Sal 39,13; cf. anche Sal 119,9).
b) Dimensione storica
Accanto a questo orientamento spirituale, tuttavia, non si deve trascurare il desiderio, motivato dalla contingenza storica, di regolamentare il comportamento verso il forestiero, come nel caso di Es 23,9: «Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d’Egitto». Il popolo biblico, mentre confessa che Dio lo ha liberato dall’oppressione e lo ha guidato verso una terra nuova, avverte fortemente lo stimolo a creare una società diversa, nella quale possano rispecchiarsi le qualità di yhwh, che si è dimostrato amante del povero e del bisognoso, difensore dell’orfano, della vedova e dell’immigrato (Dt 14,28-29; 24,17; 26,12-13; 27,19, ecc.). Così, nella terra, che appartiene a Dio e che Dio regala al popolo, l’atto di benedizione al momento dell’offerta delle primizie del suolo, che è allo stesso tempo anche atto di fede e proclamazione della memoria storica, si conclude con la condivisione della festa, alla quale partecipano anche i meno fortunati, come gli immigrati (Dt 26,1-11). Ancora, al tempo della mietitura e della bacchiatura, la spigolatura è riservata al povero e al forestiero (Lv 23,22; Dt 24,20), il quale deve essere trattato «come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Lv 19,34). Infine, nella distribuzione delle decime si fa preciso riferimento al forestiero, insieme al levita, all’orfano e alla vedova (Dt 26,12). Insomma, appare chiaro che, nel dimostrare una benevola attenzione verso l’immigrato, gli israeliti assomigliano di più a quel Dio giusto e buono, che «ha pietà del debole e del povero, e salva la vita dei suoi miseri» (Sal 72,13), amante di tutte le sue creature, anche di quelle che necessitano maggiore tutela, per cui «protegge lo straniero» (Sal 146,9), «ama il forestiero e gli dà pane e vestito» (Dt 10,18).
c) Lo spirito umanitario della legge
In quest’ottica umanitaria, è considerato un atto di giustizia il permettere agli immigrati di partecipare alla vita della comunità, in mezzo alla quale essi hanno preso dimora, e l’essere giudicati dalla stessa legge che si applica agli israeliti (Nm 15,15). Come per i membri del popolo eletto, anche ai gerîm e ai nokrîm viene riconosciuto il diritto di asilo in caso di omicidio involontario, presso determinate città di rifugio (Nm 35,15). Il riposo festivo nel giorno di sabato spetta di diritto anche agli immigrati (Dt 5,14-15), così come compete loro il dovere di osservare i riti di espiazione (Lv 16,29) e di astenersi dal commettere immoralità (Lv 18,26). Sebbene non siano obbligati a osservare la Pasqua, essi possono tuttavia parteciparvi, ma soltanto dopo che gli uomini della famiglia siano stati circoncisi (Es 12,48-49). Per il resto, non vi può essere discriminazione di fronte a un’azione compiuta con intenzione malvagia: «La persona che agisce con deliberazione, nativo del paese o straniero insulta il Signore: essa sarà eliminata dal suo popolo» (Nm 15,30); viene perciò sancito, oltre al principio di reciprocità, anche quello dell’uguaglianza di fronte alla legge: «Vi sarà una sola legge per il nativo e per il forestiero, che è domiciliato in mezzo a voi» (Es 12,49). Dunque, dalle prescrizioni bibliche pare che gli immigrati possano godere di un certo grado di libertà e di parità con i nativi di Israele, ma solamente nel quadro di una progressiva assimilazione al sistema di vita degli ospitanti. Di fatto, soltanto in forza della circoncisione un ger maschio viene equiparato a un israelita e i suoi figli possono essere integrati nella comunità di Israele. Una norma, questa, che ostacolerà anche la comunità cristiana delle origini, la quale, però, saprà oltrepassarla e aprire le porte a tutti coloro che non rifiutano di accogliere la pluralità delle diversità, nella tensione escatologica verso l’unità in Cristo, «erede di tutte le cose» (Eb 1,2), nella misura della pienezza che caratterizza «l’uomo perfetto» (Ef 4,13), con la consapevolezza che «coloro che seguono la via» (At 9,2) «vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è terra straniera» (Lettera a Diogneto V, 5). È proprio questo orientamento cristologico-escatologico, nel novum del dinamismo ecclesiale, che costituisce il fondamento dell’esigenza cristiana di non lasciare nulla di intentato per diventare accoglienti e ospitali nei confronti del diverso, dello straniero, dell’immigrato.
3. Il dovere sacro dell’ospitalità e la novità dell’accoglienza
In effetti, l’Israele antico troverà sempre difficile il percorso della tolleranza, dell’apertura, dell’accoglienza, nonostante gli stimoli, i suggerimenti, le ingiunzioni e i rimproveri. Soprattutto la letteratura sapienziale offre dinamiche di apertura allo straniero, ma conservando l’esigenza di fargli accettare i propri schemi religiosi e rivelando, in questo modo, un tipico conflitto tra universalismo ideale e particolarismo di fatto. La conquista dell’importante tappa della filantropia, anche teologicamente motivata, in pratica, costituisce un traguardo, che non apre nuovi orizzonti all’Israele biblico. Questi condivide con il mondo del vicino Oriente antico l’apprezzamento per il valore sacro dell’ospitalità, il quale forma, così, un argomento di notevole spessore. Esso, tuttavia, non incorpora tutta la magnanima bontà dell’accoglienza, come realtà fondata cristologicamente ed ecclesiologicamente, che va intesa non già come comportamento pratico-concreto, ma anzitutto come atteggiamento di apertura positiva verso Dio, verso il prossimo e verso l’annuncio del kerygma, come ben attestano soprattutto i Vangeli e l’epistolario paolino. In realtà, il definitivo giro di boa, con la predicazione di Gesù e la vita della Chiesa, è garantito da un importante cambiamento di prospettiva, dove appunto avviene il passaggio dall’ospitalità come impegno-dovere pratico di primo soccorso verso l’altro, anche straniero-immigrato, alla diakonia dell’accoglienza, che precede, motiva e ingloba le dinamiche operative della carità.
4. Accoglienza e ospitalità nel Nuovo Testamento
Sotto questo profilo, Gesù raccomanda l’ospitalità, ma punta soprattutto sull’accoglienza: del resto, egli non ha la possibilità di offrire un rifugio o un ricovero materiale, visto che non ha neppure dove poggiare il capo (Mt 8,20). Però, per primo egli dimostra verso tutti un atteggiamento di amorevole sollecitudine: verso la gente che accorre, da diverse parti della regione, per sentire la sua parola (cf. Mt 4,25), nei confronti dei malati che chiedono di essere guariti, benché forestieri (cf. Mt 15,21-28), con i bambini che le mamme gli conducono perché li benedica (Mt 19,13-15; Mc 10,13-16; Lc 18,15-17). Nell’esperienza storica di Gesù, gli evangelisti notano che anch’egli sperimenta l’intimità dell’amicizia, come nella casa di Betania, dove «una donna, che si chiamava Marta, lo accolse in casa sua» (Lc 10,38), ma condivide anche la gioia dei lontani, che si lasciano convertire dalla sua accogliente presenza, come nel caso di Zaccheo a Gerico (Lc 19,6), o di Matteo a Cafarnao (Mc 2,14-15).
a) Il prossimo
L’accoglienza, il farsi prossimo, è caratteristica fondamentale di Gesù, riassunta nella parabola del Samaritano, che manifesta la misericordiosa bontà dell’uomo nell’incontro con il suo prossimo, sebbene questi appartenga ad altra etnia, professi un diverso credo religioso o si identifichi in differenti tradizioni socio-culturali (Lc 10,25-37). In effetti, l’occasione di questo racconto parabolico è fornita da una questione posta a Gesù da un nomikos, cioè un esperto della Tôrah, preoccupato non tanto che si ribadisca il comandamento mosaico dell’amore, quanto che si determini l’ambito in cui si deve applicare la legge, dal momento che nella concezione giudaica il prossimo si configura all’interno del contesto dell’alleanza, dove appunto si colloca la legge. Gesù, invece, con una contro-domanda, rinvia il suo interlocutore alla vita, sollecitandolo a confrontarsi con i fatti, con la realtà, con la durezza del quotidiano, dove si incontrano donne e uomini nel bisogno. Ecco perché agli esponenti dell’ortodossia – il «dottore della legge» – Gesù contrappone un rappresentante degli esclusi – l’eretico Samaritano –: d’ora in poi solo l’amore compassionevole sarà la chiave per definire il prossimo, al di là delle distinzioni e delle separazioni di carattere religioso, culturale o etnico. La tensione presente nel testo lucano tra il prossimo come oggetto e il prossimo come soggetto di amore si scioglie proprio nel riferimento al dinamismo vitale di quella compassionevole bontà, che Luca applica con insistenza a Gesù, ad esempio davanti alle lacrime della vedova di Nain (Lc 7,13) e nell’incontro tra il figlio perduto e la sconfinata speranza del padre (Lc 15,20), così come nello sconvolgimento interiore che il Samaritano avverte alla vista del malcapitato sulla strada da Gerusalemme a Gerico (Lc 10,33). Dunque, chi vuole ereditare la vita, attuando l’unico amore che abbraccia Dio e il prossimo, deve collocarsi in questa nuova angolazione, che rende le persone vicine e solidali.
b) La reciprocità
In seguito, attorno alla presenza eucaristica del Maestro, viva e reale, si formano le comunità cristiane, che tuttavia non sono esenti da conflitti e tensioni.
Un esempio interessante, per approfondire la riflessione sull’interazione tra gruppi di diversa estrazione etnico-religiosa, si legge nella lettera ai Romani. Le esortazioni di Rm 14,1-2 e 15,7, in particolare, s’inquadrano al centro delle considerazioni di Paolo sull’importanza dell’accoglienza reciproca, appunto imitando l’atteggiamento accogliente di Cristo:
Accogliete tra voi chi è debole nella fede, senza mettervi a discutere le sue convinzioni;
Accoglietevi gli uni gli altri, come Cristo ha accolto voi, per la gloria di Dio.
Il pensiero paolino prende il via dai dissensi sorti a motivo di diverse tradizioni alimentari e cultuali, ma subito decolla a delineare una realtà di comunione ben più profonda, suggerita anche dal ricorso al verbo greco proslambanein, in sostituzione della tipica designazione dell’offerta ospitale descritta da xenizein. Nelle relazioni interpersonali, dunque, Paolo raccomanda una sintonia decisamente più vasta e impegnativa, quella stessa che suggerirà ai credenti di realizzare nell’occasione dell’arrivo di Epafrodito (Fil 2,29), di Febe (Rm 16,1-2), di Tito (2Cor 8,22-24); quella che esigerà da Filemone nei confronti del nuovo fratello Onesimo (Fm 17); quella che ricorderà di aver sperimentato di persona al suo primo contatto con i pagani della Galazia (Gal 4,12-15).
c) L’agape
Paolo, del resto, è convinto che non vi può essere vera agape che non comprenda in se stessa anche l’accoglienza; come pure non si può trovare accoglienza, nel senso cristiano, che non proceda da vera carità. Altrimenti si avrebbe semplice filantropia o cordiale umanitarismo. Ora, tra i significati originari del verbo agapan vi è appunto quello di accogliere. Per questo, nel suo celebre elogio dell’agape, Paolo dice esplicitamente che «la carità è benigna» (1Cor 13,4) ossia, secondo la forza del termine greco qui impiegato (chresteuetai), è bontà, delicatezza e sensibilità (cf. Mt 11,30; Lc 5,39), tutte virtù di chi ha un animo comprensivo e un cuore aperto e ricettivo verso l’altro. È in questa linea che, nella lettera ai Romani, volendo mettere in luce l’agape, Paolo ricorda che Cristo, che è la fonte e il modello della carità, ha dimostrato il suo amore «accogliendo» i credenti, benché fossero peccatori, nella comunione trinitaria (Rm 14,3; 15,7). Ecco perché, nella stessa lettera, si dilunga scrivendo:
La carità sia senza ipocrisie. Nell’amore fraterno siate affettuosi gli uni verso gli altri; nell’onore prevenitevi scambievolmente; nella sollecitudine non siate pigri. Siate ferventi nello spirito; servite il Signore; siate allegri nella speranza, pazienti nell’afflizione, perseveranti nella preghiera; pronti a condividere le necessità dei santi, premurosi verso i forestieri (Rm 12,9-13).
La vera agape, pertanto, si manifesta nel nutrire vicendevolmente gli stessi sentimenti, nel praticare le stesse virtù, nel prendere a cuore la sorte gli uni degli altri e nell’andare incontro alle necessità del prossimo.
Così intesa, essa non può esaurirsi nei confini della comunità. È vero che la fraternità impegna anzitutto quelli che sono «dentro» di fronte ad altri che sono «fuori» (1Cor 5,11-13), ma nella logica del lievito a beneficio di tutta la pasta (Mt 13,33; Lc 13,21; 1Cor 5,6; Gal 5,9), del sale che insaporisce i cibi (Mt 5,13; Mc 9,50) e della fiaccola che illumina l’intera casa (Mt 5,15-16; Lc 11,33-36). All’interno della comunità si pratica la correzione fraterna (Mt 18,15) in vista della reciproca sollecitudine (1Cor 8,12; 2Cor 9,1; Gal 6,10), facendo attenzione all’intromissione di «falsi fratelli» (2Cor 11,26; Gal 2,4-5). Tuttavia, anche se forse in seconda battuta, l’agape deve comunque indirizzarsi pure all’esterno, abbracciando tutti in vista di formare, nella varietà dei carismi, il medesimo corpo di Cristo (Rm 12,4-5; 1Cor 12,12-27). Un motivo, questo, che dà contenuto all’idea originaria di paroikia, che oggi abbiamo perduto. Nell’etimologia del vocabolo, infatti, par-oikos/oikia punta a configurare coloro che vivono lontano dall’oikos per essere vicini alla patria autentica, quella celeste, verso la quale tutta l’umanità è in cammino, evidenziando il riferimento alla consapevolezza di condurre l’esistenza nella dinamica del pellegrinaggio. Ecco allora che l’itinerario comune e la partecipazione alla medesima condizione di itineranza motivano la sollecitudine dell’agape, dove la comunità ecclesiale è chiamata a essere «l’anima del mondo» (Lettera a Diogneto VI, 1).
5. Il fondamento cristologico dell’autentica accoglienza
Queste ragioni, di ordine cristologico ed ecclesiologico, stanno alla base della preoccupazione di Paolo per i poveri delle comunità più bisognose, ma anche della sua insistenza nel raccomandare una particolare attenzione verso tutti i forestieri, gli ospiti e i pellegrini. In definitiva, il «missionario dei pagani» si dimostra in sostanziale accordo con la lezione matteana del giudizio finale, dove si attesta che chi accoglie l’altro come un fratello entra in contatto con Gesù stesso. Infatti, Gesù si identifica nel volto bisognoso del prossimo: «Chi accoglie uno di questi piccoli nel mio nome, accoglie me» (Mt 18,5) e «ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40.45). Poi si precisa nei dettagli: «Poiché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). Nell’ultimo riferimento, l’evangelista ricorre al verbo synagein per spiegare che non s’intende il mero esercizio di un’opera di misericordia. Si suggerisce, in verità, un’accoglienza fatta di partecipazione, condivisione, integrazione e interazione: l’altro, soprattutto nel caso dello straniero, non ha bisogno soltanto di essere accudito, ma necessita altresì di essere riconosciuto e tutelato nella sua dignità di persona umana. Il verbo synagein, infatti, designa tipicamente l’adunanza dell’assemblea (da cui deriva, tra l’altro, la synagoge), dove la comunione si fortifica mediante la convocazione, il raduno e la compartecipazione. La comunità cristiana, dunque, sarà veramente tale se saprà rendere partecipe anche l’immigrato dei suoi beni e dei suoi valori, come la Parola e l’eucaristia, senza dimenticare, ovviamente, la pratica del soccorso caritativo. Qui, in ogni caso, si apre l’arduo itinerario dell’inculturazione del kerygma, dov’è importante evitare la tentazione dell’esaltazione o del primato delle singole culture, per orientare il cammino alla responsabilità reciproca di giungere alla vita in abbondanza e quindi a Gesù Cristo, che è pienezza di vita. Infatti, l’inculturazione ha il suo significato nella promozione della vita in Cristo, che è contrassegnata dall’accoglienza, dalla relazione e dalla comunione.
6. Filantropia e agape
In conclusione, l’esperienza di fede e la riflessione teologica della comunità cristiana, non meno che il confronto con la realtà del quotidiano, hanno stimolato la maturazione di una convinzione di fondo: il solo disbrigo della concretezza filantropica non è sufficiente. Certo, l’assistenza umanitaria è già un’importante conquista, che merita lode e incoraggiamento. Corrisponde, ad esempio, alla prontezza servizievole di Abramo alle querce di Mamre (Gn 18,1-8), all’attenta sensibilità di Lot verso gli stranieri giunti a Sodoma sul far della sera (Gn 19,1-3), all’insistente premura del suocero del levita di Efraim (Gdc 19,1-10), alla sollecitudine di Rahab a Gerico (Gs 2,1-21), alla filantropia di Giobbe (31,32) o alla generosità ospitale, attestata da numerosi passi biblici. Ma non è sufficiente. Per essere completa, l’agape deve farsi ascolto, interazione, dialogo e interscambio: insomma, l’altro, anche l’immigrato, non è più soltanto «oggetto» di attenzione, ma diventa protagonista di nuove relazioni interpersonali. Il migrante è al centro della dimensione pastorale della Chiesa, ma nel ruolo di attivo interlocutore, non solo come destinatario di un servizio[1].
In definitiva, si ribadisce l’importanza di favorire, promuovere e difendere la centralità e la dignità della persona, di ogni persona, tutta la persona, di tutte le persone senza eccezione alcuna, con la ferma convinzione che «la principale risorsa dell’uomo… è l’uomo stesso»[2] e che, nella complessità dei movimenti migratori, «il migrante è assetato di “gesti” che lo facciano sentire accolto, riconosciuto e valorizzato come persona» (EMCC 96).
Puntare sull’accoglienza, quindi, significa non fermarsi alle molteplici attività assistenziali e caritative, di appoggio e di conforto della persona umana, ma qualificare anzitutto, con la prospettiva escatologica dell’unità di tutto il genere umano, la forza della motivazione cristiana della missione, che precede la vasta articolazione del fare e si attesta nella vitale dinamicità dell’essere.
Nota bibliografica
G. Bentoglio, Apertura e disponibilità. L’accoglienza nell’epistolario paolino, PUG, Roma 1995.
Id., Il ministero di Paolo in catene (Fm 9), in «Rivista Biblica» 53 (2005) 173-189.
B. Byrne, The Hospitality of God. A Reading of Luke’s Gospel, St Paul’s Publ., Strathfield 2000.
I. Cardellini (ed.), Lo «straniero» nella Bibbia, EDB, Bologna 1996.
C. Di Sante, Lo straniero nella Bibbia. Saggio sull’ospitalità, Città Aperta, Troina 2002.
J. Schreiner – R. Kampling, Il prossimo, lo straniero, il nemico, EDB, Bologna 2001.

[1] Cf. Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, Istruzione Erga migrantes caritas Christi (03.05.2004) (EMCC), nn. 37-38. 91.
[2] Giovanni Paolo II, Enciclica Centesimus annus (01.05.1991), n. 32.

LA DONNA VALORIZZATA NELL’OPERA DI S. LUCA PER MERITO DI GESÙ IL SIGNORE SOTTO L’AZIONE DELLO SPIRITO SANTO

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 LA DONNA VALORIZZATA NELL’OPERA DI S. LUCA PER MERITO DI GESÙ IL SIGNORE SOTTO L’AZIONE DELLO SPIRITO SANTO

MARIA LUISA RIGATO

Introduzione

L’evento della Pentecoste cristiana è uno dei temi più commentati e dipinti della cristianità. Essendo considerato l’evento originario della chiesa (At 11,15: «in principio»), è comunque sempre pieno di suggestione e oggetto di rinnovata interpretazione. Anziché definire le comunità cristiane delle origini come post-pasquali, in riferimento alla risurrezione del Signore Gesù, sarebbe più preciso definirle post-pentecostali, includendovi anche l’azione dello Spirito Santo, ossia dell’Inviato-dell’Apostolo da parte del Risorto che afferma[1]: «Io invio la Promessa del Padre mio su di voi» (Lc 24,49). Si noti l’enfatico «Io», grammaticalmente superfluo.
All’inizio del terzo millennio dalla venuta del Signore Gesù è forse (?) giunto il tempo di chiudere la fase della rivendicazione femminile[2], tipica dell’ultimo quarto del ventesimo secolo e frutto saporoso del concilio Vaticano II, per leggere e comprendere titoli e/o appellativi ministeriali presenti negli scritti del Nuovo Testamento – riferiti per secoli solamente agli uomini – finalmente e semplicemente in maniera inclusiva, ossia riferiti a discepoli donne e uomini, anche se grammaticalmente al maschile. Possa davvero adempiersi l’augurio-manifesto verosimilmente già pre-paolino: «né donna separatamente da uomo né uomo separatamente da donna, nel Signore» (1Cor 11,11), in un contesto non matrimoniale, ma liturgico. La prevaricazione dell’uno sull’altra e viceversa non è evangelica.
Le pagine seguenti sono una rilettura di alcuni dettagli della narrazione pentecostale lucana, per ri-scoprire una volta di più l’aspetto inclusivo – in questo caso nell’opera lucana (Vangelo secondo Luca e Atti degli Apostoli) –, ossia la graduale comprensione tra i discepoli del «Signore Gesù»[3] circa la pari dignità tra uomini e donne, capaci queste di pari responsabilità nella chiesa, anche a livello dei carismi di profezia, di invio (= apostolato), di testimonianza, di evangelizzazione (attiva), in seguito al battesimo in Spirito Santo e fuoco (Lc 3,16 = Mt 3,11; senza «fuoco»: Mc 1,8; Gv 1,33; At 1,5).
Procedo pertanto dalla precomprensione, fondata sullo studio dei testi, che nella chiesa delle origini, e già in embrione nella sequela di Gesù, si possa o si debba parlare di inclusività;detto diversamente, i titoli al maschile riguardano uomini e donne. Pensiamo ad esempio al ben noto passo di Rm 16,1, dove Paolo in prima istanza raccomanda «Febe, la nostra sorella, che è anche diacono della chiesa in Cencre» (il porto orientale di Corinto). «Diacono» – come il nostro «ministro» – è dunque un titolo maschile adoperato da Paolo qui per una donna, ossia in maniera inclusiva.
Tra i discepoli del Signore Gesù si possono distinguere «i Dodici», poi la cerchia larga dei discepoli-fratelli, donne e uomini, poi – per effetto speciale della Pentecoste – un gruppo più ristretto di discepoli-apostoli, donne e uomini. Quanto a «i Dodici», – in cima alla piramide o alla base della medesima – anch’essi discepoli-apostoli[4], ma solo uomini, rappresentano nella chiesa i capostipiti, ovviamente maschi, delle dodici tribù d’Israele. Essi «nel regno» di Gesù «siederanno su troni giudicando le dodici tribù d’Israele» (Lc 22,30).
È vero, oggi si tratta spesso di cercare puntigliosamente, tra le righe, affermazioni, indicazioni, indizi, che alla fine si trovano come delle perle preziose nascoste a conferma e supporto di una interpretazione inclusiva! Ritengo comunque che qui si tratti di un nostro problema, non di un problema per i primi lettori degli scritti del Nuovo Testamento. Per essi l’inclusività era presumibilmente ovvia, per cui quando si leggeva nel testo «discepoli» questo appellativo includeva donne e uomini. Prima della riforma liturgica del Vaticano II la proclamazione del Vangelo durante la Messa iniziava spesso con la frase: «Il Signore disse ai suoi discepoli». Nella comprensione dei cristiani e nelle prediche questa espressione era l’esatto equivalente di: «Il Signore disse ai suoi apostoli, cioè ai Dodici»! È difficile superare tanti secoli di lettura ideologica al maschile!
Le analisi lessicali del testo greco ed ebraico sono giustificate dal presupposto che il vocabolario e la forma letteraria del testo sono già il contenuto del testo stesso.

Il racconto di Pentecoste
Ecco una traduzione la più letterale possibile di At 2,1-4:
1E nel compiersi il giorno della Pentecoste, erano tutti insieme nello stesso posto. 2Improvvisamente ci fu un suono come di soffio irruento violento e riempì l’intera casa dove erano seduti. 3E apparvero ad essi lingue divise come di fuoco e sedette/stette sopra ciascuno di essi 4e tutti furono ricolmi di Spirito Santo e cominciarono a parlare con altre lingue così come lo Spirito dava ad essi di esprimersi.
Chi sono i «tutti» presenti all’effusione dello Spirito Santo? La prima domanda che esige una risposta è proprio questa: chi sono i «tutti» di At 2,1.4, beneficiari dell’effusione dello Spirito Santo? Nei commentari si trovano tre diverse posizioni:
-     sono soltanto i Dodici apostoli;
-     sono gli Undici assieme al gruppo di donne e dei fratelli di Gesù elencati in At 1,13, ma non i centoventi di At 1,15;
-     sono la totalità dei presenti dichiarata per ultima, e cioè i centoventi di At 1,15, inclusi i nominati in At 1,13:«Pietro, Giovanni, Giacomo, Andrea, Filippo, Tommaso, Bartolomeo, Matteo, Giacomo di Alfeo, Simone lo zelota, Giuda di Giacomo, insieme a[lle] donne e a Maria la Madre di Gesù e ai fratelli [consanguinei] di Lui».
Per motivi di spazio bisogna qui rinunciare ad un’analisi minuziosa[5] dei passi significativi per l’argomento in esame in cui troviamo in Luca il termine «tutti». Riassumo pertanto sinteticamente.
Siccome letterariamente e canonicamente gli Atti degli Apostoli sono la continuazione ideale del Vangelo secondo Luca, non possiamo prescindere da esso. Dunque le persone presenti nella duplice narrazione lucana dell’ascensione del Signore Gesù e nel contesto narrativo immediato sono le medesime, sia nel Vangelo (Lc 24,33-53) sia negli Atti (At 1,1-14). In Lc 24,33 si tratta dei «due» ritornati da Emmaus, tra cui Cleofa, e «gli Undici e quelli con essi»; chi sono «quelli con essi»? Sono le stesse persone, narrativamente parlando, nominate da Luca all’inizio del capitolo 24: le donne Maria Maddalena, Giovanna e Maria di Giacomo e le rimanenti con esse (Lc 24,10). Queste, avendo vissuta l’esperienza sconvolgente presso il sepolcro di uomini-angeli (Lc 24,4-23) che danno loro l’annuncio della risurrezione di Gesù, «annunziarono tutte queste cose agli Undici e a tutti i rimanenti» (Lc 24,9). Questa proposizione è letterariamente parallela con: «dicevano/ripetevano queste cose agli apostoli» (Lc 24,10), nel senso che anche «i rimanenti» sono apostoli accanto agli Undici. Anche in At 2,37 ricorre una formula analoga: «Pietro e i rimanenti apostoli» più ampia di «Pietro con gli Undici» (At 2,14). Nel capitolo 24 del Vangelo, Luca non nomina né la Madre di Gesù, né i parenti di lui: lo farà in At 1,14.
Nel prologo degli Atti, in prima battuta Gesù risorto dà disposizioni «agli apostoli [...] che si era scelto» (At 1,2). Siccome Luca fa un preciso riferimento al suo «primo libro» (At 1,1), e siccome in Lc 6,13 ricorre lo stesso termine riferito a Gesù che «di tra i discepoli si scelse dodici e li denominò anche apostoli», viene spontanea l’identificazione degli apostoli di At 1,2 con «i Dodici», rispettivamente «gli Undici» perché nel frattempo Giuda era morto. In At 1,3 «gli Undici» non sono più soli, anche se narrativamente Luca ce lo fa sapere soltanto in At 1,14 dove gli Undici sono «con donne e parenti stretti», e in occasione dell’elezione di Mattia (At 1,21-26). Nel primo caso si tratta di un numero relativamente ristretto di persone, comunque individuate e individuabili. L’aver ricordato esplicitamente la presenza di «donne», tra cui Maria la Madre di Gesù», è, a mio avviso, estremamente importante.
In At 1,24 Luca allarga l’idea di «tutti». È vero che il Signore è conoscitore del cuore di tutti in senso assoluto, ma qui si tratta del gruppo che a lui si rivolge in preghiera, ossia i «circa centoventi fratelli» (At 1,15). Per rimpiazzare Giuda, deve trattarsi di uno presente alle vicende «del Signore Gesù, incominciando dal battesimo di Giovanni fino» a quando «fu assunto di tra voi/noi» e vengono proposti due. Viene eletto tramite la sorte il dodicesimo. Deve comunque trattarsi di uno degli uomini (un essere maschile) del gruppo, «testimone della Sua risurrezione con noi uno di questi».
Mattia[6] viene annoverato «insieme agli Undici apostoli» dopo una preghiera rivolta al Signore di scegliere  tra i due (At 1,11.22.24).
In At 2,1 i «tutti» riuniti per l’evento della Pentecoste sono dunque in primo luogo il gruppo di At 1,14. In secondo luogo anche i circa centoventi fratelli (At 1,15), tenendo presente che «circa» non esprime un numero preciso, ma un gruppo ragguardevole multiplo dei Dodici. Se così non fosse, bisognerebbe escludere sia la Madre di Gesù sia il neoeletto Mattia! Questi «tutti» (At 2,4.11) furono ricolmi di Spirito Santo e incominciarono a parlare un linguaggio ispirato: «con altre lingue». Oggetto del parlare ispirato di tutti, non solo dei Dodici, sono «le grandi opere di Dio».
In At 2,7 «tutti questi che parlano» sono definiti «Galilei». Tra essi possiamo pensare ad una parte di «tutti i noti/conoscenti» a/di Gesù presenti alla crocifissione, uomini e donne, ma da lontano (Lc 23,49) e soprattutto «donne alla sequela (che seguono con) di lui dalla Galilea vedenti queste cose».
Non sarebbe giusto glissare sull’evidente enfasi lucana a proposito dei due participi al femminile «quelle che seguono con» e «quelle che hanno visto». Non soltanto queste donne vengono definite «seguaci» di Gesù, ma anche testimoni «oculari». Luca ritorna ancora sull’argomento con altri due participi al femminile e un verbo di visione al momento della sepoltura di Gesù. Rimane sempre la difficoltà di tradurre dal greco queste forme verbali: «Le donne seguaci però, le quali erano venute con lui dalla Galilea osservarono il sepolcro e come fu deposto il suo corpo» (Lc 23,55). Di queste donne i «due» sulla via verso Emmaus riferiranno a Gesù risorto – come se non lo sapesse! – «che esse vanno dicendo anche di aver visto una visone di angeli» (Lc 24,23). Difficile non pensare ad un richiamo a Lc 1,2: «come hanno trasmesso a noi coloro che fin dal principio hanno visto con i propri occhi e divennero ministri della parola».
Quanto ai «galilei» di At 2,7 – limitatamente ai sudditi della tetrarchia di Erode Antipa (Lc 3,1) – possiamo almeno pensare, quanto alle donne, a Maria di Magdala, a Giovanna moglie di Cusa amministratore di Erode, a Susanna (Lc 8,2-3; per le prime due anche Lc 24,10) e alle «molte altre le quali[7] li servivano con i loro beni» (Lc 8,3). La struttura grammaticale di Lc 8,1.3 è particolarmente intrigante e permette la lettura seguente: Gesù proclama ed evangelizza il regno di Dio ««ed i Dodici con lui e alcune donne, che erano state guarite [...] e molte altre». Le «alcune donne» non sono le «molte altre». Così come tra i discepoli vi era un gruppo ristretto di dodici «con Gesù», analogamente tra le donne vi era un gruppetto ristretto di tre[8] (un quarto di dodici) «con Gesù», quasi a rappresentare le madri d’Israele – Sara (Rm 4,19; Rm 9,9; Eb 11,11; 1Pt 3,6), Rebecca (Rm 9,10), Rachele (Mt 2,18) –. L’imperativo «ricordatevi» (Lc 24,6c) riguarda le donne «galilee» in maniera del tutto particolare. I due messaggeri [angeli] ingiungono alle donne di ricordarsi la profezia di Gesù sulla sua morte-risurrezione che egli aveva fatto proprio a loro, nella Galilea. I riscontri letterari conducono alle predizioni fatte ai Dodici in particolare, e ai discepoli in generale (Lc 18,31-34; Lc 9,22). Per Luca dunque le donne erano presenti in entrambi i gruppi.
Altre seguaci galilee sono probabilmente la suocera di Simon Pietro che «li serviva» (Lc 4,39); Maria di (= moglie di) Giacomo [il piccolo cf. Mc 15,40] e «le rimanenti con esse» (Lc 24,10), definite dai «due di tra essi» (Lc 24,13) «alcune donne di tra noi» (Lc 24,22). Nella redazione lucana il villaggio di Marta e Maria è anonimo (Lc 10,38). Vuole Luca forse annoverare tra le donne «galilee» anche le due sorelle discepole?
Quanto ai fratelli-parenti possiamo pensare a Giacomo[9] consanguineo di Gesù (Mt 13,55; Mc 6,3; Gal 1,19), a Maria di (= moglie di) Joses (Mc 15,47), a Cleofa (Lc 24,18), verosimilmente il Clopa giovanneo (Gv 19,25) e ad altri della famiglia di Maria e/o di Giuseppe, non nomini esplicitamente da Luca.
Tra i non-Galilei possiamo annoverare i padroni di casa: «l’intera casa» (At 2,2) ed altri. Tra gli apostoli pentecostali – come mi piace chiamarli – vanno certamente annoverati Barnaba, Giovanni evangelista (distinto dal figlio di Zebedeo), che ho definito «ultimo dei prestigiosi Presbiteri di Gerusalemme, discepolo del Signore Gesù»[10], l’ex-cieco nato giovanneo (Gv 9,7.38), Maria di Magdala; Andronico e Giunia, e infine lo stesso Saulo-Paolo. Egli sembra voler fornire un identikit degli apostoli della prima generazione in due contesti diversi di autodifesa del suo essere apostolo: essere liberi (non schiavi), aver veduto Gesù il Signore risorto, essere ingaggiati da Lui e pere Lui, essere Ebrei (ossia di lingua ebraica), di stirpe israelitica, discendenti di Abramo (1Cor 9,1-2; 2Cor 11,22-23).
Quanto ad essere «testimoni» della risurrezione di Gesù e alla «missione» post-pentecostale, per motivi di spazio rimando al mio studio indicato nella Bibliografia.

Conclusione
Possiamo vedere un’analogia nella presentazione lucana di due eventi originari: l’inizio apostolico-profetico di Gesù e l’inizio apostolico-profetico della chiesa. Detto diversamente, «Gesù di Nazaret, come Dio lo unse di Spirito Santo e potenza» (At 10,37-38; At 4,27; Lc 4,18) e l’essere battezzati in Spirito Santo e fuoco dei discepoli (Lc 3,16) per essere apostoli-profeti-testimoni del Risorto. Per il primo evento Luca cita esplicitamente Isaia (Lc 4,18 = Is 61,1-2). Per il secondo Luca cita esplicitamente Gioele: «profeteranno i vostri figli e le vostre figlie [...] i miei servi e le mie serve» (At 2,17-18 = Gl 3,1-2). Non si può inoltre negare la vicinanza impressionante di Is 6,5-8 ad At 2,3-4. Alla luce di questi passi profetici e ad un’attenta rilettura del racconto lucano sulla Pentecoste emerge l’inclusività di tre titoli carismatico-ministeriali, nel senso che ne furono investiti uomini e donne presenti, i «tutti» di At 1,15, intimamente legati al Maestro e rappresentativi di tutta la chiesa di allora e di adesso. Nella comunità pentecostale non viene sminuito il ruolo dei Dodici ma si allarga la cerchia degli apostoli e dei testimoni, con caratteristiche ben precise. I presenti, donne e uomini, ricevono dallo Spirito una lingua purificata dal fuoco divino per essere inviati a rendere testimonianza al/del Signore Gesù; sono cioè costituiti apostoli-profeti-testimoni pentecostali della sua risurrezione.
Aver rappresentato per secoli pittoricamente l’evento della Pentecoste come se riguardasse soltanto «gli Undici»/«i Dodici» e Maria la Madre di Gesù, con lo Spirito Santo discendente come una colomba, è dunque un duplice falso esegetico e teologico, perché secondo la narrazione lucana le persone presenti erano in numero maggiore e di «colomba» non c’è l’ombra. Se c’era Maria, c’erano anche gli altri «tutti»!
Possiamo allora chiederci come mai attraverso i secoli i carismi ministeriali ri-divennero sempre più esclusivi, riservati cioè al genere maschile. Mentre l’inclusività del titolo di «profeta» non ha creato problema perché si trova al femminile sia nell’Antico come nel Nuovo Testamento, l’inclusività dei titoli ministeriali di apostoli e testimoni ha rappresentato un tabù nella chiesa dei secoli successivi a quello delle origini, forse per un fenomeno di normalizzazione restaurata. La comunità originaria, nonostante i condizionamenti culturali di diversa natura, fece uno sforzo enorme sotto l’azione dello Spirito Santo, assecondando una precisa volontà del Signore risorto.
Insieme a Luca, anche Giovanni, alla sua maniera, narra della promessa e dell’effusione dello Spirito Santo. Parafrasando Gv 14,26 con Gv 16,13 e Gv 20,22: il Consolatore, lo Spirito Santo, ripresentò alla memoria dei discepoli quanto il Signore aveva detto. Egli, «lo Spirito della Verità» ossia lo Spirito di Gesù rivelatore introdusse i discepoli ad una ulteriore verità che prima non erano neppure in grado di sopportare, dopo che il Signore risorto «alitò e disse loro ricevete Spirito Santo». Nel «discorso del congedo», quando Gesù prega non soltanto per «questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in» lui (Gv 17,20), chiede al Padre «che tutti siano una cosa sola come Noi» (Gv 17,11.21.22.23). In questa preghiera del Gesù giovanneo possiamo tranquillamente collocare anche, e forse prima di tutto, l’istanza dell’unità tra discepole e discepoli.

Maria-Luisa Rigato

Sommario
È giunto il tempo di comprendere finalmente e semplicemente tutti gli appellativi ministeriali del Nuovo Testamento in maniera inclusiva, ossia donne e uomini inclusi. Senza nulla togliere all’importanza dei «Dodici» apostoli, da tutta la narrazione lucana sulla Pentecoste (At 2,1-13, ­ messa anche a confronto con Is 6,5-8) ­ emerge che «gli altri» non costituiscono una cornice decorativa per i «Dodici», ma «tutti» i presenti, donne e uomini, ricevono dallo Spirito Santo una lingua purificata dal fuoco divino per essere inviati a rendere testimonianza per Gesù il Signore: tutti diventanoapostoli-profeti-testimonidella sua risurrezione.

NOTA BIBLIOGRAFICA
Cf. M.-L. Rigato, Il valore inclusivo di Pantes nella narrazione dell’evento di Pentecoste in Luca (At 2,3-4). Apostoli-Testimoni pentecostali, in «Rivista Biblica» 48 (2000), pp. 129-150, con molte note e ampia bibliografia. Collegato al precedente: Id., L’evento della Pentecoste secondo At 2,3-4 alla luce di Is 6,5-8, in «Rivista Biblica» 48 (2000), fasc. 4 [in fase di stampa]; Id., Maria di Nazaret di stirpe levitica sacerdotale, in «Theotokos. Ricerche interdisciplinari di Mariologia», 8 (2000), pp. 275-304.
[1] Altri appellativi dello Spirito Santo nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli: «Potenza da(ll’) alto» (Lc 24,49); «il Dono di Dio» (At 8,20); «il Dono dello Spirito Santo» (At 10,45); «Dio ha dato il Dono» (At 11,17); «il Consolatore» che Gesù «manderà» (Gv 14,26; Gv 15,26; Gv 16,7).
[2] Vorrei sintetizzare la fase della rivendicazione con le parole che nel suo delizioso volumetto L. Padovese, Piccoli dialoghi fra santi di marmo, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1999, mette sulle labbra di Tecla: «Proprio guardando a Gesù, al discepolo prediletto, e al mio grande maestro Paolo io dico che noi donne dobbiamo rivendicare il passato cristiano come passato appartenente anche a noi, non soltanto come un passato maschile cui le donne partecipavano solo ai margini, oppure non facevano nulla. Cristo ci ha liberati dalla situazione di emarginazione e di inferiorità in cui la cultura mediterranea, patricentrica e maschilista, ci vorrebbe lasciare. L’intensità del nostro amare ha fatto di noi donne libere, vere discepole del Maestro!» (p. 48).
[3] È questa la professione di fede più concentrata. Nei Vangeli troviamo generalmente il titolo «Signore» senza il nome di Gesù, fatta eccezione per Mc 16,19 «il Signore Gesù» e Lc 24,3 «il corpo del Signore Gesù». Negli Atti degli Apostoli è uno dei titoli preferiti: «il Signore Gesù» (At 1,21; At 4,33; At 6,59; At 8,16; At 9,17; At 11,20; At 15,11; At 16,31; At 19,5.13.17; At 20,21 + «nostro» At 24.35; At 21,13), tre volte accompagnato da «Cristo» (At 11,17; At 15,26 + «nostro»; At 28,31). È presente in tutti gli altri scritti del Nuovo Testamento.
[4] Lc 6,13: «Gesù chiamò a sé i suoi discepoli e avendo scelto da essi Dodici li denominò anche apostoli». Questa traduzione del testo greco («e» con «anche») dal punto di vista grammaticale è del tutto plausibile e s’impone per via del versetto successivo: «Simone il quale denominò anche Pietro» (Lc 6,14). Se questo è vero, Luca fin dalla prima ricorrenza di «apostoli» nel suo vangelo farebbe intuire che «i Dodici» erano, sì, apostoli, ma non i soli apostoli., come emerge anche da altri passi del Nuovo Testamento.
[5] Rimando per questo al nostro articolo: Il valore inclusivo di Pantes nella narrazione dell’evento di Pentecoste in Luca (At 2,3-4). Apostoli-Testimoni pentecostali, in «Rivista Biblica» 48 (2000), pp. 129-150 (qui: pp. 134-141).
[6] Secondo 1Cor 15,5: «Cristo [...] apparve a Cefa indi ai Dodici». La tradizione ha incluso fin dal principio Mattia tra i Dodici.
[7] Grammaticalmente è possibile riferire «li servivano con i loro beni» soltanto alle «molte altre», senza includere il gruppo delle donne citate per nome.
[8] Gli evangelisti menzionano per nome al massimo tre donne alla volta (Mt 27,56; Mc 15,40; Mc 16,1; Lc 8,3; Lc 24,10).
[9] Per Giacomo rimandiamo al nostro articolo: Maria di Nazaret di stirpe levitica sacerdotale, in «Theotokos. Ricerche interdisciplinari di Mariologia», 8 (2000), pp. 275-304.
[10] Per Giovanni rimandiamo al nostro articolo: Maria di Nazaret di stirpe…, cit., excursus finale.

Publié dans:BIBBIA, biblica, Santi Evangelisti |on 19 août, 2013 |Pas de commentaires »

OMELIA (2001) – COMMENTO SU EB 12,1-2

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/9224.html

OMELIA (2001)
EREMO SAN BIAGIO
COMMENTO SU EB 12,1-2

Dalla Parola del giorno
Circondati da un così gran numero di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede.

Come vivere questa Parola?
L’autore della Lettera agli Ebrei qui veicola la verità del nostro impegno di credenti mediante un’immagine sportiva. Siamo allo stadio e i nostri giorni mortali sono la pista per il nostro correre in gara sotto lo sguardo dei « testimoni » (o spettatori) che sono le innumerevoli schiere di fratelli santi arrivati alla meta della felicità eterna. E veniamo invitati a correre, tenendo lo sguardo su Gesù che qui è definito da due termini estremamente significativi: « autore e perfezionatore della nostra fede ». Davvero è tutto! Perché si tratta di comprendere l’altezza, la larghezza, la profondità e l’ampiezza » di un Amore che si è dato in croce perché potessimo credere a Lui, fidandoci pienamente. « Pensate attentamente ? dice il testo della Lettera ? a Colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità [...] perché non vi stanchiate perdendovi d’animo ».

Pensiamo meditando nel cuore, mentre proprio gli occhi del cuore oggi, nella pausa contemplativa, cercheranno di tenersi più a lungo possibile fissi su Gesù ». Verbalizzerò:

Ti ringrazio perché sei tu « l’autore » della mia fede! Perfezionala ogni giorno un po’: rinvigoriscila, purificala, fa’ che diventi operante nella carità.

La voce di un Padre della Chiesa
Fissa gli occhi del cuore su Cristo. Egli è sceso nel tempo perché tu diventassi eterno. Si è fatto uomo, Lui: il Creatore dell’uomo. Ha succhiato al seno di una donna, Lui: il reggitore del firmamento. Ha voluto avere fame: Lui che è il Pane, e avere sete Lui che è la sorgente [...]: E’ venuto tra noi a morire, Lui che è la Vita.
S. Agostino

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