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PERCHÉ GESÙ DICE AI SUOI DISCEPOLI DI NON GIUDICARE

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PERCHÉ GESÙ DICE AI SUOI DISCEPOLI DI NON GIUDICARE

«Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato» (Luca 6,37). È possibile mettere in pratica questa parola del Vangelo? Non è forse necessario giudicare, se non ci si vuole arrendere di fronte a ciò che non va? Ma questo appello di Gesù si è profondamente inciso nei cuori. Gli apostoli Giacomo e Paolo, del resto così diversi, vi fanno eco quasi con le stesse parole. Giacomo scrive: «Chi sei tu che ti fai giudice del tuo prossimo?» (Giacomo 4,12). E Paolo: «Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo?» (Romani 14,4).
Né Gesù né gli apostoli hanno cercato d’abolire i tribunali. Il loro appello concerne la vita quotidiana. Se i discepoli di Gesù scelgono d’amare, continuano tuttavia a commettere errori dalle conseguenze più o meno gravi. La reazione spontanea è allora di giudicare colui che – per sua negligenza, le sue debolezze o dimenticanze – causa dei torti o fallimenti. Certo noi abbiamo eccellenti ragioni per giudicare il nostro prossimo: è per il suo bene, affinché impari e progredisca…
Gesù, che conosce il cuore umano, non è vittima delle motivazioni più nascoste. Dice: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo?» (Luca 6,41). Posso servirmi degli errori degli altri per rassicurarmi delle mie qualità. Le ragioni per giudicare il mio prossimo lusingano il mio amor proprio (vedi Luca 18,9-14). Ma se spio il più piccolo errore del mio prossimo, non è forse per dispensarmi dall’affrontare i miei problemi? I mille errori che trovo in lui non provano ancora che io valgo di più. La severità del mio giudizio forse non fa altro che nascondere la mia stessa insicurezza e la mia paura d’essere giudicato.
A due riprese Gesù parla dell’occhio «malato» o «cattivo» (Matteo 6,23 e 20,15). Nomina così lo sguardo torbido per la gelosia. L’occhio malato ammira, invidia e giudica il prossimo nel medesimo tempo. Quando ammiro il mio prossimo per le sue qualità ma, allo stesso tempo, mi rende geloso, il mio occhio diventa cattivo. Non vedo più la realtà così com’è, e può anche succedermi di giudicare un altro per un male immaginario che non ha mai fatto.
È ancora un desiderio di dominio che può incitare al giudizio. Per questo, nel passo già citato, Paolo scrive: « Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo?». Chi giudica il suo prossimo si eleva a maestro, e usurpa, di fatto, il posto di Dio. Ora noi siamo chiamati a «considerare gli altri superiori a se stesso» (Filippesi 2,3). Non si tratta di non tenersi in considerazione, ma di mettersi a servizio degli altri piuttosto di giudicarli.
Rinunciare di giudicare porta all’indifferenza e alla passività?
In una stessa frase, l’apostolo Paolo usa la parola giudicare con due significati diversi: «Cessiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; pensate (giudicate) invece a non esser causa d’inciampo o di scandalo al fratello» (Romani 14,13). Smettere di giudicarsi reciprocamente non porta alla passività, ma è una condizione per un’attività e dei comportamenti giusti.
Gesù non invita a chiudere gli occhi e a lasciar correre le cose. Poiché subito dopo aver detto di non giudicare, continua: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutt’e due in una buca?» (Luca 6,39). Gesù desidera che i ciechi siano aiutati a trovare la strada. Ma denuncia le guide incapaci. Queste guide un po’ ridicole sono, secondo il contesto, coro che giudicano e condannano. Senza rinunciare a giudicare, è impossibile veder chiaro per portare altri sulla buona strada.
Ecco un esempio tratto da Barsanufio e Giovanni, due monaci di Gaza del 6° secolo. Dopo aver biasimato un fratello per la sua negligenza, Giovanni è dispiaciuto vederlo triste. È ancora ferito quando a sua volta si sente giudicato dai suoi fratelli. Per trovare la calma, decide allora di non fare più rimproveri a nessuno e di occuparsi unicamente di ciò di cui sarebbe responsabile. Ma Barsanufio gli fa capire che la pace del Cristo non sta nel chiudersi in se stesso. Gli cita più volte una parola dell’apostolo Paolo: «Ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina» (2 Timoteo 4,2).
Lasciare gli altri tranquilli, può essere ancora una forma sottile di giudicare. Se voglio occuparmi solo di me stesso, è forse perché considero gli altri non degni della mia attenzione e dei miei sforzi? Giovanni di Gaza decide di non più riprendere nessun suo fratello, ma Barsanufio comprende che in effetti egli continua a giudicarli nel suo cuore. Gli scrive: «Non giudicare e non condannare nessuno, ma avvertili come veri fratelli» (Lettera 21), È rinunciando ai giudizi che Giovanni diventerà capace di una vera preoccupazione per gli altri.
«Non vogliate giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore» (1 Corinzi 4,5): Paolo raccomanda il più grande ritegno nel giudizio. Allo stesso tempo, chiede con insistenza di preoccuparsi degli altri: «Correggete gli indisciplinati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, siate pazienti con tutti» (1 Tessalonicesi 5,14). Per esperienza sapeva che riprendere senza giudicare poteva costare: «Per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi» (Atti 20,31). Solo la carità è capace di un simile servizio.

 

Publié dans:biblica, meditazioni bibliche |on 10 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

10. VERA SAGGEZZA (GIACOMO 3:13-18).

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10. VERA SAGGEZZA (GIACOMO 3:13-18).

(da: Tempo di Riforma)

Quando si è di fronte ad un problema pratico e non si sa come risolverlo, si chiamano “gli esperti”, cioè coloro che conoscono bene per conoscenza ed esperienza un particolare campo, che hanno lunga pratica ed abilità nella loro arte o nella conoscenza di qualcosa. Può essere, ad esempio, l’idraulico, l’elettricista o il muratore se si hanno problemi con la nostra abitazione; il medico specialista se si hanno particolari problemi di salute; lo psicologo o lo psichiatra se ci si trova di fronte a problemi comportamentali o di salute mentale; un avvocato, se si hanno problemi di carattere legale; il matrimonialista o sessuologo, se si hanno problemi in quel particolare campo. Un ministro di culto, un teologo, lo si intende normalmente come “esperto di problemi religiosi”.
E’ bene consultare gli esperti qualificati in un certo campo e riconoscere umilmente di non sapere tutto e di avere bisogno di consiglio “da chi se ne intende”. Non dobbiamo vergognarcene.
Nei programmi televisivi vi è anche la figura dell’esperto che viene convocato per discutere di un particolare problema ed offrire dei consigli, come anche quella del “tuttologo”, un neologismo scherzoso e di tono ironico riferito a chi pretende boriosamente di sapere tutto e di poter quindi parlare o scrivere di qualsiasi argomento vantando o attribuendosi conoscenze in ogni campo. I programmi televisivi si avvalgono spesso di questi presunti “tuttologi”. Un noto “tuttologo” dei fumetti di Walt Disney è Pico de Paperis# che fa il verso al famoso filosofo dell’umanesimo Giovanni Pico della Mirandola#, passato popolarmente alla storia come grande sapientone…
C’è qualcuno fra di voi che si ritiene “esperto” in ogni campo, sempre pronto ad elargire a tutti i suoi consigli a noi “inesperti”? Questa è la domanda che sostanzialmente si fa l’apostolo Giacomo nel testo biblico della sua lettera che consideriamo quest’oggi. Si chiede difatti, in questo senso: “Chi tra voi è saggio e intelligente?”.

Il testo biblico
In questo brano Giacomo, dopo aver discusso l’uso e l’abuso della lingua, scrive dell’importanza di vivere con autentica saggezza. Che cosa vuol dire “saggezza”? Da dove possiamo trarre la saggezza che ci serve per vivere una vita giusta e buona? Quali sono le conseguenze pratiche della saggezza? Con il termine che noi traduciamo “saggezza”, e che si sovrappone a “sapienza”, Giacomo ricalca i termini della verità rivelata nella letteratura sapienziale dell’Antico Testamento (dal libro di Giobbe al Cantico dei Cantici). Essa, infatti, distingue due categorie: una sapienza-saggezza puramente umana (con tutti i suoi gravi limiti e problemi) che considera come valida la logica e il “saperci fare” di questo mondo, e la sapienza-saggezza “che scende dall’alto”, quella che Dio possiede e Egli si compiace di impartire. Giacomo opera dunque una distinzione fra sapienza terrena e sapienza celeste.
« Chi fra voi è saggio e intelligente? Mostri con la buona condotta le sue opere compiute con mansuetudine e saggezza. Ma se avete nel vostro cuore amara gelosia e spirito di contesa, non vi vantate e non mentite contro la verità. Questa non è la saggezza che scende dall’alto; ma è terrena, animale e diabolica. Infatti dove c’è invidia e contesa, c’è disordine e ogni cattiva azione. La saggezza che viene dall’alto, anzitutto è pura; poi pacifica, mite, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia. Il frutto della giustizia si semina nella pace per coloro che si adoperano per la pace » (Giacomo 3:13-18).
Giacomo considera la saggezza come un’ulteriore test per verificare una fede che possa dirsi vivente. Il tipo di saggezza posseduto da una persona, dice, è rivelato dal suo modo di vivere. Allo stesso modo in cui Giacomo poco prima ci aveva messi in guardia a fare molta attenzione a voler essere considerati “maestri” (3:1), così dobbiamo fare attenzione a vantare di essere degli “esperti” sempre pronti ad elargire i nostri consigli, perché è dal modo in cui viviamo che si dimostra se davvero siamo quegli esperti, quei “sapienti” che diciamo di essere. Anche in questo caso, senza un comportamento coerente in armonia con la vita e l’insegnamento di Cristo, dimostriamo solo di avere quella che spesso è la pseudo-sapienza di questo mondo che, magari, “funziona”, ma a che prezzo! Peggio, dimostriamo di non avere alcun autentico rapporto salvifico con Gesù Cristo, nessun reale desiderio di rendergli culto, adorarlo e servirlo, perché è dai fatti che lo si verifica. D’altro canto, coloro che possiedono autentica fede salvifica e lo dimostrano, manifestano « la saggezza che scende dall’alto », la saggezza di Dio.

Saggezza e sapienza
Chiariamo prima di tutto i termini. In italiano il termine “saggezza” significa generalmente la capacità di seguire la ragione nel comportamento e nei giudizî, moderazione nei desiderî, equilibrio e prudenza nel distinguere il bene e il male, nel valutare le situazioni e nel decidere, nel parlare e nell’agire. La saggezza è la dote che deriva dall’esperienza, dalla meditazione sulle cose, e che riguarda soprattutto il comportamento morale e in genere l’attività pratica. Si dice, ad esempio, “una persona di grande saggezza”, “parlare, agire con saggezza”, “dare prova di saggezza”, “parole piene di saggezza”; “la saggezza delle persone anziane, dei contadini”, “la saggezza condensata nei proverbî”; con particolare riferimento al modo di operare: “la saggezza di un consiglio, di una decisione, di un provvedimento legislativo”. E’ determinante per la nostra discussione sapere quale sia il modello rispetto al quale definiamo il comportamento saggio.

Il termine “sapienza”, invece, indica un profondo sapere, la condizione di perfezione intellettuale che si manifesta col possesso di grande conoscenza e dottrina, come “la sapienza degli antichi filosofi”. Con senso più ampio, dote, oltre che intellettuale, anche spirituale e morale, intesa come saggezza unita a oculato discernimento nel giudicare e nell’operare, sia sul piano etico, sia sul piano della vita pratica. Anche in questo caso dobbiamo determinare quale sia il contenuto di questa conoscenza ed i criteri rispetto ai quali determiniamo ciò che è buono.
Sia nelle sacre Scritture che con gli antichi filosofi, la sapienza, o saggezza, è una virtù altamente valorizzata. In senso lato, nella Bibbia, “sapienza” o “saggezza” non è semplicemente il possedere conoscenze speculative, ma la capacità di sapere applicare in modo appropriato ed efficace quelle conoscenze alla vita pratica. Il “saggio” o “sapiente”, di conseguenza è chi possiede conoscenze e le sa applicare alla vita pratica.
Il Nuovo Testamento definisce una persona s?f?? (sophos) nel senso (variamente tradotto) di (1) saggio, abile, esperto, competente; (2) colto, dotto, istruito, abile nelle lettere; (3) saggio in senso pratico, cioè una persona che nell’azione è governato da pietà ed integrità; (4) Saggio in senso filosofico, in grado di elaborare i piani migliori ed usare i mezzi migliori per eseguirli. Giacomo usa qui il termine « saggio » nel terzo significato, vale a dire saggezza pratica, la persona moralmente integra e consacrata a Dio che si comporta nel modo più appropriato e conforme alla volontà di Dio. Di conseguenza, per esempio, è pure la persona più adatta per giudicare in caso di contese e di sistemare la questione, come quando l’apostolo Paolo scrive: « È possibile che non vi sia tra di voi neppure una persona saggia, capace di pronunciare un giudizio tra un fratello e l’altro? » (1 Corinzi 6:5). Gli ebrei ai quali si rivolgeva Giacomo comprendevano che la vera sapienza non era qualcosa di semplicemente intellettuale, ma comportamentale. Il più grande stupido era considerato chi conosceva la verità e falliva nell’applicarla. Per gli israeliti sapienza o saggezza significava abilità nel vivere in modo giusto.

Esposizione
1. “Chi fra voi è saggio e intelligente? Mostri con la buona condotta le sue opere compiute con mansuetudine e saggezza” (13).
Per “intelligente” si intende “avere intelligenza di” e in altri contesti si riferisce allo specialista o professionista che è in grado di applicare con maestria la sua perizia, la sua arte, a situazioni pratiche. E’ tradotto anche “accorto” (CEI). Giacomo chiede chi veramente sia abile ed esperto nell’arte di vivere. Un sinonimo lo troviamo in quanto Gesù disse una volta: “I figli di questo mondo, nelle relazioni con quelli della loro generazione, sono più avveduti dei figli della luce” (Luca 16:8). Per “mansuetudine” si intende l’opposto dell’arroganza e dell’auto-promozione. I greci la descrivevano come avere “un potere sotto controllo”.
Immaginiamo una persona che si professa cristiana e che ci dica: “Io so come si vive in questo mondo. So come si deve trattare con la gente, so ‘farmi strada’ nella società”. Indubbiamente lo sa e lo pratica perché oggettivamente egli pare essere “una persona di successo”. Quali sono, però, i principi che applica per “vivere in questo mondo” ed “avere successo”? I princìpi che in questo mondo determinano “il successo”, ad esempio: l’arroganza, la prevaricazione, il ricatto, l’egoismo, il calpestare gli altri nei loro diritti per imporre sé stessi, la corruzione (la pratica delle “bustarelle”), la volgarità, la disonestà ecc. Si tratta di una persona indubbiamente abile e “sapiente”, una persona “che ci sa fare”, ma che pratica la sapienza “di quaggiù” e, nonostante si professi cristiana, è coerente con la sapienza di questo mondo, e non con la sapienza di Dio.
2. “Ma se avete nel vostro cuore amara gelosia e spirito di contesa, non vi vantate e non mentite contro la verità” (14).
Si tratta di una persona che “ci sa fare” in questo mondo, ma nella sua “sapienza” applica i principi dell’andazzo di questo mondo. Ai cristiani di Efeso, l’apostolo Paolo scrive: “Un tempo vi abbandonaste seguendo l’andazzo di questo mondo, seguendo il principe della potenza dell’aria, di quello spirito che opera oggi negli uomini ribelli” (Efesini 2:2).
Che cosa produce lo spirito di questo mondo? Ne abbiamo qui alcuni esempi. “Amara gelosia”. In greco l’aggettivo “amaro” è riferito all’acqua non potabile. Quando questo aggettivo è congiunto a “gelosia” definisce un atteggiamento duro e risentito verso gli altri. Con “Spirito di contesa”. si riferisce all’ambizione egoistica che genera antagonismo e partigianeria, lo spirito competitivo in negativo. Il termine greco descrive pure chiunque entri in politica per ragioni egoistiche, cercando vantaggi personali, cercando di ottenere quel a cui aspira ad ogni costo, anche calpestando gli altri. Indubbiamente:
3. “Questa non è la saggezza che scende dall’alto; ma è terrena, animale e diabolica” (15). Si tratta di una sapienza tutta incentrata in noi stessi consumata con ambizioni personali non è “dall’alto”, vale a dire da Dio.
Giacomo la definisce ulteriormente come: “terrena, animale (o carnale), diabolica”. E’ la descrizione della sapienza umana limitata a questo mondo, caratterizzata dai principi delll’umanità corrotta dal peccato, fragile e non redenta, sollecitata da forze sataniche, quelle che vorrebbero persuaderci che contravvenire alla legge morale di Dio ci garantisce in questo mondo il successo che vogliamo. Era una delle tentazioni a cui era stato sottoposto anche il Signore Gesù. Dice il vangelo di Matteo: “Di nuovo il diavolo lo portò con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria, dicendogli: «Tutte queste cose ti darò, se tu ti prostri e mi adori». Allora Gesù gli disse: «Vattene, Satana, poiché sta scritto: « Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi il culto »».” (Matteo 4:8-10). Sicuramente Satana avrebbe potuto dare a Cristo tutte quelle cose se solo avesse applicato i suoi principi, quelli che seguono i figli di questo mondo per avere successo mondano. Gesù, però, rifiuta queste tentazioni ed un successo fondato su principi malvagi ed effimeri. Gesù avrebbe alla fine avuto “successo”, ma in altro modo!
4. “Infatti dove c’è invidia e contesa, c’è disordine e ogni cattiva azione” (16). Sì, dove prevale la sapienza di questo mondo viene generato solo “disordine” (o turbamento). Si tratta del disordine che risulta dall’instabilità e dal caos della sapienza umana non informata da Dio. E non solo disordine, ma “ogni cattiva azione” (o “opere malvagie”), letteralmente “ogni opera priva di valore” ultimo. Denota cose che in sé stesse potrebbero anche non essere un male, ma non servono a nulla, non contribuiscono a far crescere e sviluppare il regno di Dio a Sua gloria. .
5. “La saggezza che viene dall’alto, anzitutto è pura; poi pacifica, mite, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia” (17). Queste sono le caratteristiche della sapienza di Dio incarnata nella vita e nella morte di Gesù. Sono i principi che Gesù esprime in quelli che sono conosciute come “le beatitudini” espresse da Lui nel cosiddetto “sermone sul monte”. Rileggiamo questo testo:
“Gesù, vedendo le folle, salì sul monte e si mise a sedere. I suoi discepoli si accostarono a lui, ed egli, aperta la bocca, insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli. Beati quelli che sono afflitti, perché saranno consolati. Beati i mansueti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che sono affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati quelli che si adoperano per la pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per motivo di giustizia, perché di loro è il regno dei cieli. Beati voi, quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno contro di voi ogni sorta di male per causa mia. Rallegratevi e giubilate, perché il vostro premio è grande nei cieli; poiché così hanno perseguitato i profeti che sono stati prima di voi” (Matteo 5:1-11).
Qui il termine “pura” si riferisce all’integrità spirituale ed alla sincerità morale. Ogni cristiano autentico ha queste motivazioni che provengono dal suo cuore. Per “pacifica”, si intende quella di coloro che amano e promuovono la pace. Il termine tradotto con “mite” è un tentativo di rendere una parola di difficile traduzione, ma che si approssima al tratto caratteriale di chi è gentile, paziente, umile, senza pensieri di odio o di vendetta. Per “conciliante”, il termine originale descrive qualcuno che è disposto ad essere istruito, flessibile, facile da persuadere. Con “piena di misericordia” si intende il dono di mostrare sincero interesse e partecipazione per coloro che sono afflitti e soffrono, come pure la capacità di perdonare prontamente. Con “imparziale” si intende “senza parzialità”. Questo termine ricorre nel Nuovo Testamento solo in questo testo, e denota una persona coerente, che non si piega, indivisa nel suo impegno e convinzioni, la quale non fa ingiuste distinzioni.
6. “Il frutto della giustizia si semina nella pace per coloro che si adoperano per la pace” (18). Se vogliamo raccogliere “giustizia”, vale a dire quella che veramente conta e vale davanti a Dio bisogna “seminare”, cioè operare “in pace con Dio” e in accordo alla Sua volontà rivelata nella Sua Parola. “Il frutto della giustizia” sono le buone opere che sono il risultato della salvezza (cfr. v. 17), quelle che Dio considerano tali e sono espressione di coloro che “si adoperano per la pace” vale a dire la pace con Dio. La giustizia fiorisce in un clima di pace spirituale ed amicizia con Dio e non “in pace col mondo”, cioè in armonia con i suoi principi, la sua condotta, la sua sapienza.
Indubbiamente il comportamento che è insegnato e vissuto dal Cristo e che è espresso dalle Beatitudini è cosa che il mondo disprezza e mette in ridicolo come stupido ed inefficace, “un’etica da perdenti”, da sciocchi. E’ così? Solo apparentemente perché il successo di questo mondo è di breve durata e produce alla fine solo disastri. Ciò che veramente vale – e alla fine lo si comprova sempre vero e realmente efficace – è l’etica di Dio, i Suoi principi, la Sua sapienza, la Sua saggezza, quella che viene “dall’alto”. “E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Giovanni 2:17).

Conclusione
Se una persona professa fede salvifica in Gesù Cristo e pretende di avere la saggezza che viene da Dio, ma il suo cuore è piuttosto in linea con la sapienza di questo mondo, con il suo andazzo distruttore, apparentemente saggio; se si comporta nella società, per “avere successo” in modo arrogante, orgoglioso, e centrato in sé stesso, come pure vive una vita mondana, sensuale al servizio di sé stesso, le sue pretese di essere cristiano sono del tutto inconsistenti e false, perché i fatti lo comprovano.
La saggezza che libera dal male è quella che viene espressa da Dio nell’Antico Testamento da libri come quello dei Proverbi. Al capitolo 2 leggiamo: “Figlio mio, se ricevi le mie parole e serbi con cura i miei comandamenti, prestando orecchio alla saggezza e inclinando il cuore all’intelligenza; sì, se chiami il discernimento e rivolgi la tua voce all’intelligenza, se la cerchi come l’argento e ti dai a scavarla come un tesoro, allora comprenderai il timore del SIGNORE e troverai la scienza di Dio. Il SIGNORE infatti dà la saggezza; dalla sua bocca provengono la scienza e l’intelligenza. Egli tiene in serbo per gli uomini retti un aiuto potente, uno scudo per quelli che camminano nell’integrità” (Proverbi 2:1-7).

Domande di approfondimento
Chi è la persona più saggia che conosci? Spiega che cosa vedi in quella persona che tu giudichi esprimere sapienza.
Quanto conta la vera saggezza quando si tratta di eleggere i responsabili di una comunità cristiana oppure dei leader politici?
Secondo te, qual è il segreto per acquisire vera sapienza?
In che modo possiamo manifestare saggezza?
In che modo questo brano descrive la saggezza che proviene da Dio? (Si consideri: Giobbe 28; Salmo 104:24; Proverbi 1:7; Daniele 1:17; Romani 11:33).
Che cosa intende Giacomo quando si riferisce a “mansuetudine e saggezza” (v. 13; si consideri Matteo 5:5; Galati 5:22-23).
Elenca i “frutti” della sapienza terrena e quelli di provenienza celeste che Giacomo menziona. Confrontali. In che modo differiscono? Quali sono i risultati o conseguenze di ciascuno di essi? (Si consideri: Matteo 5:6; 1 Corinzi 1:18-31; 2:6-16; Galati 5:22-23; Filippesi 1:11).
Che cosa significa che la sapienza di Dio è pura (v. 17)? (Si consideri Salmo 24:3-4; Matteo 5:8).
Sottolinea in Proverbi 2:1-7 tutti i sinonimi di “saggezza”. Che cosa rivelano sulla natura della saggezza?
Qual’è la fonte della saggezza autentica? In che modo la conseguiamo?
Leggi Colossesi 2:2-3. Che cosa dice questo testo su Cristo e la sapienza?
In che modo si può dire se la saggezza che abbiamo è quella di Dio o del mondo?
In che misura la sapienza mondana controlla i tuoi pensieri, opinioni e valori? Perché?
Quali sono alcuni modi concreti attraverso i quali si può acquisire la sapienza di Dio?

Appendice
Come viene tradotto il termine “sophos”
Abile, esperto. « saggi nel fare il bene » (Romani 16:19); « esperto architetto » (o « sapiente architetto), cfr. »abile incantatore » (o « esperto di incantesimi », « intendente nelle parole segrete (Diodati).
Abile nelle lettere, istruito. sapiente, colto, dotto. « sapienti » (Romani 1:14,22), detto dei filosofi greci ed oratori. « Io farò perire la sapienza dei saggi » (la sapienza di chi si ritiene di sapere);: « Se qualcuno tra di voi presume di essere un saggio in questo secolo, diventi pazzo per diventare saggio » o « Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; » (CEI). Detto dei teologi israeliti: « Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti » (Matteo 11:25; cfr. Luca 10:21), o dei maestri cristiani: « Perciò ecco, io vi mando dei profeti, dei saggi e degli scribi » (Matteo 23:34).
Saggio in senso pratico, cioè una persona che nell’azione è governato da pietà ed integrità. « Guardate dunque con diligenza a come vi comportate; non da stolti, ma da saggi » (Efesini 5:15). « Chi fra voi è saggio e intelligente? Mostri con la buona condotta le sue opere compiute con mansuetudine e saggezza » (Giacomo 3:13). Di conseguenza è la persona più adatta per giudicare in caso di contese e di sistemare la questione:  » È possibile che non vi sia tra di voi neppure una persona saggia, capace di pronunciare un giudizio tra un fratello e l’altro? » (1 Corinzi 6:5).
Saggio in senso filosofico, in grado di elaborare i piani migliori ed usare i mezzi migliori per eseguirli. Così è di Dio « Dio, unico in saggezza, per mezzo di Gesù Cristo sia la gloria nei secoli dei secoli » (Romani 16:27); « poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini » (1 Corinzi 1:25).

INTRODUZIONE ALLA BIBBIA / 7 – I GENERI LETTERARI

http://www.sambrogiodimignanego.it/Sito%20Parrocchia/n_rifles/Bib007.htm

INTRODUZIONE ALLA BIBBIA / 7 – I GENERI LETTERARI

[Parrocchia di S. Ambrogio in Mignanego (GE) ]

Oggi non ci si veste come ieri, né domani come oggi; né nella stessa epoca ci si veste allo stesso modo in tutti gli angoli della terra.
Qualcosa del genere accade anche riguardo al nostro modo di parlare e di scrivere: oggi non si scrive come ieri, né l’o­rientale scrive come l’occidentale.
Perfino le stesse parole non hanno sempre lo stesso signifi­cato. La differenza aumenta quanto più gli uomini sono distanti nel tempo e nello spazio. Un orientale di tremila anni fa è diverso in tutto da un occidentale dei nostri giorni. Inoltre c’è diversità nei modi di esprimere il pensiero: esi­stono la poesia, la storia, l’allegoria, il romanzo, ecc. Il poeta non scrive come uno studioso: il primo si permette certe libertà (immagini, paragoni, iperboli), mentre il secondo deve attenersi ai dati precisi, ai termini esatti.
I diversi modi di esprimere per iscritto il pensiero, che si sono usati e si usano in determinate epoche e luoghi, ven­gono chiamati generi letterari. La loro conoscenza è di grande importanza: essi possono aiutarci a chiarire alcune cose fondamentali riguardanti la Bibbia, a leggerla e com­prenderla meglio.
Infatti, come in ogni letteratura di qualsiasi paese o nazione, anche nei Libri Sacri, che sono scritti da uomini per gli uomini, si ha notevole diversità di generi letterari.
Nei 73 libri della Bibbia troviamo, infatti, storie vere, roman­zi storici, allegorie, favole, parabole, poemi, poesie, leggen­de, proverbi, simbolismi, antropomorfismi (cioè attribuzio­ni a Dio di forme umane), ecc. Perfino in uno stesso libro o capitolo a volte coesistono generi letterari diversi.
Molte persone, senza rendersene conto, nel leggere la Bibbia assumono lo stesso atteggiamento che se leggessero un autore moderno. Ma non può essere così! Non si può parla­re, per esempio, del lago di Tiberiade, descrivendolo come se fosse il lago di Garda! Sarebbe un controsenso.
Gli scrittori biblici, infatti, come Isaia, Geremia, Giovanni, ecc., sono molto diversi da noi oggi. Vissero tanti anni fa le stesse verità che viviamo noi, ma le espressero in modo molto differente.
E noi, se li leggiamo come autori moderni, corriamo il rischio di fermarci solo al loro modo di dire le cose e di non arriva­re a capire ciò che vollero dire.
Così finiamo per non comprendere la Bibbia.
È dunque necessario per noi affrontare, sia pure in breve, l’importante problema dei generi letterari.

CHE COSA INSEGNA LA CHIESA
Pio XII, affrontando questo tema nell’enciclica che scrisse sullo studio delle Sacre Scritture, la Divino afflante Spiritu, ci ricorda: « Gli antichi orientali non impiegavano sempre le stesse forme e gli stessi modi di dire di noi oggi, ma quelli che erano usati correntemente dagli uomini del loro tempo e dei loro paesi ».
Quindi aggiunge che, per conoscere il vero senso degli scritti sacri, occorre determinare bene il genere let­terario a cui appartengono.
In un’altra enciclica, la Humani generis, lo stesso Pio XII afferma a proposito della Genesi: « È in un certo senso assolutamente necessario che l’interprete retroceda con il pensiero ai lontani e remoti secoli dell’Oriente, in modo che, aiutandosi con le risorse della storia, del­l’archeologia, dell’etnologia e delle altre scienze, possa discernere e riconoscere quali generi letterari hanno voluto impiegare e hanno usato di fatto gli autori di quell’età antica ».
Perciò il cristiano, nel leggere la Bibbia, deve saper riconoscere quale genere letterario ha davanti a sé, cioè deve saper distinguere tra la realtà e la fin­zione, tra il nucleo storico e il rivestimento lettera­rio che lo esprime. Altrimenti finisce per imbatter­si in infiniti controsensi.
Per prevenire il lettore da certe delusioni, nate in massima parte dall’ignoran­za, tutte le Bibbie cattoliche recano note esplicative. Molte di esse contengono un’introduzione per ciascun libro, per far sì che il lettore, prima di accingersi alla lettura, acquisisca una certa ambientazione. Non si assume lo stesso atteg­giamento di fronte a un racconto storico o a una poesia o a un romanzo.
Di conseguenza, dobbiamo fare attenzione a non attribuire al testo ispirato un senso che non ha. Invece di accomodarlo al nostro modo di intendere, dobbia­mo accomodare noi stessi ad esso e attribuirgli il senso che gli ha dato l’autore. Questa osservazione è di capitale importanza se vogliamo, nella lettura della Bibbia, ascoltare la Parola di Dio e non la parola umana.
Una maggiore conoscenza dell’Antico Oriente e l’applicazione dei generi lette­rari permettono di dare interpretazioni più ragionevoli a passi biblici che prima erano interpretati comunemente alla lettera.
Per esempio:
• il frutto dell’albero del paradiso
• la creazione di Eva dalla costola di Adamo
• il potere misterioso dei capelli di Sansone
• il carro di fuoco di Elia ed Enoc
• la balena di Giona, ecc.
Senza dubbio è molto difficile interpretare rettamente molti passi biblici, in particolare dell’Antico Testamento. La loro retta comprensione richiede uno studio serio e impegnativo. E per aver dimenticato questo, molti cristiani cadono in un’interpretazione superficiale e troppo letterale della Sacra Scrittura, disattendendo penosamente ciò che è più impor­tante, cioè il messaggio racchiuso nei fatti fondamentali.

CERCARE I FATTI FONDAMENTALI
Noi occidentali oggi ci esprimiamo in modo realistico e diretto, mentre gli anti­chi popoli orientali erano soliti esprimersi attraverso fantasie, immagini o rap­presentazioni animate.
Ora, leggendo i loro testi, noi dovremo imparare a distinguere e cercare anzi­tutto le idee e i fatti fondamentali.
Un esempio
I primi undici capitoli della Genesi
Essi ci rendono conto, in forma di poema popolare, di alcuni fatti e verità fon­damentali della religione:
• l’esistenza di un Dio personale, superiore al mondo
• la creazione del mondo e dell’uomo da parte di Dio
• la dignità della persona umana
• il matrimonio
• il peccato originale e la promessa di un Redentore.
Per di più ci danno anche la risposta ai problemi umani più vitali:
• chi è Dio?
• chi è l’uomo?
• perché esistono il male, la sofferenza, la morte?
I racconti di questi capitoli sono espressi in forma di scene animate, il loro gene­re letterario ha rapporto con la storia, con la leggenda popolare, con la parabo­la, con l’apocalisse cosmogonica (rivelazione sulla formazione dell’universo), e tuttavia non è né storia in senso stretto, né pura leggenda e tanto meno mito (favole, finzioni astratte).
Così anche i libri di Tobia, Giuditta, Ester, Giona apparten­gono a questo genere letterario, chiamato midrash, che è simile a una parabola o a un racconto storico, ma in realtà si propone di dare un insegnamento morale.

MA PERCHÉ DIO NON HA PARLATO IN MODO PIÙ CHIARO?
Viene da obiettare: se la Bibbia dice cose tanto importanti, se ci comunica il pensiero di Dio, la sua parola, perché Dio non ci ha parlato più chiaramente? Così potremmo capirlo tutti senza tanti sforzi.
Invece dobbiamo costatare che la Bibbia riflette una menta­lità, una cultura e un linguaggio molto diversi dai nostri. Ad esempio, per l’uomo biblico « i cedri del Libano » simbo­leggiano un qualcosa d’imponente, che mette soggezione per la sua bellezza e superiorità; « mangiare carni grasse » o vedere come « l’olio profumato discende dalla barba di Aronne » era una squisitezza sopraffina.
E come è difficile interpretare il senso di peccato di cui parla Genesi (il « frutto proibito »), o ricevere come Parola di Dio il comando di sterminare i nemici!
Nonostante ciò, esistono testi fonda­mentali, che contengono verità irri­nunciabili, abbastanza comprensibili da un lettore senza troppi pregiudizi. Per esempio dal racconto della crea­zione (Gn 1), senza entrare in una spiegazione dettagliata sui diversi modi di raccontare lì presenti, emer­ge con facilità la verità di fede: Dio ha creato tutto l’esistente con la potenza della sua parola (« Disse… e così fu fatto ») e quanto è stato da lui creato è buono (« E vide Dio che tutto era buono »).
I progenitori sono stati collocati nel centro stesso della creazione.
In linguaggio dotto diciamo che la Bibbia è la Parola di Dio inculturata, cioè che ha trovato la sua espressione in una cultura, una lin­gua, una mentalità determinate, quelle del popolo ebraico.
(Cultura = forma basilare di pensare, sentire e vivere la real­tà, propria di un gruppo di persone, in un luogo e in un tempo determinati).

LA BIBBIA PARLA DI DIO CON LINGUAGGIO UMANO
Chi ha scritto la Bibbia aveva come evidente obiettivo di raccontare come Dio si è fatto compagno di viaggio d’un intero popolo.
O se si vuole, dal punto di vista umano, come un popolo, di generazione in generazione, ha sperimentato, creduto, amato, servito e disobbedito questo Essere trascendente chiamato DIO, con la convinzione che tra lui e Dio esisteva una relazione indelebile, a volte difficile, però sempre bella: la relazione dell’Alleanza.
Si può comprendere così come, a causa di questa motiva­zione religiosa, la Bibbia sia piena di indicazioni religiose, e che di conseguenza impieghi con tanta abbondanza un lin­guaggio simbolico, costellato di immagini.
Si comprenderà, quindi, come Dio invada la storia, grande e piccola, degli uomini:
• entri nella tenda di Abramo
• abiti in un tempio
• susciti profeti
• compia miracoli
• ascolti il grido di dolore del popolo
• abbia compassione dei suoi peccati, ecc.
Persino il Figlio di Dio si fa uomo ed abita tra gli uomini, è persona dentro la storia e portatore di un mistero sovruma­no. Come parlare di tutto questo senza rompere qualsiasi schema troppo rigido?
La Bibbia è una testimonianza di fede impressionante. Impressionante perché, dentro fatti concreti, lo scrittore biblico legge il mistero, un progetto di salvezza, la presenza di un TU incomprensibile, ma personale, vivo e reale.

Publié dans:BIBBIA: TEMI VARI, biblica |on 16 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

IL SONNO NELLA SACRA SCRITTURA

http://www.zenit.org/it/articles/il-sonno-nella-sacra-scrittura

IL SONNO NELLA SACRA SCRITTURA

IL RETTORE DELLA PONTIFICIA UNIVERSITÀ LATERANENSE INTRODUCE IL X CONGRESSO MONDIALE SULLA SINDROME DELLE APNEE NEL SONNO

27 AGOSTO 2012

DI MONS. ENRICO DAL COVOLO

ROMA, lunedì, 27 agosto 2012 (ZENIT.org) – Riportiamo di seguito l’introduzione di monsignor Enrico Dal Covolo, rettore della Pontificia Università Lateranense, al X Congresso Mondiale sulla “Sindrome delle apnee del sonno”, promosso dal Comitato Scientifico del Congresso (Campidoglio – Pontificia Università Lateranense, Roma, 27 agosto – 1 settembre 2012).
***

Autorità accademiche e civili,
Illustri Membri del Comitato Scientifico promotore del Decimo Congresso Mondiale sulle apnee del sonno,
Cari Colleghi;

mentre – come Rettore della Pontificia Università Lateranense (per antonomasia l’“Università del Papa”), che ospita questo prestigioso evento scientifico –; mentre rivolgo a Voi tutti un deferente e cordiale saluto, desidero proporvi un breve appunto sul sonno nella Sacra Scrittura.
È questo, infatti, il più importante argomento di raccordo fra le tematiche che affronterete nei prossimi giorni, e la sede accademica nella quale le tratterete.
1)La Sacra Scrittura è attraversata dal sonno degli uomini, poiché esso si rivela come una forma adeguata per esprimere la visione di Dio.
Di fatto, è noto che per l’Antico Testamento e per il Giudaismo Dio non si può vedere faccia a faccia, pena la morte di chi cerca di valicare la barriera che lo separa dall’Assoluto. Sin dalle prime pagine del libro della Genesi, Adamo è addormentato da Dio, perché dalla sua costola egli possa trarre Eva, la madre dei viventi (Genesi 2,21-22).
Esempio emblematico del sonno legato alla visione di Dio e dei suoi progetti è poi – dopo Giacobbe (Genesi 28,10-22)– Giuseppe, il patriarca definito per antonomasia “il sognatore”. Egli, mediante i sogni, è capace di identificare la volontà di Dio per sé e il suo popolo (Genesi 37,5-11).
Anche il giovane Samuele vive una particolare esperienza del sonno: ma qui Dio lo desta dal sonno, per costituirlo profeta di Israele (1Samuele 3,11-12).
Con i libri sapienziali e apocalittici, il sonno diventa il luogo privilegiato nel quale Dio rivela la sua volontà per la redenzione finale di Israele, e perché i giusti possano meritare la morte vista come sonno, e non come la fine di tutto.
2) Nel Nuovo Testamento è Matteo l’evangelista che più di tutti gli altri autori si sofferma sul sogno. Non a caso, egli sceglie come personaggio toccato dal sonno Giuseppe, il padre adottivo di Gesù. Di fatto, proprio nel sonno Giuseppe comprende la volontà di Dio su di sé, sulla sua sposa Maria, e su Gesù bambino (Matteo 1-2). La sua vocazione, la fuga in Egitto e il ritorno in patria sono cadenzati dal sonno di Giuseppe, che nel sogno è condotto da Dio attraverso le varie difficoltà.
Significativo è che, mentre Giuseppe il patriarca rivela i sogni da lui sperimentati nel sonno, Giuseppe il padre di Gesù non comunica a nessuno, neanche a Maria, i suoi sogni, ma li conserva nel cuore come uomo giusto e del silenzio. Giuseppe non ha bisogno di rivelare ad altri la volontà di Dio. Vuole solo metterla in pratica, senza tentennamenti.
Così il sonno si manifesta anche come il luogo della prova e della fede, l’elemento su cui discernere, per accogliere o rifiutare il disegno di Dio.
Dall’apocalittica giudaica Paolo mutua il linguaggio del sonno per parlare dei defunti non come morti, bensì come dormienti (1Tessalonicesi 4,13-17). Conviene sottolineare che dal participio greco koimethéntes, qui impiegato, deriva il termine cimitero, che segnala non lo stato della morte o dei morti, bensì quello dei dormienti, in vista della loro partecipazione finale alla risurrezione di Cristo.
3)In conclusione, sono diversi i contributi che il sonno apporta alla teologia e all’antropologia biblica: è il luogo privilegiato in cui, pur non potendo vedere direttamente Dio, l’uomo è comunque destinatario della sua volontà; è anticipazione della condizione mortale, che accomuna tutti gli esseri umani; ed è visto come stato di passaggio verso la vita piena dei credenti, che si uniranno a Cristo.
La proposizione paolina di 1Tessalonicesi 5,10 può essere scelta come conclusiva di una visione positiva e transitoria del sonno: “Sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con il Signore”.
Ma non posso terminare senza fare almeno un cenno al sonno nel tempo della Chiesa. Io sono salesiano, e dunque figlio di un grande sognatore, che si chiama Don Bosco.
Tutta la sua straordinaria opera educativa cominciò con il famoso “sogno dei nove anni”: “A nove anni”, scrive Don Bosco stesso nelle sue Memorie, “a nove anni ho fatto un sogno. Mi sembrava di giocare insieme a tanti ragazzi nel prato dietro alla mia casa. Ma i ragazzi non erano buoni: alcuni urlavano, altri litigavano, altri – addirittura – bestemmiavano. Mi slanciai in mezzo a loro per farli smettere… In quel momento, apparve un uomo maestoso. Mi chiamò per nome: ‘Giovanni!’, e mi ordinò di mettermi alla testa di quei ragazzi…”. Da questo sogno inizia l’avventura educativa di Don Bosco.
Per voi, invece, cominceranno tra breve i lavori di questo Congresso, che vi auguro fecondo di soddisfazioni e di buoni risultati.

IL LAVORO : PERCORSO BIBLICO

http://it.mariedenazareth.com/12845.0.html?L=4

IL LAVORO : PERCORSO BIBLICO

Brevemente:

- Il lavoro fa parte dell’esistenza autenticamente umana, è dato al momento della Creazione, prima del peccato (libro della Genesi).
- Il lavoro non è un idolo, è orientato verso il riposo sabbatico (libro dell’Esodo).
- Gesù ha lavorato :
Ha lavorato a Nazaret come falegname.
La sua vita pubblica è anche un lavoro: insegna, guarisce i malati, trasforma gli uomini, compie l’opera di Redenzione fino alla croce dove trasforma tutto nell’amore.
- Gesù onora il nostro lavoro e ci insegna a viverlo senza angoscia.
Ciascuno, deve « lavorare », in un modo o nell’altro.

a) Il dovere di coltivare e di conservare la terra
L’Antico Testamento presenta Dio come il Creatore Onnipotente, (cfr. Gn 2, 2; Gb 38, 41; Sal 104; Sal 147) che plasma l’uomo a Sua immagine, invitandolo a lavorare la terra, (cfr. Gn 2, 5 -6), e a custodire il giardino dell’Eden dove Egli l’ha posto (cfr. Gn 2,15).
Alla prima coppia umana, Dio affida il compito di sottomettere la terra e di dominare su ogni essere vivente, (cfr. Gn 1, 28). Il dominio dell’uomo sugli altri esseri viventi non deve essere tuttavia dispotico e senza senso; al contrario, egli deve « coltivare e custodire » i beni creati da Dio (cfr. Gn 2,15): beni che l’uomo non ha creato, ma ha ricevuto come un dono prezioso posto dal Creatore sotto la sua responsabilità. Coltivare la terra non significa abbandonarla a sé stessa; esercitare un dominio su di lei vuol dire prenderne cura, come un re saggio prende cura del suo popolo ed un pastore del suo gregge.
Nel disegno del Creatore, le realtà create, buone in sé stesse, esistono in funzione dell’uomo. Lo stupore di fronte al mistero della grandezza dell’uomo, fa esclamare il salmista:

« Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell’uomo, perché te ne curi?
Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,
di gloria e di onore l’hai coronato.
Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto suoi piedi. » (Sal 8,5-7).

Il lavoro appartiene alla condizione originale dell’uomo e precede la sua caduta; non è dunque né una punizione né una maledizione.
Diventa fatica e pena a causa del peccato di Adamo ed Eva, che rompono il loro rapporto di fiducia e d’armonia con Dio (cfr. Gn 3,6-8).
Il divieto di mangiare « dell’albero della conoscenza del bene e del male » (Gn 2,17) ricorda all’uomo che egli ha ricevuto ogni cosa in dono e che egli continua ad essere una creatura e non il Creatore.
Il peccato d’Adamo ed Eva fu precisamente provocato da questa tentazione: « Sarete come dèi » (Gn 3,5). Essi vollero la sovranità assoluta su tutte le cose, senza sottoporsi alla volontà del Creatore. Da allora, il suolo è diventato avaro, ingrato, subdolamente ostile (cfr. Gn 4,12); solo con il sudore della sua fronte sarà possibile trarne il cibo (cfr. Gn 3,17.19). Tuttavia, nonostante il peccato dei progenitori, rimangono invariati l’intenzione del creatore e il senso delle sue creature, fra le quali dell’uomo che è destinato a coltivare e custodire la creazione.
Il lavoro deve essere onorato poiché è fonte di ricchezza o, almeno, di condizioni degne di vita e, in generale, è uno strumento efficace contro la povertà (Cfr Pr 10,4), ma non bisogna cedere alla tentazione di idolatrarlo, poiché non si può trovare in esso il senso ultimo e definitivo della vita. Il lavoro è essenziale, ma è Dio, e non il lavoro, la fonte della vita e il fine dell’uomo. Il principio fondamentale della Sapienza è infatti il timore del Signore; l’ esigenza della giustizia, da cui deriva, precede l’esigenza del guadagno:
« È meglio avere poco con il timore del Signore che un tesoro ricco con la preoccupazione » (Pr 15,16)
« È meglio avere poco con la giustizia che redditi abbondanti senza il buono diritto » (Pr 16,8)
Il vertice dell’insegnamento biblico sul lavoro è il comando del riposo sabbatico. Il riposo apre all’uomo, legato alla necessità del lavoro, la prospettiva di una libertà più piena, quella del Sabato eterno (Cfr. Eb 4,9-10). Il riposo permette agli uomini di ricordare e di rivivere le opere di Dio, dalla Creazione alla Redenzione, di riconoscersi come la sua opera (cfr. Ef 2,10) e rendere grazie per la loro vita e la loro esistenza, a lui che ne è l’Autore.
La memoria e l’ esperienza del sabato costituiscono un rifugio contro l’asservimento al lavoro, volontario o imposto, e contro qualsiasi forma di sfruttamento, larvato o palese. Infatti il riposo sabatico è stato istituito non soltanto per permettere la partecipazione al culto divino ma anche difendere il povero; ha anche una funzione liberatrice delle degenerazioni anti-sociali del lavoro umano.
Questo riposo, che può anche durare un anno, comporta infatti un’espropriazione dei frutti della terra a favore dei poveri e, per i proprietari della terra, la sospensione dei diritti di proprietà:
« Per sei anni seminerai la terra e ne ammasserai il prodotto. Ma il settimo anno, la lascerai arata e ne abbandonerai il prodotto; i poveri del vostro popolo ne mangeranno e gli animali dei campi mangeranno quello che avranno lasciato. Farete la stessa cosa con la vostra vigna e per il vostro uliveto » (Es 23,10-11).
Quest’abitudine risponde ad un’intuizione profonda: l’accumulo dei beni da parte di alcuni può condurre ad una sottrazione dei beni ad altri.
Consiglio Pontificio Giustizia e Pace,
Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 2 aprile 2004, § 255-258

b) Gesù, uomo del lavoro.
Nella sua predicazione, Gesù insegna ad apprezzare il lavoro.
Egli stesso « diventato in tutto simile a noi, ha dedicato la maggior parte della sua vita sulla terra al lavoro manuale, al suo banco di falegname, nel laboratorio di Giuseppe (Cfr Mt 13,55; Mc 6,3), al quale era sottoposto (cfr. Lc 2,51).
Gesù condanna il comportamento del servo pigro, che nasconde sotto terra il talento (Cfr Mt 25,14-30) e loda il servo fedele e prudente che il padrone trova ad eseguire i compiti che gli ha affidato (Cfr Mt 24,46).
Il Cristo descrive la sua missione come un’opera: « Mio padre è all’opera fino ad ora ed opero anche io „ (Gv 5,17) ed i suoi discepoli lavorano come operai nella raccolta della messe del Signore, che rappresenta l’umanità da evangelizzare (Cfr Mt 9,37-38). Per questi operai vale il principio generale secondo il quale « l’operaio merita il suo salario„ (Lc 10,7); essi sono autorizzati a rimanere nelle case in cui sono accolti, a mangiare e bere ciò che è offerto loro (Cfr Ibid.).
Nella sua predicazione, Gesù insegna agli uomini a non lasciarsi asservire dal lavoro.
Essi devono preoccuparsi innanzitutto della loro anima; guadagnare il mondo intero non è lo scopo della loro vita (Cfr Mc 8,36). Infatti, i tesori della terra si consumano, mentre i tesori del cielo sono imperituri: è a questi che occorre legare il proprio cuore (Cf Mt 6,19-21). Il lavoro non deve essere motivo di angoscia (Cfr Mt 6,25.31.34): preoccupato ed agitato da molte cose, l’uomo rischia di trascurare il Regno di Dio e la sua giustizia (Cfr Mt 6,33), di cui ha veramente bisogno; tutto il resto, compreso il lavoro, trova il suo posto, il suo senso ed il suo valore soltanto se è orientato verso l’unica cosa necessaria, che non sarà mai tolta (Cfr. Lc 10,40-42).
Durante il suo ministero terreno, Gesù lavora instancabilmente, compiendo opere potenti per liberare l’ uomo dalla malattia, dalla sofferenza e dalla morte.
Il sabato, che il Vecchio Testamento aveva proposto come giorno di liberazione e che, osservato unicamente nella forma, era svuotato del suo significato autentico, è ribadito da Gesù nel suo valore originale: « Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!„ (Mc 2,27). Con le guarigioni compiute proprio in questo giorno di riposo (Cfr Mt 12,9-14; Mc 3,1-6; Lc 6,6-11; 13,10-17; 14,1-6), Egli vuole dimostrare che il sabato appartiene a lui, poiché egli è realmente il Figlio di Dio, e che il sabato è il giorno in cui ci si deve dedicare a Dio e agli altri.
Liberare dal male, praticare la fratellanza e la condivisione, vuol dire conferire al lavoro il suo significato più nobile, quello che permette all’umanità di incamminarsi verso il Sabato eterno, nel quale il riposo diventa la festa alla quale l’uomo aspira interiormente. E’ proprio nella misura in cui il lavoro orienta l’umanità a fare l’esperienza del sabato di Dio e della sua vita conviviale, esso diventa la festa alla quale l’uomo aspira interiormente, il lavoro inaugura sulla terra la nuova creazione.
Il lavoro inaugura sulla terra la nuova creazione.
L’attività umana di arricchimento e di trasformazione dell’universo può e deve fare apparire le perfezioni che in esso sono nascoste e che, nel Verbo increato, trovano il loro principio ed il loro modello.
Infatti, gli scritti di Paolo e di Giovanni mettono in luce la dimensione trinitaria della creazione e, in particolare, il legame che esiste tra il Figlio-Verbo, il « Logos„, e la creazione (Cfr Gv1,3; 1 Co 8,6; Col 1,15-17).
Creato in lui e da lui, riacquistato da lui, l’universo non è un ammasso casuale, ma un « cosmos„, di cui l’ uomo deve scoprire l’ordine, custodirlo e portarlo al suo completamento. In Gesù, il mondo visibile, creato da Dio per l’uomo ma sottoposto alla caducità quando il peccato è entrato in esso (Rm 8,20; Cfr. ibid., 8,19-22), trova nuovamente il suo legame originario con la fonte divina della Sapienza e dell’Amore. In tal modo, cioè mettendo in luce, in una progressione crescente, « le ricchezze insondabili del Cristo » (Ef 3,8), nella creazione, il lavoro umano si trasforma in un servizio reso alla grandezza di Dio.
Il lavoro rappresenta una dimensione fondamentale dell’esistenza umana come partecipazione all’opera non soltanto della creazione, ma anche della redenzione.
L’uomo che sopporta la stanchezza e la pena del lavoro in unione con Gesù, coopera in un certo senso con il Figlio di Dio alla sua opera redentrice e testimonia che è discepolo del Cristo portando la croce ogni giorno, nell’attività che è chiamato a compiere. In questa prospettiva, il lavoro può essere considerato come un mezzo di santificazione ed un’animazione delle realtà terrene nello Spirito del Cristo.
Così concepito, il lavoro è un’espressione dell’umanità piena dell’uomo, nella sua condizione storica e nel suo orientamento escatologico: la sua azione libera e responsabile ne rivela la relazione intima con il Creatore ed il potenziale creativo, mentre ogni giorno combatte contro la deformazione del peccato, in particolare guadagnando il suo pane con il sudore della fronte.
Consiglio Pontificio Giustizia e Pace,
Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 2 aprile 2004, § 259-263.

c) Il dovere di lavorare
La coscienza del carattere transitorio « della scena di questo mondo„ (Cfr 1 Co 7,31) non dispensa da nessun impegno storico, ed ancor meno dal lavoro (Cfr 2 Tes 3,7-15), il quale fa parte integrante della condizione umana, pur non essendo l’unica ragione di vivere.
Nessun cristiano, per il fatto che appartiene ad una Comunità solidale e fraterna, deve sentirsi in diritto di non lavorare e vivere a spese degli altri (Cfr 2 Tes 3,6-12); tutti sono invece esortati dall’Apostolo Paolo a farsi « un punto d’onore„ nel lavorare con le loro mani per « non dipendere da nessuno » (1 Tes 4,11-12) ed a praticare una solidarietà, anche sul piano materiale, dividendo i frutti del lavoro con « i bisognosi » (Ef 4,28).
San Giacomo difende i diritti violati dei lavoratori: « Ecco: il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto i vostri campi, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore degli eserciti » (Gc 5,4).
I credenti devono vivere il lavoro secondo lo stile del Cristo e farne un’occasione di testimonianza cristiana « nei confronti degli estranei » (1 Tes 4,12).

Consiglio Pontificio Giustizia e Pace,
Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 2 aprile 2004, § 264

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NON È RISORTO, SI È INNALZATO – DI GIANFRANCO RAVASI

http://blog.messainlatino.it/2010/05/la-risurrezione-lascensione-e-mons.html

NON È RISORTO, SI È INNALZATO

DI GIANFRANCO RAVASI

Un fatto che si radica nella storia, ma che va letto con categorie teologiche

L’immagine di un Cristo sfolgorante di luce che si libra sul sepolcro, dopo averne scardinato la pietra tombale, non è evangelica ma è attinta solo ai primi testi cristiani apocrifi. Forse una frase come questa suona eterodossa ed « ereticale » agli orecchi di non pochi nostri lettori che negli occhi hanno la possente fisicità della Risurrezione di Cristo che Piero della Francesca dipinse nel 1463 nella sala dell’antico palazzo comunale del suo paese natale, Borgo Sansepolcro. E, invece, la frase è ineccepibile ed è proprio da questa reticenza descrittiva dei Vangeli canonici che vorremmo avviarci per una riflessione sulla Pasqua, evento e articolo di fede centrale del cristianesimo.
Partiamo, allora, da quell’alba ancora incerta di una primavera tra il 30 e il 33. Tre sono gli elementi registrati dal racconto evangelico. Ecco innanzitutto farsi avanti un gruppo di donne, seguaci di Gesù. Siamo di fronte a un dato storico incontrovertibile: essendo, secondo il diritto semitico, le donne inabilitate alla testimonianza valida, giuridica o storica, gli evangelisti non avrebbero mai « inventato » una simile attestazione, affidata a persone « incapaci » di testimoniare, se essa non fosse stata nella nuda e semplice realtà dei fatti. Veniamo, così, al secondo dato: la pietra che sigillava l’apertura della tomba – secondo la rilevazione attestata da quelle donne – giace ribaltata. L’evangelista Giovanni aggiunge una nota ulteriore sull’interno di quel sepolcro così come appare a un testo successivo, Pietro: « Vide le bende per terra e il sudario, che era stato posto sul capo di Gesù, non per terra con le bende ma piegato in un luogo a parte » (20, 6-7). Dunque, una tomba vuota che conserva le tracce di un morto ormai non più presente.
Ecco, infine, il terzo elemento narrato dai Vangeli, una teofania, cioè un’esperienza trascendente, rappresentata da una figura angelica che proclama le stesse parole del successivo Credo cristiano: « È risorto! ». Una formula che ha lo scopo di spiegare quella tomba vuota. Siamo, a questo punto, nel cuore del problema che suscita un grappolo di domande alle quali potremo dare ovviamente solo un abbozzo di risposta (biblioteche intere di storiografia, esegesi e teologia lo hanno già fatto in modo ben più sistematico). Che senso ha l’espressione « risorto dai morti »? La formula « risurrezione di Cristo » usata dai Vangeli e dalla tradizione cristiana comprende un evento storico o è solo una categoria ermeneutica, cioè un’interpretazione teologica di una realtà trascendente? E il termine « risurrezione » è l’unico usato per descrivere la Pasqua di Cristo?
Innanzitutto sottolineiamo che per il Nuovo Testamento la misteriosa vicenda finale di Cristo non può essere ricondotta alla rianimazione pura e semplice di un cadavere, come quelle compiute da Gesù nei confronti di Lazzaro (Giovanni 11) e del figlio della vedova di Nain (Luca 7, 11-17). Ora, noi siamo di fronte a un evento che ha contorni verificabili storicamente (la tomba vuota, i lini abbandonati, la testimonianza delle donne) ma il cui nucleo è trascendente. C’è, dunque, anche il ritorno alla vita di Gesù morto, ma ciò che accade in quell’atto, non descritto dai Vangeli, è – per usare un’immagine di Gesù – simile a quanto avviene al seme o al lievito. Si ha una trasformazione che va oltre il corpo di Gesù e incide su tutto l’essere e sulla storia. Nella lettura evangelica di quell’evento la divinità, la trascendenza, l’eterno e l’infinito, attraverso Cristo, Figlio di Dio, sono penetrati nella realtà intera dell’umanità e nell’essere cosmico trasfigurandoli; è un’irradiazione che feconda di eternità il nostro tempo.
Ora, per esprimere questo evento che incide nella storia in modo non solo episodico ma radicale, il Nuovo Testamento è ricorso a due linguaggi che cercano di esprimere ciò che è di sua natura un « mistero », ossia una realtà trascendente e superiore all’orizzonte umano. Il primo è quello della risurrezione, un linguaggio già noto all’Antico Testamento: basterebbe leggere il capitolo 37 di Ezechiele ove, in una visione surreale, il profeta descrive lo Spirito creatore di Dio che ritesse su una distesa di scheletri la carne della vita, dando origine a un immenso popolo vivente. Il Nuovo Testamento esprime la « risurrezione » con il verbo eghéirein, « risvegliare » dalla morte, simbolicamente inteso come un sonno, oppure con il verbo anístemi, « levarsi, sorgere in piedi ». Dietro il velo del linguaggio simbolico si vuole le indicare che Gesù come uomo passa attraverso il segno radicale dell’umanità, la morte, « risvegliandosi » alla vita divina che gli appartiene e che ora pervade il morire, vincendolo.
C’è, però, un altro linguaggio, caro a Giovanni, a Luca e a Paolo che è definito di esaltazione o glorificazione ed è espresso con il verbo greco hypsoùn, « innalzare elevare », e con immagini di ascensione verso l’alto. Basterebbe citare tre frammenti giovannei: « Come Mosè innalzò nel deserto il serpente, cosi bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo… Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono [Nome Divino]… Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me » (3, 14; 8, 28; 12, 32). Oppure basterebbe rievocare il racconto dell’ascensione al cielo ribadito da Luca nella finale del suo Vangelo (24, 50-53) e in apertura alla sua seconda opera, gli Atti degli Apostoli (1, 6-12). Il senso del linguaggio è chiaro. Con la « risurrezione » si affermava la continuità tra il Gesù storico e il Cristo risorto; con l’ « esaltazione » si celebra la gloria divina del Risorto e la novità del suo status. Venendo in mezzo a noi, Gesù è divenuto in tutto simile a noi; con la morte egli conclude la sua parabola storica, ma è « esaltato », cioè rientra nel mondo divino a cui appartiene come Figlio di Dio, attirando a sé quell’umanità che egli aveva assunto incarnandosi e morendo per condurla alla gloria. Questo è nitidamente dichiarato nell’inno che Paolo incastona nella sua Lettera ai Filippesi (2, 6-11): « Cristo, pur essendo di natura divina, spogliò se stesso assumendo la condizione di servo (…), facendosi obbediente sino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ho esaltato e gli ha dato un nome che è sopra ogni altro nome (…) Così che nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra ».
L’ascensione-esaltazione-innalzamento non è, quindi, da concepire in termini materialistici o « astronautici », ma secondo categorie metafisiche e teologiche: fra l’altro, in tutte le culture il cielo è l’area della divinità perché trascende l’orizzonte terreno, è il simbolo della superiorità e diversità di Dio rispetto all’uomo. Quanto accade nella risurrezione di Cristo è, dunque, un evento complesso, accuratamente rappresentato dai Vangeli. È un evento che si radica nel tempo e nello spazio, è cioè nella morte e in una tomba, e che perciò ammette una verificabilità storica; ma esso fiorisce nell’eterno e nel divino, ed è per questo che esige un’analisi nella fede e nella teologia. Nella sua sostanza la Pasqua di Cristo è una realtà trascendente e, come tale supera la pura verifica storica. Ma ha una risonanza efficace anche nella storia e nello spazio ove rimangono tracce e segni, per cui ha una sua legittimità anche un’investigazione di taglio storiografico. Ora comprendiamo perché gli evangelisti si sono rifiutati di ridurre quello che avviene al sepolcro di Cristo’ entro i confini di una rianimazione di cadavere e siano invece ricorsi a linguaggi più profondi e simbolici.
Nelle sue Lettere di Nicodemo (1951) lo scrittore polacco cattolico Jan Dobraczynski, morto nel 1994, fa una considerazione che potremmo porre a suggello del nostro particolarissimo e limitato itinerario nell’orizzonte pasquail cristiano: « Vi sono misteri nei quali bisogna avere il coraggio di gettarsi, per toccare il fondo, come ci gettiamo nell’acqua certi che essa si aprirà sotto di noi. Non ti è mai parso che vi siano delle cose alle quali bisogna prima credere per poterle capire? ». I racconti evangelici pasquali sono prima di tutto testi di fede e, proprio per questa via, aprono la ricerca di una comprensione che sia anche razionale e storica. Il credere e il comprendere s’intrecciano in modo complesso e delicato e costituiscono la struttura fondamentale della teologia cristiana. Un filosofo, il gesuita Xavier Tilliette nella sua opera la Settimana Santa dei filosofi (1922), scriveva che « la filosofia deve attestarsi alla soglia delle apparizioni pasquali, al sabato santo. Essa non deve testimoniare la Gloria. Occorre mantenere castamente la frontiera, diceva il filosofo Schelling ». Certo, la filosofia e la storiografia non possono appropriarsi delle vie della grazia e della fede. Tuttavia questo non impedisce alla fede di agganciarsi alle vie della ragione e alla ragione di guardar oltre le sue frontiere. Scriveva Agostino: « Chiunque crede pensa e pensando crede… La fede se non è pensata è nulla » (De praedestinatione sanctorum 2, 5).

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COLTIVARE E CUSTODIRE… LA VITA

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COLTIVARE E CUSTODIRE… LA VITA

« Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perchè lo coltivasse (avad) e lo custodisse (shamar)” (Gn 2,15).

‘Prendere’ l’uomo e ‘stabilirlo’ sono termini che evocano l’uscita dall’Egitto e l’introduzione nella terra promessa. Sono termini che rimandano all’origine di un popolo libero e non più schiavo, un popolo in grado di riconoscere il proprio Dio, come colui che rimane accanto e, nello stesso tempo, di accogliere da Lui un dono e un compito.
Il verbo ‘coltivare’ significa ‘servire’, ‘lavorare’, indica la fatica che dissoda il terreno, il lavoro che sa trasformare e produrre frutto; mentre il verbo ‘custodire’ è l’azione che accoglie il dono e fedelmente lo conserva; significa anche ‘osservare’ ed è riferito spesso alla sentinella che vigila, ma anche, e soprattutto, all’osservare e custodire la Parola di Dio. Dice la cura che deve essere presente nelle varie attività degli esseri umani; una cura che è consapevole dell’avere tra le mani un dono prezioso che non appartiene a se stessi, ma che è di Dio.
Vuol dire, inoltre, ri-cordare, rimettere nel cuore, quella Parola che sola può aiutare a comprendere quello che magari non si capisce. Viene in mente ciò che si dice di Maria nel Nuovo Testamento: « custodiva tutte queste cose nel suo cuore” (Lc 2,50). Faceva, cioè, ‘tesoro’ di tutto ciò che avveniva, serbandolo nel profondo, custodendo e meditando ogni cosa nel proprio cuore. In mezzo agli avvenimenti a volte ‘oscuri’, custodire può aiutare a scoprire il ‘movimento’ dello Spirito per comprendere almeno quel poco che serve per proseguire il cammino.
Compito dell’uomo è quindi quello di ‘coltivare e custodire’ il creato, ma anche la propria vita, entrambi doni di Dio, riconoscendo in essi la Sua opera. È un’indicazione data da Dio all’adam, il ‘terrestre’, prima ancora della differenziazione sessuale, all’inizio della storia, ma anche in ogni tempo e a ciascuno: chiede di far crescere il mondo con responsabilità, ‘trasformandolo’ con il nostro lavoro e la nostra vigilanza perchè ridiventi giardino, luogo abitabile per tutti. Coltivare e custodire sono attività che rendono l’essere umano ‘simile’ a Dio, al suo Creatore. Dio si ‘ritira’ lasciando spazio all’uomo, affinchè agisca sulle opere delle sue mani.
Nel primo capitolo della Genesi, pur scritto in epoca più tarda, il maschio e la femmina creati a ‘immagine di Dio’ ricevono un comando analogo: « Siate fecondi…” (Gn 1,22), donate vita. Non dobbiamo dimenticare, per cogliere l’importanza di questo passo biblico, che il testo è nato in un ambiente di ‘morte’ perchè Israele era in esilio a Babilonia dopo la deportazione. I regni erano stati conquistati da un popolo invasore, il tempio e le case distrutte, le famiglie smembrate, i più giovani e forti, in grado di lavorare, sradicati dalla loro terra per essere condotti in terra straniera.
È un’esperienza di morte molto forte e reale, causata non solo dalla sofferenza fisica, dalla pesantezza dell’oppressione, ma anche dal non capire più cosa stava succedendo e soprattutto dal non sentire più Dio vicino. Dov’era il loro Dio in mezzo a quella desolazione? In questo contesto viene scritto il primo capitolo, a confermare che Dio c’è e ha creato cose belle e buone, e allora si può anche attraversare la morte perchè ‘oltre’ c’è la vita, sempre. Per questo è possibile dare il comando « Siate fecondi…dominate la terra”: è un diritto dovere che appartiene ad ogni essere umano, perchè ogni uomo e ogni donna sono ‘a immagine di Dio’ e spetta a tutti -e non solo ad alcuni- la responsabilità del mondo, condividendo lo sguardo ammirato di Dio su ogni cosa: « E Dio vide che ciò era buono”.
Rappresentanze dei popoli indigeni a Piazza S. Pietro all’udienza generaleCustode del creato, l’uomo è anche custode dell’altro, di tutti i fratelli e le sorelle in umanità: l’essere stati creati dall’unico Dio ci rende fin dall’origine uniti in questo vincolo che ci chiama ad essere ‘custodi’ l’uno dell’altro/a. Il volto degli altri ci guarda e ci testimonia che il nostro ‘io’ non è tutto, che ciascuno si deve misurare con i bisogni degli altri, con l’esigenza che ciascuno, in fondo, porta nel profondo, di amare e di essere amati.
Custodi del creato e dell’altro, ognuno di noi è chiamato anche ad essere ‘custode’ di Dio. In tempi non sempre facili e comprensibili, dove spesso il rifiuto e la chiusura dominano le relazioni, è necessario ‘coltivare’ la presenza di Dio in noi, come annotava Etty Hillesum: « Ti aiuterò Dio, a non spezzarti in me…l’unica cosa che in questo periodo possiamo salvare, ed è l’unica cosa, questa, che davvero importi: un pezzo di te in noi stessi Dio…la tua abitazione in noi, dove davvero vivi, noi dobbiamo difenderla fino all’ultimo:” (Diario, 12 luglio 1942)
C’è un passo nel Vangelo che può diventare modello interpretativo di ciò che Gesù intenda con il compito di ‘coltivare e custodire’ ed è la ‘parabola del fico’ raccontata in Luca 13,6-9.
Abbi pazienza ancora per un anno…Nella parabola, il padrone di un campo che aveva piantato nella sua vigna un albero di fichi, non trovando da tre anni frutti su quella pianta, ordinò al vignaiolo di tagliarla perchè sfruttava inutilmente il terreno. La replica del vignaiolo è uno stupendo esempio della misericordiosa pazienza di Dio che non si arrende e lascia aperto il tempo del cambiamento, della conversione: « Padrone, lascialo ancora quest’anno, finchè gli avrò zappato intorno e gli avrò messo il concime”.
I fichi e la vigna hanno sempre avuto per gli Israeliti un significato tutto particolare perchè erano segno dell’insediamento nella terra promessa, oltre a ricordare il ‘paradiso perduto’, l’Eden.
La storia del fico è, in fondo, anche la nostra storia, storia di aspettative e delusioni, di attese e aridità, di ‘raccolti’ mancati; ma ci mostra soprattutto la ‘giustizia’ di Dio, che non si riduce a estirpare il ‘male’, eliminando ciò che all’apparenza è inutile. Giovanni il Battista aveva presentato un’altra immagine di Dio: « Razza di vipere che vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? …già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco” (Lc 3,7.9). Le parole del vignaiolo e del padrone della vigna, sembrano invece un dialogo tra la giustizia e la misericordia: « lascialo ancora per un anno…”. La storia va avanti nell’attesa che la nostra esperienza porti frutto. Il tempo non ci appartiene, è il tempo della pazienza di Dio e nostra, dell’azione di Dio e nostra. Deve essere però un’attesa operosa: bisogna rompere la terra intorno, una terra diventata dura nel tempo e che necessita di essere mossa, ammorbidita, per far penetrare il concime, per ‘nutrire’. E la condizione essenziale per poter ‘dare frutto’ è rimanere in Cristo: « Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto” (Gv 15,5).
Tempo e amore rendono possibile il progetto di Dio e ‘il coltivare’ di ciascuno di noi, lasciando che il Vangelo invada a poco, a poco, tutto lo spazio disponibile affinchè la misericordia abbia sempre la meglio sul giudizio e ciascuno possa, con speranza, dire ogni giorno: « Oggi posso ripartire a ‘coltivare’ il mio rapporto con Dio, la mia vita, le mie relazioni, l’ambiente in cui vivo. Oggi posso ricominciare”. 

GESU’, IL CONSACRATO DELLO SPIRITO SANTO – Olivier Clément

http://www.vatican.va/jubilee_2000/magazine/documents/ju_mag_01041998_p-17_it.html

GESU’, IL CONSACRATO DELLO SPIRITO SANTO

Olivier Clément

Nei Vangeli, Gesù si presenta come il « consacrato » dello Spirito, come suo « unto ». L’Oriente cristiano scopre in questo senso una cristologia pneumatologica dominata dal mistero della « pneumatizzazione » compiuto nella « carne », vale a dire nell’umanità di Gesù. Cristo è « esistenza nello Spirito » (Jean Zizioulas) L’incarnazione è opera dello Spirito ed è nello Spirito, attraverso la sua potenza, che Gesù realizza i « segni », guarisce i malati, caccia i demoni, annuncia la Buona Novella.
Il Padre resuscita Gesù con il suo Spirito e gli concede di diffonderlo ( Atti 2, 22-23). Lo Spirito è ormai questa Vita, più forte della morte che uscì dal costato del Crocifisso con l’ acqua e il sangue ( Gv. 19,34), l’acqua del battesimo, il sangue dell’eucarestia, « pneumatizzati » e « pneumatizzanti ». La promessa dell’ « altro Consolatore » (Gv. 13, 31-16, 33 e 17, 1_26) si realizza nella Pentecoste: Cristo, ormai, viene a noi nello Spirito Santo. L’opera di Cristo ha reso possibile la venuta plenaria dello Spirito. Ha reso l’uomo capace di divenire « pneumatoforo ». Lo Spirito, in collaborazione con la nostra libertà, delinea, poco a poco, attraverso la comunione dei Santi, il volto di Cristo che viene ( S. Massimo il Confessore).
Nella Chiesa (che unisce, senza confonderle, la « cattolicità » cattolica e la « cattolicità » ortodossa, apparentemente opposte, in realtà complementari), Dio è presente « in tutti noi » ( Ef. 4, 6) , grazie alla piena rivelazione del suo Spirito. Le prime professioni di fede – e, a modo suo, il credo Niceo-Costantinopolitano – affermano con lo stesso slancio: « Credo nello Spirito Santo, nella Santa Chiesa cattolica, per la resurrezione della carne ». Fede nel battesimo – dell’acqua e dello Spirito – e nella  » vita del mondo che verrà, « che verrà » , che ci attiene già nei sacramenti della Chiesa e che la santità anticipa e prefigura: « E’ nel corpo di Cristo che si accede alla fonte dello Spirito ( S. Ireneo di Lione).
In San Paolo, particolarmente, l’espressione ecclesiale « Corpo di Cristo » ha un senso nettamente eucaristico, le parole « eucarestia » e « chiesa » sono intercambiabili ( per es. in I Cor. 11,8). Ora l’Eucarestia è al contempo comunione nel Corpo di Cristo e « comunione nello Spirito Santo ». Lo Spirito ci integra al « corpo pneumatico » del Resuscitato. La Chiesa è così ripiena dei doni multiformi dello Spirito. La sua struttura è « epicletica »; essa riceve il suo Signore con umiltà e pentimento nello Spirito, in risposta alla epìclesi. Lo Spirito integra i doni dei fedeli e i fedeli come dono, al « corpo pneumatico » del Signore.
L’epiclesi si identifica nell’aspetto escatologico dell’Apocalisse (22, 17), nel Mararatha dell’eucarestia primitiva, perché si realizzi la « parusìa sacramentale » che anticipa e prepara la Parusia ultima, definitiva.
L’eucarestia, per la tradizione siriaca, è « fuoco e Spirito ».  » Colui che si nutre di questo corpo con fede si nutre con esso del fuoco dello Spirito Santo » ( S. Efrem il Siriano).
Il ministero consacrato appare come il carisma di ordine e di pace donato dallo Spirito nella continuità della successione apostolica, tanto alla chiesa ortodossa quanto alla Chiesa cattolica: l’imposizione delle mani dei tre vescovi consacratori designano il luogo cristico e conciliare in cui discende lo Spirito.
Questo ministero apostolico determina l’ « edificazione » del Corpo unico da parte di ogni genere di carisma personale. Il più alto è quello dell’ « uomo apostolico » géron, starets, che diviene coscientemente, qualunque sia il suo posto nella gerarchia, un « pneumatofono ». L’apostolicità ministeriale è al servizio dell’apostolicità mistica. Per questo il ministero non può essere esercitato se non nella comunione del Popolo di Dio, « sacerdozio regale » (1 P 2, 9) e « regalità » dei sacerdoti » ( Ap 5, 10) . Esso ricorda e aiuta a prendere coscienza poiché « ora voi avete l’unzione ricevuta dal Santo e tutti avete la scienza ». (1 Gv. 2, 20)
Nella « comunione dello Spirito Santo », Koinonia, la Chiesa partecipa alla vita trinitaria. La comunione è quella delle coscienze personali ( è il tema, caro all’ecclesiologia russa, della sobornost), ed è anche quello delle Chiese locali, vale a dire, in senso proprio, delle comunità eucaristiche. Essa si articola intorno a tutta una gerarchia di centri di raccordo – metropoli, patriarcati, primato universale- che impediscono alle chiese locali di opporsi tra loro o di isolarsi.
La Tradizione è la « pneumatosfera », che rende la Parola viva e attuale in tutti i frangenti della storia. Essa compone la storia vera, quella della Comunione dei Santi, autentico testamento dello Spirito: elaborazioni dottrinali, esperienze spirituali, opere di santità e di bellezza. Radicata nel mistero pasquale, rivolta per mezzo di esso verso la Parusia , escatologica, dunque, la tradizione è al contempo la memoria vivente della Chiesa, il suo spirito critico e la sua capacità innovativa. Non bisogna confondere – questa è la grande tentazione orientale- la tradizione con le tradizioni: lo Spirito, a questo riguardo, dovrebbe permettere di « discernere » gli spiriti. Come diceva S. Ireneo di Lione, è juvenescens!
Nella celebrazione, lo Spirito presenta, « ri-presenta », l’opera di Cristo. L’uomo diviene il celebrante della « liturgia cosmica ».
A coloro che accettano di offrire la loro scienza, la loro arte, la loro capacità tecnica, la loro responsabilità politica e sociale, lo Spirito concede in cambio la forza di scoprire il mondo, non per distruggerlo, ma per trasfigurarlo, di servire gli uomini e non di asservirli, di conoscere, ma nel rispetto degli esseri e delle cose; di creare la bellezza, non in senso riduttivo, bensì per « risvegliare ». E’ così che lo Spirito irradiante del culto ( poiché il vero profetismo è sacramentale) è stato e potrebbe ridivenire il fermento di una autentica cultura.
La preghiera personale, interiorizzando la grazia sacramentale, provoca una « pneumatizzazione » progressiva dell’essere umano.
Nello Spirito, l’intelligenza si unisce al « cuore »: si risveglia allora una « sensibilità » che non è di ordine sentimentale ma di ordine ontologico, la « sensibilità dello Spirito », vale a dire la capacità di « sentire Dio al di là di tutto e in tutto ».
Il « battesimo dello Spirito » nella grande tradizione monastica, si identifica nel « dono delle lacrime », lacrime di pentimento, « ascetiche », poi di gioia e di gratitudine, « pneumatiche ». Poco a poco, talvolta all’istante, l’uomo sente aprirsi in lui, al di là della dimensione spazio-tempo, il respiro dell’immenso, il « respiro dello Spirito ». Allora la preghiera raggiunge la spontaneità della vita, il ritmo del cuore, la celebrazione cosmica.
E appaiono i « frutti » dello Spirito: la visione del mistero degli esseri e delle cose, i carismi del servizio e dell’amore attivo. L’uomo nello Spirito è « separato dal tutto » e « unito al tutto », percepisce l’unità fondamentale degli uomini in Cristo contemporaneamente al carattere unico di ciascuna persona, riceve il dono della « simpatia », della « compassione », vale a dire la capacità di « sentire in sintonia » per guarire e consolare.
Può ricevere il « discernimento degli spiriti » e divenire un autentico padre spirituale (o « madre spirituale ») che risveglia, libera, mette in cammino.
Lo Spirito è dato a tutti e tutti, a diversi livelli, sono chiamati a questa « sensibilità » spirituale che spinge l’uomo, inevitabilmente, alla preghiera e alla responsabilità. Lo Spirito apre a ciascuno lo spazio infinito della sua libertà creatrice. Ogni gesto creatore d’amore, di giustizia e di bellezza, anticipa la trasfigurazione del mondo dell’Ottavo Giorno.
La vera tenerezza fra un uomo e una donna, il paziente impegno del riformatore sociale, la ricerca del dotto laddove essa rispetta e si stupisce, sono atti creatori, come lo è la lotta interiore dell’asceta che si fa trasparente alla luce del Regno. (Nicolas Berdiaev).
Nel fervore e nell’intelligenza dello Spirito, tutte le Chiese, a diversi livelli, prendono posto nella Chiesa, tutte le religioni, tutte le culture presentano e compongono la realtà del « pancristianesimo ». Nel fervore e nell’intelligenza dello Spirito, Cristo incessantemente viene, ritorna; ogni istante è la Parusia..

IL CIELO NELLA BIBBIA

http://oratoriotirano.files.wordpress.com/2008/09/il-cielo-nella-bibbia.doc.

IL CIELO NELLA BIBBIA

(2009)

Il cielo apre e chiude la Scrittura (Gen 1,1: « Dio creò il cielo e la terra »; Ap 21-22: la Gerusalemme nuova che scende dal cielo, in un cielo nuovo). Vedi, a proposito di Dio creatore dei cieli, Gen 2,4; 14,19; Es 20,11; Est 4,17; Is 37,16; Ger 32,17; Sal 114,15; At 14,14; Ap 14,7.
Binomio « cielo-terra » per dire tutto l’esistente (Gen 1,1; Is 50,2). La struttura tripartita dell’universo: il cielo-la terra (e il mare)-il mondo sotterraneo (gli inferi, lo še’ol). Al di sopra di tutto Dio, creatore e garante dell’ordine cosmico.
La Bibbia non ha un’idea del cosmo come qualcosa in sé, indipendente e a sé stante; l’idea che ne ha è in rapporto a ciò di cui è abitato. Il cielo è abitato dalle stelle (Gb 9,9; 38,31). Tra queste vi sono anche due pianeti: Venere (« astro del mattino »: Is 14,12) e Saturno (« Chiion »: Am 5,26). Contro la tentazione di abbandonarsi al culto di questi due, la Bibbia insiste nello « sdivinizzarli », rimarcando che sono semplici creature di Dio (Gen 1). Il re del cielo è il sole: il suo corso regolare e la sua forza sono il segno di stabilità e di ordine del cosmo (Qo 1,5; Gen 8,22; Sal 19). Nella rilettura del NT, sarà simbolo del Cristo: Lc 1,78 (« verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge »).
Il cielo è la sede di Dio (Gn 14,18; Sal 33,13-14; Is 66,1; Mt 6,9). Anche Gesù lo conferma: « Padre nostro, che sei nei cieli » (Mt 6,9). Ed ecco perché è diventato sinonimo di Paradiso. Gli strati del cielo sono sette, abitati via via dagli angeli, nella misura della loro vicinanza a Dio; Dio risiede nell’ultimo cielo (ecco perché si dice: « sentirsi al settimo cielo »…). Vi siede al di sopra e distende la volta come la tenda in cui abita (Is 40,22; 1Re 8,27). Per questo, la distanza tra il cielo e la terra è simbolo della trascendenza divina (Is 55,9). La nuvola è simbolo del mistero di Dio, perché lo « vela » agli occhi della terra (Es 13,21; 14,19-20; 19,16-25; 24,15-18; 33,9-11; Nm 12,5-10).
Nel NT il cielo è la dimora del Verbo, prima del tempo (Gv 1) e poi, una volta asceso, per sempre, nello stesso trono del Padre (Ap 22,1). E quando tornerà per il giudizio finale, i cieli si apriranno… In cielo, dove già abita la corte celeste (Col 1,20), si ritroveranno i giusti, nella pace eterna (Fil 3,20), al cospetto del trono di Dio (Ap 3,21).

Alcune suggestioni bibliche
Le stelle del cielo, il cui numero è incalcolabile, saranno la misura della discendenza che Dio concederà ad Abramo e nella quale saranno benedette tutte le genti (Gen 22,17-18; Dt 1,10). La storia della salvezza comincia con un invito a scrutare il cielo…
Già si è accennato al sogno di Giacobbe, con la scala che unisce cielo e terra e gli angeli che scendono e salgono (Gen 28,10-17): simbolo della provvidenza e della cura di Dio per i suoi figli. È ripresa poi in Gv 1,51, nel dialogo con Filippo, dove la scala diventa Gesù stesso, una volta « elevato ».
« Il Signore si è affacciato dall’alto del suo santuario, dal cielo ha guardato la terra, per ascoltare il gemito del prigioniero, per liberare i condannati a morte » (Sal 102,20-21; Is 66,2; Mt 6,11).
Gesù stesso, che procede dal Padre e a Lui ritorna, viene dal cielo e tornerà al cielo (Gv 3,13; 6,62; Mc 16,19); Egli è il pane vivo « disceso dal cielo »; nel suo battesimo, al fiume Giordano, sono i cieli ad aprirsi (Lc 3,21).
Nella testimonianza degli Atti degli apostoli, è il cielo aperto che Stefano, primo martire cristiano, vede comparire alla vigilia della sua passione (At 7,55-56).
Fra i brani del NT con un collegamento al cielo e ai suoi fenomeni, domina senza dubbio l’episodio narrato da Matteo a proposito dei Magi: essi « scrutano il cielo » e riconoscono il momento della nascita del Messia, in base a un fenomeno astronomico di cui osservano (e forse prevedono) l’evolversi quando ancora sono lontani (Mt 2,1-12). Probabilmente dietro vi è la profezia presente in Nm 24,17.
Interessante anche l’episodio della vita di Gesù in cui i Farisei, per ottenere una dimostrazione « sperimentabile » della sua divinità, chiedono che egli invii « un segno dal cielo », cioè dalla sede di Dio (Mt 16,1-4). A essi Gesù risponde con un’analogia: come gli uomini sono capaci, dall’attenta « osservazione del cielo », di trarre conclusioni veritative sul clima e sulle evoluzioni dell’atmosfera, così devono essere capaci di riconoscere altri segni, ugualmente eloquenti, che mostrano la presenza di Dio in mezzo a loro, fra i quali il « segno » per eccellenza, quello della sua morte e risurrezione (Mt 12,39-40; Gv 2,19-22). A rendere difficile questo riconoscimento, come testimoniato anche da altri passi evangelici (Gv 15,22-24), non sarebbe l’ambiguità o la poca chiarezza dei segni, ma piuttosto il cuore chiuso in se stesso.
L’ascensione di Gesù al cielo (Lc 24,50; At 1,6).
« I cieli e la terra passeranno » (Mt 5,18; Mc 13,31; Lc 21,33).
« Un nuovo cielo e una terra nuova » (Ap 21,1), con la Gerusalemme gloriosa che discende dal cielo per venire incontro a Cristo suo sposo e inaugurare così il banchetto nuziale escatologico. Parallelismo con Genesi: insieme siamo chiamati a creare questo nuovo cielo e a rifinire l’abito della Gerusalemme sposa con i nostri atti d’amore (Ap 19,7-8). È quello che è prefigurato anche nella visione, sempre nel cielo, della donna di Ap 12: rappresenta la Chiesa, rivestita di sole (del Cristo); ha la luna sotto i suoi piedi e una corona di 12 stelle perché indica la sua missione di rinnovare il creato, come una nuova creazione, ricolmando ogni cosa della novità del Cristo risorto di cui è ricoperta. Ecco perché in At 1,10 i discepoli vengono invitati a non rimanere più con gli occhi per aria, a rimirare il cielo… Essi piuttosto sono chiamati a creare nella loro vita un nuovo cielo, instaurando rapporti autentici di amore: fare della terra il cielo nuovo…

don Luca Pedroli

Publié dans:BIBBIA, biblica |on 11 août, 2014 |Pas de commentaires »

COMMENTO A ROMANI 8,9.11-13

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Romani%208,9.11-13

COMMENTO A ROMANI 8,9.11-13

Fratelli, 9 voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 11 E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. 12 Così dunque fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne; 13 poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete.  

COMMENTO Romani 8,9.11-13 La vita secondo lo Spirito Nella seconda sezione della lettera ai Romani (cc. 6-8) Paolo mostra come la proposta di una giustificazione che avviene solo per mezzo della fede non spiana la strada al peccato, anzi lo elimina definitivamente insieme a due altre realtà che hanno collaborato con esso, il peccato e la morte (cc. 6-7). Nel c. 8 egli affronta il tema della vita nuova che si apre a colui che è diventato giusto mediante la fede. A tal fine egli riprende e rielabora alcune delle intuizioni che aveva già anticipato in 5,1-11. Nel nuovo capitolo l’apostolo mostra anzitutto come sia ormai lo Spirito a guidare l’uomo giustificato (vv. 1-13) e prosegue mettendo in luce come lo Spirito stesso trasformi intimamente non solo il credente ma anche tutto l’universo (vv. 14-25). Infine spiega come l’amore divino faccia sì che il credente sia vincitore su tutte le forze ostili che tentano di impedirgli il conseguimento della gloria finale (vv. 26-39). La liturgia utilizza a più riprese questo capitolo, selezionandone diversamente i versetti. La parte qui riportata si limita agli ultimi versetti della prima parte. Secondo Paolo lo Spirito, infuso nel credente per mezzo del battesimo, ha reso possibile ciò che la legge non poteva raggiungere, in quanto ha reso il credente capace di compiere pienamente la volontà di Dio riassunta in un unico precetto (vv. 1-4), con riferimento al comandamento dell’amore (cfr. 13,8-10). L’apostolo mostra poi che, in seguito a ciò, l’umanità si divide in due campi opposti: da una parte vi sono quelli che sono «secondo la carne» e dall’altra quelli che sono «secondo lo Spirito». I primi si danno pensiero delle cose della carne, ma questo pensiero li porta alla morte, poiché così facendo essi si rivoltano contro Dio; quelli invece che sono secondo lo Spirito pensano alle cose dello Spirito, e questo pensiero è per loro fonte di vita e di pace. Paolo conclude che coloro che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio (cfr. vv. 5-8). A questo punto inizia il testo liturgico. Paolo si rivolge direttamente ai suoi interlocutori e li invita a considerare fino in fondo la nuova situazione in cui si trovano. Essi non sono più «nella carne», ma «nello Spirito», dal momento che questo stesso Spirito abita in loro. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene (v. 9). Lo Spirito di Dio quindi non è altro che lo Spirito di Cristo. Perciò proprio in forza dello Spirito che è in loro essi appartengono a Cristo. Ora però, se Cristo abita in loro, da una parte il loro corpo è morto a causa del peccato, dall’altra però in loro opera lo Spirito che è sorgente di vita in forza della giustizia (v. 10). Essi cioè restano soggetti alla morte, in quanto partecipi di questa umanità dominata dal peccato; ma in forza della giustizia che è stata loro conferita possiedono già la vita che è dono dello Spirito. Ora se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in loro, quello stesso che ha risuscitato Cristo dai morti, cioè Dio, «farà vivere i loro corpi mortali» mediante lo Spirito che dimora in loro (v. 11). In altre parole lo stesso Spirito, mediante il quale Dio ha risuscitato Gesù dai morti, darà una nuova vita anche a coloro nei quali, in forza della giustificazione, è venuto ad abitare. Il credente, pur vivendo ancora in una situazione contrassegnata dalla morte fisica, pregusta già mediante l’opera dello Spirito quella vita nuova e indefettibile di cui gode il Cristo risuscitato. L’apostolo infine, rivolgendosi di nuovo affettuosamente ai suoi interlocutori («fratelli»), afferma che noi siamo ancora debitori, non però verso la carne, per vivere secondo la carne (v. 12): egli dirà in seguito che l’unico debito del credente è l’amore vicendevole (cfr. Rm 13,8). Egli prosegue poi ricordando loro che, se vivono secondo la carne, andranno incontro alla morte; ma se con l’aiuto dello Spirito fanno morire le opere del corpo, vivranno (v. 13). Lo Spirito dà dunque la vera vita all’uomo, in quanto gli permette di liberarsi dai condizionamenti della carne, cioè di evitare il peccato che porta inevitabilmente alla morte.

Linee interpretative Dio ha certamente delle aspettative nei confronti dell’uomo. Paolo le vede sintetizzate nell’unico comandamento che ha come oggetto l’amore del prossimo. Ma proprio questo comandamento non può essere attuato dall’uomo perché egli è soggetto al peccato, che si manifesta nel desiderio egoistico, di cui l’amore è esattamente il contrario. Perciò Paolo afferma che la salvezza non viene dalla promulgazione di una legge, per quanto giusta e santa essa possa essere. Per salvarsi l’uomo ha bisogno di un supplemento di grazia, che Dio infonde mediante lo Spirito, il dono per eccellenza di cui è dotato chi aderisce a Cristo mediante la fede. Di conseguenza solo il credente osserva pienamente la legge poiché lo Spirito opera ormai in lui e gli ispira una nuova mentalità e un nuovo modo di agire. Pur vivendo ancora in una carne mortale, egli è già partecipe di quella vita immortale che lo Spirito ha conferito a Cristo mediante la risurrezione e darà un giorno a tutti coloro che gli appartengono. Questa tesi, affermata con grande forza da Paolo contro tutte le accuse che gli venivano fatte dai suoi avversari, mette chiaramente in luce la dignità della persona umana. All’uomo, in quanto creatura dotata di ragione e di libertà, non conviene un agire imposto da una legge esterna, con le sue minacce e punizioni. L’uomo deve poter agire per una spinta interiore, che lo orienti al bene pur lasciandolo libero di fare le sue scelte. Lo Spirito svolge questo compito, in quando rendendo viva l’esperienza di Cristo nel suo cuore, può muovere l’uomo dall’interno e al tempo stesso garantisce la sua libertà. Perciò è solo lo Spirito che può guidare l’uomo a compiere liberamente la volontà di Dio e a vincere il peccato.  

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