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LA SPERANZA TIENE L’UOMO IN CAMMINO – ENZO BIANCHI 2004

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LA SPERANZA TIENE L’UOMO IN CAMMINO – ENZO BIANCHI 2004

Ilario di Poitiers, nel suo Commento ai Salmi (118,15,7), riporta la domanda di molti che gridano ai cristiani: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?». Questa domanda deve essere assunta dai cristiani e dalle chiese di oggi come indirizzata direttamente a loro. Poco importa che in essa possano esservi toni di sufficienza o di scetticismo: il cristiano sa che per lui la speranza è una responsabilità! Di essa egli è chiamato a rispondere a chiunque gliene chieda conto (1 Pietro 3,15: «siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi chieda della speranza che è in voi»). Questa responsabilità oggi è drammatica ed è una delle sfide decisive della chiesa: è in grado di aprire orizzonti di senso? Sa vivere della speranza del Regno dischiusale dal Cristo? E sa donare speranza a vite concrete, aprire il futuro a esistenze personali, mostrare che valla pena di vivere e di morire per Cristo? Sa chiamare alla vita bella e felice, buona e piena perché abitata dalla speranza, sull’esempio della vita di Gesù di Nazaret??Queste domande non possono essere eluse, soprattutto oggi che gli orizzonti culturali mostrano una profonda asfitticità ed è difficile formulare speranze a lunga durata, capaci di reggere una vita. Nella «società dell’incertezza» (ben descritta da Zygmunt Bauman), nell’epoca posta sotto il segno della «fine» (di secolo, di millennio, della modernità, delle ideologie, della cristianità), nel tempo della frantumazione del tempo, in cui anche le poche speranze che si aprono faticosamente un varco nella storia sono irrimediabilmente di breve durata, non hanno tempo a consolidarsi, ma sono esposte a imminente smentita, suona ormai in modo drammatico la domanda: «Che cosa possiamo sperare?». E colpisce che l’insistenza sull’avvento del nuovo millennio si accompagni nella chiesa a questa paurosa incapacità di aprire varchi verso il futuro, di mostrare concrete e vivibili strade di speranza e di progettualità, di dare speranza e di essere presenza significativa soprattutto per coloro che nel futuro hanno il loro orizzonte prossimo: i giovani.?L’impressione è che oggi il nemico della speranza sia l’indifferenza, il non-senso o quanto meno l’irrilevanza del senso. La stessa insistenza della pastorale cattolica sulla carità e sul volontariato ha, oltre ai tanti aspetti positivi, anche l’aspetto del ripiegamento sul presente, sull’oggi, sull’azione da compiere nei confronti del bisognoso; il tutto all’interno di una scelta che è a tempo e può sempre essere ritirata, che non impegna il futuro. Di fronte a tutto questo si situa la domanda: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?». Perché la virtù teologale della speranza deve essere visibile, vissuta, trovare un dove, un luogo: altrimenti è illusione e retorica! Un bel testo di Agostino dice che «è solo la speranza che ci fa propriamente cristiani» (La città di Dio 6,9,5). Cioè, il cristiano non vive cose e realtà altre e nuove, ma sostanzia di un senso nuovo e altro le cose e le realtà, e anche tutti i rapporti. Né il problema è definire la speranza, ma viverla. Certo, possiamo dire che la speranza è «un’attiva lotta contro la disperazione» (G. Marcel), è «la capacità di un’attività intensa ma non ancora spesa» (E. Fromm), ma soprattutto è ciò che consente all’uomo di camminare sulla strada della vita, di essere uomo: non si può vivere senza sperare! Homo viator, spe erectus: è la speranza che tiene l’uomo in cammino, in posizione eretta, lo rende capace di futuro.?Il cristiano trova in Cristo la propria speranza («Cristo Gesù, nostra speranza», 1 Timoteo 1,1), cioè il senso ultimo che illumina tutte le realtà e le relazioni. In questo senso, la speranza cristiana è un potente serbatoio di energie spirituali, è elemento dinamizzante che si fonda sulla fede nel Cristo morto e risorto. La vittoria di Cristo sulla morte diviene la speranza del credente che il male e la morte, in tutte le forme in cui si possono presentare all’uomo, non hanno l’ultima parola. Il cristiano narra perciò la propria speranza con il perdono, attestando che il male commesso non ha il potere di chiudere il futuro di una vita; narra la speranza plasmando la sua presenza tra gli uomini sulla fede che l’evento pasquale esprime la volontà divina di salvezza di tutti gli uomini (1 Timoteo 2,4; 4,10; Tito 2,11); soprattutto narra la speranza vivendo la logica pasquale. Quella «logica» che consente al credente di vivere nella fraternità con persone che non lui ha scelto; che lo rende capace di amare anche il nemico, l’antipatico, colui che gli è ostile; che lo porta a vivere nella gioia e nella serenità anche le tribolazioni, le prove e le sofferenze; che lo guida al dono della vita, al martirio. Se dobbiamo vedere oggi nella chiesa delle autorevoli narrazioni della speranza cristiana è proprio alle situazioni di martirio e di persecuzione che dobbiamo guardare. Lì la speranza della vita eterna, della vita in Cristo oltre la morte, trova una sua misteriosa, inquietante, ma concretissima e convincente narrazione. Lì appare credibile ciò che ancora Agostino ha scritto: «La nostra vita, adesso, è speranza, poi sarà eternità» (Commento ai Salmi 103,4,17)

E. Bianchi, Le parole della spiritualità , Rizzoli, Milano 2004

 

CHRISTIAN CANNUYER: DIO È NEI CIELI? (2002)

http://www.disf.org/AltriTesti/Cannuyer.asp

CHRISTIAN CANNUYER: DIO È NEI CIELI? (2002)

Partendo dall’affermazione della più nota preghiera cristiana, “Padre nostro che sei nei cieli…”, l’Autore, docente alla Facoltà di teologia dell’Università di Lille e Presidente della Società Belga di Studi orientali, esamina il significato biblico dell’espressione “cielo”, in quanto sede di Dio. Quali rapporti vi sono fra Dio e il cielo, e di quale cielo sta parlando il testo sacro? Per rispondere a queste domande si espone un sintetico quadro delle varie accezioni di questo termine nella Scrittura e dei suoi significati.

Come molte religioni, la Bibbia fa del cielo il dominio di Dio, il suo santuario, il suo regno. Questa collocazione ha attraversato tutto l’immaginario ebraico e cristiano sino a lasciare tracce profonde nella nostra religiosità attuale, malgrado il «disincanto» del cielo cui hanno portato la scienza e l’esegesi moderna: come i cristiani dei primi secoli, non continuiamo a pregare ogni giorno «Padre nostro, che sei nei cieli»?

Prima della creazione Dio Padre circondato da angeli, ms. fr. 50, fol. 13 dello Specchio della storia di Vincent de Beauvais, XV secolo. Parigi, Biblioteca Nazionale di Francia, dipartimento dei Manoscritti.
Nel 1922, il grande storico delle religioni Raffaele Pettazzoni (1883-1959) pubblicò L’essere celeste nelle credenze dei popoli primitivi, in cui metteva in evidenza che, nella maggior parte delle «visioni del mondo» definite primitive, l’immensità del cielo, la sua influenza sulla fertilità del suolo, la sua luce splendente, la sua inaccessibilità avevano portato alla sua personificazione mitica, identificandolo insomma con quell’Essere supremo di cui l’etnologo tedesco Wilhelm Schmidt (1868-1954) aveva creduto di riconoscere l’importanza alle origini del pensiero religioso di una quantità di popoli arcaici.
All’origine del sentimento religioso c’è lo stupore di fronte al cielo?
Mircea Eliade (1907-1986), nel suo Trattato di storia delle religioni, ha cercato di perfezionare questi approcci, mostrando che il cielo, per la sua grandezza, la sua forza, la sua immutabilità, ha potuto all’inizio essere per l’uomo il luogo di un’espressione simbolica della trascendenza, una rivelazione del sacro o del divino (ierofania) offerta allo spirito stupito in modo immediato, non in seguito ad una riflessione speculativa., come avrebbe voluto Schmidt, né di un’affabulazione mitica e prelogica, come affermava Pettazzoni. Per Eliade, questa potenza simbolica della ierofania uranica è un dato primordiale della religiosità. È il motivo per cui gli dèi buoni, eterni, immutabili, e, al di sopra di loro, il più grande, il Creatore, demiurgo o Essere supremo, sono collocati nel cielo, ovvero identificati con esso. Paradossalmente, questi dèi o Essere celesti supremi, onnipotenti e onniscienti. sembrano tanto distanti da scomparire dalla vita quotidiana, dal culto comune, dalla consapevolezza immediata: sono degli dèi «ritirati» o «inattisi» (dei otiosi), in riposo nell’eterno splendore dell’empireo; persino il Dio della Bibbia non si riposa dopo tutta la fatica dei «Sette giorni» della creazione? In numerose religioni «arcaiche», come in Australia o nell’Africa nera, i grandi dèi celesti primordiali cedono il posto a dèi più accessibili, più vicini agli umani, anche più dinamici, attori di una mitologia in crescita e multiforme. Indipendentemente dalla pertinenza delle con conclusioni di Eliade – alle quali certamente oggi si rimprovera un eccesso di dogmatismo e di generalizzazioni affrettate – esse sembrano aver messo il dito su un aspetto dell’esperienza «arcaica» del sentimento «religioso»: il fascino abbagliante di fronte alla bellezza, all’immensità, alla luce incomparabile dell’azzurro. Ciascuno di noi non prova questo a partire dalla sua prima infanzia?

Il Cielo-dio: una credenza universalmente diffusa
Sulle rocce della Val Camonica, in Lombardia, a nord di Brescia, dei graffiti rupestri risalenti al 5000-3000 a.C. rappresentano uomini in preghiera, con le braccia alzate verso il cielo. Non è che un esempio tra gli altri dell’importanza del cielo nelle religioni della preistoria. Parecchie religioni conservano almeno la traccia di un culto antichissimo al Dio cielo o a un Essere supremo che vi risiede: così presso le popolazioni turco-mongoliche dell’Asia centrale, il grande dio nazionale e imperiale Tengri non è altro che il Köke Möngke Tenri, «Eterno Cielo Blu», che è elevato (uze) sovrano e forte (kütch), ma allo stesso tempo inaccessibile e spesso ozioso, al quale solo il khan e i grandi rendono culto. Il caso più conosciuto è quello della Cina dove, a partire dall’VII secolo a.C., la dinastia dei Chou ha formalizzato la religione del «Sovrano dell’ Alto del vasto cielo» (Hao-t’ien Chang-ti), cioè del Cielo stesso (t’ien), di cui l’imperatore era considerato come il Figlio, solo abilitato a venerare il Padre nella capitale, su una collinetta a forma di volta celeste. La nostra stessa parola per dio, dal latino deus, viene dalla radice diu-, dei-, «brillare», che traduce la natura celeste del grande dio comune a tutti gli Indoeuropei e ha dato origine anche al nome del giorno (latino dies, di dove, in italiano, «diurno», o le finali in -di dei nomi dei giorni della settimana); presso i Greci Zeus (al genitivo Dios), e in indo Dyauh-Pitâ (Dio padre), analogo al Dius-pater («dio padre», cioè Jupiter) dei Romani, il dio celeste Diêvas o Dievs delle antiche religioni lituana e lettone, e sino al dio Tyr degli Scandinavi. Georges Dumézil ha ben dimostrato che gli dèi sovrani Varuna e Mitra, che occupano il primo posto nella trifunzionalità del pantheon indoeuropeo, sono in origine degli dèi del cielo. La stessa considerazione vale per il dio supremo degli Iranici, Ahura Mazda, al quale la riforma monoteista di Zarathustra (Zoroastro) conserverà gli attributi di un dio uranico, luminoso, sapiente e bello.

Dei del cielo nel mondo biblico
Più vicino al mondo biblico, c’è bisogno di ricordare che il sumerico dingir, corrispondente all’akkadico ellu, «dio», significa fondamentalmente «ciò che è chiaro, brillante»? Il segno cuneiforme che descrive queste parole rappresenta una stella e ritorna anche nel termine an, «cielo». Il capo supremo del pantheon babilonese, Anu, non è altro che il cielo e il suo tempio principale di Uruk portava il nome di E-an-na, «casa del Cielo».
Presso i Cananei, i Fenici e gli Aramei il titolo di Baal-Šamêm, «signore dei cieli», che appare dal II millennio prima della nostra era, fu attribuito a partire dal IX secolo a.C. ad una divinità suprema considerata sempre più come il Creatore per eccellenza. È probabilmente per lui che Gezabele di Tiro, sposa del re Acab di Israele (874-853), aveva introdotto un culto sul monte Carmelo (1 Re 18). concorrenza che suscitò, come è noto, la feroce opposizione della nobile figura del profeta Elia. In epoca ellenistica questo Baal fu identificato dai Greci con Zeus Hypsistos (Altissimo), e sotto l’epiteto di Theos Hagios Ouranios, «Dio Santo Celeste», fu venerato sino al III secolo della nostra era nel tempio tirio di Qadeš, all’estremo nord della Galilea (Tell Qedeš, 10 chilometri a nord del sito di Hazor).
Certo, il Dio d’Israele ha creato il cielo (Gn 1,1), che testimonia la sua gloria (Sal 19), e l’Antico Testamento abolisce l’uranolatria. D’altra parte, anche i cieli dovranno essere rinnovati dal Creatore alla fine dei tempi (Is 65,17; Ap 21,1; 6,14). Il cielo, nella maggioranza dei testi, rimane considerato come la dimora di Dio o il suo santuario, di dove egli osserva gli uomini (Sal 33,13-14; 102,20; Is 63,15). Dio è il Dio del cielo (Ne 1,4). verso il quale si alzano le braccia quando si prega (Es 9,29; cf anche 2 Cr 30,27). «Io ho visto il Signore seduto sul trono; tutto l’esercito del cielo gli stava intorno, a destra e a sinistra», proclama il profeta Michea, figlio di Yimla, al re Acab, predicendogli la disfatta contro gli Aramei (1 Re 22, 19): alla pari dei Baal cananei, il Dio dell’Antico Testamento è un re celeste circondato da una corte e da un esercito.
Il cielo giunge anche a designare allusivamente Dio in persona: «Levano la loro bocca fino al cielo», dice il salmo 73,9, dei malvagi… E Daniele (4,23) ingiunge al re Nabucodonosor, se vuole conservare la sua regalità, di riconoscere la sovranità del Cielo, cioè quella del Dio Altissimo. A partire dal libro dei Maccabei (scritto verso il 100 a.C.) questa immagine diventerà molto frequente e s’imporrà nel giudaismo (cf 1 Mac 12,15).

Il Dio del cielo nel Nuovo Testamento
La maggior parte di questi concetti sono ripresi nel Nuovo Testamento (cf At 7,49). Dio è il Dio del cielo (ho Theòs lou ouranou: Ap 11,13). «Chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l’abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso», dice Gesù agli scribi e ai farisei ipocriti (Mt 23,22). L’uso di sostituire il nome del cielo a quello di Dio si generalizza; là dove Matteo parla di «regno dei cieli», Luca e Marco usano «regno di Dio» (es. Mc 1,15 e Mt 4,17). Gesù stesso intrattiene col cielo una relazione molto stretta. Figlio del Padre che è nei cieli (Mt 12,50; 18,19), da lì è venuto e li ritornerà. «Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dai cielo», egli confida al fariseo Nicodemo (Gv 3,12-13). È il motivo per cui il cielo stesso riconosce autentica la missione di Cristo aprendosi per lui (Mt 3,6) e mandandogli lo Spirito (Gv 1,32). La risurrezione esalta Gesù nel più alto dei cieli (Eb 4,14; 7,26), dove gli è affidata ogni autorità (Mt 28,1 8), nella Gerusalemme celeste incastonata in uno scrigno cosmico rischiarato da un cielo rinnovato (Ap 3,12; 21,5). Alla fine dei tempi, il Signore «discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti. saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria» (1Ts 4,16-17).
Tuttavia abbastanza presto l’insistenza del monoteismo di Israele sulla trascendenza divina portò a riflettere sui limiti provocati da un’associazione troppo stretta di Dio con lo spazio celeste, soprattutto il «nostro» cielo visibile. Il «cielo di Dio» doveva, evidentemente, trovarsi al di là del firmamento, in altri «cieli» che il nostro. Invitava a concludere in questo senso il fatto che nell’ebraico biblico la parola «cielo» si presenta in genere sotto una forma di plurale irregolare (šâmayim, «i cieli»). Forse sotto l’influsso dell’astronomia babilonese, si giunse a concepire una molteplicità di cieli, l’esistenza di un «cielo dei cieli» (Ne 9,6; Dt 10,14); il salmo 108,5-6 sviluppa l’idea di una grandezza di Dio che sorpassa ampiamente i cieli: «La tua bontà è grande fino ai cieli e la tua verità fino alle nubi. Innalzati, Dio, sopra i cieli, su tutta la terra la tua gloria». E in 1 Re 8,27, la straordinaria preghiera di Salomone, che afferma l’onnipotenza e la trascendenza di Dio, arriva a mettere in discussione qualsiasi «localizzazione» del Creatore, che sia nel Tempio di Gerusalemme o in questi «spazi ultrasiderali»: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita!».

Dio più alto del cielo, Dio fuori del cielo
L’immagine di una molteplicità di cieli per tradurre la trascendenza divina ha conosciuto un grande favore nella letteratura apocalittica ebraica tardiva. Nell’Apocalisse e di Albramo (scritta in ebraico verso la fine del I secolo d.C., ma conservata in antico slavo e in rumeno), il patriarca trasportato al settimo cielo, contempla Dio che vi dirige la creazione, «immagine del cielo e di ciò che contiene». Nella seconda lettera ai Corinzi (12,2). Paolo dice a sua volta di avere conosciuto l’esperienza di un’elevazione sino al «terzo» cielo, immagine del paradiso. Così il cielo in cui Dio sta in trono non è il «nostro» cielo immediato «il più scuro, poiché vede tutte le ingiustizie degli uomini (Testamento di Levi, 3, 1).

Per gli gnostici il cielo è male e non vi si trova Dio
Tra i primi ad aver lanciato un’offensiva ben più radicale contro una collocazione di Dio in cielo si pongono probabilmente gli gnostici. Lo gnosticismo, corrente religiosa nata nel II secolo d.C. in Siria-Palestina e in Egitto, alla periferia del giudaismo e del cristianesimo, si caratterizza per una posizione violentemente anticosmica: il mondo materiale, visibile, è male, è opera di un demiurgo pericoloso, di un falso dio nato da una tragica decadenza in seno al divino stesso. Questo dio ingannatore e malvagio, identificato da numerosi gnostici col Dio ebraico, quello dell’Antico Testamento, è all’origine della chiusura delle anime, particelle della luce divina, nei corpi. Egli abita nel cielo che ha creato e dal quale comanda il cosmo empio per mezzo di «Potenze», gli Arconti, la cui tirannide ricorda l’impietosa autorità delle divinità celesti dell’astrologia mesopotamica. Anche il cielo, che appartiene al creato. non è per gli gnostici che un grottesco surrogato della dimora luminosa del vero Padre, del Pro-principe, del vero Dio di cui il demiurgo nasconde all’uomo l’esistenza presentandosi come il solo Creatore. È in se stesso che l’uomo, grazie alla conoscenza (gnosi) di sé rivelata da un inviato della luce, troverà la propria salvezza, non alzando gli occhi verso il cielo. Nel Vangelo secondo Tommaso, trovato a Nag Harnmadi (Alto Egitto) nel 1946, Gesù presentato in questa qualità di inviato della luce (un Gesù doceta, in apparenza d’uomo, non incarnato, perché l’incarnazione non potrebbe essere che una ripugnante commistione del divino con la materia malvagia), afferma con forza: «Se coloro che vi guidano vi dicono: “Ecco, il regno è nei cieli !“. allora gli uccelli del cielo vi precederanno. Se vi dicono che è nel mare, allora vi precedono i pesci. Ma il regno è dentro e al di fuori di voi. Quando voi vi conoscerete, allora sarete conosciuti e saprete che siete i figli del Padre Vivente» (logion 2). Inoltre, aggiunge il Salvatore, «questo cielo passerà e passeranno quelli che sono al di sopra di lui» (logion 11). In modo che lo spazio celeste accessibile allo sguardo dell’uomo non può in alcun caso essere considerato come dimora del divino. E, tutt’al più, la stamberga dell’aborto demiurgico, il tugurio del Creatore geloso e terribile della Scrittura ebraica.
Rivelando il «Padre nostro che è nei cieli», Gesù, per gli gnostici, invita dunque a scoprire il vero Padre che vive nella luce, che non abita il cielo cosmico, ma nei cieli dei cieli, gli eoni degli eoni che sono evidentemente al di fuori dello spazio. E il motivo per cui taluni testi gnostici. che evocano la liberazione dell’anima che ritorna verso la luce da cui proviene, descrivono questo processo come un’ascensione non verso il «cielo», ma verso una serie di cieli successivi (sino al decimo nell’Apocalisse di Paolo), la cui moltiplicazione tradisce il discredito gettato sul cielo siderale, cosmico, assolutamente lontano dalla trascendenza divina, Vi è in questo una svolta ed un chiaro superamento del tema della pluralità dei cieli dell’apocalittica ebraica. Nemmeno il «settimo» cielo trova grazia agli occhi degli gnostici e L’ipostasi degli Arconti (un altro testo di Nag Hammadi) vi colloca il trono del false «dio delle forze», Sabaoth Per loro, il cielo è decisamente spogliato del prestigio di essere la casa di Dio e il luogo della salvezza dell’uomo.

Oggi, il disincanto verso il cielo?
In questo modo gli gnostici annunciano il «disincanto» o la «demitizzazione» con cui l’esegesi esistenziale del luterano Rudolf Bultmann (1884- 1976) purgherà il cielo cristiano, non vedendovi altro che un’immagine della trascendenza divina legata alle strette costrizioni delle rappresentazioni cosmiche proprie al mondo antico. Gesù, «disceso dal cielo», secondo il simbolo niceno (cf anche Gv 3,13 e 6,51), vi «risale» all’Ascensione per sedere alla destra del Padre (cf Gv 3,13; 6,62; 20,17; Ef 4,9-10): per la fede moderna, si comprende questa affermazione della fede della Chiesa come una metafora che indica l’ingresso di Gesù nella gloria del Padre, un mistero indicibile di cui gli apostoli ebbero un’esperienza che può essere espressa soltanto in maniera simbolica. Il rapimento (analépsis, cf Lc 24,5) o la salita (anábasis, cf Gv 20,17) di Gesù «al cielo», evidente ricordo del viaggio celeste di Elia o di Enoch nell’Antico Testamento, di Esdra, di Baruc, di Mosè, d’Abramo o di Levi negli scritti intertestamentari, è indissociabile dal mistero della sua risurrezione. Esso esprime la sua vittoria sulla morte, la sua intimità col Padre, la promessa all’uomo della vita eterna. Come scrive Leone Magno (papa dal 440 al 461), «L’ascensione di Cristo è dunque la nostra propria elevazione e, là dove in precedenza è andata la gloria del capo, là è chiamata anche la speranza del corpo». Così il cielo, dimora di Dio, diventa per i cristiani speranza e luogo simbolico della salvezza.
Se la scienza moderna ha largamente contribuito a disincantare il cielo, essa ha nello stesso tempo rivelato l’immensità prima impensabile degli spazi intersiderali, dell’universo intergalattico che, oggi forse più ancora di ieri, attraverso la sua misteriosa relazione col tempo, con l’Essere, col divenire, appare come il santuario simbolico del Creatore. È là, nel cuore del mistero dell’essere di cui l’universo conserva la lunga memoria, che noi continuiamo, se non a collocare, perlomeno ad imparare a conoscere il «Padre nostro che è nei cieli».

da “Il cielo nella Bibbia”, ne Il mondo della bibbia, 61 (2002), n. 1, pp. 13-17, tr. dal francese di R. Bertazzoli.

Publié dans:biblica, meditazioni, Teologia |on 30 juin, 2014 |Pas de commentaires »

« DIO VIDE TUTTO QUELLO CHE AVEVA FATTO, ED ECCO CHE ERA MOLTO BUONO » (Gen 1,31):

http://www.collevalenza.it/CeSAM/02_CeSAM_0004.htm

« DIO VIDE TUTTO QUELLO CHE AVEVA FATTO, ED ECCO CHE ERA MOLTO BUONO » (Gen 1,31):

MISERICORDIA NELLA CREAZIONE

p. Aurelio Pérez fam

La creazione è il primo atto d’amore di Dio, l’amore fontale per così dire, nel senso che tutto scaturisce da questa fonte dell’essere e della vita che è Dio stesso, come dal grembo di una madre. Anche all’inizio della creazione troviamo, come per la legge del Sinai, dieci parole-comandi (« Dio disse… », Gen 1, 3.6.9.11.14.20.24.26.28.29), attraverso le quali il Signore ha dato vita a tutto il creato(1). Ma la novità biblica, sconosciuta ai sapienti del mondo, è che Dio ha fatto ogni cosa che c’è nel mondo, soprattutto l’essere umano, per amore:
« Nel cammino della fede biblica diventa sempre più chiaro ed univoco ciò che la preghiera fondamentale di Israele, lo Shema, riassume nelle parole: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo» (Dt 6, 4). Esiste un solo Dio, che è il Creatore del cielo e della terra e perciò è anche il Dio di tutti gli uomini. Due fatti in questa precisazione sono singolari: che veramente tutti gli altri dei non sono Dio e che tutta la realtà nella quale viviamo risale a Dio, è creata da Lui. Certamente, l’idea di una creazione esiste anche altrove, ma solo qui risulta assolutamente chiaro che non un dio qualsiasi, ma l’unico vero Dio, Egli stesso, è l’autore dell’intera realtà; essa proviene dalla potenza della sua Parola creatrice. Ciò significa che questa sua creatura gli è cara, perché appunto da Lui stesso è stata voluta, da Lui «fatta». E così appare ora il secondo elemento importante: questo Dio ama l’uomo. La potenza divina che Aristotele, al culmine della filosofia greca, cercò di cogliere mediante la riflessione, è sì per ogni essere oggetto del desiderio e dell’amore — come realtà amata questa divinità muove il mondo —, ma essa stessa non ha bisogno di niente e non ama, soltanto viene amata. L’unico Dio in cui Israele crede, invece, ama personalmente ».(2)
Il messaggio biblico sulla creazione è fondamentalmente positivo: prima della creazione rovinata dal peccato c’è la creazione buona uscita dalle mani di Dio. Per 7 volte viene detto che ciò che Dio ha fatto è buono (tob, kalos = buono e bello), fino alla conclusione: « Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco che era molto buono » (Gen 1,31; cf vv. 4.10.12.18.21.25).
La redenzione stessa è un riportare la creazione al principio voluto da Dio, come dice Gesù a proposito dell’unione voluta da Dio tra l’uomo e la donna: « al principio non è stato così » (Mt 19,4). E’ importantissimo per noi sempre ritornare a questo « principio » che non è un fatto temporale, storico o preistorico, perché Dio non è storico né preistorico, è l’Eterno, anche se il suo Amore si spingerà fino al punto che l’Eterno entrerà nel nostro tempo creato.
Sarebbe un errore contro la sapienza di Dio opporre la creazione alla redenzione. Il Signore non distrugge ciò che ha fatto, ma lo rinnova, lo purifica, portando a compimento l’opera che ha iniziato.
« In principio Dio creò il cielo e la terra » (Gen 1,1ss)
E’ questo l’inizio di una rivelazione sull’umanità e sul mondo, non di un trattato di cosmologia(3). Rivelazione appunto dell’amore creatore, provvidente, che tutto mantiene e sorregge nelle sue mani misericordiose e potenti. La prima cosa che il Signore vuole rivelarci con la sua Parola (siamo alle prime pagine della Scrittura Santa) è che tutto ciò che esiste, compresi noi, l’ha creato LUI, non è frutto del caos né del caso.
« Tutte queste cose le ha fatte la mia mano, esse sono mie, oracolo del Signore ». (Is 66,2)
Tutti noi e ciascuno di noi, il cielo e la terra e tutte le cose che vi abitano procediamo da un Sì d’amore che Dio ha pronunciato su di noi e su tutto il creato.
Il primo canto all’amore misericordioso del Signore che é « eterno », nasce contemplando l’opera della Creazione:
« Celebrate il Signore, perché è buono, poiché eterna è la sua misericordia… Ha fatto i cieli con sapienza… » (Sal 136,1-9)
«Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»
Siamo di fronte al primo canto nuziale che Dio rivolge alle sue creature, uscite buone, pure e belle dalle sue mani. Per loro ha preparato un giardino meraviglioso, e nel centro di esso ha collocato l’uomo e la donna, fatti « a immagine e somiglianza » di Dio. C’è un’unità originaria (Dio creò l’Adam) che si differenzia nei sessi (li creò maschio e femmina). Ma l’unità – immagine di Dio Uno – sta all’inizio e alla fine della creazione dell’uomo e della donna, chiamati alla comunione. Con l’uomo e la donna (ish e ishah) il Signore ha intessuto il dialogo dell’amicizia, nelle loro mani ha messo tutto il creato perché lo custodiscano e lo coltivino, e in esso crescano fecondi e felici. L’essere immagine e somiglianza di qualcuno indica anche la « figliolanza », come leggiamo più avanti:
« Quando Adamo ebbe centotrent’ anni generò un figlio a sua somiglianza, conforme all’ immagine sua, e lo chiamò Set » (Gen 5,3)
« E Dio disse… »
Questo Sì alla vita è stato detto da Dio attraverso il suo Verbo Creatore. La Parola di Dio è efficace: Egli « dice » e le cose vengono all’esistenza:
« Con la parola del Signore furon fatti i cieli e col soffio della sua bocca tutto il suo ornamento… poiché egli parlò e fu fatto, egli comandò ed esso fu creato » (Sal 33,6.9; cf 148,1-6)
Dio chiama all’esistenza (la nostra prima e universale vocazione è quella alla vita), dà dei nomi, fa le creature secondo la loro specie, assegna loro dei fini, ed esse prendono forma rispondendo alla potenza della sua parola. Il caos disordinato diventa cosmo ordinato.
Nella pienezza della Rivelazione coglieremo il mistero di questa Parola che era « al Principio » presso Dio ed era Dio: « Tutte le cose sono state fatte per mezzo di Lui e senza di Lui niente è stato fatto » (Gv 1,3). Anzi « tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui » (Col 1,16).
« Mandi il tuo Spirito ed essi sono creati » (Sal 104,30)
Insieme alla Parola c’è lo Spirito creatore, la ruah di Dio che dà la vita, dopo aver aleggiato su quel caos iniziale per mettervi ordine; la stessa ruah che Dio soffia nelle narici dell’Adam originario, fatto di creta, e solo allora l’Adam diventa un essere vivente (nefesh). Senza lo Spirito (=il respiro, il soffio di Dio) c’è la morte. Si preannuncia già misteriosamente la dimensione trinitaria, che verrà rivelata pienamente quando la Parola-Figlio assumerà la creta di Adam per divenire il nuovo Adam datore dello Spirito di vita.

Cantare la misericordia del creatore nella contemplazione del creato

Una delle cose più belle, gioiose e liberanti che ci è dato di fare è contemplare l’opera della creazione e noi al suo interno. Sentirci « creature », oggetto dell’interesse amoroso e provvidente del Creatore, ci colloca al posto giusto di fronte a Dio, in vera umiltà gioiosa, piena di gratitudine e capace di assumere le responsabilità che Lui ci affida con il dono della vita. La preghiera che passa in rassegna le opere del Signore, una per una (cf Sal 104, Gb 36,22-37,24; Sal 19,1-7; Dn 3,51-90 ecc.) apre il cuore alla benedizione e alla lode ed fonte di vera gioia e fondato ottimismo. Pensiamo al Cantico delle creature di S. Francesco, alle esclamazioni della nostra Madre di fronte al creato: « qué pintor! ».

[1] “La creazione esiste perché obbedisce alle dieci parole di Dio, e l’uomo vive ed esiste perché obbedisce ai dieci comandi di Dio” (B. COSTACURTA, Spiritualità dell’Antico testamento – appunti degli studenti – PUG 1994-1995).

[2] BENEDETTO XVI, Deus Caritas est, 9.

[3] Cf F.R. DE GASPERIS, Sentieri di vita, I, Paoline 2005, p. 36ss.

Publié dans:biblica, Teologia |on 26 juin, 2014 |Pas de commentaires »

COLTIVERANNO GIARDINI E NE MANGERANNO IL FRUTTO. RM 9,14

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/c_massa_iltuovolto_iocerco3.htm

Il tuo volto, signore, io cerco

Cesare Massa

COLTIVERANNO GIARDINI E NE MANGERANNO IL FRUTTO. RM 9,14

IL LAVORO

L’evoluzione dei rapporti umani e, in particolare, quella anche conflittuale delle classi sociali, ha fornito in questi ultimi secoli alla spiritualità cristiana altre motivazioni relative al lavoro umano oltre quella celebre dettata da Benedetto nella sua Regola: « L’ozio è nemico dell’anima e perciò i fratelli in determinate ore devono essere occupati in lavori manuali, in altre nella lettura divina » (RB 48). Si può tuttavia capire questa esigenza facendo riferimento al tempo storico delle antiche fondazioni benedettine.
Oggi preferiamo dare ragioni più positive circa il lavoro. Infatti esso concorre alla formazione integrale della personalità. Anzi, l’esplicazione sollecitata e aiutata dei talenti personali rappresenta l’opportunità di un arricchimento utile a tutta la comunità umana. Più ancora, il lavoro si presenta come un adempimento del comando del Creatore: quello di custodire e trasformare il mondo « con il sudore della propria fronte » (Gen 3,19).
Il salmo 128 accosta ancora di più alla nostra sensibilità il tema del lavoro, dicendo ne la necessità e la dignità: « Vivrai del lavoro delle tue mani » (v. 2). I boschi e le paludi, i campi e le montagne hanno conosciuto da secoli il lavoro dei monaci: essi hanno dato una forma ordinata a porzioni di mondo, salubrità alle terre e ragioni di vita alla gente, ospitalità ai viandanti e ai poveri di ogni provenienza. Questo hanno fatto « con il lavoro delle proprie mani come hanno fatto i nostri padri e gli apostoli », in ciò qualificandosi « come veri monaci » (RE 48). Benedetto doveva avere ben fisso lo sguardo sull’apostolo Paolo quando prescriveva così il lavoro manuale e sentiva anche la fierezza di non essere stato di peso a nessuno: « Alle necessità mie hanno provveduto queste mie mani » (At 20,34).
Doveva essere un precetto tanto prezioso quello di lavorare se l’Apostolo insiste: « Un punto d’onore: lavorare con le nostre mani » (1Ts 4,11) e ingiunge con molto realismo: « Chi non vuole lavorare neppure mangi » (2Ts 3,10). E ben presente che il lavoro vuole fatica, com’è scritto in Genesi 3,17: « Con dolore ne trarrai il cibo ». E Giobbe: « Non ha forse un duro lavoro l’uomo sulla terra? » (Gb 7,1). E Paolo: « Noi abbiamo lavorato con fatica e sforzo » (2Ts 3,8). Questo richiamo monastico al lavoro delle proprie mani percorre anche oggi con sorpresa gli spazi dell’informazione come una novità che corregge l’immagine nobile e aristocratica della vita religiosa quale si è sviluppata dal tardo medioevo a oggi. Viene letta anche come un rimprovero per aver giudicato la manualità dell’ opera umana come inferiore e meno degna rispetto al lavoro intellettuale. Quasi d’istinto si legge tale normativa circa il lavoro manuale come solidarietà a un mondo che per vivere non ha altri strumenti che le proprie mani.
Può un monastero essere assimilato a un cantiere? Certamente no. Talvolta può darne l’impressione la Regola quando stabilisce nei dettagli i tempi, i controlli e le modalità d’uso degli utensili di lavoro. La realtà è invece più simile a quella di una famiglia che conosce il bene di un lavoro svolto nell’ordine e nella pace, con la certezza che ci sarà un frutto, un esito buono, poiché « Dio non è ingiusto da dimenticare il nostro lavoro » (Eb 6,10).
Tuttavia, c’è un’altra fatica indicata fin dal prologo della Regola: la fatica dell’obbedienza. In una prospettiva mondana, essa sarebbe profittevole come una qualsiasi disciplina del lavoro. Ma la prospettiva è totalmente altra poiché obbedisce a quel lavoro severo e alto che viene chiamato l’opus Dei: è l’opera che Dio compie nel cuore del monaco come gesto primo e gratuito dell’amore e che viene continuato dalla pazienza e dalla sollecitudine di Dio lungo tutto l’itinerario monastico. Poi l’opus Dei è anche il lavoro di tutta la comunità quando risponde all’iniziativa di Dio. Allora l’opus Dei è il servizio di lode « al quale nulla deve essere anteposto ». Il monaco sa quale sia in lui la forma dell’obbedienza per consentire a questo « lavoro » di Dio in lui: la docilità. Uno stato del cuore non dimissionario dalla propria libertà, ma uno stato pacificato e generosamente aperto al magistero dei fratelli e, in primo luogo, a quello dell’abate. Questo « stato del cuore » è detto « umiltà », termine bandito dalle letterature del nostro tempo e che tuttavia indica bene l’attualità della condizione umana quando è descritta umilmente, cioè con verità. E la verità della condizione umana è la fragilità, la piccolezza, la precarietà, descritta fino a sottolinearne talvolta la condizione drammatica. Umiltà è dire l’humus di cui siamo fatti ed esserne conseguenti. È constatare ancora una volta che circola nel nostro sangue l’istinto della trasgressione dei « primi parenti » e che solo andando a ritroso con l’obbedienza è possibile « far ritorno a colui dal quale ti sei allontanato con la pigrizia della disobbedienza » (RB Prologo).
In ultimo non ci si può sottrarre alla fatica della fraternità. L’impegno della stabilità non concerne solo un luogo amato o una storia ammirata o un clima felice, ma – e più ancora l’accettazione di quella cerchia di fratelli, così come sono, così come mi sono consegnati dalla loro storia personale, così come me li consegna lo stato del loro percorso spirituale. Il lavoro della fraternità è una meta mai conclusa. È un lavoro continuo da fare su di sé, a ogni passo ponendosi come in riferimento ad altri. È ben riscontrabile nella vita di famiglia: ogni gesto, ogni scelta, ogni parola deve avere la cautela dell’altro e la tensione verso 1′altro in vista dell’accoglienza o del diniego. O di una crescita comune. Forse, nella vita monastica questa attenzione relazionale è più facile, perché essa è più avvolta nel silenzio e più nutrita dalla preghiera. Ma resta un compito dal momento che la finalità della vita monastica non smussa mai del tutto le diversità di sensibilità, di storia e di esperienza. Si sa che, accanto a queste differenze native o acquisite, occorre far conto delle gradualità della vita di fede di ognuno. E non solo tenerne conto, ma in vario modo aiutare il cammino altrui a « diventare fratelli » (cioè a diventare sempre più ciò che si è già).
Diventare sempre più fratelli: è ben un lavoro di tutti i cristiani, là dove essi si trovano. Il presupposto, che può essere una condizione al vivere assieme, sembra essere una sorta di amabilità nativa, cioè una disponibilità più o meno grande ad amare e a lasciarsi amare. Su di essa può crescere il rispetto per l’altro e per il suo mistero personale; la stima per il suo talento e la valorizzazione del dono per la ricchezza spirituale comune; 1′affezione di amicizia capace di superare anche la nozione paritaria della reciprocità e pervenire all’ esperienza tutta evangelica della gratuità e dell’eccedenza del dono. Tanto più se questa affezione da fraterna si trascolora in affezione filiale verso fratelli più saggi, più forti, più anziani. E da affezione fraterna diventa paterna verso chi è giovane di anni o nuovo alla vita cristiana o debole di fronte alle esigenze della vita spirituale.
Questo « lavoro » che si vede all’intorno, quel silenzio che si respira negli ambiti monastici, quella sobria esultanza che è dato cogliere nella lode liturgica, quella lontananza da una sorta di frenesia per la conquista – che appare molte volte così esteriore – del mondo a Cristo hanno esercitato sempre, e particolarmente ai nostri giorni, un fascino speciale, richiamando l’attenzione non solo sui prodotti del lavoro monastico, ma anche su uno stile di vita più proprio all’uomo, in reazione allo stile così stressante proprio dei grandi deserti delle metropoli. E normale che l’immaginazione vada anche al di là del reale monastico e che si pensi al monastero come a « un giardino coltivato » dove maturano frutti copiosi. E come se andando a ritroso si tornasse non solo dalla disobbedienza all’antica obbedienza, ma dal deserto di questo presente al giardino esuberante dell’Eden primigenio.

Publié dans:biblica, lavoro |on 12 juin, 2014 |Pas de commentaires »

IL BAMBINO CHE È SEMPRE ESISTITO – di Norbert Lieth (Gesù)

http://camcris.altervista.org/bambcr.html

IL BAMBINO CHE È SEMPRE ESISTITO

di Norbert Lieth (tratto da « Chiamata di Mezzanotte », dic. 2002)

Circa duemila anni fa, in Israele nacque un bambino, che in seguito potè a ragione affermare: «Prima che Abraamo fosse nato, Io sono» (Gv 8,58).
Della nascita di questo bambino e del Suo nome, nella Bibbia si narra quanto segue: «Mentre erano là (a Betlemme), si compì per lei il tempo del parto; ed ella diede alla luce il suo figlio primogenito, lo fasciò, e lo coricò in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo» (Lc 2,6-7). Giuseppe, il suo padre adottivo, «gli pose nome Gesù» (Mt 1,25).
Una coppia di coniugi è in viaggio, la moglie è in stato di avanzata gravidanza. La sua gravidanza giunge al termine e le nasce il primogenito. Il bambino non nasce in casa, ma in una stalla vicina a una locanda al completo. Manca una culla, e il bambino viene posto in una mangiatoia. Il neonato riceve il nome « Gesù ».
Diventerà il nome più famoso e significativo della storia, Egli diverrà la personalità più importante di tutti i tempi, in grado di mettere in ombra tutti i re, i potenti, gli eroi, le star e i politici di tutti i tempi. Nessuno ha commosso il mondo tanto quanto questo bambino. Come mai?
Dobbiamo assolutamente occuparci di questa Persona. Chi vive senza tenere conto di Lui, perde la cosa più importante. In modo ben diverso si sono comportati i magi d’Oriente (Mt 2,1 e segg.). Già Agur, vissuto molto tempo prima della nascita di Cristo, scrisse: «Chi è salito in cielo e ne è disceso? Chi ha raccolto il vento nel suo pugno? Chi ha racchiuso le acque nella sua veste? Chi ha stabilito tutti i confini della terra? Qual è il suo nome e il nome di suo figlio? Lo sai tu?» (Pr 30,4).
Gesù stesso ci dà la risposta: «Nessuno è salito in cielo, se non colui che è disceso dal cielo: il Figlio dell’uomo (Gesù)» (Gv 3,13).
Chi è quel bambino in fasce nato in una stalla di Betlemme? È Colui che è sempre esistito!
Come si chiama Dio?
Vi siete mai chiesti come si chiami in realtà Dio? Agur aveva scritto: «Qual è il suo nome e il nome di suo figlio? Lo sai tu?». Una domanda rivolta da Mosè a Dio fu: «Ecco, quando sarò andato dai figli d’Israele e avrò detto loro: « Il Dio dei vostri padri mi ha mandato da voi », se essi dicono: « Qual è il suo nome? » che cosa risponderò loro?» (Es 3,13).
La parola «Dio» è solo un titolo, un concetto generico. Lo si può utilizzare in certi contesti anche in riferimento alle persone. Molte persone, in tutti i tempi, si sono definite «dèi».
Il concetto generico di «Dio»:
- si può applicare al dio di una delle tante religioni, ad esempio ad Allah. Allah significa semplicemente «Dio».
- si può utilizzare anche al plurale, «dèi», per indicare gli idoli e le false divinità pagane: «Non seguirete altri dèi, presi fra gli dèi degli altri popoli intorno a voi» (Dt 6,14). In I Corinzi 8,5-6 è scritto: «Poiché, sebbene vi siano cosiddetti dèi, sia in cielo sia in terra, come infatti ci sono molti dèi e signori, tuttavia per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale sono tutte le cose, e noi viviamo per lui, e un solo Signore, Gesù Cristo, mediante il quale sono tutte le cose, e mediante il quale anche noi siamo.»
Ma come si chiama il vero Dio, che fu l’Iddio di Abraamo, Isacco e Giacobbe? Egli ha un nome proprio attribuito solo a Lui. È un nome che nessuno Gli ha dato ma che Egli stesso si è dato e che descrive come Egli è. Questo nome è «Jahwe» (JHWH). Lo si evince dalla risposta che Dio stesso ha dato alla domanda del Suo servo: «Dio disse ancora a Mosè: «Dirai così ai figli d’Israele: « Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio d’Abraamo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe mi ha mandato da voi ». Tale è il mio nome in eterno; così sarò invocato di generazione in generazione» (Es 3,15). Quando Mosè, dopo il primo incontro con il faraone e le sue imposizioni (Es 5) si sentì abbattuto, l’Eterno lo rialzò con le parole: «Io sono il Signore. Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.» (Es 6,2-3).

Che cosa significa questo nome?
Il Signore spiega a Mosè il Suo nome: «Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono. Poi disse: Dirai così ai figli d’Israele: « l’IO SONO mi ha mandato da voi. Dio disse ancora a Mosè: Dirai così ai figli d’Israele: Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio d’Abraamo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe mi ha mandato da voi…» (Es 3,14-15). In tal modo, Dio si distingue da tutti gli altri dei, poiché Jahwe significa: «Io sono colui che sono.» Questo nome descrive l’eterna esistenza di Dio, ciò che Egli è in tutta la Sua persona.
Abraham Meister scrive: «Jahwe è l’<Io> divino assoluto nella sua massima pienezza.» Il nome proprio di Dio può essere tradotto in nove modi diversi. In tal modo vediamo chi è Dio:

Io sono colui che sono.
Io sono colui che ero.
Io sono colui che sarò.
Io ero colui che sono.
Io ero colui che ero.
Io ero colui che sarò.
Io sarò colui che sono.
Io sarò colui che ero.
Io sarò colui che sarò.
Ciò significa: «Io sono colui che non è mai stato creato, che c’è sempre stato, che esiste di per sé, che è immutabile, eterno ed eternamente presente.» Per questo in italiano noi traduciamo questo nome con « Eterno ».
Abraham Meister scrive al riguardo: «La radice <hawa>, da cui è tratta la parola Jahweh, significa (divenire), <essere>. Egli è quindi l’<Ente>, che si fa conoscere <in divenire>. Egli si mostra in una <auto rivelazione costante e crescente>. … Egli è colui che rivela Sé Stesso…»
Questo nome per gli ebrei era tanto santo, grande e inavvicinabile, che non osavano mai pronunciarlo, per timore di infrangere il terzo comandamento: «Non pronunciare il nome del Signore, Dio tuo, invano». Invece di Jahwe pronunciavano «Signore» (Adonai).

Chi è questo Dio?
Il nome di Dio «Jahwe» è collegato espressamente alla redenzione. Non a caso Dio si rivela con questo nome, in vista della liberazione di Israele dalla schiavitù in Egitto.
Nel seguito dell’autorivelazione divina tramite il nome Jahwe, diviene chiaro che il Signore, in relazione alla redenzione dell’uomo, è potente da liberarlo da qualsiasi problema, infatti si fa conoscere dall’uomo con diversi attributi:

Jahwe-Rapha = Jahwe, che guarisce, che salva
Jahwe-Roi = Jahwe, mio pastore
Jahwe-Shalom = Jahwe è pace
Jahwe-Zidqenu = Jahwe la nostra giustizia

La redenzione dell’uomo è comunque personificata nella rivelazione in carne del Figlio di Dio, Gesù Cristo.

1. L’autorivelazione di Dio come Salvatore.
Tramite il profeta Isaia, Dio disse al Suo popolo: «perché io sono il Signore, il tuo Dio, il Santo d’Israele, il tuo salvatore (Jahwe-Rapha)» (Is 43,3). E: «Io, io sono il Signore, e fuori di me non c’è salvatore» (Is 43,11).
Del divenire uomo di Gesù è detto: «L’angelo disse loro: «Non temete, perché io vi porto la buona notizia di una grande gioia che tutto il popolo avrà: « Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore.» (Lc 2,10-11).

2. L’autorivelazione di Dio come Pastore.
Del suo buon pastore, «Jahwe-Roi», Davide parla nel Salmo 23,1: «Il Signore è il mio pastore, nulla mi manca.»

Mi sono sempre chiesto come mai gli angeli del Signore abbiano cercato prima i pastori sui campi di Betlemme, per rivelare loro il Salvatore. In questa luce lo comprendo meglio: il vero pastore di Israele è venuto in terra per sopperire alla miseria di tutti gli uomini. Ai pastori di Betlemme fu detto inoltre: «Voi pastori di Betlemme, che conoscete bene i pascoli delle vostre pecore, sappiate che è qui il Pastore, il grande Pastore di Israele, il supremo Pastore» («Jahwe-Roi»; cfr. I Pi 5,4).
Parlando della Sua venuta, Gesù ha detto agli israeliti: «Io sono il buon pastore» («Jahwe-Roi»; Gv 10,11.14; cfr. anche v.33).

3. L’autorivelazione di Dio come roccia.
Della «roccia di Israele» leggiamo: «Poiché chi è Dio all’infuori del Signore? E chi è Rocca all’infuori del nostro Dio?» (Sl 18,32). L’apostolo Paolo disse di questa roccia: «bevvero tutti la stessa bevanda spirituale, perché bevevano alla roccia spirituale che li seguiva; e questa roccia era Cristo» (I Co 10,4). Da ciò si evince chiaramente che:

Gesù è Dio
Ci sono alcuni passi nel Nuovo Testamento, in cui il Signore Gesù parla in modo particolarmente regale di Sé stesso come l’«Io sono». In questa autorivelazione Egli utilizza la stessa espressione con cui Dio nell’Antico Testamento si definisce nei confronti del Suo popolo, come unico Signore e Salvatore del mondo.
Possiamo dire che Gesù è la « parte » di Dio inviata agli uomini. Non crediamo in tre dei, ma in un solo Dio che si rivela in tre Persone distinte.
Dal XIII secolo dopo Cristo proviene un’esegesi ebraica su Deuteronomio 6,4: «Ascolta, Israele: Il Signore, il nostro Dio, è l’unico Signore.» Nell’interpretazione leggiamo: «Perché è necessario citare tre volte il nome di Dio in questo versetto? Il primo, Jahwe, è il Padre. Il secondo è la discendenza di Iesse, il Messia, che deve venire dalla famiglia di Iesse, tramite Davide. E il terzo è la via che si trova sotto (cioè lo Spirito Santo, che ci mostra la via) e questi tre sono uno.» (cit. in: Wie erkennt man den Messias?, pag. 23, Der Òlbaum e.V., Lorrach.)
Consideriamo ora i tre punti dell’autorivelazione di Gesù Cristo come l’«Io sono»:
1. Gesù dice in Giovanni 13,19: «Ve lo dico fin d’ora, prima che accada; affinchè quando sarà accaduto, voi crediate che Io sono.» Gesù annunzia in tal modo che Egli è Jahwe, l’«Io sono» del popolo di Israele.
2. Una delle più emozionanti autorivelazioni di Gesù si trova nel Suo confronto con i sommi sacerdoti ebrei: «Perciò vi ho detto che morirete nei vostri peccati; perché se non credete che Io sono, morirete nei vostri peccati». Allora gli domandarono: «Chi sei tu?» Gesù rispose loro: «Sono per l’appunto quel che vi dico» (Gv 8,24-25). Quando gli ebrei Gli chiesero: «Sei tu forse maggiore del padre nostro Abraamo il quale è morto? Anche i profeti sono morti; chi pretendi di essere?» (Gv 8,53), Gesù diede loro questa risposta: «In verità, in verità vi dico: prima che Abraamo fosse nato, Io sono».
Allora essi presero delle pietre per tirargliele; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio» (v 58-59).

3. Pensiamo ad altre parole di Gesù che menzionano l’«Io sono»:
«Io sono il pane della vita» (Gv 6,35).
«Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12; 9,5).
«Io sono la porta …» (Gv 10,9).
«Io sono il buon pastore» (Gv 10,11.14).
«Io sono la risurrezione e la vita» (Gv 11,25).
«Io sono la via, la verità e la vita …» (Gv 14,6).
«Io sono la vite …» (Gv 15,1.5).

4. La più forte affermazione del fatto che Gesù è realmente Dio ci sembra essere stata enunciata nel Getsemani. Infatti, in Giovanni 18,3-6 leggiamo: «Giuda dunque, presa la coorte e le guardie mandate dai capi dei sacerdoti e dai farisei, andò là con lanterne, torce e armi. Ma Gesù, ben sapendo tutto quello che stava per accadergli, uscì e chiese loro: «Chi cercate?» Gli risposero: «Gesù il Nazareno!» Gesù disse loro: «Io sono». Giuda, che lo tradiva, era anch’egli là con loro. Appena Gesù ebbe detto loro: «Io sono», indietreggiarono e caddero in terra.»
Evidentemente, qui il Signore Gesù si rivela con il nome di Dio come «Jahwe», Colui che esiste grazie alla Sua potenza. Le conseguenze di ciò furono che le guardie indietreggiarono e caddero a terra.

Le conseguenze di questa verità
Questo Gesù che venne al mondo in una stalla, che visse l’esistenza umana e il suo sviluppo come ognuno di noi, che crebbe come un normale ragazzo, dal punto di vista fisico, spirituale e psicologico, che invecchiò così come qualunque altro, questo Gesù è Jahwe dall’eternità ed è sempre esistito. «Io sono colui che sono.» Di Lui è scritto anche nell’epistola agli Ebrei: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e in eterno» (Eb 13,8).
Perché dovette diventare uomo? Perché Dio non può morire. Poiché Dio scelse di morire per i peccati degli uomini, dovette diventare uomo e quindi comparve in Gesù Cristo. Di questa autoprivazione divina di Dio in Suo Figlio leggiamo che: «pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma spogliò sé stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò sé stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce» (Fi 2,6-8). L’espressione «in forma di Dio», nel testo originale greco corrisponde a « morphe schema ». Queste due parole definiscono la forma obiettiva di qualcosa così com’è e indipendente da chi la osserva. Gesù è Dio ed esiste in eterno, così come è Dio.
Nasciamo in forma umana e vogliamo entrare nella vita eterna. Gesù invece è venuto dalla vita eterna per morire. Di quando nel giardino del Getsemani si rivelò come l’«Io sono» e i Suoi nemici indietreggiarono cadendo al suolo, Egli disse infine: «Vi ho detto che sono io; se dunque cercate me, lasciate andare questi (i discepoli)» (Gv 18,8). E si diede volontariamente alla morte.
Dio si offrì e morì affinchè noi possiamo avere vita eterna. Solo in tal modo ci è possibile invocare il nome del Signore per essere salvati.
Poiché Gesù è Colui che è, anche Dio Gli ha dato «il nome che è al di sopra di ogni nome, affinchè nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra,» (Fi 2,9-10). E perciò ancora «In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati» (At 4,12).
Non possiamo invocare un Dio maggiore di Jahwe, poiché non esiste altro Dio all’infuori di Lui. Tramite il divenire uomo di Gesù, tramite il Suo morire sulla croce e la Sua resurrezione, abbiamo la possibilità di farlo. Gesù è il nostro vero e unico Salvatore per ogni ambito della nostra vita, per ogni problema e per ogni peccato. Egli può risolvere ogni situazione della nostra vita. Gesù ha detto a ragione: «Io e il Padre siamo uno» (Gv 10,30). Perciò anche le parole di Isaia 43,11 si riferiscono a Lui: «Io, io sono il Signore, e fuori di me non c’è salvatore.»

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« IN TE È LA SORGENTE DELLA VITA » (SAL 36, 10) – OMELIA DEL CARD. WALTER KASPER

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/documents/rc_pc_chrstuni_doc_20020125_kasper-san-paolo_it.html

CONCLUSIONE DELLA SETTIMANA DI PREGHIERA PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI

OMELIA DEL CARD. WALTER KASPER

Basilica di san Paolo fuori le Mura

Venerdì, 25 gennaio 2002

Cari fratelli e sorelle, cari amici!

« IN TE È LA SORGENTE DELLA VITA » (SAL 36, 10):

queste sono le parole del salmista scelte come il tema della Settimana della Preghiera di quest’anno. Sono parole di fede e di fiducia, parole di speranza e di coraggio, parole che ci uniscono e ci impegnano.
1. Saluto voi tutti che siete venuti per la celebrazione della conclusione di questa Settimana di Preghiera, nella quale imploriamo Dio affinché invii su di noi il suo Spirito di vita e sia veramente la sorgente di vita nuova, di nuovo slancio per l’unità dei cristiani e per l’unità di tutta l’umanità. Saluto innanzitutto le chiese e le comunità ecclesiali che sono presenti qui Roma, e che si radunano ogni anno con noi per questa occasione in questa Basilica di san Paolo fuori le Mura, luogo davvero significativo ed importante per i molti avvenimenti ecumenici degli ultimi decenni e soprattutto dell’anno giubilare 2000. La vostra presenza e la vostra partecipazione attiva insieme con noi, la nostra preghiera comune è per me il segno di una comunione che è cresciuta e continua a crescere, di un’amicizia promettente, un’occasione di gratitudine, di gioia e di speranza.
Cari fratelli e sorelle, noi tutti siamo ancora presi dalla profonda emozione suscitata dalla Giornata di Preghiera per la Pace di ieri ad Assisi. Un’esperienza veramente commovente, un evento che rimarrà impresso nei nostri cuori. Ringraziamo il Signore per averci donato questa esperienza, attraverso la quale Egli ci ha mostrato la sua presenza nel nostro mondo, nel nostro tempo malgrado e nonostante tutte le inquietudini, le preoccupazioni e le paure e ci ha riempito ancora una volta di speranza, ma allo stesso tempo ci ha impegnati nuovamente ad essere operatori di pace ed essere operatori di pace insieme.
2. Le parole del salmista risuonano come un’eco delle testimonianze e delle preghiere di Assisi. Veramente, Dio è la sorgente della vita! È necessario ricordare questa verità fondamentale, soprattutto dopo i tristi e tragici eventi dell’11 settembre, frutto ed espressione dei poteri della morte, della morte di migliaia di persone innocenti e una minaccia alla vita, ai valori e alla cultura della vita di tutta l’umanità, una minaccia alla pace e alla convivenza civile degli uomini, dei popoli, delle etnie, delle religioni e delle culture. Gli abissi dei poteri della morte e del male si sono dunque aperti.
Questi avvenimenti hanno mostrato la fragilità della nostra civilizzazione, hanno compromesso la certezza della nostra sicurezza. Abbiamo compreso ancora una volta il significato profondo del messaggio del profeta Geremia nell’Antico Testamento: « Dicono: « shalom!, shalom! », « pace! pace! », ma non c’è shalom, non c’è pace » (Ger 8, 14). « Aspettavamo (shalom) la pace, ma non c’è alcun bene » (Ger 8, 15). Nel corso della nostra vita, anche della nostra vita moderna con tutti i sui mezzi sofisticati, scientifici e tecnologici, siamo minacciati dalla morte.
Dov’è dunque la sorgente della vita? È questo il quesito che si pone l’uomo dei nostri giorni; è persino il desiderio, una fame ed una sete espressi da molti contemporanei. Il desiderio della vita, della vita vera, della pienezza della vita abita e vive in ogni cuore umano e molti, soprattutto molti giovani, sperimentano che una civilizzazione dell’avere e del piacere non basta, non sazia, non riempie il cuore, non dà la pace interiore, anzi, conduce ad una sfrenata, e allo stesso tempo frustrante, ricerca ad avere di più e sempre di più.
3. Ad Assisi abbiamo ascoltato un altro messaggio, il messaggio delle religioni, di tutte le religioni. Benché siano molte e così diverse fra loro, esse comunicano un messaggio comune: il mondo e la vita hanno un valore molto più grande di quello che si può vedere, di più di quello che si può toccare con mano, calcolare, fare, ottenere e manipolare, sono espressioni più alte, più profonde, più ricche.
« Gli uomini delle varie religioni – come dice il Concilio Vaticano II – attendono la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte… infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo » (Nostra aetate, 1). « Dai tempi più antichi fino ad oggi presso i vari popoli si trova una certa sensibilità di quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, ed anzi talvolta si riconosce la Divinità Suprema o anche il Padre » (ibidem, 2). Le religioni vogliono essere e mostrare vie alla vita, compenetrare la vita di un intimo senso religioso. La convinzione della santità della vita è un patrimonio comune delle religioni. Uccidere nel nome della religione è una bestemmia, un uso improprio ed una comprensione errata della religione. Per le religioni il divino o la divinità è sorgente di vita.
4. La Bibbia degli ebrei e dei cristiani con la sua fede nella creazione conferma, purifica e arricchisce questa convinzione religiosa. Dio ha creato, « il cielo e la terra e tutte le loro schiere » (Gen 2, 1). Dio, e Dio solo, è la sorgente della vita, una sorgente viva, zampillante, abbondante e traboccante. Lui ha creato tutto, compenetra tutto con il suo soffio di vita, Lui conserva tutto nella vita e Lui alla fine conduce tutto alla pienezza della vita. « In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo » (Atti 17, 28). Lui è – come la Bibbia ci dice – un « amante della vita » (Sap 11, 16).
Nell’Utimo libro della Bibbia è scritto: « Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine. A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita » (Ap 21, 6). Perciò alla fine « non ci sarà più lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate » (Ap 21, 4).
Cari fratelli e sorelle! Ciò di cui abbiamo bisogno oggi è di lottare per la vita e per la santità della vita. La nostra cultura moderna e postmoderna è una cultura secolarizzata che ha perduto la consapevolezza di Dio quale sorgente della vita. L’uomo stesso si è fatto maestro della vita e vuole oggettivare, analizzare, calcolare e manipolare tutto, e così riduce ogni cosa a oggetti morti, anche la vita umana diventa oggetto di calcolo economico.
Proprio perché Dio è la sorgente della vita e perché Dio vuole la pace, noi cristiani dobbiamo essere promotori, ed essere amanti della vita e divenire operatori della pace. Noi cristiani dobbiamo essere protagonisti di una nuova cultura della vita, del dono della vita, del rispetto per la santità della vita, dei valori e della priorità della vita in opposizione alle cose morte. Di fronte all’attuale situazione, alle attuali minacce e agli attuali problemi, i nostri conflitti confessionali sono una doppia vergogna. Noi, tutti i cristiani insieme con gli ebrei, dovremmo riscoprire la comune eredità della verità sulla creazione. Dovremmo stare insieme e dare una testimonianza comune di Dio, sorgente, custode e amante della vita, insieme dobbiamo cooperare per una nuova cultura della vita.
5. Cari fratelli e sorelle! Se riflettiamo sul verso del salmista « In te è la sorgente della vita » scopriamo ancora un’altra dimensione, un elemento distintivo che il Nuovo Testamento ci indica, la dimensione della nuova vita. Nel passaggio del Vangelo di san Giovanni che ci ha accompagnato durante questa settimana, l’incontro notturno di Gesù con un capo dei Giudei, Nicodemo (Gv 3, 1-17), alla sorpresa di Nicodemo, Gesù parla della necessità della nuova nascita da acqua e Spirito, della nascita alla vita nuova e alla vita eterna.
Dietro queste parole c’è la stessa esperienza a cui abbiamo già accennato, l’esperienza della fragilità e l’esperienza delle ferite profonde e delle deformazioni della vita umana, della debolezza e della nostra impotenza nel dare sicurezza e senso alla nostra vita. Dio ha creato il mondo e l’uomo « buoni », persino li ha creati molto buoni; ma l’uomo per il peccato si è distaccato, si è allontanato dalla sorgente della vita.
Nonostante ciò Dio è rimasto fedele alla sua creatura; Dio – come Gesù disse a Nicodemo – ama il mondo. Per questo ha manato il suo Figlio nel mondo. « In lui era la vita » (Gv 1, 4). Lui venne affinché noi avessimo la vita e l’avessimo in abbondanza (Gv 10, 10). Lui è « la via, la verità e la vita » (Gv 14, 5). È questa la spiegazione che Gesù offre a Nicodemo: Dopo che l’accesso al primo albero della vita nel paradiso è stato negato, nell’albero della croce è stato innalzato il nuovo albero della vita, « perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna » (Gv 3, 15). Perché chiunque beve dell’acqua che Gesù dà non avrà mai sete, anzi quest’acqua diventerà « sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna » (Gv 4, 14). Tramite l’acqua del battesimo Dio è di nuovo sorgente della vita nuova; tramite il battesimo siamo partecipi della nuova vita, siamo fatti uomini (e donne) nuovi, nuova creatura, siamo rigenerati « per una speranza viva » (1 Pt 1, 3).
6. Ecco, cari fratelli e sorelle, questo è l’elemento fondante della fratellanza fra tutti i battezzati, fra tutti i cristiani. Ci sono differenze fra di noi; apparteniamo a Chiese e comunità ecclesiali diverse. Ma quello che ci unisce è più profondo e più forte di quello che ci divide. Nessuna differenza è tanto profonda e nessuna screpolatura tanto ampia e profonda da togliere o distruggere la nostra comunione più sincera e più piena.
Ecco spiegata la comunione reale e profonda di tutti i cristiani nonostante essi vivano in Chiese e comunità ecclesiali diverse. Ecco anche la differenza fra battezzati e non battezzati, fra il dialogo ecumenico, che si fa fra cristiani, e il dialogo interreligioso coi membri di religioni non cristiane. È una differenza qualitativa nel fondamento e anche una differenza qualitativa nello scopo. Mentre il dialogo interreligioso mira alla convivenza pacifica e rispettosa e all’amicizia, il dialogo ecumenico mira alla piena comunione e all’unità della Chiesa.
La lettera agli Efesini ha espresso questa nostra comunione cristiana: « Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti » (Ef 4, 4-6).
7. Ma correremmo il rischio di un gravissimo malinteso nella comprensione di questo alto inno alla nostra comunione, se dicessimo: « Siamo « okay »; siamo contenti; non c’è nulla da cambiare, possiamo rimanere come siamo ». No, assolutamente no! Se pensassimo così dimenticheremmo che Gesù e il Nuovo Testamento hanno parlato della vita nuova, dell’uomo nuovo, della creatura nuova.
Ogni giorno abbiamo bisogno di essere rinnovati, abbiamo bisogno di un rinnovamento personale e di un rinnovamento comunitario della Chiesa. Spesso noi tutti viviamo più in conformità alle leggi di questo mondo vecchio invece che in conformità alla legge nuova della nuova vita, il nuovo comandamento della carità.
Noi non siamo perfetti, e anche la Chiesa, benché santa, è una Chiesa di peccatori. Ciò diventa evidente se guardiamo alle nostre divisioni. Esse sono contro la volontà di Gesù; sono peccato.
Sono una contraddizione all’amore e alla fratellanza cristiana tutti i pensieri negativi, le parole cattive, i pregiudizi, le opere inique e le ingiustizie che avvenivano durante i secoli e che spesso sussistono anche oggi. « Ecclesia semper reformanda » è uno slogan protestante; « Ecclesia purificanda » asserisce il Concilio Vaticano II (Lumen gentium, 8). Le due affermazioni fanno da eco al concetto fondante e al fulcro della buona novella di Gesù sulla venuta del regno di Dio: « Convertitevi e credete al Vangelo » (Mc 1, 5).
La conversione è essenziale per l’esistenza cristiana e non c’è un ecumenismo autentico senza conversione, senza il desiderio di lasciarsi immergere nella novità del regno di Dio. Così ci insegna il Concilio Vaticano II (Unitatis redintegratio, 5-8) e così ribadisce il Papa nella sua enciclica ecumenica « Ut unum sint » (15-16; 33-35). Il movimento ecumenico è dapprima e soprattutto un movimento di conversione alla vita nuova. Ci vuole una purificazione della memoria, un modo di pensare nuovo, un cuore nuovo, una vera spiritualità ecumenica.
8. Sì, una rinnovata spiritualità ecumenica che è il cuore dell’ecumenismo ed è la chiave per un nuovo slancio ecumenico che ci permette di uscire dall’imbarazzo in cui ci troviamo e di fare un balzo in avanti. Occorre attingere continuamente alle sorgenti spirituali della vita: l’ascolto della parola di Dio, i sacramenti, la preghiera. Più ci avviciniamo a Cristo e al suo Vangelo della vita nuova, più ci avviciniamo gli uni agli altri. Soltanto se noi ci rinnoviamo, soltanto se diventiamo uomini (e donne) nuovi possiamo essere testimoni autentici della vita nuova in una cultura nuova della vita. Soltanto se viviamo la novità del Vangelo siamo in grado di essere testimoni della speranza e incoraggiare gli altri ad accompagnarci sul cammino lungo e faticoso, ma gioioso verso l’unità, affinché il mondo creda e trovi la via verso la pace e la fratellanza.
« In te è la sorgente della vita ». Questa frase, cari fratelli e sorelle, vale anche per il movimento ecumenico. Non noi, non il nostro sforzo, neanche il nostro entusiasmo, Dio solo è la sorgente di un ecumenismo nuovo, di una Chiesa rinnovata per essere testimoni di una cultura nuova e per essere operatori di pace. « Vieni Santo Spirito e rinnova i cuori dei tuoi fedeli ». Amen.

 

L’AULA MAGNA DEL BIBLICO – (nel contesto della « lezione », il tema della Parola di Dio)

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L’AULA MAGNA DEL BIBLICO: RICORDI E ATTIVITÁ – LEZIONE

P. Klemens Stock

Lezione del professore R.P. Klemens Stock S.J. tenuta il 4 ottobre 2011 in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 2011-12 e della Aula Magna completamente ristrutturata.

(nel contesto della « lezione », il tema della Parola di Dio)

1. La parola di Dio
La parola di Dio è composta da due elementi: una rivelazione e un comando. Dio rivela Gesù come il suo Figlio prediletto, e ordina ai discepoli di ascoltarlo. Vediamo ora questi due elementi.
1.1. La rivelazione del Figlio prediletto
Il termine “figlio” (hyios), al singolare, ricorre al singolare in Marco 31 volte: quasi sempre, 29 volte, viene applicato alla persona di Gesù, mentre negli altri due casi restanti, cioè in 9,17 e 10,46, viene usato per persone umane, di cui viene indicato anche il padre. Ma i modi in cui questo termine viene usato e le persone che lo utilizzano sono diversi. Solo Gesù usa le espressioni “il figlio dell’uomo” (14 volte) e “il figlio” (1 volta, in 13,32), sempre in funzione di soggetto della frase e facendo un’affermazione su di essi. Negli altri casi il termine non viene usato da Gesù, ma da altre persone, e non come soggetto, ma come parte del predicato, quando viene fatta un’affermazione per caratterizzare la persona di Gesù. Gli abitanti di Nazaret chiamano Gesù “il figlio di Maria” (6,3), caratterizzandolo mediante il rapporto vitale e fondamentale con sua madre. Bartimeo chiama Gesù “figlio di Davide” (10,47.48), facendo riferimento alla sua appartenenza a questa famiglia regale e alle aspettative legate ad essa. Più tardi Gesù ricorderà l’insegnamento degli scribi che il Cristo è figlio di Davide e lo metterà in dubbio (12,35-37). Alcuni demoni chiamano Gesù “figlio di Dio” durante la sua attività pubblica e vengono sgridati e messi a tacere da Gesù (3,11; 5,7). Il sommo sacerdote chiede a Gesù se egli è “il Cristo, il figlio del Benedetto” e qualifica la risposta affermativa di Gesù come bestemmia (14,61-64). Dopo la morte di Gesù, il centurione pagano sotto la croce (15,39) e l’evangelista, nella prima frase della sua opera (1,1), chiamano Gesù “figlio di Dio”.
Nel vangelo di Marco Gesù è quasi l’unica persona di cui si menziona la “figliolanza”. D’altra parte, tra le denominazioni che si applicano a lui (per esempio: maestro, Cristo, re, signore, profeta ecc.), quella di figlio è la più frequente. Ciò che interessa soprattutto è la sua ‘figliolanza’, la sua appartenenza secondo vari aspetti. Essenziali per la persona e per la conoscenza di Gesù sono i rapporti in cui egli si trova.
Anche Dio parla della figliolanza di Gesù e lo chiama “il mio Figlio prediletto” (ho hyios mou ho agapetos, 1,11; 9,7). Questa espressione è del tutto singolare: viene usata solo da Dio, e solo per Gesù, ed è l’unica affermazione di Dio nei confronti di Gesù. Essa esprime la singolare appartenenza di Gesù a Dio, il singolare rapporto che esiste tra Dio e Gesù. Questo è l’unico contenuto che Dio comunica ai discepoli. Nessuna cosa è tanto importante per il loro rapporto con Gesù quanto la loro conoscenza del rapporto di Dio con lui. Dio lo comunica ad essi con la sua autorità divina assoluta.
La parabola del proprietario di una vigna, dei suoi inviati e dei vignaioli malvagi (Mc 12,1-12) mostra e sottolinea che l’espressione ‘figlio prediletto’ non indica tanto una funzione o un incarico di Gesù, quanto il suo rapporto personale con Dio. Nella parabola, l’incarico è lo stesso per tutti gli inviati del proprietario: essi devono richiedere la parte della vendemmia che spetta al proprietario. Tutti gli inviati vengono chiamati “servi” (12,2.4), eccetto l’ultimo. Questi viene messo in rilievo in diversi modi: è l’ultimo che è rimasto al proprietario, viene espressamente chiamato figlio prediletto, ultimo inviato ed erede (12,6-7), e la sua uccisione provoca un intervento energico del padrone. In tutto ciò si manifesta il suo singolare rapporto personale con il proprietario della vigna, che rappresenta Dio.
Il titolo “il mio Figlio prediletto” esprime un singolare rapporto personale e cordiale tra Dio e Gesù. La conoscenza di questo rapporto non è dovuta all’intelligenza umana dei discepoli, né a una dichiarazione di Gesù, ma soltanto a una rivelazione che proviene da Dio Padre, il quale è l’unico che conosce il Figlio (cf. Mt 11,27; 16,17; Gal 1,15-16). Solo Dio sa qual è il rapporto di Gesù con Lui; solo il Padre può rivelare che Gesù è il suo Figlio prediletto. I discepoli hanno il compito di capire sempre più l’importanza del fatto che in Gesù essi hanno presso di sé il Figlio prediletto di Dio. Dio stesso indica loro la conseguenza più importante di questo fatto: “Ascoltatelo!”.
1.2. Il comando divino di ascoltarlo
Il comando “Ascoltatelo!” è l’unico comando di Dio che ci viene riferito da Marco. Esso non viene esplicitato con dei contenuti, ma è completamente riferito alla persona di colui che Dio ha appena rivelato. Il loro ascoltare deve essere caratterizzato dal sapere che Gesù è il Figlio prediletto di Dio. A questo fatto devono corrispondere l’attenzione, l’interesse e l’intensità del loro ascoltare. Al primo posto non ci sono i contenuti, ma la persona del Figlio prediletto che li comunica. Le sue parole devono essere recepite, in modo chiaro e consapevole, come le parole del Figlio prediletto di Dio. Vogliamo ora riflettere sull’importanza del fatto che Dio mette al centro la persona del suo Figlio prediletto, tenendo conto delle circostanze della trasfigurazione di Gesù.
Il comando di Dio “Ascoltatelo!” è preceduto da tanti richiami di Gesù all’ascoltare. Egli inizia il suo primo grande discorso, il discorso delle parabole (4,3-34), con l’esortazione: “Ascoltate!” (4,3) e ripete due volte: “Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti” (4,9.23). Il tema principale di questo primo discorso è proprio quello di mostrare il modo giusto di ascoltare. Anche nel suo successivo discorso Gesù chiede: “Ascoltatemi tutti e intendete bene!” (7,14).
Dagli insegnamenti di Gesù si può desumere una certa dottrina sull’ascoltare. L’ascoltare deve essere seguito dall’accogliere e fruttificare (4,20). È minacciato da pericoli seri (4,15-19). Deve essere accompagnato dall’intendere (7,14: 8,17-21), che presuppone una grande attenzione a ciò che viene ascoltato (4,24-25). E colui che ascolta e intende, deve essere luce (4,21-23), deve comunicare agli altri ciò che ha ricevuto. Attraverso gli insegnamenti di Gesù i discepoli sono preparati a ricevere il comando di Dio. Quest’ultimo conferma le istruzioni di Gesù e rivela che colui che li istruisce è il Figlio prediletto di Dio e mette al centro dell’ascoltare la consapevolezza che Gesù è il Figlio prediletto di Dio.

2. La parola di Dio nel contesto della trasfigurazione di Gesù
La voce di Dio si rivolge ai tre discepoli, ma tutti gli avvenimenti che si verificano prima e dopo la parola rivolta da Dio sono in loro favore. Questo viene messo particolarmente in rilievo da Marco. I tre discepoli vengono condotti sul monte da Gesù (9,2). Egli viene trasfigurato davanti ai loro occhi (9,3). A loro appaiono Mosè ed Elia (9,4). Essi sono spaventati e Pietro parla a nome di tutti (9,5-6). Essi vedono con sé solo Gesù (9,8). A loro Gesù ordina di non parlare di questo episodio fino alla sua risurrezione (9,9). La voce di Dio rappresenta il culmine di tutti questi eventi, che sono orientati alla formazione dei tre discepoli, alla loro più profonda conoscenza della persona di Gesù.
Gesù ha portato con sé sul monte soltanto tre discepoli. Ma già il numero “tre” fa capire che si tratta di tre testimoni (cf. Dt 19,15; Mt 18,16; Gv 8,16-17). E il divieto di Gesù di parlare della loro esperienza prima della sua risurrezione implica il comando di darne testimonianza dopo la risurrezione (cf. 2 Pt 1,16-18). Mediante tutti questi avvenimenti la mente dei discepoli si deve aprire alla comprensione della persona di Gesù e del loro agire giusto.
La voce di Dio rivela un rapporto singolare di Gesù con Dio. Ma anche gli altri eventi accennano a una particolare appartenenza di Gesù al mondo di Dio. Gesù non trasforma se stesso, ma viene trasformato da Dio nella figura in cui appare ai tre discepoli (9,2). Le sue vesti sono di un bianco che a nessun uomo con tutti i suoi sforzi è possibile ottenere (9,3), e sono caratteristiche della figura che Gesù avrà nel mondo di Dio. Anche i suoi interlocutori, Mosè ed Elia, non appartengono al mondo terreno, ma a quello di Dio. Questi fenomeni preparano la rivelazione del rapporto singolare di Gesù con Dio, e vengono confermati e interpretati da essa.
Dobbiamo mostrare ancora in modo particolareggiato il significato speciale di alcune di queste circostanze. Di grande significato è il fatto che Dio rivolge la sua parola ai tre discepoli alla presenza di Mosè ed Elia. L’Antico Testamento menziona i due insieme solo in Ml 3,22-24. Mosè rappresenta la Legge (cf. Mc 1,44; 7,10; 10,3; 12,26); è il mediatore attraverso il quale Dio ha dato al suo popolo le norme dell’agire giusto. Elia rappresenta i Profeti, che hanno il compito di ricondurre il popolo ribelle e infedele al Signore loro Dio. Ad Elia spetta anche il compito speciale di preparare la venuta del Signore (cf. Ml 3,23-24; Mc 1,2; 9,11-13). Dio finora ha parlato e ha comunicato la sua volontà al suo popolo mediante Mosè e i profeti. Ad essi compete anche in modo particolare il titolo di “servo del Signore”. Mosè più volte viene designato con tale titolo (cf. Gs 14,7; Ml 3,22; Eb 3,5, Ap 15,3), ed Elia viene chiamato “servo del Signore” insieme con gli altri profeti (cf. 2 Re 17,23). Distinguendo chiaramente Gesù da questi suoi due principali servi, Dio lo chiama “il suo Figlio prediletto” (cf. Mc 12,1-6; Eb 1,1-2; 3,5-6), e alla presenza dei due servi incarica i tre discepoli di ascoltare il suo Figlio prediletto. Da quando il Figlio è venuto ed è presente nel mondo, l’attenzione dei discepoli non deve essere più rivolta ai servi, ma al Figlio. Così, in modo fondamentale e programmatico, si stabilisce il rapporto tra la rivelazione di Dio mediante la Legge e i Profeti (Antico Testamento) e la rivelazione di Dio mediante il suo Figlio (Nuovo Testamento). L’Antico Testamento non deve essere più ascoltato come parola di Dio in se stesso e indipendentemente dal Figlio, ma solo nella misura e nel modo in cui viene accolto e interpretato dal Figlio (cf. Mt 5,21-48; Mc 10,2-12; Gv 1,17; Gal 4,4-7; Eb 1,1-2).
Il rapporto con l’Antico Testamento, che si manifesta attraverso le persone, si manifesta anche attraverso il luogo e altre circostanze della trasfigurazione. Gesù ha condotto i tre discepoli su un alto monte, dove Dio si rivolge ad essi da una nube alla presenza di Mosè ed Elia. Così ci sono diverse allusioni al monte Sinai/Oreb, con il quale è particolarmente connessa la rivelazione di Dio. Sul Sinai la nube indica la presenza di Dio, e Dio parla dalla nube (cf. Es 19,9, 20,21, 24,16). Mosè ed Elia sono gli unici grandi personaggi dell’Antico Testamento che hanno un particolare legame con il Sinai/Oreb e con la rivelazione di Dio su questo monte. Mosè, in quanto mediatore tra Dio e il popolo, ha ricevuto la Legge sul Sinai, dove Dio ha stipulato la sua alleanza con il popolo d’Israele (Es 19–40). Elia, in quanto profeta perseguitato e minacciato di morte, è fuggito all’Oreb, dove ha avuto un incontro particolare con Dio e ha ricevuto nuovi compiti da Lui (1 Re 19,1-18). Pertanto ci sono tanti motivi per paragonare la rivelazione di Dio sul monte della trasfigurazione con la rivelazione di Dio sul Sinai. Prendiamo ora in considerazione solo l’inizio della rivelazione sinaitica.
Al Sinai Dio dice a Mosè (e a Israele): “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna…” (Es 20,2-4; Dt 5,6-8). A queste parole fa seguito il decalogo e fanno seguito molte disposizioni legali. Sul monte alto Dio dice ai tre discepoli (che sono i testimoni): “Questi è il Figlio mio, il prediletto: ascoltatelo!” (Mc 9,7). Al Sinai Dio rivela innanzitutto se stesso e il suo rapporto con il popolo, cioè dice chi è lui per questo popolo e che cosa ha fatto in favore di questo popolo. Sul monte alto Dio non rivela se stesso, ma rivela Gesù come suo Figlio prediletto. Ma più precisamente dobbiamo dire che anche qui Dio rivela se stesso, perché, rivelando Gesù come suo Figlio prediletto, rivela se stesso in quanto Padre di Gesù, che ama suo Figlio. Dio rivela l’uguaglianza di Gesù con sé, rivela che Gesù si trova al suo stesso livello e al suo fianco. Al Sinai poi seguono molte disposizioni che riguardano il comportamento giusto del popolo d’Israele. Tutte sono fondate nella posizione che Dio ha nei confronti di questo popolo. I primi comandamenti regolano il comportamento del popolo nei riguardi di Dio stesso: “Non avrai altri dèi di fronte a me…” (Es 20,3-7). Anche sul monte alto il primo comandamento riguarda colui che è stato appena rivelato ed è fondato nel suo rapporto con Dio: “Ascoltatelo!” (Mc 9,7). Questo comandamento segue immediatamente la rivelazione e regola il comportamento verso la persona rivelata; pertanto corrisponde, per la sua posizione e per il suo contenuto, ai comandamenti del Sinai che regolano il comportamento verso Dio (cf. Es 20,3-7). Inoltre, esso condivide il carattere esclusivo dei comandamenti che riguardano Dio. Come Israele non deve avere altri dèi di fronte al Signore, così i discepoli devono ascoltare soltanto il Figlio prediletto di Dio. Non solo la rivelazione precedente (“Questi è il Figlio mio, il prediletto”), ma anche questo comandamento mettono Gesù accanto a Dio e hanno una singolare importanza. Questa importanza viene sottolineata e accresciuta dal fatto che c’è solo questo unico comandamento. Al Sinai alle parole iniziali di Dio fa seguito il decalogo e fanno seguito molte leggi. Al monte della trasfigurazione ogni comando di Dio sul giusto comportamento è riassunto nella parola: “Ascoltatelo!”. Continuando il paragone con il decalogo, possiamo dire che questa parola, in quanto corrisponde ai comandamenti che riguardano il comportamento verso Dio, appartiene alla cosiddetta prima tavola; e allora dobbiamo constatare che non c’è una seconda tavola. Possiamo anche dire che nell’Antico Testamento abbiamo le dieci parole (i dieci comandamenti) e parliamo di “decalogo”, mentre nel Nuovo Testamento abbiamo questa unica parola di Dio (questo unico comandamento), e in questo senso potremmo parlare di “monologo” del Nuovo Testamento, che dice appunto: “Ascoltatelo!”.
Questa considerazione sulla parola rivolta da Dio ai tre discepoli nel contesto della trasfigurazione ci fa capire di nuovo il carattere singolare di tale parola e anche la posizione singolare di Gesù. Dio dice questa unica parola, attraverso la quale rivela il suo Figlio prediletto (e se stesso come Padre di questo Figlio), e nella quale indica il giusto comportamento verso suo Figlio. Per tutto il resto i discepoli sono indirizzati al Figlio. Egli è per loro “la parola di Dio”, attraverso la quale essi ricevono la vera conoscenza di Dio e anche la conoscenza dell’agire giusto.
3. La parola di Dio e il cammino dei discepoli con Gesù

La trasfigurazione di Gesù, e con essa la parola rivolta da Dio ai tre discepoli, occupa un determinato posto nel cammino dei discepoli con Gesù. Quindi vogliamo esaminare anche quale sia la portata di tale parola per questo cammino, quale sia il suo influsso sulla conoscenza di Gesù e sul comportamento verso Gesù da parte dei discepoli.
La domanda: “Chi è Gesù?”, è fondamentale sin dall’inizio per il cammino dei discepoli con Gesù. Qui non abbiamo il tempo di mostrarne tutti i particolari. La parola di Dio costituisce il culmine per la rivelazione e per la conoscenza di Gesù, quanto al contenuto e quanto all’autorevolezza. Questa parola mostra qual è il rapporto personale che c’è tra Dio e Gesù. Nella passione di Gesù viene posta l’alternativa: Gesù è veramente il Figlio di Dio, o è un bestemmiatore di Dio? (cf. Mc 14,61-64; 15,39). L’intervento potente di Dio, che risuscita Gesù dai morti, conferma definitivamente la parola di Dio: Gesù è veramente il Figlio prediletto di Dio.
A partire dalla loro chiamata, i discepoli hanno ascoltato e accettato la parola di Gesù (Mc 1,16-20). Durante tutto il loro cammino con Gesù la caratteristica dei discepoli è che essi seguono Gesù e ricevono da lui, oltre all’insegnamento rivolto a tutto il popolo, una particolare istruzione (cf. 4,34; 7,17-23) ed esperienze particolari della sua persona (cf. 4,35-41; 6,45-52; 8,14-21). Talvolta l’evangelista riferisce che i discepoli non comprendono Gesù e che Gesù si meraviglia della loro incomprensione (cf. 4,13.40; 7,18; 8,17-21); ma non dice mai che i discepoli abbiano rifiutato di ascoltare Gesù. Così viene presentato il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli durante la sua attività in Galilea (Mc 1,14–8,26).
Gesù lascia la Galilea assieme ai discepoli, si reca dapprima nella regione di Cesarea di Filippo (8,27) e poi inizia con loro il cammino verso Gerusalemme. Durante questo cammino egli si occupa solo dei discepoli, con poche eccezioni (cf. 9,14-27; 10,1-22.46-52). Gesù istruisce più volte soltanto loro, escludendo tutti gli altri (cf. 9,30-31), sul fatto che egli, secondo il piano salvifico di Dio (‘dei’), sarà riprovato dal sinedrio, sarà ucciso e dopo tre giorni risusciterà (8,31; 9,31; 10,33-34).
Dopo la prima istruzione di Gesù, Marco riferisce: “Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo” (8,32). Qui si verifica un completo cambiamento nell’atteggiamento dei discepoli. Non si tratta più di una loro incomprensione passiva, per così dire, ma di un loro rifiuto attivo: essi non vogliono ascoltare e accettare l’insegnamento di Gesù. Egli reagisce con grande fermezza, rimproverando Pietro: “Va’ dietro a me, satana. Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (8,33). “Su, dietro a me!” (1,17) è stata la prima parola che Gesù ha indirizzato a Simone e Andrea. In questo modo li ha chiamati e ha stabilito una volta per sempre il loro rapporto reciproco: egli è il maestro ed essi sono i discepoli; egli parla e determina il cammino ed essi lo ascoltano e lo seguono. Pietro si è allontanato da questo rapporto, e viene rimesso in esso, in modo esplicito e preciso, dalla parola di Gesù: “Va’ dietro a me!”. Le successive parole di Gesù mostrano quanto l’agire di Pietro sia contrario al piano e alla volontà di Dio. Gesù chiama Pietro “satana” – satana è caratterizzato dal fatto di essersi ribellato a Dio e di impegnarsi continuamente a spingere le creature di Dio ad agire contro Dio. Gesù dice a Pietro esplicitamente da che cosa è determinato il suo pensiero e desiderio: non dalla volontà di Dio, ma dal volere umano, naturale e spontaneo.
È proprio a questa profonda crisi che fa seguito, dopo sei giorni (9,2), la trasfigurazione di Gesù. La parola di Dio rivolta a Pietro, Giacomo e Giovanni è la risposta di Dio a questa crisi. Essi devono sapere che colui che viene respinto e ucciso dagli uomini non è solo il Cristo, come ha confessato Pietro (8,29), ma è il Figlio prediletto di Dio. Essi devono ascoltare e accettare il fatto che Gesù sarà respinto e ucciso e dopo tre giorni risusciterà, sebbene questo vada contro i loro desideri e le loro aspettative. La parola di Dio è innanzitutto la presentazione di colui che ha parlato in questo modo, e mostra che non il rifiuto, ma l’incondizionato ascolto è il giusto comportamento nei suoi confronti.
Ascoltare significa quindi riconoscere questo Gesù consegnato, riprovato e ucciso dagli uomini e risuscitato da Dio come il Figlio prediletto di Dio. Ascoltare significa anche accettare il suo cammino per se stessi ed essere pronti a seguirlo, rinunciando ad altri desideri per la propria vita (cf. 8,34-38).
Quanto sia difficile ascoltare Gesù, lo capiamo dal successivo comportamento dei discepoli. Essi non si occupano del secondo annuncio della sorte dolorosa di Gesù (9,31-32), ma discutono tra di loro su chi sia il più grande (9,34). Non ascoltano l’insegnamento di Gesù sul servizio (9,35-37), ma Giacomo e Giovanni gli chiedono i primi posti (10,35-40), provocando la rabbia degli altri dieci (10,41), e costringendo così Gesù a fare un altro insegnamento sul servizio (10,42-45). Il non-ascoltare raggiunge il suo culmine quando i discepoli, dopo l’arresto di Gesù, fuggono e non lo seguono più. Ma Gesù, predicendo la loro fuga (14,27), annuncia anche: “Dopo la mia risurrezione vi precederò in Galilea” (14,28). Con il comando: “Va’ dietro a me” (8,33), Gesù ha rimesso Pietro al posto che gli spetta. Con l’annuncio: “Vi precederò in Galilea”, dice che egli, in quanto Signore risorto, sarà di nuovo il loro maestro, e li invita di seguirlo di nuovo, a riprendere il posto di discepoli. La fedeltà e il perdono di Gesù superano la fuga dei discepoli e ridanno ad essi la possibilità di ascoltare Gesù risorto.
Abbiamo dunque esaminato la singolare parola di Dio: “Questi è il mio Figlio, il prediletto: ascoltatelo!”, e abbiamo notato la sua particolare concentrazione sulla persona di Gesù. Lo stesso fenomeno si manifesta nella situazione dei discepoli che l’evangelista segnala dopo la trasfigurazione: “Guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro” (9,8). Dopo la rivelazione data da Dio Padre, i discepoli sanno che Gesù è il Figlio prediletto di Dio, e che devono e possono ascoltarlo incondizionatamente. Ad essi basta avere Gesù solo, con loro.

Conclusione
In una delle sue lettere san Girolamo, patrono di noi esegeti, di cui abbiamo celebrato la festa venerdì scorso, scrive a proposito degli studi della Sacra Scrittura: “Vivere tra queste cose, meditare queste, non conoscere altro, non cercare altro, non vi pare che sia un’oasi di paradiso già qui in terra?” (Ep. 53,10). Papa Pio XII cita queste parole nella sua enciclica Divino afflante Spiritu (EB 569). Riprendendo questa parola di san Girolamo, posso dire: “40 anni al Biblico, 40 anni in Paradiso”. Ho cominciato il mio servizio al Biblico nel 1971, insegnando il proseminario di metodologia, e ho finito nel 2009/10, moderando un seminario. Al Biblico ho fatto l’esperienza di cui parla san Girolamo: l’esperienza della gioia di poter studiare la parola di Dio, di poter comunicare i frutti dello studio e di poter introdurre non pochi studenti ai modi e metodi dell’esegesi.
Con la conclusione della mia relazione giunge anche il momento del ringraziamento. La mia profonda gratitudine va innanzitutto a Dio. Esprimo poi un sentito grazie ai miei maestri, specialmente al P. Card. Vanhoye, a tutti i miei colleghi, a tutti quelli che hanno lavorato al Biblico in questi anni, specialmente alla Segreteria, alla Biblioteca e all’Amministrazione delle pubblicazioni, con i loro direttori. Un grazie particolare alla Sig.ra Maria Grazia Franzese e al Sig. Carlo Valentino. Infine, vivi ringraziamenti a tutti quelli che mi hanno ascoltato attentamente e pazientemente in questa Aula Magna, compresi gli ascoltatori di oggi.
Concludo con l’augurio che questa Aula Magna, splendidamente rinnovata, possa servire per molti anni all’attività del Pontificio Istituto Biblico, resa feconda dalla benedizione di Dio.

Pontificio Istituto Biblico – 2011

« DIO VIDE TUTTO QUELLO CHE AVEVA FATTO, ED ECCO CHE ERA MOLTO BUONO » (Gen 1,31):

 http://www.collevalenza.it/CeSAM/02_CeSAM_0004.htm 

« DIO VIDE TUTTO QUELLO CHE AVEVA FATTO, ED ECCO CHE ERA MOLTO BUONO » (Gen 1,31):
MISERICORDIA NELLA CREAZIONE

p. Aurelio Pérez fam

La creazione è il primo atto d’amore di Dio, l’amore fontale per così dire, nel senso che tutto scaturisce da questa fonte dell’essere e della vita che è Dio stesso, come dal grembo di una madre. Anche all’inizio della creazione troviamo, come per la legge del Sinai, dieci parole-comandi (« Dio disse… », Gen 1, 3.6.9.11.14.20.24.26.28.29), attraverso le quali il Signore ha dato vita a tutto il creato(1). Ma la novità biblica, sconosciuta ai sapienti del mondo, è che Dio ha fatto ogni cosa che c’è nel mondo, soprattutto l’essere umano, per amore:
« Nel cammino della fede biblica diventa sempre più chiaro ed univoco ciò che la preghiera fondamentale di Israele, lo Shema, riassume nelle parole: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo» (Dt 6, 4). Esiste un solo Dio, che è il Creatore del cielo e della terra e perciò è anche il Dio di tutti gli uomini. Due fatti in questa precisazione sono singolari: che veramente tutti gli altri dei non sono Dio e che tutta la realtà nella quale viviamo risale a Dio, è creata da Lui. Certamente, l’idea di una creazione esiste anche altrove, ma solo qui risulta assolutamente chiaro che non un dio qualsiasi, ma l’unico vero Dio, Egli stesso, è l’autore dell’intera realtà; essa proviene dalla potenza della sua Parola creatrice. Ciò significa che questa sua creatura gli è cara, perché appunto da Lui stesso è stata voluta, da Lui «fatta». E così appare ora il secondo elemento importante: questo Dio ama l’uomo. La potenza divina che Aristotele, al culmine della filosofia greca, cercò di cogliere mediante la riflessione, è sì per ogni essere oggetto del desiderio e dell’amore — come realtà amata questa divinità muove il mondo —, ma essa stessa non ha bisogno di niente e non ama, soltanto viene amata. L’unico Dio in cui Israele crede, invece, ama personalmente ».(2)
Il messaggio biblico sulla creazione è fondamentalmente positivo: prima della creazione rovinata dal peccato c’è la creazione buona uscita dalle mani di Dio. Per 7 volte viene detto che ciò che Dio ha fatto è buono (tob, kalos = buono e bello), fino alla conclusione: « Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco che era molto buono » (Gen 1,31; cf vv. 4.10.12.18.21.25).
La redenzione stessa è un riportare la creazione al principio voluto da Dio, come dice Gesù a proposito dell’unione voluta da Dio tra l’uomo e la donna: « al principio non è stato così » (Mt 19,4). E’ importantissimo per noi sempre ritornare a questo « principio » che non è un fatto temporale, storico o preistorico, perché Dio non è storico né preistorico, è l’Eterno, anche se il suo Amore si spingerà fino al punto che l’Eterno entrerà nel nostro tempo creato.
Sarebbe un errore contro la sapienza di Dio opporre la creazione alla redenzione. Il Signore non distrugge ciò che ha fatto, ma lo rinnova, lo purifica, portando a compimento l’opera che ha iniziato.

« In principio Dio creò il cielo e la terra » (Gen 1,1ss)
E’ questo l’inizio di una rivelazione sull’umanità e sul mondo, non di un trattato di cosmologia(3). Rivelazione appunto dell’amore creatore, provvidente, che tutto mantiene e sorregge nelle sue mani misericordiose e potenti. La prima cosa che il Signore vuole rivelarci con la sua Parola (siamo alle prime pagine della Scrittura Santa) è che tutto ciò che esiste, compresi noi, l’ha creato LUI, non è frutto del caos né del caso.
« Tutte queste cose le ha fatte la mia mano, esse sono mie, oracolo del Signore ». (Is 66,2)
Tutti noi e ciascuno di noi, il cielo e la terra e tutte le cose che vi abitano procediamo da un Sì d’amore che Dio ha pronunciato su di noi e su tutto il creato.
Il primo canto all’amore misericordioso del Signore che é « eterno », nasce contemplando l’opera della Creazione:
« Celebrate il Signore, perché è buono, poiché eterna è la sua misericordia… Ha fatto i cieli con sapienza… » (Sal 136,1-9)
«Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»
Siamo di fronte al primo canto nuziale che Dio rivolge alle sue creature, uscite buone, pure e belle dalle sue mani. Per loro ha preparato un giardino meraviglioso, e nel centro di esso ha collocato l’uomo e la donna, fatti « a immagine e somiglianza » di Dio. C’è un’unità originaria (Dio creò l’Adam) che si differenzia nei sessi (li creò maschio e femmina). Ma l’unità – immagine di Dio Uno – sta all’inizio e alla fine della creazione dell’uomo e della donna, chiamati alla comunione. Con l’uomo e la donna (ish e ishah) il Signore ha intessuto il dialogo dell’amicizia, nelle loro mani ha messo tutto il creato perché lo custodiscano e lo coltivino, e in esso crescano fecondi e felici. L’essere immagine e somiglianza di qualcuno indica anche la « figliolanza », come leggiamo più avanti:
« Quando Adamo ebbe centotrent’ anni generò un figlio a sua somiglianza, conforme all’ immagine sua, e lo chiamò Set » (Gen 5,3)
« E Dio disse… »
Questo Sì alla vita è stato detto da Dio attraverso il suo Verbo Creatore. La Parola di Dio è efficace: Egli « dice » e le cose vengono all’esistenza:
« Con la parola del Signore furon fatti i cieli e col soffio della sua bocca tutto il suo ornamento… poiché egli parlò e fu fatto, egli comandò ed esso fu creato » (Sal 33,6.9; cf 148,1-6)
Dio chiama all’esistenza (la nostra prima e universale vocazione è quella alla vita), dà dei nomi, fa le creature secondo la loro specie, assegna loro dei fini, ed esse prendono forma rispondendo alla potenza della sua parola. Il caos disordinato diventa cosmo ordinato.
Nella pienezza della Rivelazione coglieremo il mistero di questa Parola che era « al Principio » presso Dio ed era Dio: « Tutte le cose sono state fatte per mezzo di Lui e senza di Lui niente è stato fatto » (Gv 1,3). Anzi « tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui » (Col 1,16).
« Mandi il tuo Spirito ed essi sono creati » (Sal 104,30)
Insieme alla Parola c’è lo Spirito creatore, la ruah di Dio che dà la vita, dopo aver aleggiato su quel caos iniziale per mettervi ordine; la stessa ruah che Dio soffia nelle narici dell’Adam originario, fatto di creta, e solo allora l’Adam diventa un essere vivente (nefesh). Senza lo Spirito (=il respiro, il soffio di Dio) c’è la morte. Si preannuncia già misteriosamente la dimensione trinitaria, che verrà rivelata pienamente quando la Parola-Figlio assumerà la creta di Adam per divenire il nuovo Adam datore dello Spirito di vita.
Cantare la misericordia del creatore nella contemplazione del creato
Una delle cose più belle, gioiose e liberanti che ci è dato di fare è contemplare l’opera della creazione e noi al suo interno. Sentirci « creature », oggetto dell’interesse amoroso e provvidente del Creatore, ci colloca al posto giusto di fronte a Dio, in vera umiltà gioiosa, piena di gratitudine e capace di assumere le responsabilità che Lui ci affida con il dono della vita. La preghiera che passa in rassegna le opere del Signore, una per una (cf Sal 104, Gb 36,22-37,24; Sal 19,1-7; Dn 3,51-90 ecc.) apre il cuore alla benedizione e alla lode ed fonte di vera gioia e fondato ottimismo. Pensiamo al Cantico delle creature di S. Francesco, alle esclamazioni della nostra Madre di fronte al creato: « qué pintor! ».
———————-
[1] “La creazione esiste perché obbedisce alle dieci parole di Dio, e l’uomo vive ed esiste perché obbedisce ai dieci comandi di Dio” (B. COSTACURTA, Spiritualità dell’Antico testamento – appunti degli studenti – PUG 1994-1995).
[2] BENEDETTO XVI, Deus Caritas est, 9.
[3] Cf F.R. DE GASPERIS, Sentieri di vita, I, Paoline 2005, p. 36ss.

Publié dans:biblica, spiritualità  |on 30 avril, 2014 |Pas de commentaires »

di Mons. Gianfranco Ravasi – (In principio) La Parabola anticotestamentaria dell’insegnare

http://www.stpauls.it/studi/maestro/italiano/ravasi/itarav02.htm

di Mons. Gianfranco Ravasi

I. La Parabola anticotestamentaria dell’insegnare

Parliamo di « parabola » perché si tratta di descrivere una specie di percorso, che comprende due tappe:

1ª Primato della teofania, cioè il Signore che è Maestro;
2ª L’uomo che a sua volta diventa maestro, dopo avere ascoltato Dio Maestro. (torna al sommario)
1. Primato della teofania

In assoluto, il punto di partenza è sempre la grazia. In principio c’è l’epifania di Dio. In principio c’è la Parola divina che infrange il silenzio del nulla e dell’ignoranza dell’uomo. «Dio disse: « Sia la luce ». E la luce fu». All’inizio c’è questa Parola, radicale e fondamentale, senza la quale ci sarebbe il vuoto, il nulla. Nessuna altra parola risuonerebbe. All’inizio c’è questa presenza assoluta dell’unico Signore e Maestro che è Dio.
San Paolo (in Rm 10,20) si sorprende per una bellissima frase di Isaia: «Il profeta osa dire: Io, il Signore, mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano». L’uomo se ne va per le sue strade, se ne andrebbe all’infinito lontano, se a un crocevia non si presentasse l’epifania di Dio, la sua Parola. In principio quindi c’è la Sapienza di Dio. Nella Genesi (1,3) c’è proprio questa frase: «Dio disse». O nel Nuovo Testamento: «En archè èn ho logos, in principio c’era la Parola (per eccellenza)», la grande teofania iniziale, senza la quale non c’è nessun insegnamento. Senza la grazia non esiste la parola nostra; senza la Parola di Dio non esistono le nostre parole. (torna al sommario)

I (tre) luoghi della teofania.
Dove e come si manifesta Dio? Ricordiamo tre luoghi nei quali si offre la « lezione » di Dio, la prima « lezione » assoluta.
1º. La Parola o lezione di Dio si manifesta innanzitutto nella Torah (nome derivato da una radice ebraica, jrh, che significa « insegnare »). È l’insegnamento per eccellenza, la « dottrina » per eccellenza di Dio. Perciò noi dobbiamo ascoltare la prima lezione divina attraverso l’ascolto della Legge. Tutto il Salmo 119 (118 della Volgata) è un inno grandioso, monumentale alla Parola di Dio più che alla Legge (Torah). Pascal lo recitava tutte le mattine; una volta, almeno nel breviario del rito ambrosiano, lo si recitava tutti i giorni, tutto intero, durante le ore della giornata. È una lode continua, una specie di moto perpetuo: non soltanto la costruzione è in 22 strofe, con un gioco alfabetico, ma ogni versetto deve avere almeno una delle otto parole con cui si definisce la Parola di Dio. Ebbene, questo canto continuo della Parola di Dio è la celebrazione della prima, fondamentale lezione che dobbiamo ascoltare, una lezione di vita, (è anche legge), non solo una lezione di conoscenza del mistero di Dio.
Nel Salmo 25 (versetti 4, 5, 8, 9, 10 e 12) continuamente si chiede a Dio che, rivelandoci la sua Parola, ci indichi la via. «Io sono la via, la verità e la vita», dirà Cristo. Con un piccolo particolare: in ebraico, il termine via, derek, ha alla base probabilmente una radice di origine cananea che significa la vigoria sessuale, l’energia vitale. Allora, dire: «Io sono la via e la vita» si può quasi esprimere con una parola sola: «Io sono la via». Indicare la via vuol dire anche indicare la via della vita. D’altronde, la via in tutte le culture è un grande simbolo della esistenza stessa. In questo senso la celebrazione della via che la Torah ci offre è la celebrazione, come dice il Salmo 119, della lampada che illumina i passi della nostra esistenza (v. 105).
Ancora, nel Salmo 143,10 chiediamo: «Insegnami (è il verbo del maestro, rivolto a Dio!), insegnami a compiere il tuo volere, perché tu sei il mio Dio. Il tuo spirito buono mi guidi in terra piana». Troviamo qui le due immagini, le due componenti: «Insegnami il tuo volere», la tua volontà, non solo il tuo mistero, ma un mistero efficace, che agisce in me. E poi mi guiderai «sulla terra piana», nel sentiero dell’esistenza.
2º. L’epifania del Signore-Maestro si presenta nelle sue opere salvifiche, nelle sue azioni di salvezza, come leggiamo nel Salmo 103 (versetto 7): «Ha rivelato a Mosè le sue vie, ai figli d’Israele le sue opere». Per la legge del parallelismo, qui vengono descritte non più « la mia via », ma « le vie di Dio ». E qual è la via di Dio? Sono le sue opere, le sue opere di salvezza, inserite nell’interno della storia. La Bibbia è la storia di Dio ed è la celebrazione del Dio della storia, la Bibbia è una storia della salvezza.
Di qui alcune conseguenze di questa tesi fondamentale. Gli Ebrei hanno chiamato lungamente Mosè con un appellativo: morenu, che vuol dire « il nostro maestro ». E come viene rappresentato questo « nostro maestro »? «Io sarò con la tua bocca», dice il Signore a Mosè, «ti istruirò in quello che dovrai dire» (Es 4,12; cf 24,12). E che cosa farà poi Mosè? Parlerà e salverà. Dio usa perciò anche dei maestri concreti. Per la sua storia della salvezza passa attraverso di noi, che pur siamo fragili. Mosè sarebbe stato l’ultimo da scegliere, come maestro: era balbuziente, era incapace di parlare, aveva in sé una debolezza costituzionale: «Manda un altro» (si scusa in Es 4,13; come succede in altri racconti di « vocazione con obiezione »).
Una seconda considerazione. Che cosa dobbiamo dunque trasmettere, che cosa narrare nella nostra catechesi? Che cosa insegnare? La risposta si trova nel Salmo 78 (il secondo più lungo della Bibbia, dopo il 119), che possiamo intitolare come fa la Bible de Jérusalem: «Le lezioni della storia della salvezza». Ciò che noi dobbiamo trasmettere ed annunciare è non il Dio remoto e astratto, non «il Dio dei filosofi» (per usare ancora la famosa espressione del Memoriale di Pascal), non il Dio dei sapienti, ma il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio salvatore.
3º. Dopo l’epifania di Dio nella Torah e nella storia, l’epifania di Dio si manifesta anche nell’oscurità della prova, nella tenebra, nel suo silenzio. A questo riguardo, due libri dell’Antico Testamento sono particolarmente interessanti e significativi: Qoèlet e Giobbe. In essi si riesce a vedere la rivelazione di Dio nell’interno del silenzio.
Essi, però, non ci danno la manifestazione del Dio-Maestro, che invece troviamo esplicitamente in un versetto del Deuteronomio (8,5): «Come un padre corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, ti corregge». È bellissima questa immagine del maestro-padre (questi due aspetti anche nei Proverbi coincidono: il maestro è pure il padre, il discepolo è anche il figlio). Questo maestro conosce, tra l’altro, la strada della durezza, una via che il discepolo non riesce a comprendere. «Le mie vie non sono le vostre vie» (Is 55,8).
C’è, quindi, una paidèia, se vogliamo usare l’espressione greca, una pedagogia divina purificatrice. C’è una parola divina che sconcerta, nel bene e nel male. In Geremia (23,29) la Parola di Dio viene rappresentata come un martello che spacca la roccia, come una fiamma ardente che brucia, e consuma. Spessissimo, nell’Antico Testamento, la Parola di Dio si autorappresenta con immagini « offensive ». Questo avviene anche nel Nuovo: la lettera agli Ebrei (4,12) evoca la Parola di Dio come spada che taglia la superficie, la pelle, e penetra fino alle giunture, fino alle ossa, al midollo. C’è dunque una paidèia che si sviluppa nell’oscurità (un tema molto bello e suggestivo). C’è da ringraziare Dio, invece di sentirsi imbarazzati, che nell’Antico Testamento esista un libro come Qoèlet, un libro della crisi, della crisi della Sapienza: un maestro che non crede più in quello che insegna, e che non attende forse più nulla, ma che comunque riflette – e anch’esso è parola di Dio! – su questo misterioso parlare-insegnare di Dio attraverso il suo silenzio, attraverso il vuoto. Oppure, è significativo che nell’Antico Testamento ci siano delle pagine come quelle del libro di Giobbe, dove il protagonista bestemmia. In quel momento, Dio passa attraverso quasi la negazione di se stesso. Come diceva Bonhoeffer: Dio non ci salva in virtù della sua onnipotenza – come Signore e Maestro, come Padrone –; Dio ci salva in virtù della sua debolezza, diventando fratello dell’uomo in Cristo, attraverso la sua impotenza, la sua sofferenza. Parlando tuttavia dell’insegnamento del Maestro divino attraverso il suo silenzio e la prova, occorre ricordare che, pure in quel momento, Dio non cessa di essere il Maestro che serve, anzi forse in quel momento è vicino all’uomo molto di più di prima.
Osea (11,3-4) esprime la tenerezza paterna anche nella severità: «Io ho insegnato i primi passi a Efraim. Me li prendevo sulle braccia, con legami pieni di umanità, li attiravo a me, con vincoli d’amore». Efraim rimane ribelle; però questo padre, pure se il figlio non capisce, ha sempre vincoli d’amore, perfino quando punisce, come un padre corregge il figlio. A questo riguardo c’è una bellissima immagine del grande pensatore danese Soeren Kierkegaard, nel suo libro Timore e tremore, dedicato nella sua maggior parte a Gen 22 (il sacrificio di Isacco). Soeren Kierkegaard usa questa immagine, che tra l’altro è vera in Oriente: la madre, quando deve svezzare suo figlio, si tinge di nero il seno, perché il figlio non abbia più a desiderarlo, e cominci a nutrirsi da solo. In quel momento il bambino odia sua madre, perché gli toglie la fonte del suo sostentamento e anche del suo piacere (pensiamo a quel che ha detto la psicanalisi a questo riguardo); eppure egli non sa che in quel momento la madre, mentre lo distacca da sé e sembra crudele, mai l’ha amato così tanto, perché lo fa diventare uomo capace di vivere da solo nel mondo, lo fa creatura libera (e quante madri non hanno staccato il figlio dal seno, anche se non materialmente, e lo fanno ancora succube!). Ecco: anche nel momento della prova, non dobbiamo mai dimenticare il mistero del Dio Padre e Madre. (torna al sommario)

2. L’uomo maestro
L’uomo istruito da Dio diventa a sua volta maestro, viene inviato come maestro. Tre brevi considerazioni al riguardo.
a) Il padre al figlio
Il magistero fondamentale è quello che passa attraverso la comunicazione interpersonale, la catechesi familiare, una relazione d’amore. Abbiamo esempi molto illuminanti a questo riguardo. Nei Proverbi, il padre continuamente dice: «Figlio mio…», e al figlio dona la sua sapienza. In questo caso il maestro, che è padre, non può che desiderare che il discepolo cresca; cosa che invece il maestro-padrone non vuole, perché è geloso della sua supremazia intellettuale. Il padre pensa: « Bisogna che lui cresca e che io diminuisca », come il Battista (cf Gv 3,30). E il capitolo 31 (sempre dei Proverbi), con quella strana finale, la celebrazione della donna sapiente, è probabilmente anche la conclusione di un itinerario didattico. Dopo aver svolto la sua lezione, il maestro-padre saluta il figlio che ha trovato la sua sposa. Questa sposa è una donna ideale, perfetta, ma è anche la Sapienza: il giovane è diventato a sua volta maestro, sapiente. Tale dovrebbe essere il nostro scopo. Dobbiamo sparire, insegnando agli altri. Dobbiamo far sì che l’altro sia capace di crescere nella fede e nella conoscenza, e poi ritirarci.
In Esodo 12, con la descrizione del rito pasquale, troviamo ciò che viene fatto dagli Ebrei attraverso l’haggadah. Quest’ultima è una narrazione che comprende un dialogo tra il padre e il figlio sul significato dei riti, per giungere alla scoperta dell’azione di liberazione di Dio. Qui vediamo quale sia la funzione del maestro nella famiglia, nella relazione d’amore: è quella d’insegnare la libertà, di far conoscere un Dio che è liberatore, non colui che t’impone la cappa di piombo delle sue norme, ma che ti indica la strada gioiosa della sua volontà, che è libertà e salvezza.
Da ultimo, il Salmo 78 nella sua prima diecina di versetti ci offre una suggestiva rappresentazione della catechesi. Che cos’è la vera catechesi ecclesiale? È un continuo comunicare, di padre in figlio, di generazione in generazione, le grandi opere di Dio, la grande linea dinamica di salvezza entro cui noi siamo immersi. (torna al sommario)

b) I sacerdoti-profeti-sapienti
Tra i maestri ci sono anche i sacerdoti, i sapienti, i profeti. Potremmo offrire molti dati su questo tipo di insegnamento. Basti citare come esempio 1Sm 3. Il sacerdote di nome Eli, il maestro di Samuele, è il direttore spirituale per eccellenza, che non si sostituisce al discepolo, ma gli insegna come deve scoprire la sua vocazione, di chi sia quella voce che nella notte lo chiama.
Un altro modello, molto interessante per il problema dell’inculturazione, sarebbe quel maestro che ha scritto attorno all’anno 30 a.C. il libro della Sapienza. Egli si presenta come Salomone, il supremo sapiente. Il libro della Sapienza è il tentativo di riscrivere la grande lezione di Israele con le categorie filosofiche del mondo greco, in un altro orizzonte culturale. Paolo è l’esempio più alto di questa operazione di mediazione culturale, di inculturazione, di ritrascrizione del messaggio semitico di Cristo in nuove coordinate, in modalità nuove.
In Neemia 8, il personaggio che domina è Esdra, il sacerdote, che fa la sua lezione sulla Parola di Dio. È un maestro significativo perché ci rivela come possiamo diventare noi stessi maestri della Parola di Dio. Nell’episodio potremmo individuare sette « stelle », cioè una costellazione di sette componenti che sono la rappresentazione di questo magistero della parola:
Leggere la Parola di Dio, «per brani distinti», si dice. Sul leggere ci sarebbe già tutta una lezione da fare, ai nostri giorni, quando la lettura diventa sempre più difficile, sempre meno praticata. I nostri ragazzi vedono, ma non leggono, ascoltano caso mai. Gli Ebrei non chiamano la Bibbia « scrittura » come noi; la chiamano migra’, che vuol dire « la lettura »; è la stessa radice della parola quran, il Corano è la « lettura » generosa.
Spiegare. Comporta l’esegesi. «Senza la penetrazione nelle parole, nel senso delle parole, come posso capire la Parola?». Questa è una frase di Massimo il Confessore, un mistico palestinese, nato sulle alture del Golàn, da un padre samaritano e da una madre che era una schiava persiana; nato nella terra di Gesù, poi farà una fine che è emblematica anche per il maestro: gli taglieranno la lingua e la mano destra, i due elementi della parola e dell’azione, per punire lui annunciatore della verità del vangelo. Massimo il Confessore, che è forse l’ultimo dei Padri greci, diceva dunque: «Se tu non conosci le parole, come puoi conoscere la Parola?». Spiegare! Spezziamo una lancia a favore dello studio serio della Parola, contro le tentazioni pentecostal-misticheggianti, contro certe forme carismatiche (quel dire: « Prendi la Parola e come risuona leggi e pratica », può portare al fondamentalismo).
Comprendere. Il « comprendere » biblico, come diceva giustamente Maritain, è una «connaissance savoureuse», una conoscenza saporosa. Il conoscere biblico, come anche l’ »amare », è appunto una conoscenza circolare, simbolica. Dunque, tre parole-stelle nella prima linea: leggere, spiegare, comprendere; le altre quattro sono invece nella linea esistenziale.
Ascoltare. «Essi ascoltavano, porgevano l’orecchio». Nella Bibbia lo stesso verbo shama’ indica sia « ascoltare » che « obbedire ». Quindi shema’ Israel non è soltanto « ascolta, Israele! », ma anche « aderisci! ». «Adonài elohénu adonài ehàd» (il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo) è non soltanto una conoscenza di tipo intellettivo, ma è la scoperta di una relazione (cf Dt 6,4ss). È per questo che «lo amerai con tutto il cuore…». Amerai viene subito dopo ascoltare. Per questo nel Salmo 40 si dice letteralmente (versetto 7): «Tu mi hai forato l’orecchio», come si fa allo schiavo; io sono il tuo schiavo, ho l’orecchio forato, nel senso che aderisco completamente a te.
Gli occhi si colmano di lacrime: gli ascoltatori si mettono a piangere, cioè si convertono. La parola di Dio ti fa piangere i tuoi peccati. Ecco un altro elemento prodotto da una vera lezione: essa inquieta le coscienze; la Parola di Dio artiglia l’anima, altrimenti è una semplice informazione. Lo scrittore ultra-novantenne Julien Green affermava: «Se io dovessi riassumere tutto quello che ho scritto, lo esprimerei con questa frase: « Finché si è inquieti, si può stare tranquilli »». Finché c’è questa inquietudine, che è quella agostiniana (« inquietum est cor nostrum »), allora si può stare in pace.
Le mani portano delle porzioni di cibo ai poveri. La lezione che ricevo dalla Parola di Dio mi costringe ad andare verso i miseri, ad offrire il pane della Parola e anche il pane reale.
La festa, la liturgia delle Capanne, la terza festa ebraica. Cioè il grande, ultimo insegnamento lo si ha nella liturgia.
Dunque, sette parole: leggere, spiegare, comprendere; ascoltare, piangere, donare, celebrare. Tale è la traiettoria all’insegnamento compiuto nell’interno della comunità ecclesiale attraverso i vari ministeri dell’annunzio. (torna al sommario)

c) Pedagogia globale
La pedagogia biblica è una pedagogia globale. Non è un processo solo intellettuale. Facciamo una breve annotazione filologica. Lamàd, insegnare, è il verbo fondamentale del maestro. O meglio, lamàd non vuol dire insegnare, ma « imparare ». Però, curiosamente, nella forma intensiva, limmed, diventa « insegnare ». La stessa radice non distingue tra imparare e insegnare. E questo stabilisce un circuito. Il vero maestro è uno che impara anche, e il vero discepolo alla fine è capace di insegnare. Se il circuito non si chiude, non si ha un vero magistero. Il maestro, che non è attento al discepolo, è di sua natura condannato alla solitudine, alla torre d’avorio della sua elaborazione, ma non lascerà traccia. Per chi è abituato a parlare spesso in pubblico, una delle componenti fondamentali, anche tecniche, è di vedere e capire se l’ambiente è colmo di risonanza, se è in ascolto. Altrimenti si va avanti nel parlare, ma l’altro non dialoga. Insegnare è dialogare. Anche se l’altro tace. Ci si deve accorgere di entrare nell’interno della comunicazione, grazie anche alle domande presentate dall’altro. Oscar Wilde diceva: «A dare le risposte sono capaci tutti; per fare le vere domande ci vuole un genio». Ed è verissimo. Le grandi domande, che fanno andare avanti nella conoscenza, le pongono soltanto i geni. E di fatto la domanda, anche graficamente, noi la esprimiamo non con l’esclamazione, che è una linea retta, ma con qualcosa che si aggroviglia in sé, che quindi lacera, che artiglia, che fa sanguinare.
Un altro verbo ricorrente nella pedagogia biblica è jaràh; jaràh-torah, il quale indica un insegnamento che è « via e vita », come abbiamo già visto.
Ancora: jasàr, donde deriva il sostantivo musàr, significa la « disciplina », cioè l’impegno severo, ascetico del conoscere. Per essere veramente maestri bisogna avere la pazienza di stare ore e ore nello studio, nella fatica.
E da ultimo il verbo jada’ che vuol dire « conoscere » e implica tutte le dimensioni, la globalità simbolica dell’insegnamento biblico. Comprende l’aspetto intellettivo, l’aspetto affettivo (sentimento), l’aspetto volitivo (volere), l’aspetto effettivo. « Conoscere » indica persino l’atto sessuale. Perché si conosce anche con la passione e l’azione, con la comunione dei corpi, si conosce con la convivenza, si conosce con l’azione, costruendo insieme un progetto.
Concludendo la parabola anticotestamentaria dell’insegnare, occorre dire una cosa un po’ paradossale: scopo del maestro è rendersi inutile. L’abbiamo già visto, ma ora va detto in maniera più forte, ricorrendo alla dimensione escatologica. Negli ultimi tempi il maestro non ci sarà più, perché ci sarà un Maestro interiore. Vi è una intensa frase nel vangelo di Giovanni (6,45), che cita Isaia 54,13: «Sta scritto nei profeti: « E tutti saranno theodidàktoi, ammaestrati da Dio ». Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me». Non ci sono più i mediatori. « È il Padre che ti parla e tu vieni a me », dice il Signore. Il testo di Isaia in ebraico (Giovanni cita il greco nella traduzione dei LXX) dice esattamente: «Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore». Bella definizione della comunità escatologica: tutti saranno « discepoli » del Signore.
Più rilevante ancora è l’oracolo di Geremia (31,31-34) sulla « nuova alleanza », il più celebre di tutti gli oracoli profetici, che costituisce anche la citazione più lunga dell’Antico Testamento nel Nuovo, in Ebrei 8,8-12. Come sarà la grande, perfetta alleanza del nuovo Sinai? Come sarà il momento in cui noi avremo una comunità che sarà completamente in comunione con Dio? Ecco la risposta di Geremia: «Porrò io la mia torah nel loro animo; la scriverò sul loro cuore. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri»: non ci sarà più il maestro, il sacerdote, il profeta, il sapiente che dovrà dire all’altro: « Riconoscete il Signore ». «Perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande»

Publié dans:biblica, CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 29 avril, 2014 |Pas de commentaires »

DOMENICA DI RESURREZIONE – QUALCHE RIFLESSIONE

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Domenica di Pasqua di Resurrezione – Tempo di Pasqua – Anno A

QUALCHE RIFLESSIONE

In questo giorno così importante mi preme illustrare dapprima tutta la 2^ lettura domenicale. Eccola : «Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria». Spesso questo brano viene dato ad intendere come se la nostra fede avesse a che fare con l’oppio, mollando le cose della TERRA e stando poi buoni buoni ad aspettare il premio infinito da LASSU’. San Paolo voleva effettivamente portare una antitesi e ha ritenuto di fare ricorso ai paragoni spaziali di terra e cielo, ma in realtà, coerentemente con la sua stessa dinamica vita, mai si è sognato di predicare l’evasione dalla realtà a beneficio delle alienazioni, come ha voluto farci credere la sinistra propaganda anticristiana. Infatti in altri passi, egli parla con altre immagini, e basterebbe sostituire “quaggiù” con “uomo vecchio / carne / peccato” che nel battesimo o nel rinnovamento delle promesse battesimali sono lasciati alle spalle, e poi sostituire “lassù” con “uomo nuovo / spirito / grazia” che può essere la realtà del cristiano in quanto di già è una vita nuova nascosta (custodita come un seme nella terra) in Cristo, e che inevitabilmente si manifesterà nella stagione della pienezza futura.
Eccoci al grandioso Vangelo di oggi, che a quanto si dice fin dal primo versetto, accade nel primo giorno dopo il sabato. In ebraico il sabato (Shabat) era ed è il solenne giorno, settimo giorno, in cui Dio aveva compiuto tutta la sua opera e si riposò, modellando così con il suo agire quella unità di tempo che è la settimana. E’ chiaro che se il sabato si colloca al 7° posto di questo tempo, necessariamente il giorno dopo il sabato è per forza il giorno con la maglietta nuovamente al numero 1. Ogni giorno dopo il sabato, ogni giorno che indossa la maglietta numero 1, è una rievocazione del primo giorno, quello in cui iniziò la creazione. Chissà se in omaggio all’opera luminosa e creatrice di Dio che i popoli di lingua inglese chiamano questo giorno come SUNDAY, cioè giorno del sole. Io penso di no : l’omaggio a Dio avrebbe avuto senso se codesto giorno si fosse chiamato LIGHTDAY, cioè giorno della luce, unica cosa che Dio creò nel primo giorno. Mi viene da pensare, che quindi questo nome abbia una radice idolatrica poiché tutti i popoli primitivi del mondo hanno adorato il sole. Tutti tranne uno, che subito ha definito il sole e la luna come due semplicissime lampade appositamente create, e ciò sta scritto a pagina uno della Genesi, grosso modo al 4° o 5° giorno della creazione : e appurato che sole e luna non sono “dei” ma cose create, resta il dilemma di come chiamare il giorno con la maglietta numero 1, in quanto “giorno del sole” fa un po’ acqua. Ebbene, la frase introduttiva del Vangelo di oggi, rende giustizia al nome “Dies Domini”, giorno del Signore, Domenica, giorno in cui un uomo ha vinto la morte, giorno numero 1, GIORNO IN CUI SI PUO’ ADDIRITTURA PARLARE DI UNA NUOVA CREAZIONE PERSINO PIU’ GRANDE DI QUEL “IN PRINCIPIO” – PRIMO GIORNO – IN CUI IL MONDO FU STORICAMENTE CREATO.
E’ risorto. Questa è la base della fede cristiana. Questo è l’annuncio che deve essere a fondamento di ogni altro annuncio. Cristo è stato crocifisso, è morto, ma è risorto nella mattina di Pasqua, e da oggi questo giorno, che è il giorno seguente il Sabato, si chiama Domenica in quanto per sempre sarà una piccola Pasqua che ci deve ricordare UN FATTO, e un fatto non si discute, un fatto non è una teoria o un sentimento o un moto dell’anima. Un fatto è qualcosa che è accaduto. Al più si è autorizzati a dire “Non ci credo che è accaduto, e respingo per insufficienza le prove che mi portate su questo fatto”.
D’accordo, ma da questo momento preparati ad una schizofrenia di fondo, poiché la tua vita registrerà è vero qualche evento cui crederai in forza di prove più decisive di questa (ad esempio ti scotterai le labbra e sinceramente crederai al fatto che il caffè è bollente per merito di questa prova), ma dopo queste sciocchezzuole, tutti i grandi temi della tua vita ti troverai a berli senza uno straccio di prova che mai sia più concreto di questa resurrezione. Mentre rifiuterai il Dio vero per correre dietro gli oroscopi o altre bugie di vario tipo, questa Grazia starà qui ad aspettarti, e sono facile profeta se dico che il Signore farà carte false affinché non ti vada sprecata. Comunque rimane, per chi crede, la centralità di questo annuncio cristiano fondato, e quindi non bisogna accodarsi alla lettura della fede come qualcosa di apologetico o di spirituale, o peggio un fatto rituale, filosofico, sociale, pietistico. Queste cose lasciamoli ai telegiornali atei o agli spifferi anticristiani. Cristo è risorto e tutte le sue promesse sono vere. E palla al centro.
Ormai il mondo votato alla morte è adesso percorso anche dalla vita, la storia fatta di guerre e di illusori incerti progressi conosce adesso la speranza, l’uomo da anonimo si trasforma in un figlio adottivo, che non vuol dire un figlio di seconda categoria, ma vuol dire che diviene erede e possessore dei doni di Dio pur non essendo Dio, qualcosa che non gli appartiene gli viene donato, come accade ad un bambino dell’orfanotrofio (senza casa e senza famiglia e senza beni) quando arriva un padre e … un fratello maggiore …. Gesù Cristo, vero figlio di diritto … che ti indica e dice “Papà, adottiamo quel fratellino lì ” e da quel momento, giudice e notaio stabiliscono che hai una casa, una famiglia, una ricchezza, un futuro …. Ma ciò è pur sempre un grazioso paragone …. La vita eterna donataci dal Risorto è molto di più !!!
Da oggi nasce un senso. Se ci pensi nasce anche un impegno, ma un impegno facile e addirittura gioioso nella Grazia di Dio e cercando le cose di lassù, e pensando alle cose di lassù !!! Altro che oppio che rimbecillisce !!! C’è una parola dell’economia che tutti desideriamo, e questa parola è accreditare o credito (il contrario di debito e di addebitare). Oggi è Pasqua e Cristo ci è stato accreditato, lo dobbiamo citare nella dichiarazione dei redditi, è una ricchezza aggiunta alle nostre ricchezze che già, chi più chi meno, possedevamo.
Lo ha detto san Pietro pieno di Spirito santo (a proposito di Trinità) allorquando gettato via l’UOMO VECCHIO (rinnegatore e fifone) si è rivestito dell’uomo nuovo e uscendo dal Cenacolo travolto dalla effusione pentecostale, si rivolse alla folla (Atti 2,22) e disse “Uomini di Israele, Gesù di Nazaret – uomo ACCREDITATO da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni ….” Capito ?? I miracoli del Figlio tra noi, servono a Dio per dirci “Gesù è a vostro credito, sta sul vostro conto in banca”.
Oggi in banca ci è arrivato un accredito che ha schiantato il nostro conto e ha mandato in tilt i computers della banca. Alleluia, Cristo è risorto, il senso si è posato sulla nostra piatta esistenza, la salvezza è giunta tra noi !
Quante notti ci sono state dalla creazione del mondo ad oggi ? Ebbene, di tutte queste notti, le più straordinarie sono due indicate dalla fede ed entrambe attraversate da una luce soprannaturale. Sto parlando della notte di Natale e della notte di Pasqua. Nella prima Dio si affaccia nel mondo con il volto di un bambino, e nella seconda, dopo essere stato ucciso, risorge mostrando la sua superiorità (la sua vittoria) sul male e sulla morte che del male è la parente più stretta. La prima notte ha la luce della tenerezza, la seconda ha lo splendore della potenza irresistibile.
“Se sei il figlio di Dio scendi dalla croce”. Non era sceso, e la conclusione dei sbeffeggiatori, ed anche dei suoi discepoli, era che quell’uomo non era il figlio di Dio, il figlio della Potenza soprannaturale, ma un pover’uomo del tutto simile a noi che non era in grado di salvare nessuno. Indipendentemente da questa amara realtà, la Maddalena andava comunque al sepolcro per tributargli la sua umana personale dedizione di pietà. Ma non le fu possibile poiché quel sepolcro era vuoto in quanto si era verificato il più grande evento nella storia dell’umanità : la morte era stata vinta, ed il nuovo Adamo apriva una frontiera percorribile anche da noi nella direzione della vita eterna, divina ed immortale. Da quel giorno è accaduto che per 40 giorni è stato visto, ascoltato, TOCCATO dai suoi discepoli che hanno anche mangiato insieme a Lui, e dopo l’Ascensione ogni altro suo fedele ha potuto sperimentare la sua viva presenza nella propria vita. Attenzione bene : non è la dottrina di Gesù o i suoi ideali che vivono ancora, MA LUI IN PERSONA tant’è che ogni cristiano può parlargli, confidarsi, ascoltarlo, come accade con il più caro dei propri amici.
La forza (anche storica) della morte non ha radice primitiva nel corpo ma ha una radice spirituale che sta in quel pungiglione di nome peccato e che porta poi alla corruzione anche del corpo. Gesù ha distrutto questo potere di “avvelenare” e uccidere, lo ha distrutto dal di dentro e lo ha fatto “consegnandosi” alla morte, e quasi replicando la tecnica del cavallo di Troia. Nella notte di Natale gli Angeli in cielo avevano invocato la pace sulla terra, ma è nella notte di Pasqua che essa è stata donata agli uomini. Non ha celebrato davvero la Pasqua – e quindi è rimasto ancora nella morte – chi di noi ha ancora oggi il peso della pietra del peccato, dell’egoismo, del risentimento (assenza di perdono) dentro di sè. Gesù che ha distrutto la morte, ma quale fatica farà mai nel distruggere il mio e il tuo peccato, il mio ed il tuo male, se glielo consegniamo ?
Cosa sarebbe la nostra vita nell’oppressione costante del peso di una maledizione di dover morire, sapendo che Dio non esiste, che siamo figli del caso e degli scimmioni di Darwin come dicono “le maggioranze” dell’intellighenzia nel dominio dell’informazione, e che quindi essendo noi nati per caso, la lotteria finirà e tutto precipiterà poi nel baratro del niente. Ma se la resurrezione è vera, allora Gesù ha detto il vero e quindi nel mio futuro è legittimata la speranza e nel mio presente è legittimo il sorriso, poiché la nostra vita sarà portata su ali d’aquila (così dicevano i profeti che non conoscevano ancora l’Ascensione) direttamente alle sorgenti dell’amore trinitario. La scoperta iniziata con la Maddalena ci ha fatto riscontrare, in linea con le parole di Gesù, che davvero Egli si è caricato dei miei peccati ma che, per l’immenso amore che aveva per me e per te, ha avuto la forza di sopportare questo dolore, ed ha bevuto “il calice amaro” dei miei tradimenti (non ancora terminati nella mia vita), delle mie ingiurie, sarcasmi, spine e flagelli nel corso della mia esistenza e che nel disegno divino furono concretamente “rappresentati”, in piena aderenza, dai miei simili delegati del venerdi santo lungo la Via Crucis.
Il Vangelo fra poco ci dirà con forza « Cristo è veramente risorto ». Tuttavia nessuno (se non il Padre e neppure la madre Maria Santissima) ha assistito alla sua resurrezione, e l’unica testimonianza che abbiamo è « Che è risorto ».
La resurrezione è il gesto di infinita tenerezza con cui il Padre con lo Spirito Santo ridestò Gesù dopo l’immane sofferenza della passione (e questo accadrà anche a noi). I famosi testimoni umani intervengono dopo, intervengono nei momenti citati dal Vangelo odierno, ma la primizia della resurrezione si è svolta tra i soli componenti della Trinità, e all’inizio della messa di Pasqua le prime parole che la Chiesa mette in bocca a Gesù sono un grido di gioia che egli rivolge al Padre « Sono risorto e sono ancora con te ! Hai posto su di me la tua mano! » e, precisa Pietro pieno di Spirito negli Atti, « sciogliendolo dalle angosce della morte ». Il verbo più usuale nella Scrittura sulla resurrezione è « ridestare » da morte. Per usare un frasario umano, il Padre si è accostato al sepolcro come ci si accosta delicatamente alla culla di un neonato che dorme, e lo ha destato dal sonno. A Naim Gesù fece spontaneamente un miracolo non richiestogli dalla vedova che seguiva il corteo funebre del suo bambino : si accostò alla bara e disse « Ragazzo, dico a te, alzati ! » e questo fanciullo si alzò e così lo rese a sua madre. Provo un senso di vertigini nel ricordare l’insistenza con cui Giovanni Paolo II° ha sempre sostenuto che Maria, seppur senza trascrizione evangelica, ha ricevuto la visita del Risorto prima degli altri testimoni, e questo episodio della vedova di Naim ne sembra quasi un prototipo autobiografico dove Dio gli dice « Bambino mio, figlio mio, sono io che ti parlo (e la parola di Dio . . . . crea), alzati ! » e con l’ausilio dello Spirito Santo (che è Signore e dà la vita) che ha fatto irruzione nel corpo esanime di Gesù, lo ha vivificato e fatto entrare nella vita secondo lo Spirito. Quando sarà il nostro turno, il nostro corpo aspetterà una purificazione mentre da subito vivremo anche noi nello Spirito.
E’ da questa resurrezione (attimo in cui la morte si trasformò in vita e il tempo divenne eternità) che hanno preso le mosse tutte le cose e le persone della Chiesa (riti, sacramenti, parola, istituzioni) e che ancor oggi evolvono.
L’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto, a non più di venticinque anni di distanza dai fatti, elenca tutte le persone che hanno visto Gesù dopo la sua risurrezione, la maggioranza dei quali era ancora in vita (1Cor 15,6). Di quale fatto dell’antichità abbiamo testimonianze così forti come di questo?
Dopo la morte di Gesù i discepoli si sono dispersi; il suo caso è chiuso: «Noi speravamo che fosse lui…» (Lc 24,21), dicono i discepoli di Emmaus. Evidentemente, non lo sperano più. Ed ecco che, improvvisamente, vediamo questi stessi uomini proclamare unanimi che Gesù è vivo, affrontando processi e persecuzioni, fino al martirio. Che cosa ha determinato un cambiamento così totale, se non la certezza che Gesù era risorto?
Hanno parlato e mangiato con lui dopo la sua risurrezione. E poi erano uomini pratici, tutt’altro che facili a esaltarsi: essi stessi sulle prime dubitarono. Neppure possono aver voluto ingannare gli altri, perché, se Gesù non era risorto, i primi a essere stati traditi e a rimetterci (la stessa vita!) erano proprio loro. Senza il fatto della risurrezione, la nascita del cristianesimo e della Chiesa diventa un mistero ancora più difficile da spiegare che la risurrezione stessa.
Ma la prova più forte che Gesù Cristo è risorto sta nel fatto che è vivo! Vivo, non perché noi lo teniamo in vita parlandone, ma perché lui tiene in vita noi, ci comunica il senso della sua presenza, ci fa sperare.
Le visioni immaginarie arrivano di solito a chi le aspetta e le desidera intensamente, ma gli apostoli, dopo i fatti del Venerdì santo, non aspettavano più nulla. La risurrezione di Cristo è, per l’universo spirituale, quello che fu per l’universo fisico, secondo una teoria moderna, il big bang: un’esplosione d’energia tale da imprimere al cosmo quel movimento di espansione che dura ancora oggi, a distanza di miliardi di anni.
Tutti credono che Gesù sia morto, anche i pagani e gli agnostici lo credono. Ma solo i cristiani credono che Gesù è anche risorto, e non si è cristiani se non lo si crede. Risuscitandolo dalla morte, è come se Dio avallasse l’operato di Cristo, come se vi imprimesse il suo sigillo. «Dio ha dato a tutti gli uomini una prova sicura su Gesù, risuscitandolo dai morti» (At 17,31).
La risurrezione è il centro dell’esperienza della fede dei primi cristiani, ma è difficile parlarne: non è una esperienza che riguarda i sensi, non è il frutto di una riflessione. Risurrezione è qualcosa che viene da Dio, è opera di Dio, e noi possiamo riconoscere questo mistero solo attraverso la fede, confidando e credendo che Dio può arrivare là dove noi non possiamo. Ma allo stesso tempo, anche se la risurrezione non dipende da noi, tutta la nostra vita è un anelito di resurrezione, contiene la speranza di una vita piena al di là dei nostri limiti e delle nostre imperfezioni.
Maria Maddalena si reca alla tomba, ultimo segno visibile della presenza del maestro, per piangere la sua morte e si imbatte in qualcosa di inatteso: il sepolcro chiuso la sera del venerdì è aperto. Corre ad avvisare i discepoli: una spiegazione del sepolcro è quella del furto, e così lei spiega ai discepoli. Essi si mettono in moto per verificare quanto detto dalla donna. Pietro, entrando, vede di più: le bende e il lenzuolo, ed esclude l’ipotesi del furto. Infine il discepolo che Gesù amava entra, vede e crede, passa dalla constatazione del sepolcro vuoto al credere che Gesù è di nuovo vivo oltre la morte.
Di fronte al sepolcro vuoto, il discepolo amato fa per primo il passo della fede. Nel testo di Atti è Pietro che prende la parola in casa del centurione Cornelio per parlare del piano di salvezza di Dio. Dopo il discepolo amato, anche Pietro ha creduto nella risurrezione.
Chi crede in Gesù costituito giudice dei vivi e dei morti ottiene il perdono dei peccati, è riconciliato con Dio, è salvo.
Il cristiano battezzato è colui che entra nello stesso mistero di morte e risurrezione. Il vero significato della sua vita lo può scoprire solo a partire dal progetto di Dio, dalle “cose di lassù”, senza lasciarsi guidare dagli istinti terreni. Ma questo processo di risurrezione interiore è graduale, non accade in una sola volta, deve essere voluto e scelto liberamente da ciascuno. In questo modo, gradualmente, la risurrezione di Gesù che entrò in noi nel battesimo ci rende liberi dal modo di valutare le cose solo orizzontale e ci permette di vivere già ora l’attesa dell’incontro definitivo.
Per nessuno di noi è facile credere nella risurrezione; a volte ci chiediamo se non stiamo dando spazio a storie inventate, se non dovremmo occuparci d qualcosa di più concreto. Ogni giorno facciamo esperienza che, nonostante il battesimo, pensiamo e agiamo ancora molto condizionati dalle “cose di quaggiù”. Ma la risurrezione è il mistero di Dio che entra nella nostra carne e scava il posto per una speranza che non muore. Il giorno della nostra risurrezione è un giorno che il Signore fa. A noi è chiesto solo, come al discepolo amato, a Pietro, a Maria Maddalena, a Cornelio e tanti altri, di avere fede.
Gesù è stato risuscitato da Dio in risposta al suo modo di vivere nell’amore fino all’estremo: così ci ha aperto una strada da percorrere qui sulla terra e poi nell’aldilà della morte, grazie al suo esempio ma soprattutto ai suoi meriti.
La Maddalena era stata una donna peccatrice, abitata da sette demoni (Lc 8,2), ma nell’incontro con Gesù era rifiorita come una nuova creatura: egli si era preso cura di lei, aveva messo in lei la fiducia nella possibilità della conversione, di una vita nuova, e ora lei si prende cura di Gesù, abbandonato da tutti. Ma una novità inaudita l’attende.
Uno arriva per primo al sepolcro a causa dell’amore di cui è amato, l’altro entra per primo a causa dell’elezione a « Roccia » della comunità da parte del Signore.
Pietro, pur «vedendo le bende per terra e il sudario piegato in un luogo a parte», non comprende nella fede l’evento straordinario della risurrezione. Per il discepolo amato, invece, le cose stanno diversamente: «Entrò anche l’altro discepolo… e vide e credette». Cosa ha visto? Nessun oggetto, è l’assenza stessa che, interpretata dall’amore, rivela al suo cuore una presenza. Nell’amore che lo lega a Gesù, il discepolo amato fa spazio in sé alla buona notizia per eccellenza, che anche Pietro poi proclamerà: «Dio ha risuscitato Gesù» (At 2,24).
La fede pasquale nasce dall’amore: solo l’amore per Gesù permette di comprendere la parola di Dio contenuta nelle Scritture e di discernere, a partire da una tomba vuota, che «Cristo è risorto secondo le Scritture» (1Cor 15,4).
Dio non vuole la croce ma dal momento che esiste, a causa del peccato, Egli l’ha fatta sua e in questo modo l’ha trasformata da uno strumento di tortura in uno strumento di salvezza.
«Di ‘certo’ nella vita c’è solo la morte». Ebbene, dalla Pasqua di Cristo in poi, di ‘certo’ nella vita non c’è solo la morte ma anche la risurrezione. «Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future» (Spe Salvi, 7).
«Il presente, anche un presente faticoso può essere vissuto o accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino» (Spe Salvi, 1).
Vivo, non perché noi lo teniamo in vita parlandone, ma perché lui tiene in vita noi, ci comunica il senso della sua presenza, ci fa sperare. “Tocca Cristo chi crede in Cristo”, diceva sant’Agostino e i veri credenti fanno l’esperienza della verità di questa affermazione.
Tutti credono che Gesù sia morto, anche i pagani, gli agnostici lo credono. Ma solo i cristiani credono che è anche risorto e non si è cristiani se non lo si crede. Risuscitandolo da morte, è come se Dio avallasse l’operato di Cristo, vi imprimesse il suo sigillo. “Dio ha dato a tutti gli uomini una prova sicura su Gesú, risuscitandolo da morte” (Atti 17,31).

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