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IL SAPIENTE E IL DENARO

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IL SAPIENTE E IL DENARO

Sembrano L.

Da un punto di vista economico, l’invenzione del denaro va considerata una pietra miliare. Il libro di Giobbe attesta che questo stadio della civiltà è stato raggiunto molto presto nelle culture bibliche (cf. Gb 42,11).

La realtà economica
Senza denaro, il commercio si riduce al baratto, ossia allo scambio diretto di un bene con un altro, utilizzato nelle comunità primitive e ancora praticato in alcune parti del mondo. In un’economia di baratto, un individuo che possiede qualcosa da commerciare deve trovare qualcuno che la voglia e che abbia qualcosa di accettabile da offrire in cambio. In un’economia monetaria, invece, il proprietario di un bene può venderlo, ricavando del denaro con cui potrà a sua volta acquistare il bene desiderato. Le funzioni della moneta quale mezzo di scambio e misura del valore dei beni facilitano enormemente lo scambio di prodotti e servizi e la specializzazione della produzione.
La Bibbia esprime con la radice ebraica ksf, «bramare, desiderare», e in particolare con il termine kesef, «argento, denaro, salario, proprietà, prezzo d’acquisto» le molteplici funzioni della moneta.
Da un punto di vista sociologico, poi, la ricchezza è uno dei fattori di differenziazione e di stratificazione sociale. In una società, gli individui e i gruppi acquisiscono distinti ruoli e identità a partire da presupposti naturali (come il sesso, l’età, l’etnia, l’ambiente naturale), o sociali (come la religione, la lingua, la professione, la cultura). In virtù di queste differenze, gli attori sociali, siano essi individui o gruppi, acquistano significative differenze di status, di potere, di autorità, e di prestigio sociale a seconda delle attività e delle funzioni svolte, degli obiettivi perseguiti, del potere, dell’autorità, della cultura posseduti. L’accumulo di ricchezza – che da origine al capitale – sfocia nell’opulenza e nella capacità di fare investimenti[1].
L’esperienza della prosperità e dell’abbondanza non è estranea alla Bibbia, che la esprime col sostantivo ‘ošer[2], «ricchezza», cui corrisponde il predicato ‘ašir, «ricco», entrambi associati talora a beni immateriali, come la gloria (Pr 3,16), l’onore, il benessere e l’equità (Pr 8,18), la sapienza (1Re 10,23), la fortuna (Sal 49,7), l’onore (Sal 52,9; 112,3), in contrapposizione con la miseria del povero (Pr 30,8)[3].
La rilevanza semantica dei suddetti termini[4] offre un’idea dell’attenzione prestata al fenomeno della ricchezza nella letteratura sapienziale d’Israele, che – anche in questo campo – esprime realisticamente la contraddittorietà dell’esistenza, con le sue mille sfaccettature, nell’intento di dare all’uomo, per ogni situazione, un orientamento sicuro, senza forzature, traendo la propria autorevolezza dall’esperienza della vita, e facendo appello al buon senso naturale, che è in ogni persona.

I vantaggi dell’agiatezza
Per quanto riguarda la ricchezza, i sapienti d’Israele tracciano l’ideale di un’agiatezza ottenuta attraverso la laboriosità e l’ingegno, di cui è testimone la donna perfetta di Pr 31,10-31. Con le sue eccezionali capacità imprenditoriali, per nulla inferiori a quelle maschili (Pr 11,16), ella si procura da lontano le materie prime, lavora ininterrottamente dall’alba al tramonto, senza trascurare la sorveglianza del personale domestico, né gli investimenti immobiliari (Pr 31,13-18.27).
Per il ricco i beni sono una roccaforte (Pr 10,15; 18,11). Grazie ad essi, al momento opportuno potrà avere salva la vita (Pr 13,8; Sir 18,25). Attratti dai suoi beni, molti gli offriranno la loro amicizia (Pr 19,54). In un’epoca in cui la schiavitù per debiti era ancora una realtà (Lv 25,39; Pr 22,7), non faceva scandalo né l’esistenza della povertà (Pr 22,2), né la superiorità sociale del ricco, né infine il suo potere d’imposizione sui poveri (Pr 22,4). Lo ammette – con una punta d’ironia, ma senz’alcuna inibizione – il Siracide:

Se parla il ricco, tutti tacciono
ed esaltano fino alle nuvole il suo discorso;
se parla il povero, dicono: «Chi è costui?»,
e se inciampa, lo aiutano a cadere! (Sir 13,23).

Altrettanto amara è la constatazione di Qo 9,13-16. Analoghe sono altre affermazioni proverbiali:
Il povero parla con suppliche, il ricco risponde con durezza (Pr 18,23).
L’ira di un uomo cresce in base alla sua ricchezza (Sir 28,10).
Il ricco commette ingiustizia e per di più grida forte (Sir 13,3).

E poi il suo avversario dovrà fare i conti con quel male endemico, che è la corruzione (Sir 8,2b)[5].
Se il giusto Giobbe poteva permettersi di impiegare il suo tempo per «rompere la mascella al perverso» e poteva sedere tra i magistrati «come un re tra i soldati» – come ricorda lui stesso nostalgicamente in Gb 29,17.25 – è perché era tanto ricco da lavarsi i piedi nel latte, e la roccia gli versava ruscelli d’olio (cf. Gb 29,6)! Non dovendo affrontare quotidianamente i problemi della sussistenza, grazie alla sua opulenza, egli faceva parte di quella ristretta aristocrazia che poteva dedicarsi al governo cittadino. La sua opulenza era contemperata dall’impegno per la giustizia.
Nell’ottica sapienziale, che non conosce ancora la rinuncia volontaria ai propri beni per la sequela escatologica del regno di Dio (Mc 10,21), vi è già una dinamica ascensionale, che conduce al riconoscimento del primato della sapienza tra tutti gli altri beni. Pr 14,24 (citato seguendo il testo masoretico) afferma senza mezzi termini che la ricchezza è la «corona dei saggi», in contrapposizione alla stoltezza, che conduce alla miseria, e quindi la ricchezza è intesa come il degno coronamento di una vita spesa con sapienza, con costante impegno, come il frutto della fatica di una vita.

Ma la sapienza è la ricchezza migliore!
Tuttavia, Pr 8,11 – nella collezione più recente del libro – afferma già che la sapienza vale più delle perle, e nessuna cosa preziosa la eguaglia. Dal canto suo, lo pseudo-Salomone testimonia che, insieme con la Sapienza – intesa qui come una figura femminile da ricercare (sulla scia delle personificazioni letterarie di Pr 8-9) – gli sono venuti tutti i beni e che «nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile» (Sap 7,11), poiché dall’amicizia e dall’assiduità del rapporto con lei vengono all’uomo piacere, prudenza, ricchezza e fama (cf. Sap 8,18). Vale quindi la pena d’imboccare la strada della sequela della sapienza, perché saggezza e ricchezza vanno insieme, come attesta la narrazione storica relativa al re Salomone (1Re 10,14-25).
Qohelet, attento osservatore dei rapidi mutamenti in atto nella terra d’Israele all’epoca ellenistica (cf. Qo 4,13-14), è il primo a incrinare la fiducia della tradizione sapienziale nella ricchezza, sulla scorta di una riflessione attestata anche nel Salterio (cf. Sal 49,7; 62,11), e minoritariamente nei Proverbi stessi:

Chi confida nella propria ricchezza, cadrà (Pr 11,28a).
Chiedendosi perché mai l’uomo debba affaticarsi per tutta la vita ad accumulare, se non ha neppure un erede (Qo 4,8), anch’egli si cela sotto le sembianze di un Salomone non più giovane, per condannare l’amore insaziabile per il denaro (Qo 5,9) e far notare, nell’ottica di una contestazione radicale dei limiti dell’esistenza, che neppure la sapienza può costituire una salvaguardia definitiva per i propri beni (cibo e ricchezze) contro le insidie degli avvenimenti (Qo 9,11).
Agli antipodi di Qohelet per la sua indiscussa fedeltà alle tradizioni dei padri, la sapienza di «Gesù ben Sira» giunge alle stesse conclusioni, quando riconosce che all’uomo è sottratto il controllo dei propri beni, perché tutto proviene dal Signore, anche povertà e ricchezza (Sir 11,14). Non vale la pena di trascorrere notti insonni pensando a come accumulare (Sir 31,1), né accumulare a forza di privazioni per degli estranei, che faranno festa con i tuoi beni (Sir 14,4). Non ha bisogno di commento questo apoftegma del Siracide, che ha ispirato la parabola evangelica del ricco stolto (Lc 12,16-21):

C’è chi è ricco a forza di attenzione e di risparmio;
ed ecco la parte della sua ricompensa.
Mentre pensa: «Ho trovato riposo; ora mi godrò i miei beni»,
non sa quanto tempo ancora trascorrerà;
lascerà tutto ad altri e morirà (Sir 11,18-19).

Il godimento delle ricchezze non è definitivo. E il danaro è fonte di preoccupazione (Qo 5,11b; Sir 31,1). Il loro possesso non è stabile, ma variabile come il tempo, che dal mattino alla sera cambia (Sir 18,26; 11,21). Salute fisica e gioia del cuore già valgono più di tutto l’oro (Sir 30,15-16.23-25), ma, tra tutti i beni, il più desiderabile è la sapienza. Con essa, infatti, più che col danaro, viene all’uomo ogni altro bene. Ella stessa invita a saziarsi dei suoi beni (Pr 9,1-6; Sir 24,17-20). Benché sia prematuro parlare di una scelta volontaria della povertà, la sequela della sapienza costituisce sicuramente già una premessa importante della sequela per il regno.

Pietà e onestà
La ricchezza è considerata, nell’ottica della benedizione, quale ricompensa del proprio comportamento giusto e onesto; essa è buona, purché sia senza peccato (Sir 13,24). La proverbiale ricchezza di Giobbe (Gb 1,2-3) non è disgiunta dalla sua pietà, contrariamente alle insinuazioni del satana (Gb 1,8-11), che paradossalmente gli frutteranno ancor più, dopo il superamento della prova:
Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima … accrebbe anzi del doppio quanto Giobbe aveva posseduto… Il Signore benedisse la nuova condizione di Giobbe più della prima ed egli possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine (Gb 42,10.12).
La cornice narrativa di Giobbe fornisce un quadro ideale di comprensione per il detto di Pr 11,28b: il sapiente di Uz non ha mai confidato nelle sue ricchezze; per questo anche nella vecchiaia, è posto dal Signore tra quei giusti «verdeggianti come foglie». L’esemplarità del Giobbe in prosa (Gb 1-2; 42,7-17) consiste nella sua attenzione alla giustizia, che gli consente di scampare al tranello postogli dal satana e così «sfuggire alla morte», non con la sua ricchezza, ma per mezzo della sua pietà (cf. Pr 11,4), perché la ricchezza, l’onore e la vita, come il timore di Dio, doni che Giobbe possiede tutti (Gb 1,8; 2,3), sono «frutti dell’umiltà» (Pr 22,4).
Quando ormai è troppo tardi per tornare indietro, perché il giudizio incombe su di loro, dopo una vita spesa a tramare il male e la perdizione a danno del giusto, anche gli empi di Sap 5,5-11 riconoscono la sterilità del connubio tra ricchezza e disonestà, che li ha fuorviati, impedendo loro di gustare la luce della giustizia.
Eppure l’attrattiva dell’arricchimento facile e, in apparenza, senza troppi rischi, doveva esercitare un impatto molto forte sui giovani, se il maestro di Pr 1 dedica a questo tema il primo dei suoi insegnamenti, facendo sentire ai suoi allievi la voce stessa di quei delinquenti, che non temono di paragonarsi, per la loro ingordigia, alle fauci della sheol:
Vieni con noi, complottiamo per spargere sangue … inghiottiamoli vivi come gli inferi…,troveremo ogni specie di beni preziosi, riempiremo di bottino le nostre case… (Pr 1,11-13)
Ma poi mostra ai discepoli la squallida fine degli empi stolti, vittime di quella violenza, e di quella cupidigia, alle quali troppo in fretta si erano assuefatti (Pr 1,18-19). Così spavento e violenza fanno svanire la ricchezza (Sir 21,4).

Generosità
C’è chi largheggia e vede aumentare la sua ricchezza,
chi risparmia oltre misura e finisce nella miseria (Pr 11,24).

L’avarizia è la negazione della funzione economica del denaro, che viene accumulato per se stesso, e non risparmiato in vista di futuri bisogni. Una volta che esso è entrato in cassa, non ne esce più. Perciò, a ragione il Siracide si domanda:

Ma a che servono gli averi a un avaro? (Sir 14,3).

La cupidigia conduce quasi sempre all’arricchimento ingiusto, allo sfruttamento del prossimo, al guadagno disonesto. Messo alla prova, quasi nessuno è stato in grado di resistere alla tentazione dell’oro. Il danaro ha una forza d’attrazione paragonabile a quella che Qo 7,26 attribuisce ai lacci della donna, in cui il peccatore resta preso.
Come attesta categoricamente Sir 31,5-11: l’accaparramento è condannato dai sapienti d’Israele e, come nei profeti – si pensi alle violente invettive di Amos –, attira su chi se ne rende colpevole la punizione divina. Purtroppo, esso è frequente, e a pagarne le conseguenze è il giusto povero (Pr 28,15; Sap 2,10). Il dissenso tra ricchi e poveri è paragonato alla relazione tra il lupo e l’agnello, la iena e il cane, tra una caldaia metallica e una pentola di coccio, e lo sfruttamento dei poveri da parte dei ricchi agli attacchi mossi dai leoni agli onagri del deserto (Sir 13,2.17-19).
A confronto col modello di Pr 23,1-3.6-8, che si sofferma prevalentemente sull’esperienza conviviale, si deve supporre che il conferenziere «Gesù ben Sira», abituale frequentatore delle case dei potenti, sia stato talora oggetto dell’arroganza e dello scherno dei nuovi arricchiti, a giudicare dai toni così veementi e sarcastici, con i quali sfoga l’umiliazione dello sfruttamento da parte dei ricchi (Sir 13,4-7; 29,22-24). Gli fa eco, in qualche modo, Qohelet:

Tutta la fatica dell’uomo è per la bocca
e la sua brama non è mai sazia.
Quale vantaggio ha il saggio sullo stolto?
Quale il vantaggio del povero
che sa comportarsi bene di fronte ai viventi? (Qo 6,7-8).

Povertà e pigrizia
Come in epoca biblica, ancora oggi sopravvive il pregiudizio che l’indigenza sia sempre frutto di pigrizia, scarsa diligenza (Pr 12,27; 13,4; 19,24), o superficialità (Pr 26,16) e si prova fastidio quando ci s’imbatte in certi poveri, ad esempio, gli zingari, che inculcano nei bambini la mendicità (Pr 21,25; Sir 13,20), o i tossicodipendenti, che chiedono soldi per bucarsi. Certamente il sapiente condanna la povertà quando è frutto di pigrizia (Pr 6,6-11; 24,30-34; Sir 10,27; 11,11-13.17). Anzi, egli cerca d’inculcare nei suoi allievi l’orrore per la pigrizia (Pr 20,13; Sir 22,1-2; 37,11)[6].
Ma non sempre la povertà è conseguenza della pigrizia. Talora è frutto di una politica dissennata (Qo 5,7). Altre volte non si tratta di soccorrere i poveri nelle necessità pratiche, ma di rendere loro giustizia (Pr 31,9). E non è sempre possibile sapere in anticipo quali siano le cause del disagio, per potersi regolare. Perciò il ricco ha il dovere di soccorrere il povero, come faceva Giobbe quand’era in auge e in buona salute (Gb 29,12; 31,16.19), o come si comporta la donna perfetta, che apre il palmo della sua mano all’indigente (Pr 31,20). Così facendo, i ricchi ottengono benedizione dal Signore – che li colma di abbondanza (Pr 19,17; 22,9; 28,27; Sir 7,32) – ma anche da coloro che soccorrono, i quali ne celebrano le lodi, accrescendone la fama e la popolarità (Pr 31,20.31; Sir 31,10).
È ancora il Siracide che, a più riprese, raccomanda la delicatezza nel modo di donare, e l’affabilità, per non offendere la sensibilità del povero (Sir 4,1.4.8; 18,16-17; 29,9). Chi opprime il povero, offende il suo Creatore (Pr 14,31; 17,5), perché Dio è dalla sua parte (Sir 21,5). yhwh, che è imparziale, presta ascolto alla preghiera dell’oppresso (Sir 35,13). Ma l’esortazione a praticare la carità risponde anche a una preoccupazione pratica: poiché l’indifferenza sociale verso i poveri è contagiosa, chi è insensibile al grido del povero, quando si troverà nel bisogno, non otterrà risposta (cf. Pr 21,13). Né dagli uomini, né da Dio, come attesta la voce di Abramo:
Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi (Lc 16,25-26).

Lucio Sembrano

[1]T. Hembrom, «Economic Policy in the Wisdom Literature of the Old Testament», in Bible Bhashyam 22 (1996) 231-237, analizza il tema della ricchezza nei libri sapienziali. L’autore ritiene che vi sia una sostanziale coincidenza tra la mentalità contemporanea e quella dell’epoca biblica quanto alla visione dell’individualismo e del capitalismo, anche se manca nei sapienziali una concettualizzazione moderna della «politica economica».
[2] Da non confondere con «’šr – felice», scritto con aleph iniziale, con cui ha un’assonanza.
[3] Per un ampliamento della ricerca, cf. S.A. Panimolle, «Povertà», in Nuovo dizionario di teologia biblica, Paoline, Cinisello B. 1988,1202-1216; V. Liberti (ed.), Ricchezza e povertà nella Bibbia, Studio Teologico Aquilano, Ed. Dehoniane, Roma 1991; L. Mazzinghi, «I saggi e l’uso della ricchezza: il libro dei Proverbi», in Parola, Spirito e Vita 42 (2000) 83-96.
[4] La ricerca statistica lessicale è stata effettuata per mezzo di una concordanza elettronica della Bibbia ebraica. Non essendo questa disponibile per il libro del Siracide, mi sono avvalso dello studio (in ebraico moderno) di Z. Ben-Hayyim, The Book of Ben Sira. Text, Concordance and an Analysis of the Vocabulary, The Academy of the Hebrew Language and the Shrine of the Book, Jerusalem 1973; cf. pure T. Donald, «The semantic field “Rich and Poor” in Hebrew and Accadian Literature», in Oriente Antico 3(1964) 27-41.
[5] Per un approfondimento sul dovere della solidarietà, cf. J. Corley, «Social Responsibility in Proverbs and Ben Sira», in Scripture Bulletin 30 (2000) 2-14.
[6] B.J. Wright III, «The Discourses of Riches and Poverty in the Book of Ben Sira», in Society of Biblical Literature Special Papers I-II, Scholars, Atlanta 1998, 559-578. Siracide è attento alla vita reale di Gerusalemme nel III-II sec. a.C.

 

Publié dans:BIBBIA, biblica, meditazioni bibliche |on 10 avril, 2015 |Pas de commentaires »

DALL’ OSANNA AL CRUCIFIGE, DI DON GIUSEPPE LIBERTO

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DALL’ OSANNA AL CRUCIFIGE

DI DON GIUSEPPE LIBERTO

L’Osanna del trionfo

Con l’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme, si entra nel cuore del mistero pasquale. Prima di soffrire la passione e la morte, Gesù fece un ingresso trionfale nella città santa. Lo realizzò non con l’alterigia di un re trionfatore su un esercito sconfitto, ma con l’umile semplicità di chi sta vivendo un evento importante e misterioso della sua vita.
Gli evangelisti raccontano che il Maestro, trovandosi presso il monte degli Ulivi, ordinò a due discepoli di prelevare un puledro. I personaggi importanti, come anche i guerrieri, montavano il cavallo, perché il puledro era la cavalcatura dei poveri, dei semplici, dei pacifici. Gesù salì sopra il puledro e si diresse verso Gerusalemme; mentre avanzava, la folla stendeva i mantelli sulla strada cantando: Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli! (Lc 19,37-38). Matteo e Marco, oltre ai mantelli, aggiungono anche rami d’ulivo e fronde tolti dagli alberi. Luca ci descrive la reazione di tenerezza di Gesù che, in vista della città santa, piange su di lei che lo rifiuta e lo condanna. Quelle lacrime non sono d’impotenza, ma di amore, di delusione, di sconfitta. Per la città che lo rifiuta, Gesù prova profondo dolore (cf 19,41-44).
L’ingresso trionfale non piacque ai farisei e agli avversari di Gesù. Luca, infatti, riferisce che alcuni farisei pretendevano che il Maestro imponesse ai discepoli di tacere, ma la risposta fu tagliente: Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre (v. 40).
Perché Gesù ha voluto compiere questo gesto di trionfo in Gerusalemme, centro dell’ebraismo e custode della promessa messianica? Matteo lo annota diligentemente: Ora questo avvenne perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: Dite alla figlia di Sion: Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma (21,4-5). Ora, l’applauso e l’entusiasmo della folla, anche se sinceri e spontanei, si erano fermati ai soli gesti prodigiosi, al puro aspetto antropologico. Gli interessi umani impedivano di percepire pienamente Gesù di Nazareth come uomo-Dio.
Radicalmente diverso era l’atteggiamento dei farisei e degli avversari i quali pretendevano addirittura che non inneggiassero col grido degli Osanna. Contro loro Gesù lanciò la sfida che le pietre si sarebbero sostituite ai discepoli. Chi chiude gli occhi del cuore alla verità si rende non capace a percepirla. Il rifiuto di Cristo esclude l’uomo dal suo Regno di luce e di pace. Gesù non vuole discepoli muti ma credenti che nel silenzio del cuore credono e con il canto della bocca professano il loro credere.
Il vero credente non cade nell’equivoco della folla che vede in Gesù un personaggio che si accredita come re col potere temporale di questo mondo. Gesù, consapevole che la sua regalità è oblazione, offerta e immolazione, dinanzi a Pilato rivelerà la natura e l’identità del suo regno. Egli assume la condizione di Servo sofferente e s’immola sulla croce per redimere l’umanità e riconciliarla con Dio.
Ogni giorno Gesù fa l’ingresso nelle nostre città, nelle nostre case, nelle nostre chiese, nel nostro cuore: ai credenti sono richieste solo le opere che testimoniano la fede.

Il Crucifige della Passione
Con i suoi miracoli e con la sua predicazione, diversa da quella insegnata dagli scribi e dai farisei, Gesù era diventato un personaggio scomodo, per questo motivo gli scribi e i farisei avevano deciso di eliminarlo. Si tratta di quel potere diabolico, sempre in atto, che, invece di servire, serve per eliminare chi ti è scomodo, chi non ti serve o chi non ti appartiene. Nella vita c’è sempre un “Giuda” che ti tradisce. Ed ecco, pronto il corrotto e il traditore che mette in atto il progetto dei sommi sacerdoti e degli scribi che volevano impadronirsi di Gesù per ucciderlo. Dopo aver celebrato la Pasqua con i suoi discepoli, Gesù è catturato nell’orto degli Ulivi mentre pregava. Sottoposto a giudizio sia dal tribunale religioso che da quello politico è condannato a morte mediante crocifissione. Gesù accetta, con straordinaria dignità e consapevolezza, il tradimento e il giudizio farsesco dei due tribunali. Anche se siamo abituati a vedere o a subire simili processi-farsa, tuttavia quello di Gesù ha toccato i vertici della pazzia diabolica. Quello che scombussola la ragione è il fatto che il potere religioso e politico erano convinti di agire in modo falso e perverso. Questi i capi d’accusa contro Gesù: è un menzognero, un sobillatore del popolo, un falsificatore della verità. Si proclama figlio di Dio, osa rimettere i peccati e guarire i malati di sabato, tenta, perfino, di distruggere il Tempio. Il Salvatore dell’umanità è subito catturato, processato, condannato al patibolo della croce come un malfattore.
Se il processo condotto dal potere religioso e politico fu una farsesca messa in scena, la passione e la morte che Gesù subì fu tremenda realtà che continua a scuotere il cuore e l’intelligenza dell’uomo. Siamo sempre più convinti che ogni ingiusta condanna dell’innocente grida vendetta al cospetto di Dio. Si vergognino e tremino quanti operano direttamente o indirettamente per condannare e crocifiggere i propri fratelli in umanità e fede.
Nel dramma della Passione di Gesù, Pilato, Erode, Anna, Caifa, Giuseppe d’Arimatea, i discepoli terrorizzati, Giuda il traditore suicida, sono tutti personaggi di spicco e simboli per l’umanità. Si è come Giuda quando si tradisce nell’amore e non si chiede perdono. Si è come Pilato, quando non si prende posizione chiara per la verità. Si è come Anna e Caifa, quando ci si ostina a non riconoscere Gesù come Figlio di Dio e Salvatore dell’uomo. Si è come gli apostoli, quando nelle prove, nelle persecuzioni, nel dramma del dolore ci si comporta come loro preferendo la fuga della paura all’abbandono confidente in Dio. I gesti del lavarsi le mani o di lanciare sfide a Cristo per scendere dalla croce hanno soltanto sapore di farsa. Nel dramma della Passione e della Morte, il vero trionfatore rimane Gesù Crocifisso e i fedeli discepoli uniti e configurati a Lui.

Publié dans:biblica, meditazioni, SETTIMANA SANTA |on 31 mars, 2015 |Pas de commentaires »

DIO PADRE NELL’ANTICO TESTAMENTO

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-06/14-2/DioPadre1.rtf.html

DIO PADRE NELL’ANTICO TESTAMENTO

Alberto Piola

Introduzione

Usiamo tutti delle immagini e dei titoli per parlare di Dio: ciascuna ha le sue utilità ed i suoi rischi.
Come cristiani il riferimento essenziale va fatto alla Bibbia, dove Dio si è rivelato, cioè si è fatto conoscere; l’atteggiamento giusto è accostarci ad essa nell’ascolto: Dio ci parla e noi siamo chiamati ad entrare in dialogo con lui (cfr. l’importanza del parlarsi anche a livello umano).
Una delle immagini più usate per parlare di Dio è quella di padre. Vogliamo innanzi tutto cercare che cosa dice l’Antico Testamento a questo proposito. Come cristiani sappiamo di dover guardare all’Antico Testamento tenendo presente il compimento della rivelazione di Dio che avviene in Cristo; ma già la prima parte della Bibbia può darci delle indicazioni utili per capire meglio in che senso Dio è nostro Padre.
Infatti, è facile constatare che il termine « padre » può avere moltissimi significati diversi, sia quando lo usiamo a livello umano, sia quando lo adoperiamo per parlare di Dio; in molte religioni Dio è chiamato « Padre », volendo dire che in tutti gli uomini c’è un qualcosa di divino e che tutti formano una sola famiglia; ma nella Bibbia ciò acquista una dimensione particolare.
In ascolto di alcuni brani dell’Antico Testamento
La paternità divina espressa dall’Antico Testamento è ben diversa da quella di religioni limitrofe: Dio non è padre perché ha generato fisicamente l’antenato del popolo tramite l’unione sessuale con una dea-madre.
Significa innanzitutto che Dio è creatore del mondo: Deuteronomio 32,6 così ripaghi il Signore, o popolo stolto e insipiente? Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito?; Malachia 2,10 non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro profanando l’alleanza dei nostri padri?
Poi significa che Dio ha fatto la scelta del suo popolo: questo ha creato un legame d’amore tra Dio e il popolo d’Israele; ha fatto alleanza con il popolo e ha fatto dono della Legge ad Israele, suo figlio primogenito (Esodo 4,22); Geremia 31,9 Essi erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li condurrò a fiumi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno; perché io sono un padre per Israele, Efraim è il mio primogenito; Sapienza 14,3 la tua provvidenza, o Padre, la guida perché tu hai predisposto una strada anche nel mare, un sentiero sicuro anche fra le onde; Deuteronomio 14,1-2 Voi siete figli per il Signore Dio vostro; non vi farete incisioni e non vi raderete tra gli occhi per un morto. Tu sei infatti un popolo consacrato al Signore tuo Dio e il Signore ti ha scelto, perché tu fossi il suo popolo privilegiato, fra tutti i popoli che sono sulla terra
Tutto ciò si concretizza in un atteggiamento amoroso, proprio come un papà: Osea 11,3-9 Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. Ritornerà al paese d’Egitto, Assur sarà il suo re, perché non hanno voluto convertirsi. La spada farà strage nelle loro città, sterminerà i loro figli, demolirà le loro fortezze. Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo. Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Admà, ridurti allo stato di Zeboìm? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira; ciò significa che Dio è anche colui che corregge: Proverbi 3,12 il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto
Ma questo atteggiamento amoroso di Dio non è corrisposto: c’è stata ingratitudine verso Dio; Deuteronomio 32,5-6 Peccarono contro di lui i figli degeneri, generazione tortuosa e perversa. Così ripaghi il Signore, o popolo stolto e insipiente? Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito?; e c’è allora il rammarico di Dio: Geremia 3,4-5.19 E ora forse non gridi verso di me: Padre mio, amico della mia giovinezza tu sei! Serberà egli rancore per sempre? Conserverà in eterno la sua ira? Così parli, ma intanto ti ostini a commettere il male che puoi Io pensavo: Come vorrei considerarti tra i miei figli e darti una terra invidiabile, un’eredità che sia l’ornamento più prezioso dei popoli! Io pensavo: Voi mi direte: Padre mio, e non tralascerete di seguirmi
Ecco allora che parte l’invocazione di misericordia verso questo padre che si è tradito: Isaia 64,4-11 Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli. Siamo divenuti tutti come una cosa impura e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento. Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si riscuoteva per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci hai messo in balìa della nostra iniquità. Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani. Signore, non adirarti troppo, non ricordarti per sempre dell’iniquità. Ecco, guarda: tutti siamo tuo popolo. Le tue città sante sono un deserto, un deserto è diventata Sion, Gerusalemme una desolazione. Il nostro tempio, santo e magnifico, dove i nostri padri ti hanno lodato, è divenuto preda del fuoco; tutte le nostre cose preziose sono distrutte. Dopo tutto questo, resterai ancora insensibile, o Signore, tacerai e ci umilierai sino in fondo?; Isaia 63,16 perché tu sei nostro padre, poiché Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda di noi. Tu, Signore, tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore; 64,7 Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani; Sal 103,13 come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono
Ecco allora che Dio padre è colui che dà il perdono: Geremia 3,12-13 Ritorna, Israele ribelle, dice il Signore. Non ti mostrerò la faccia sdegnata, perché io sono pietoso, dice il Signore. Non conserverò l’ira per sempre. Su, riconosci la tua colpa, perché sei stata infedele al Signore tuo Dio; hai profuso l’amore agli stranieri sotto ogni albero verde e non hai ascoltato la mia voce. Oracolo del Signore; Malachia 3,17 Essi diverranno dice il Signore degli eserciti mia proprietà nel giorno che io preparo. Avrò compassione di loro come il padre ha compassione del figlio che lo serve
E più in generale ci si rivolge a Dio per chiedere aiuto: Siracide 23,1.4 Signore, padre e padrone della mia vita, non abbandonarmi al loro volere, non lasciarmi cadere a causa loro Signore, padre e Dio della mia vita, non mettermi in balìa di sguardi sfrontati; e in fondo è padre per tutti coloro che si rivolgono a lui: Siracide 51,9-12 innalzi dalla terra la mia supplica; pregai per la liberazione dalla morte. Esclamai: « Signore, mio padre tu sei e campione della mia salvezza, non mi abbandonare nei giorni dell’angoscia, nel tempo dello sconforto e della desolazione. Io loderò sempre il tuo nome; canterò inni a te con riconoscenza ». La mia supplica fu esaudita; tu mi salvasti infatti dalla rovina e mi strappasti da una cattiva situazione. Per questo ti ringrazierò e ti loderò, benedirò il nome del Signore
Segue con amore particolare certe categorie di persone: Salmo 68,6-7 Padre degli orfani e difensore delle vedove è Dio nella sua santa dimora. Ai derelitti Dio fa abitare una casa, fa uscire con gioia i prigionieri; solo i ribelli abbandona in arida terra
Un messaggio per noi
Tutti questi brani non ci offrono una sintesi già pronta, ma ci invitano a riflettere: che cosa ci dice quest’immagine della paternità applicata a Dio? Quali aspetti sentiamo già più vicini, a quali abbiamo (quasi) mai pensato?
Innanzi tutto non dobbiamo mai assolutizzare quest’immagine, perché la Bibbia ci dice che Dio è anche madre: « Questa tenerezza paterna di Dio può anche essere espressa con l’immagine della maternità, che indica ancor meglio l’immanenza di Dio, l’intimità tra Dio e la sua creatura. Il linguaggio della fede si rifà così all’esperienza umana dei genitori che, in certo qual modo, sono per i genitori i primi rappresentanti di Dio. Tale esperienza, però, mostra anche che i genitori umani possono sbagliare e sfigurare il volto della paternità e della maternità. Conviene perciò ricordare che Dio trascende la distinzione umana dei sessi. Egli non è né uomo né donna. Egli è Dio. Trascende pertanto la paternità e la maternità umane, pur essendone l’origine e il modello. Nessuno è padre quanto Dio » (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 239).
Alcune sottolineature dai brani letti:
L’esperienza dell’essere scelti (diverso da vincere un concorso, simile all’innamoramento): non ci meritiamo mai Dio; pensando all’esperienza del nostro essere figli o di avere dei figli, in che senso ci sentiamo figli di Dio?
Dio ci educa, ci accompagna, ci corregge: sentiamo di aver bisogno di tutto ciò? O in fondo stiamo bene anche da soli?
L’esperienza del peccato è il fallimento del nostro rapporto filiale. A volte possiamo leggere il peccato solo a livello di coerenza personale o a livello orizzontale. Non è scontato elevare una supplica di misericordia chiedere perdono ci compromette (cfr. i bambini e i loro giri di parole per chiedere scusa). E poi ci sono molti modi di chiedere perdono: potrebbe anche solo essere un « sentirsi a posto », senza credere di aver rotto un rapporto (cfr. l’esperienza di certi perdoni « pesanti » tra gli sposi)
La richiesta di aiuto: quando e quanto ci rivolgiamo a Dio per chiedere aiuto? Ci crediamo davvero di averne bisogno? Che cosa chiediamo al Signore: una lista di cose che ci piacciono o di fare la sua volontà?
Vivere la paternità di Dio: è lo stimolo che può venirci dall’ascolto attento di questi brani dell’Antico Testamento. Si tratta di vivere un sentirsi figli di un Padre che ci vuole bene; e di comportarci di conseguenza (un figlio prende sempre qualcosa dai genitori), seguendo le sue scelte. E forse di ricuperare qualche aspetto di questa paternità che l’Antico Testamento ci ha presentato.

Il Libro di Giona, con una Lectio di Benedetto XVI.

http://kairosterzomillennio.blogspot.it/2013/02/il-segno-del-figlio-delluomo.html

IL LIBRO DI GIONA

mercoledì 20 febbraio 2013

Di seguito ill Vangelo di oggi, 20 febbraio, mercoledi della I settimana di Quaresima, con un commento.
Su questo Vangelo vedi anche in questo blog il post dal titolo: « Il segno di Giona », pubblicato il 14 ottobre del 2012, con una Lectio di Benedetto XVI.

Il libro di Giona e la sua prosecuzione neotestamentaria
è la più decisa negazione del relativismo
e dell’indifferenza che si possa immaginare.
Anche per i cristiani di oggi vale
« Alzati… e annunzia quanto ti dirò ».
Anche oggi deve essere annunciato l’unico Dio.
Anche oggi è necessario agli uomini Cristo, il vero Giona.
Anche oggi deve esserci pentimento perché ci sia salvezza.
E come la strada di Giona fu per lui stesso una strada di penitenza,
e la sua credibilità veniva dal fatto
che egli era segnato dalla notte delle sofferenze,
così anche oggi noi cristiani
dobbiamo innanzitutto essere per primi
sulla strada della penitenza per essere credibili.
Joseph Ratzinger 24 gennaio 2003

Dal Vangelo secondo Luca 11, 29-32
In quel tempo, mentre le folle si accalcavano, Gesù cominciò a dire: «Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona. Poiché come Giona fu un segno per quelli di Nìnive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione.
La regina del sud sorgerà nel giudizio insieme con gli uomini di questa generazione e li condannerà; perché essa venne dalle estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Ed ecco, ben più di Salomone c’è qui. Quelli di Nìnive sorgeranno nel giudizio insieme con questa generazione e la condanneranno; perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, ben più di Giona c’è qui».

Il commento
Giona, un predicatore. In ebraico il nome proprio Ionah vuol dire “colomba”. Giona semplice come una colomba, poche parole, taglienti come una spada. Il tempo è breve, tre giorni e tutto sarà distrutto. « Fu rivolta a Giona figlio di Amittai questa parola del Signore: Alzati, và a Ninive la grande città, e in essa proclama che la loro malizia è salita fino a me ». Amittai in ebraico è verità, quindi figlio di Amittai significa figlio della verità. « La verità, la realtà stessa, si sottrae all’uomo, egli appare sottoposto ad anestesia locale, capace di cogliere solo brandelli deformati del reale. » (J. Ratzinger, Fede e futuro). Gli abitanti di Ninive, la « città sanguinaria » (Nahum 3,1), sono l’immagine di quanti vivono anestetizzati, in una sorta di « impermeabilità della coscienza » (Dominum et vivificantem, 47): essi « non sanno distinguere la destra dalla sinistra » secondo le parole di Dio rivolte a Giona. La loro malizia è dunque la mancanza di « sensibilità e capacità di percezione » (Reconciliatio et Poenitentia,18) della verità: « Dicono fra loro sragionando: «La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio, quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati…. La nostra esistenza è il passare di un’ombra e non c’è ritorno alla nostra morte, poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro…. Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia perché questo ci spetta, questa è la nostra parte. La pensano così, ma si sbagliano; la loro malizia li ha accecati » (Cfr. Sap. 2). Giona, il figlio della Verità, è inviato ai niniviti, i figli della malizia che è inganno e menzogna, a quanti « non conoscono i segreti di Dio; non sperano salario per la santità né credono alla ricompensa delle anime pure ». Giona, come un segno, l’unico. Secondo l’esegesi rabbinica il nome di Giona e di Ninive sono composti, in ebraico, con le stesse lettere (Giona si scrive IVNH, e Ninive NINVH), e si assomigliano. Scopriamo così che agli abitanti di Ninive immersi nella malizia, Dio invia un loro fratello, uno che ha le loro stesse radici. Con la discesa nel ventre del pesce e la sua salvezza miracolosa, il Signore ha preparato Giona per annunciare ai suoi fratelli la parola di Verità, facendogli condividere il loro stesso destino. Veniva a loro dallo stesso inferno, parlava con un’esperienza capace di giungere al loro cuore. Per questo è stato un segno, e la sua predicazione è risuonata nel cuore dei niniviti come un’eco di verità a cui aggrapparsi per salvarsi.
Ninive, la nostra vita oggi. Gesù, il nostro Giona oggi: « Tre giorni e Ninive sarà distrutta ». Il terzo giorno era noto alla tradizione ebraica antica; nella Scrittura è quello nel quale si risolve una situazione critica, disperata, mentre appare spesso come il giorno del dono della vita: « Mai il Santo, benedetto egli sia, lascia i giusti nell’angoscia per più di tre giorni » (Gen. R. 91,7 su Gen. 42,18). Esattamente come ha sperimentato Giona salvato dalle fauci della balena proprio al terzo giorno. Allo stesso modo il Kerygma – l’annuncio – più antico proclama che Gesù « è risuscitato il terzo giorno secondo le scritture » (1 Cor. 15,4). Non a caso il Vangelo di oggi termina con la conversione degli abitanti di Ninive alla predicazione di Giona, dove predicazione traduce proprio l’originale greco Kerygma. Per Rabbì Levi il terzo giorno ha una virtù particolare, è benedetto a causa del dono della Torah sul Sinai (cfr. Es. 19,16). A Ninive, come nella nostra vita, si rinnova il dono della Torah, la Parola incarnata nella misericordia apparsa in Cristo. Egli, come Giona lo fu per quelli di Ninive, è fratello di ciascuno di noi, ha condiviso il destino di morte che l’uomo si è attirato peccando. Tre giorni, il riposo del Signore nel sepolcro dell’umanità, della nostra vita, il tempo favorevole per lasciarci raggiungere dal Suo amore e farci trascinare con Lui nel passaggio dalla morte alla vita. Solo Lui può annunciarci il Kerygma autentico, quello che attende e desidera il nostro cuore ormai da tre giorni, la Parola di Verità che il nostro cuore può comprendere e accogliere. E’ Lui l’unico segno offerto ad una generazione malvagia, l’unico che può salvarla. Lui attraverso la sua Chiesa, madre e maestra dell’umanità. Indossiamo allora il sacco e ricopriamoci di cenere, i segni della debolezza e della caducità bisognosa che tutti ci accomuna, della realtà che ci definisce quali peccatori, sine glossa e senza giustificazioni; disponiamoci al digiuno e alla preghiera, i segni della Grazia che prende vita nelle nostre esistenze, che si fa fiduciosa risposta all’amore di Dio. Inginocchiamoci in questa quaresima, in attesa della mano del Signore tesa a salvarci, della sua Parola di vita. Un Segno per convertirci.

LA STORIA DI GESÙ DI NAZARET, IL SALVATORE

http://camcris.altervista.org/butstoria.html

LA STORIA DI GESÙ DI NAZARET, IL SALVATORE

di G. Butindaro

Ai giorni dell’imperatore Cesare Augusto, una giovane vergine di Nazareth (una cittadina della Galilea) che era stata promessa sposa a Giuseppe, figlio di Giacobbe, che era della casa di Davide, ricevette la visita di un santo angelo di Dio il quale le preannunziò che ella avrebbe concepito e partorito un figlio che sarebbe stato grande e sarebbe stato chiamato Figlio dell’Altissimo; il suo nome sarebbe stato Gesù. A lui Dio avrebbe dato il regno di Davide suo padre ed Egli avrebbe dominato su Israele in eterno. Maria, questo il nome della giovane vergine, sentendo dirgli quelle parole chiese come sarebbe potuto avvenire tutto ciò dato che lei non conosceva uomo; e l’angelo le rispose che lo Spirito Santo sarebbe venuto sopra di lei, e la potenza di Dio l’avrebbe coperta della sua ombra, per cui il santo che sarebbe nato sarebbe stato chiamato Figliuolo di Dio. Al che Maria rispose all’angelo che le fosse fatto secondo la sua parola.
E così avvenne, Maria rimase incinta per virtù dello Spirito Santo, senza che Giuseppe l’avesse conosciuta. Ma quando Giuseppe, tempo dopo, si accorse che la sua promessa sposa era incinta si propose di lasciarla di nascosto; ma mentre aveva queste cose nell’animo un angelo di Dio gli apparve in sogno e gli disse di non preoccuparsi di prendere Maria in sposa perché quello che in lei era generato era dallo Spirito Santo; e che lui avrebbe dovuto mettere al figlio che doveva nascere il nome di Gesù che significa ‘YHWH salva’ (YHWH è il nome ebraico di Dio che si pronuncia Yahweh). Tranquillizzato da quelle parole, Giuseppe appena si svegliò prese in sposa Maria, sapendo per certo che il messaggero di Dio che gli era apparso non gli aveva mentito.

Proprio in quei giorni avvenne che uscì da parte di Cesare Augusto un decreto che si facesse un censimento di tutto l’impero. Allora Giuseppe prese la sua sposa che era incinta e si recò a Betleem a farsi registrare perché, come abbiamo detto innanzi, egli era della casa di Davide. Ed avvenne che mentre si trovavano a Betleem di Giuda, Maria partorì il fanciullo a cui in capo a otto giorni, quando fu circonciso, fu posto il nome di Gesù.
Il giorno stesso in cui Gesù nacque, apparve a dei pastori della contrada di Betleem un angelo del Signore il quale gli annunziò la buona notizia che in quel giorno nella città di Davide era nato il Salvatore, che era Cristo (dal greco Christòs che significa ‘Unto’), il Signore. Essi dunque, udito ciò, si recarono a Betleem e vi trovarono il fanciullino e divulgarono quello che era loro stato detto di quel bambino. Al sentire quelle cose coloro che erano là presenti si meravigliarono.
Quando si compirono i giorni durante i quali – secondo la legge – la donna che aveva partorito un figlio maschio doveva rimanere a purificarsi del suo sangue, i suoi genitori lo portarono in Gerusalemme per presentarlo al Signore, ed anche per offrire l’olocausto e il sacrificio per il peccato che prescriveva la legge di Mosè.
In seguito, quando Gesù aveva ancora poche settimane giunsero a Betleem, presso la casa dove egli era tenuto, dei magi provenienti dall’Oriente i quali lo adorarono, e aperti i loro tesori gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra. Come avevano fatto quegli uomini a giungere a Betleem? In questa maniera: mentre erano in Oriente era apparsa loro la sua stella che li aveva condotti in Israele. Giunti a Gerusalemme avevano chiesto dove fosse il re dei Giudei che era nato perché essi erano venuti per adorarlo. Ed il re della Giudea, Erode, chiamati gli scribi e i capi sacerdoti, s’informò da loro dove il Cristo doveva nascere, ed essi gli dissero che il Cristo doveva nascere in Betleem di Giudea. Il re dunque aveva mandato i magi a Betleem (dopo essersi informato del tempo in cui la stella era apparsa loro), dicendogli di tornare poi da lui quando avrebbero trovato il fanciullino perché pure lui voleva andare ad adorarlo. Ma i magi dopo avere trovato il fanciullino Gesù, non tornarono da Erode perché furono divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode; quindi per altra via tornarono al loro paese.
Questo naturalmente fece infuriare Erode che si vide beffato dai magi; e allora egli mandò a sterminare tutti i maschi ch’erano in Betleem e in tutto il suo territorio dall’età di due anni in giù (secondo il tempo del quale egli s’era informato dai magi). Ma il fanciullino Gesù non fu messo a morte perché Dio mediante un angelo aveva avvertito per tempo Giuseppe dicendogli di prendere il fanciullino e sua madre e di andare in Egitto e rimanervi fino a nuovo ordine. Quando poi Erode fu morto, allora Dio, sempre mediante un suo angelo, avvertì Giuseppe e gli disse di tornare in Israele.
Giunto in Israele, Giuseppe si ritirò in Galilea e precisamente nella città di Nazareth. Qui in Nazareth Gesù fu allevato dai suoi genitori e cresceva in sapienza e in statura, si fortificava e la grazia di Dio era sopra lui.

Quando Gesù raggiunse i trenta anni circa lasciò la Galilea e si recò al fiume Giordano a farsi battezzare da Giovanni il Battista, che era apparso da qualche tempo nel deserto della Giudea predicando un battesimo di ravvedimento per la remissione dei peccati. Chi era costui? Egli non era né Elia, e neppure il Cristo, come lui stesso ebbe a rispondere a quei Farisei che lo avevano interrogato un giorno al di là del Giordano dove lui stava battezzando; ma egli era colui del quale aveva parlato Dio tramite il profeta Malachia quando disse: « Ecco, io vi mando il mio messaggero; egli preparerà la via davanti a me » (Mal. 3:1). Un uomo perciò che Dio aveva mandato innanzi al suo Unto per preparargli la via. Ma in che maniera il messaggero di Dio avrebbe preparato la strada davanti all’Unto di Dio? Testimoniando di lui affinché tutti credessero per mezzo di lui; e questo difatti è quello che fece Giovanni.
Quando in quel giorno il Battista lo battezzò e Gesù fu uscito dall’acqua avvenne che i cieli si apersero ed egli vide scendere su di lui lo Spirito Santo in forma corporea a guisa di colomba ed udì una voce che disse: « Questo è il mio diletto Figliuolo nel quale mi son compiaciuto » (Matt. 3:17). Da allora il Battista cominciò ad attestare alle turbe: « Ho veduto lo Spirito scendere dal cielo a guisa di colomba, e fermarsi su di lui. E io non lo conoscevo; ma Colui che mi ha mandato a battezzare con acqua, mi ha detto: Colui sul quale vedrai lo Spirito scendere e fermarsi, è quel che battezza con lo Spirito Santo. E io ho veduto e ho attestato che questi è il Figliuol di Dio » (Giov. 1:32-34). In occasione dunque del suo battesimo in acqua Gesù di Nazareth fu unto da Dio di Spirito Santo.
Dopo che Gesù fu unto, lo Spirito Santo lo condusse nel deserto affinché fosse tentato da Satana. Dopo che ebbe digiunato per quaranta giorni e quaranta notti per tre volte il tentatore cercò di farlo cadere in peccato; ma Gesù si oppose a lui in maniera efficace citandogli la legge del Signore che egli aveva riposto nel suo cuore secondo che è scritto: « La legge del suo Dio è nel suo cuore; i suoi passi non vacilleranno » (Sal. 37:31). Il diavolo allora lo lasciò fino ad altra occasione, e gli angeli di Dio vennero a servirlo.

Dopo di ciò, Gesù tornò in Galilea dove cominciò a predicare e ad insegnare, glorificato da tutti. Venne anche a Nazareth dove era stato allevato, ma qui i suoi concittadini si levarono pieni di ira contro di lui perché dopo che egli ebbe letto in sinagoga quel passo di Isaia dove è detto: « Lo Spirito del Signore, dell’Eterno è su me, perché l’Eterno m’ha unto per recare una buona novella agli umili; m’ha inviato per fasciare quelli che hanno il cuore rotto, per proclamare la libertà a quelli che sono in cattività, l’apertura del carcere ai prigionieri, per proclamare l’anno di grazia dell’Eterno » (Is. 61:1), egli affermò che in quel giorno quella Scrittura s’era adempiuta, e che nessun profeta è ben accetto nella sua patria. Essi allora lo cacciarono fuori dalla città e cercarono di precipitarlo giù dal ciglio del monte su cui era fabbricata Nazareth, ma egli passando in mezzo a loro se ne andò a Capernaum, città sul mare ai confini di Zabulon e Neftali, dove fissò la sua residenza, infatti questa città è chiamata la sua città (cfr. Matt. 9:1).
Gesù andava attorno di città in città e di villaggio in villaggio predicando ed annunziando la buona novella del regno di Dio. Egli diceva alla turbe: « Ravvedetevi e credete all’Evangelo » (Mar. 1:15); quindi esortava tutti a pentirsi dei loro peccati ed a credere nella buona notizia di cui lui era l’ambasciatore per volontà di Dio. Il profeta Isaia infatti aveva detto del Cristo che egli avrebbe recato una buona novella ai poveri. Ma in che cosa consisteva questa buona notizia in cui Gesù ordinava agli uomini di credere? Nel fatto che Dio nella pienezza dei tempi aveva mandato nel mondo il suo Figliuolo affinché chiunque credesse in lui non perisse ma avesse vita eterna. In altre parole nella meravigliosa notizia che Dio nel suo grande amore aveva mandato nel mondo il suo Figliuolo affinché per mezzo di lui il mondo fosse salvato, e che per essere salvati era necessario, indispensabile, credere in lui.

Oltre ad annunziare ai Giudei il ravvedimento e la fede in lui, Gesù insegnò molte cose in parabole alle turbe e così si adempirono le parole del profeta: « Io aprirò la mia bocca per proferir parabole, esporrò i misteri dei tempi antichi » (Sal. 78:2).
Ma Gesù operò anche tante guarigioni in mezzo ai Giudei. Egli risuscitò pure i morti e cacciò molti demoni dai corpi di coloro che li possedevano, e questo perché Dio era con lui.
Ma nonostante Gesù andasse in giro per il paese dei Giudei facendo del bene, e guarendo tutti coloro che erano sotto il dominio del diavolo perché Dio era con lui, ci furono molti che non credettero in lui, e dissero di lui che era un mangione e un ubriacone, uno che seduceva le persone, un pazzo, uno che aveva il principe dei demoni e mediante di esso cacciava i demoni, un peccatore perché violava il sabato, un bestemmiatore perché chiamava Dio suo Padre e si faceva uguale a lui. Calunnie, solo calunnie; perché Gesù fu un uomo temperato in ogni cosa; un uomo che non cercò mai il suo interesse come invece fanno i seduttori di menti che insegnano cose che non dovrebbero per amore di disonesto guadagno; un uomo ripieno di sapienza, ma non di quella dei principi di questo mondo ma di quella di Dio misteriosa ed occulta; un uomo ripieno di Spirito Santo che cacciava i demoni per l’aiuto dello Spirito; un uomo che non violò mai il Sabato perché in giorno di Sabato è lecito di fare del bene, è lecito di salvare una persona e lui in quel giorno faceva proprio questo guarendo coloro che avevano bisogno di guarigione; un uomo verace che non si fece uguale a Dio per presunzione ma perché egli era uguale a Dio per natura essendo il suo Unigenito Figliuolo venuto da presso a Lui. Ma quantunque fosse uguale a Dio, Egli non reputò una cosa da ritenere con avidità questa uguaglianza con Dio ma umiliò se stesso prendendo la forma di servo, divenendo simile ai figliuoli degli uomini. Ecco perché molti non riconobbero in lui il Figlio di Dio perché si presentò sotto forma di un umile servo che apparentemente non aveva nulla di diverso dagli altri uomini.
Queste calunnie naturalmente fecero soffrire Gesù perché egli si vide rigettato proprio da quelli di casa sua; egli soffrì come i profeti che erano stati prima di lui i quali erano stati mandati da Dio al popolo per il suo bene ed invece furono rigettati e calunniati in ogni maniera quasi che essi cercassero il suo male. Si adempirono così le parole del profeta Isaia con cui egli aveva definito il Cristo: « Uomo di dolore, familiare col patire » (Is. 53:3), e così fu infatti Gesù Cristo.
Tra coloro che rigettarono Gesù ci furono i capi sacerdoti e i Farisei i quali, avendo disconosciuto lui e le dichiarazioni dei profeti che si leggevano ogni sabato, deliberarono di pigliarlo e di farlo morire.

Alcuni giorni prima della Pasqua, Gesù salì a Gerusalemme entrandovi montato sopra un asinello. Avvenne proprio in quei giorni che precedevano la Pasqua che Satana entrò in uno dei discepoli di Gesù, chiamato Giuda Iscariota, il quale andò dai capi sacerdoti per darglielo nelle mani. Ed essi rallegratisi di ciò, promisero di dargli in cambio del denaro, trenta sicli d’argento. Da quel momento perciò Giuda Iscariota cercava il momento opportuno di tradirlo.
Avvenne così che durante la festa della Pasqua, dopo che Gesù ebbe mangiato la Pasqua coi suoi discepoli che Giuda uscì da dove essi erano radunati. Poco dopo venne nell’orto del Getsemani, dove Gesù intanto era andato coi suoi discepoli per pregare, con una grande turba che aveva spade e bastoni. Dopo avere ricevuto il convenuto segnale da parte di Giuda, costoro misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono; esattamente come avrebbero fatto con un malfattore. Tutti i suoi discepoli allora lo lasciarono e se ne fuggirono.
Lo portarono prima davanti al Sinedrio che lo condannò come reo di morte perché si era dichiarato il Figlio di Dio, e quindi per bestemmia. Quando i membri del Sinedrio dissero: « È reo di morte » (Matt. 26:66), gli sputarono in viso e gli diedero dei pugni; e altri lo schiaffeggiarono, dicendo: « O Cristo profeta, indovinaci: Chi t’ha percosso? » (Matt. 26:68). Poi, legatolo, lo menarono dal governatore Ponzio Pilato per chiedergli di crocifiggerlo. Questi in un primo tempo aveva deliberato di liberarlo perché non trovava in lui nulla che fosse degno di morte (lo aveva anche mandato da Erode che in quei giorni si trovava in Gerusalemme il quale lo aveva schernito coi suoi soldati, ed anche lui non aveva trovato in Gesù alcuna delle colpe di cui l’accusavano i capi sacerdoti e gli scribi), ma siccome la moltitudine chiedeva con grande grida di crocifiggerlo acconsentì a quello che essa chiedeva e perciò comandò che fosse fatto prima flagellare e poi crocifiggere. I soldati del governatore lo menarono allora dentro il pretorio e lo vestirono di porpora, gli misero sul capo una corona di spine, una canna nella mano destra, e prostratisi davanti a lui lo beffavano dicendo: Salve, re dei Giudei! e gli percuotevano il capo con la canna e gli sputavano addosso.
Dopo averlo spogliato della porpora e rivestito dei suoi vestimenti lo menarono fuori al luogo detto Golgota, dove lo inchiodarono sulla croce affinché si adempissero le parole: « M’hanno forato le mani e i piedi » (Sal. 22:16), in mezzo a due malfattori e questo affinché si adempissero le parole di Isaia: « E’ stato annoverato fra i trasgressori » (Is. 53:12).
Mentre era appeso sulla croce i soldati presero le sue vesti e ne fecero quattro parti affinché ognuno di loro ne avesse una parte, mentre la tunica la tirarono a sorte per sapere a chi toccherebbe; questo avvenne affinché si adempisse la Scrittura: « Spartiscon fra loro i miei vestimenti e tirano a sorte la mia veste » (Sal. 22:18).
Un’altra cosa che avvenne mentre Gesù era appeso sulla croce agonizzante fu che lui venne schernito da coloro che passavano di là e dai capi sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani i quali gli dicevano: « Ha salvato altri e non può salvar se stesso! Da che è il re d’Israele, scenda ora giù di croce, e noi crederemo in lui. S’è confidato in Dio; lo liberi ora, s’Ei lo gradisce, poiché ha detto: Son Figliuol di Dio » (Matt. 27:42-44); e questo avvenne affinché si adempissero le parole di Davide: « Chiunque mi vede si fa beffe di me; allunga il labbro, scuote il capo, dicendo: Ei si rimette nell’Eterno; lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce » (Sal. 22:7-8), ed ancora: « Apron la loro gola contro a me, come un leone rapace e ruggente » (Sal. 22:13).
Prima che Gesù spirasse gridò: « Elì, Elì, lamà sabactanì? cioè: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? » (Matt. 27:46), e in quel momento uno degli astanti corse a prendere una spugna e inzuppatala d’aceto e postala in cima ad una canna gli diè da bere. Questo avvenne affinché si adempisse quello che era stato detto da Davide: « Nella mia sete, m’han dato a ber dell’aceto » (Sal. 69:21).
Dopo che Gesù spirò, i soldati vennero a fiaccare le gambe a coloro che erano sulla croce, fiaccarono le gambe ai due che erano stati crocifissi con lui, ma a Gesù non gliele fiaccarono, perché lo videro già morto, affinché si adempisse la Scrittura che dice: « Niun d’osso d’esso sarà fiaccato » (Giov. 19:36; Sal. 34:20). Quella sera si adempì anche la Scrittura: « Ed essi riguarderanno a me, a colui ch’essi hanno trafitto » (Zacc. 12:10).

Ma perché morì Gesù Cristo? « Egli è stato trafitto a motivo delle nostre trasgressioni, fiaccato a motivo delle nostre iniquità » (Is. 53:5), dice Isaia. Quindi la sua morte sulla croce, voluta e decretata dai Giudei ed eseguita materialmente dai Gentili, non fu altro che l’adempimento delle parole del profeta Isaia. E perciò diciamo che fu Dio che fece sì che i Giudei e i Gentili si mettessero assieme contro il suo Unto per ucciderlo e questo affinché con la sua morte egli ci liberasse dal peccato.
Vediamo ora di spiegare questo concetto molto importante. Il peccato è entrato nel mondo tramite un uomo solo di nome Adamo e questo peccato è passato su tutti gli uomini, per cui tutti hanno peccato. Ma che cosa rende forte il peccato nell’uomo? La legge, perché, come dice Paolo, essa è « la forza del peccato » (1 Cor. 15:56). Sempre Paolo spiega questo quando dice che: « Il peccato, còlta l’occasione, per mezzo del comandamento, mi trasse in inganno; e, per mezzo d’esso, m’uccise » (Rom. 7:11), in altre parole il peccato fa leva sulla legge per portare la morte nell’uomo. La legge è sì buona e santa, ma il peccato si usa di essa proprio per cagionare la morte nell’uomo. Per fare un paragone, è come se un omicida si usasse di un pezzo di legno fatto da Dio per uccidere un altro uomo. Chi ammazza non è il legno fatto da Dio e buono in se stesso, ma l’omicida che si usa di esso per adempiere il suo criminoso disegno. Così il peccato omicida si usa della legge, data da Dio ad Israele e perciò buona, per uccidere spiritualmente le persone. Quindi occorreva annullare il peccato, cioè spogliarlo del suo potere che aveva sull’uomo. E GESÙ HA FATTO PROPRIO QUESTO CON IL SUO SACRIFICIO, HA ANNULLATO IL PECCATO; LO HA POTUTO FARE QUESTO PERCHÉ EGLI SI È CARICATO DELLE NOSTRE INIQUITÀ MORENDO SULLA CROCE PER NOI TUTTI. Ecco perché chi crede in lui viene affrancato dal peccato, perché Gesù sulla croce ha crocifisso il suo (di chi crede) vecchio uomo. Quindi il credente in Cristo è morto con Cristo al peccato; e di conseguenza la legge ha cessato di dominarlo perché la legge signoreggia l’uomo solo mentre egli vive e non anche dopo che è morto. Ed il credente mediante il corpo di Cristo è morto alla legge, a quella cioè che lo teneva soggetto a schiavitù, per appartenere ad un altro, cioè a colui che è risorto dai morti.

Dopo che Gesù spirò sulla croce, venne un certo Giuseppe d’Arimatea che era un uomo ricco e che era diventato anch’egli discepolo di Gesù, il quale chiesto il corpo a Pilato, prese il corpo di Gesù, lo avvolse in un panno lino netto e lo depose nella sua tomba che aveva fatta scavare lì nei pressi, e nella quale ancor nessuno era stato posto. Fu così che si adempì quell’altra Scrittura che dice: « Gli avevano assegnata la sepoltura fra gli empi, ma nella sua morte, egli è stato col ricco » (Is. 53:9).
Ma il terzo giorno Dio lo risuscitò dai morti perché era impossibile che Cristo fosse ritenuto dalla morte; ed anche la sua risurrezione era stata preannunziata da Dio nella sua parola infatti Davide aveva detto: « Tu non lascerai l’anima mia nell’Ades, e non permetterai che il tuo Santo vegga la corruzione » (Atti 2:27). E’ chiaro che qui Davide non parlò di lui perché il suo corpo rimase nel sepolcro e vide la corruzione, ma parlò della risurrezione del Cristo, di uno dei suoi discendenti, perché lui sapeva che Dio gli aveva promesso con giuramento che lo avrebbe fatto sedere sul suo trono in eterno secondo che è scritto: « L’Eterno ha fatto a Davide questo giuramento di verità, e non lo revocherà: Io metterò sul tuo trono un frutto delle tue viscere » (Sal. 132:11).

Dopo che Gesù risuscitò si fece vedere da quelli che egli aveva scelti, mangiò e bevve con loro, e discusse con loro delle cose relative al regno di Dio e diede loro dei comandamenti; dopodiché fu assunto in cielo alla destra della Maestà e questo affinché si adempissero le parole di Davide: « L’Eterno ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra finché io abbia fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi » (Sal. 110:1). E dal cielo, a suo tempo, egli tornerà con gloria e potenza.

Ravvediti e credi in Lui

Una delle cose che Gesù prima di essere assunto in cielo ordinò di fare fu quella di predicare nel suo nome agli uomini il ravvedimento e la remissione dei peccati (cfr. Luca 24:46-47). Questo è quello che fecero gli apostoli dopo che lui fu assunto in cielo, e questo è quello che facciamo noi oggi a distanza di quasi duemila anni in obbedienza all’ordine di Cristo Gesù.
Ti esortiamo quindi nel nome di Cristo a pentirti dei tuoi peccati e a credere in Gesù Cristo, perché SOLO MEDIANTE LA FEDE IN LUI PUOI OTTENERE LA REMISSIONE DEI TUOI PECCATI secondo che è scritto: « Di lui attestano tutti i profeti che chiunque crede in lui riceve la remissione dei peccati mediante il suo nome » (Atti 10:43). Gesù Cristo infatti ha l’autorità di rimettere agli uomini i loro peccati, come l’aveva quando era sulla terra (cfr. Mar. 2:5-11), perché egli è il Figlio di Dio, e questo egli fa PERSONALMENTE verso coloro che credono in lui. Non c’è dunque bisogno di nessun altro mediatore tra Dio e gli uomini, oltre a Gesù Cristo, al fine di ottenere la remissione dei propri peccati. Te lo ripetiamo: nessuno (cfr. 1 Tim. 2:5-6).
Credi nel nome del Figliuolo di Dio e otterrai la remissione dei tuoi peccati. E non solo, otterrai anche la vita eterna secondo che è scritto: « Chi crede ha vita eterna » (Giov. 6:48), per cui SARAI SICURO che quando morirai andrai in paradiso – un luogo celeste meraviglioso dove non c’è nè dolore nè pianto e dove regna la pace (cfr. 2 Cor. 12:2-4; Giob. 25:2) – e comincerai perciò ad avere il desiderio di partire dal corpo e abitare con il Signore in Paradiso (cfr. Fil. 1:23; 2 Cor. 5:8). Non indugiare, non posticipare questa decisione a domani o a qualche altro giorno (cfr. 2 Cor. 6:2), potrebbe essere troppo tardi per farlo perché all’improvviso potresti morire senza avere neppure il tempo di pentirti e credere in Gesù e te ne andresti direttamente all’inferno – un luogo orribile che esiste nel cuore della terra dove arde il fuoco e le anime dei peccatori soffrono dei tormenti atroci e terribili (cfr. Luca 16:24) – senza avere più per tutta l’eternità un’altra opportunità di pentirti e credere in Gesù. Questa è infatti la fine che aspetta tutti coloro che non si ravvedono e non credono in Gesù Cristo (Sal. 9:17).
Due vie stanno dinnanzi a te: quella del peccato che mena all’inferno e sulla quale ti trovi, e quella santa che mena in paradiso sulla quale ci troviamo noi per la grazia di Dio e che ti abbiamo indicato: abbandona la via del peccato e incamminati per la via santa, e non te ne pentirai giammai perché è scritto che del ravvedimento che mena alla salvezza non c’è mai da pentirsi (cfr. 2 Cor. 7:10).

 

Publié dans:biblica, Gesù storia |on 21 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

RELAZIONE E DANNO (SU: “PORGI L’ALTRA GUANCIA”)

http://www.mosaicodipace.it/mosaico/a/16347.html

RELAZIONE E DANNO (SU: “PORGI L’ALTRA GUANCIA”)

(ho messo tra lineette gli inserimenti che sono nello studio, vanno letti separatamente)

Al centro della giustizia biblica c’è la relazione. Non il danno. La colpa. Non il colpevole. Come la giustizia relazionale diventa retributiva nella nostra cultura. Intervista a padre Guido Bertagna, gesuita.
A cura di Anna Scalori

Esiste un’interpretazione molto bella del “porgi l’altra guancia” evangelico: chi ti percuote sulla guancia destra lo fa con un manrovescio, in quanto colui che viene percosso non è degno di essere toccato col palmo della mano. Offrendo l’altra guancia non viene opposta resistenza, ma viene rivendicata la propria dignità obbligando colui che percuote a retrocedere dal guardare l’altro come intoccabile. Non si risponde al male con il male, neppure per difendersi, ma accettando il male si introduce un potente elemento di cambiamento obbligando l’altro al riconoscimento del proprio valore in quanto persona. Ma questo non è ancora amare il proprio nemico… Come può esservi una relazione tra l’invito ad amare il proprio nemico e l’esigenza di giustizia di ciascuno?
Di fronte a questa originale interpretazione del “porgi l’altra guancia” del Vangelo secondo Matteo, espressione entrata anche nel parlare comune, possiamo anche ricordare una situazione che si trova a vivere Gesù durante la Passione e che entra in dialogo ideale con le parole del testo di Matteo. Si tratta dell’interrogatorio di Gesù davanti al Sommo Sacerdote nel racconto di Giovanni.
Nel momento in cui viene schiaffeggiato e percosso, Gesù non porge l’altra guancia ma interroga la persona che ha davanti e chiede: “Se ho fatto male dimostrami dov’è il male, ma se ho detto bene, perché mi percuoti?” È questo un mezzo per non risponde re al male con il male, in una maniera che sembra
smentire una certa icona un po’ semplicistica, e qualche volta persino fastidiosa, di un cristianesimo “buonista”, arrendevole, o che dovrebbe essere sempre disponibile alla riconciliazione, un po’ caricaturalmente sempre disposto a subire.
Mi sembra che tutti questi discorsi siano spesso trattati semplicisticamente mentre l’insegnamento che viene dal passaggio del Vangelo di Giovanni è che Gesù fa una scelta di vera nonviolenza perché aiuta l’altro a prendere coscienza: da dove viene quel gesto violento? Quali sono le sue conseguenze? Quali le motivazioni? Gesù risponde con la parola a uno che non si sa rapportare a lui con la parola, cioè in modo umano. Gesù gli fa prendere coscienza della insensatezza di quel gesto violento.
Decisiva in Gesù è la ricerca di vie di umanizzazione attraverso la scelta di non restituire a quella persona che gli sta davanti come nemico, lo stesso volto che lui ha presentato a Gesù, cioè un volto violento. Lo ha trattato invece da essere umano. Non lo ha incasellato nello schema stretto e sempre troppo facile del “tu sei la tua colpa”. Non lo ha chiuso in quell’immagine che lui stesso gli ha mostrato, è questo l’aspetto importante, altrimenti anche l’amore per il nemico si smarrisce in una arrendevolezza superficiale e rassegnata, finanche disumana.
L’amore per il nemico dentro questo contesto è serio, prende corpo e diventa veramente una scelta umanizzante per me e per l’altro che mi colpisce. L’aspetto decisivo è che non identificando l’altro con il nemico non lo identifico neanche col gesto che ha fatto. Tu non sei la tua violenza. Tu non sei la tua colpa. La tua vita non si schiaccia e non si brucia in quella colpa.
Il Cristo ha incarnato l’agnello sacrificale, il capro espiatorio che assume su di sé tutto il male e la violenza per liberarne il mondo, perché la morte sia vinta e gli uomini abbiano la pace. Per rendere possibile l’avvento del suo Regno, che è un regno di Giustizia. Ma cos’è questa giustizia? E potranno mai gli uomini darsi degli strumenti per raggiungerla, o almeno per avvicinarsi ad essa?
Rispetto all’interpretazione di Cristo come “agnello sacrificale” si potrebbe dire con Renè Girard che Cristo è sì l’agnello sacrificale, così come inteso nel brano del Servo del Signore di Isaia, ma è l’agnello che accettando volontariamente il sacrificio, prendendolo su di sé, smaschera questo sistema in cui c’è bisogno della persona o delle categorie di persone su cui scaricare tutta la malvagità e la colpa, deresponsabilizzando il resto della comunità. Bisogna stare attenti nel momento in cui si chiamano in gioco queste immagini, queste decisive categorie teologiche, a non appiattirle troppo su una convenzione che ancora una volta, ad esempio, tende a identificare l’esperienza cristiana con quella di un amore troppo facile, di un amore troppo stereotipato, mentre nel modo in cui Gesù entra nella Passione, nel modo in cui la vive, sono racchiusi anche una pesante denuncia e lo smascheramento del cosiddetto “sistema vittimario”.
Non basta il capro espiatorio, non basta la delega su di lui, ma serve la presa di coscienza della comunità. È questo quanto c’è di straordinario nel passo di Isaia, dove all’inizio e al termine si leggono due annunci ascoltati dalla bocca stessa di Dio. Invece, nella parte centrale del canto chi è che parla? Il discorso assume la prima persona plurale e diventa un “noi” che racconta di questo servo percosso, castigato, umiliato, con cui non bisogna aver niente a che fare perché è una persona disgustosa e maledetta.
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Ma quali sono le domande fondamentali? La vita, la morte, le verità, la follia, il bello, il brutto… qual è questa realtà il cui senso sfugge all’uomo?… Che cosa incontriamo nella mediazione? Le domande fondamentali: l’amore, l’odio, l’onore, il tradimento… spesso si nascondono dietro a delle banalità, perché sembra non esserci più spazio per queste domande… L’oggetto della mediazione non è la corda dello stendibiancheria, ma la morte, l’odio, l’amore.
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Ma nel dire questo, che sarebbe esattamente il livello a cui si ferma la logica del capro espiatorio, il “noi”, accede a un livello superiore da cui, guardando al servo, rivede se stesso. Il suo “castigo che ci dà salvezza” apre all’assunzione piena di responsabilità nella riflessione che il “noi” va facendo sul servo. La giustizia non è compiuta senza questa assunzione di responsabilità.
Le persone devono rispondere, sono chiamate a vivere responsabilmente, ad assumersi la responsabilità non tanto di qualcosa ma verso qualcuno. Rispondere di qualcosa corrisponde alla visione diciamo così “penale” del diritto, che segue ancora la logica prevalentemente retributiva.
È una logica che ha un suo fondamento (la sanzione può e deve aiutare a prendere coscienza del male che si è compiuto), ma il problema è che l’amministrazione della giustizia sembra non avere altre energie, proprio quelle che servirebbero a compiere il percorso che stabilisce la nostra Costituzione, quello del recupero e del reinserimento del reo.
Giustizia riparativa e mediazione penale sottolineano la responsabilità verso qualcuno – l’altro, la vittima, colui che ha subito un’ingiustizia – prima ancora che verso qualcosa – una norma, una regola, un codice che è stato infranto. E il pensiero corre a Caino:“Sono forse io il custode di mio fratello?” E alla pratica del Ryb. Affondano davvero qui le radici di questa visione della giustizia? Possono giustizia riparativa e mediazione penale essere lette come risposta cristiana all’esigenza di giustizia?
Premetto per correttezza che non sono un esperto di mediazione. Però ho lavorato a fianco di mediatori, educatori, ecc., condividendo con loro diverse riflessioni. La mediazione penale sembra una via molto più vicina alla sensibilità del testo biblico e al suo modo di intendere la giustizia. La giustizia biblica, la giustizia che Dio vuole nei rapporti col suo popolo sulla centralità della relazione. Ciò appare in modo esemplare nella dinamica del Ryb, la controversia bilaterale.
Quello che struttura la possibilità del Ryb è la relazione che lega i due contendenti. Nel momento in cui una persona riceve un’ingiustizia o un torto va dall’indiziato, lo accusa e lo attacca direttamente dicendogli: “Che cosa mi hai fatto? Perché mi hai fatto questo?”. L’altro può accettare questa accusa e dire cos’ha fatto, magari che se ne dispiace, oppure può a sua volta contrattaccare iniziando una contesa che può sciogliersi con il riconoscimento di un torto e di una ragione, quindi con la possibile giustizia rispetto al danno arrecato, oppure sfocia nell’esito drammatico del conflitto dove la parola passa alle armi.
Questo è uno dei modi tipici di affrontare le controversie: Dio procede così nei confronti del suo popolo e anche il popolo nei confronti di Dio: “Perché ci hai portati in questo deserto a morire? Non c’erano abbastanza tombe in Egitto perché noi potessimo morire tutti là?” si legge in uno dei passaggi drammatici del libro dell’Esodo.
Il Ryb, alla cui base c’è una relazione forte come può essere un patto di alleanza, viene spesso identificato con l’iniziativa di un soggetto che ne accusa un altro. È una parola che chiede una risposta. Il danno arrecato al soggetto che accusa rappresenta un vulnus decisivo nella relazione che lega i due soggetti. Colui che intenta il Ryb, principalmente, è interessato a che questa relazione non vada perduta. Come dice Pietro Bovati, che a questa dinamica biblica ha dedicato studi appassionati, ciò che interessa a colui che intenta il Ryb non è vincere, ma convincere. Che ci sia un ristabilimento della relazione. Qualcosa di simile, nello spirito del modo di procedere, si trova nella regola della correzione fraterna. Gesù dice: “se uno in comunità sbaglia prendilo da parte tu da solo, rimproveralo, fagli capire. Se ti ascolterà, avrai guadagnato tuo fratello.”
È interessante la conclusione di questo primo passaggio. Se la persona prende coscienza del suo errore e si corregge ciò che è davvero importante non è che la persona riconosca che tu hai ragione e lui torto. Piuttosto, decisivo è che, in questo modo, tu avrai guadagnato tuo fratello. Quella relazione che ci lega non va perduta. È questa la cosa importante.
D’altra parte nella Scrittura, non mancano esempi di conflitto che appaiono ben difficili da sanare: basti pensare al caso di Abramo e Lot, Giacobbe e Labano ma anche Pietro e Paolo, in parte, per continuare l’annuncio del
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Cosa è il Ryb?
Nell’antico diritto ebraico esistevano due procedure per riparare i torti. La prima, il nispat o giudizio, era una procedura a tre, analoga al processo che conosciamo: l’offeso conduce l’offensore, per ottenerne la condanna, davanti ad un terzo imparziale, il giudice. Questo tipo di giustizia valeva se i due litiganti erano nemici o, almeno, estranei. Qualora invece i contendenti fossero stati amici o legati da un rapporto vitale (padre/figlio; marito/moglie; fratello/fratello; Dio/Abramo; Dio/il popolo eletto…) si apriva soltanto la possibilità di una disputa a due, il Ryb, il litigio…
Il Ryb è uno scontro in cui lo scopo non è la punizione del colpevole, ma il ricomponimento della controversia attraverso il riconoscimento del torto compiuto, il perdono e quindi la riconciliazione e la pace.
È l’umanità dell’avversario che si cerca di toccare e su questa si vuole influire, perché si è interessati prima di tutto ad essa. L’obiettivo non è dunque la giustizia retributiva, cioè il ripianamento del torto con una sanzione equivalente. È invece il ristabilimento di una comunanza, incrinata o infranta dal torto commesso e subito…
Il dolore dell’offensore non vale come punizione o sanzione. Vale come percorso necessario in vista del ravvedimento.
E quindi anche la più dura delle misure impiegate per questo fine rappresenta un agire non soltanto secondo giustizia, ma anche secondo amore per l’altro.
C. M. Martini, G. Zagrebelsky, La domanda di giustizia, Einaudi, Torino 2003
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Vangelo, si devono dividere. Paolo, poi, si divide un po’ da tutti: da Barnaba, da Sila, da Marco. Queste relazioni restano come “sospese”: non c’è una facile ricomposizione, come un happy ending in cui poter far tornare i conti.
Ci sono situazioni che almeno in questo cammino terreno non si sciolgono, in cui la situazione non trova soluzione e l’unica risposta è poter vivere in modo tale che non si perpetui la violenza reiterandola oppure reiterando l’odio verso l’altro. Le strade si dividono: accetto che tu possa vivere, come tu accetti la mia vita, ma stando lontani.
Assumiamo l’impegno di non ferirci. È interessante che anche nel Ryb un possibile esito, esaurito ogni tentativo di far prendere coscienza e di ricomporre il conflitto, sia il silenzio della vittima. È questa una parola estrema. Alcuni leggono da questa prospettiva il silenzio di Gesù durante la Passione. A un certo punto Gesù tace. Non risponde più ad alcuna domanda.
Il silenzio di Gesù è un silenzio che si fa carico della mancata risposta dell’altro e che, da una parte non lo chiude nella sua colpa, dall’altro si pone ancora come estremo tentativo, parola estrema, e, nello stesso tempo, non vede possibile nell’altro la presa di coscienza del male che ha compiuto.
A questo riguardo, nel suo Vangelo Luca ci ricorda le parole di Gesù che chiede perdono per quelli che lo crocifiggono. È interessante il fatto che Gesù non si rivolga direttamente ai suoi persecutori dicendo: “io vi perdono”, ma piuttosto: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Perché? Perché Gesù assume tutto il peso del peccato di questi “che non sanno”. Cioè non sono pienamente consapevoli del la violenza che stanno compiendo. Se non c’è questa presa di coscienza, da parte di chi commette il male, non c’è normalmente neanche il terreno pronto per accogliere parole di perdono.
Nel momento in cui Gesù si rivolge al Padre chiede a Lui di perdonare “loro”. Gesù prega per loro. In filigrana sembra trasparire tutta la sofferenza di Gesù per non poter andare oltre questa ignoranza, questa inconsapevolezza del loro agire.
A proposito ancora del Ryb e delle analogie con il metodo e lo spirito della mediazione, si può ricordare lo studio di Eugen Wiesnet, gesuita tedesco morto nel 1983, dal titolo: Pena e retribuzione. La riconciliazione tradita. Sul rapporto tra cristianesimo e pena. Wiesnet sostiene che dal testo biblico al diritto occidentale c’è un interessante scivolamento di significato della parola giustizia che, in ebraico è tzedaka. Mano a mano che viene assunta nella cultura occidentale, la tzedaka– che diventa la dikaiosyne greca e la iustitia latina – non conosce solo una traduzione del termine. C’è anche uno scivolamento semantico.
Cioè la giustizia biblica diventando in qualche modo la iustitia latina viene ad avere una sempre più esplicita connotazione retributiva. Quindi quella giustizia che nel testo biblico ha il suo senso più alto proprio nei testi del Ryb, diventa invece il fondamento di un rapporto retributivo, proporzionale. In questo modo cambia però nettamente il rapporto accusato/accusatore, colpevole/vittima. Al centro non c’è più la relazione, ma il danno. In questo modo, il colpevole diventa la sua colpa.
È stato scritto che il perdono può rivelarsi l’unica risposta laddove esista l’imperdonabile. Il perdono tuttavia rientra necessariamente in una dimensione relazionale. È perverso perdonare senza il pentimento e/o la richiesta di perdono dell’altro: presuppone che tutto possa proseguire come prima (che l’offesa arrecata non abbia invece sancito un prima e un dopo) e non promuove la presa di coscienza e il cambiamento dopo quanto avvenuto. Eppure Gesù perdona dalla croce…
È molto forte questa sollecitazione di Jacques Derrida sul perdono come è la sola risposta possibile all’imperdonabile. Recentemente, insieme ai collaboratori della Sesta Opera e della rivista “Dignitas. Percorsi di carcere e di giustizia”, ho potuto avere degli incontri con delle persone che hanno subito delle gravi violenze, persone alle quali sono stati uccisi dei familiari, mariti, figli. Una di loro, Carole Beebe Tarantelli (il cui marito Ezio fu ucciso dalle BR nel 1987) dopo aver visitato nelle carceri alcune persone, membri della stessa organizzazione terroristica che nel frattempo erano stati arrestati, ha detto in una intervista, testualmente: “Il problema sta qui: se noi, che formiamo questa società, possiamo riconciliarci con loro. A me sembra che quello che la società civile deve cercare di ritrovare è che ognuno, seppure un assassino, è sempre un essere umano [...].
Non ci deve essere nessuno che sia soltanto nemico. Anzi. Sono convinta che è proprio in questo nostro impegno verso l’altro, verso questo scarto di umanità che è lui, la persona che uccide, che ci manteniamo civili. Non dobbiamo ovviamente ignorare il fatto che quella persona ha assassinato o che assassinerebbe ancora, ma non lo dobbiamo identificare totalmente nel suo ruolo di assassino come ha fatto lui identificando le sue vittime con il loro ruolo che andava cancellato”.
Proseguendo, a proposito del perdono, dice: “In merito al perdono, invece, io non credo che sia giusto perdonare indistintamente. Ad esempio non posso perdonare per gli altri familiari. Posso solo perdonargli la sofferenza che ha causato a me. Dalla mia sofferenza parlare alla sua. E lui a me. Da essere umano a essere umano [...] Questo perdono è il gesto da parte della vittima che dice di recepire il dolore dell’assassino e di non voler produrre in lui più dolore di quello che ha già”.
Si vede da queste parole come il perdono sia davvero un itinerario, in cui non si può sapere se ci sarà mai una reale condizione per una riconciliazione. Anche la mediazione penale non finisce sempre con un esito positivo, con un incontro reale tra il reo e la vittima. Dalla mia sofferenza parlare alla sua. Riconoscere nel reo, nella persona che mi ha fatto del male, che c’è una sofferenza che in qualche modo mi riguarda. Credo che questo sia un atteggiamento di una grandezza tale che, se ci sono condizioni per il perdono, questo sentimento lo può rendere possibile.
Lasciando ancora parlare Carole Tarantelli, cerchiamo di avere ben presente da quale punto di partenza ci si muove: “Mi sembra che quando la malvagità umana, organizzandosi per dare morte, irrompe nella vita di una persona, sia un’esperienza talmente totale che se immaginiamo la nostra vita come un albero lo sradica e lo travolge. Tu non sei più quello che eri, sei un altro. La tua vita non è più quella che era, è un’altra [...] Da questo atto irrevocabile comincia un processo la cui negatività non è più controllabile e non si possono più fermare le conseguenze che derivano da quell’atto.
Sembra quasi impossibile trasformare tutta questa negatività in modo che non produca più dolore”. Partendo da questo, perché queste sono le esperienze, il fatto che una persona possa dire: “dalla mia sofferenza posso capire la sua”, quindi possa riconoscere il dolore, la profondità, l’interiorità dell’altro, rende poi impossibile identificare totalmente l’altro con il nemico. Da qui – e solo da qui – può muovere i primi passi l’itinerario di un’autentica liberazione e di un pieno perdono.

Publié dans:biblica, meditazioni |on 15 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

SIRACIDE 24,1-4.8-12

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Siracide%2024,1-4.8-12

(commento ad Efesini: http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=30726 )

SIRACIDE 24,1-4.8-12

1La sapienza loda se stessa, si esalta in mezzo al suo popolo. 2Nell’assemblea dell’Altissimo apre la bocca, si glorifica davanti alla sua potenza: 3 «Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo e ho ricoperto come nube la terra. 4Ho posto la mia dimora lassù, il mio trono era su una colonna di nubi.
8 Il creatore dell’universo mi diede un ordine, il mio creatore mi fece piantare la tenda e mi disse: Fissa la tenda in Giacobbe e prendi in eredità Israele. 9 Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi creò; per tutta l’eternità non verrò meno. 10 Ho officiato nella tenda santa davanti a lui, e così mi sono stabilita in Sion.
11 Nella città amata mi ha fatto abitare; in Gerusalemme è il mio potere. 12 Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore, sua eredità».

COMMENTO

Siracide 24,1-4.8-12

Sapienza e legge

Il poema contenuto in Sir 24,1-22 rappresenta il centro e il culmine di tutto l’insegnamento contenuto nel libro che prende nome da Ben Sira (Siracide). Dopo aver espresso il frutto delle sue ricerche e riflessioni, l’autore presenta qui la sapienza che scende in campo e pronuncia essa stessa il proprio elogio. Il genere letterario adottato in questa composizione è quello dell’encomio o elogio sapienziale. Questa composizione si distingue dagli analoghi poemi (Gb 28; Pr 1,20-33; 8,1-36; 9,1-6) in quanto al termine la sapienza viene espressamente identificata con la legge; in questa intuizione il Siracide trova un parallelo solo in Bar 3,9 – 4,4. Dopo l’introduzione (vv. 1-2) il brano si divide in quattro parti: origine e ruolo cosmico della sapienza (vv. 3-6); sua venuta sulla terra (vv. 7-12); la sua bellezza e la sua azione benefica (vv. 13-17); le sue prerogative come cibo e bevanda di coloro che la desiderano (vv. 18-21); il brano termina con una conclusione dell’autore che identifica la sapienza è la legge (v. 22). La liturgia riprende solo alcuni versetti, omettendo la parte finale in cui la sapienza viene identificata con la legge mosaica.
L’autore introduce la sapienza (vv. 1-2) presentandola come un’entità personale che loda se stessa e si vanta in mezzo al suo popolo, e al tempo stesso prende la parola nell’«assemblea» (ekklêsia, comunità) dell’Altissimo e si glorifica davanti alla sua potenza (dynamis). Il popolo a cui la sapienza appartiene e al quale si presenta è la comunità di Israele, come apparirà più chiaramente dal seguito del poema; ma all’interno di questo popolo essa sta alla presenza di Dio, che abita nel suo tempio, in Gerusalemme.
Dopo questa presentazione la sapienza stessa prende la parola e pronunzia il suo poema. Anzitutto descrive (in un excursus omesso dalla liturgia) la propria origine e il ruolo cosmico che le è stato assegnato (vv. 3-7). Essa è uscita dalla bocca dell’Altissimo come la parola, mediante la quale Dio ha creato l’universo (Gn 1), e forse come lo spirito di Dio che aleggia sul caos primordiale (Gn 1,2): sapienza, parola e Spirito nel linguaggio biblico si identificano. Essa ha ricoperto «come nube» la terra: la nube è una nota immagine biblica di Dio. La sapienza ha preso dimora (kata-skênoô, porre la tenda; cfr. Es 40,34; Gv 1,14) nei cieli più alti, abitazione di Dio; ciò non le ha impedito di percorre i cieli e gli abissi, prendendo possesso sia del cosmo che dell’umanità che lo abita: essa ha svolto dunque un ruolo determinante come mediatrice di Dio nella creazione e continua a svolgerlo nel governo di tutte le cose.
La sapienza narra poi, nella seconda parte utilizzata dalla liturgia, la sua venuta sulla terra (vv. 8-12). Sebbene fosse già presente in tutto l’universo e in ogni nazione, la sapienza ha cercato un luogo di riposo (anapausin), un possedimento speciale (klêronomia, eredità) in cui stabilirsi; allora il creatore dell’universo, che è anche suo creatore, le ha comandato di fissare la tenda (di nuovo kata-skênoô, porre la tenda) in Giacobbe e di prendere in eredità (klêronomeô al passivo) Israele (v. 8). Dopo aver nuovamente sottolineato di essere stata creata da Dio prima dei secoli, fin da principio, la sapienza specifica il luogo della sua dimora: essa si è stabilita «nella tenda santa» (en skenêi agiâi), che si trova in Sion, dove svolge un servizio cultuale (leitourgeô); essa ha posto così il suo potere (exousia, autorità) in Gerusalemme, la città amata da Dio, in mezzo a un popolo glorioso, porzione ed eredità (klêronomia) del Signore. Si noti l’insistenza sui termini «ereditare» «eredità» che richiamano il linguaggio usato dal Deuteronomio per indicare Israele come popolo di Dio (cfr. Dt 4,20).
Il seguito del brano è omesso dalla liturgia. In esso la sapienza descrive la sua bellezza e la sua azione benefica con una lunga serie di paragoni (vv. 13-17): essa cresce e si sviluppa in Israele a somiglianza di sei specie di alberi o arbusti tra i più belli della regione palestinese; la sua opera è gradevole come quella delle sostanze usate per la preparazione del balsamo e dell’incenso, ed è paragonabile all’incenso che riempie il santuario; la sua presenza è gratificante come quella di un terebinto che distende nel deserto i suoi ampi rami o di una vite che produce graziosi germogli.
Stando nella santa dimora la sapienza si offre come cibo e bevanda a coloro che la desiderano (vv. 18-21). Non si limita quindi a imbandire la mensa (come in Pr 9,1-6; cfr. Sir 15,3), ma diventa essa stessa un cibo così gratificante da attrarre continuamente a sé coloro che l’hanno provato anche una sola volta; fuori metafora, il mangiare la sapienza significare obbedire alle sue direttive, stabilendo così quell’intimo rapporto con Dio che i profeti avevano preannunziato con l’immagine del banchetto escatologico (cfr. Is 25,6-10; 55,1-3).
Dopo aver riportato l’elogio della sapienza l’autore riprende la parola per spiegare che la sapienza, la quale ha appena concluso il suo discorso, non è altro che il «libro dell’alleanza», cioè la legge data da Mosè, eredità (klêronomia) delle assemblee (synagogai) di Giacobbe (v. 22). È dunque chiaro che si tratta del Pentateuco, che il Siracide presenta come espressione suprema della sapienza che ha creato e governa tutto il cosmo. Giunge così a termine il processo, già iniziato con Pr 1-9, che porta a identificare la sapienza con la legge mosaica in quanto dono salvifico per eccellenza. Perciò l’autore prosegue spiegando che la legge è piena di sapienza in modo talmente abbondante da ricordare i fiumi dell’Eden, o addirittura il grande oceano (vv. 23-27). Infine conclude presentando se stesso come un canale che attinge il suo insegnamento dal grande fiume della legge/sapienza e lo porta in territori lontani e lo trasmette, come «profezia», alle generazioni future (vv. 28-32). L’autore appare qui consapevole del carattere ispirato della sua opera. Il sapiente ha ormai preso il posto del profeta e il suo insegnamento, pur attingendo da una realtà particolare come la legge mosaica, assume una dimensione universale.

Linee interpretative
In questo testo viene alla luce un procedimento tipico della riflessione sapienziale. Quella sapienza che era il punto di arrivo di una lunga ricerca basata sull’esperienza e condensata nelle massime dei saggi, ora assume un carattere divino e trascendente. Essa risiede in Dio, l’unico sapiente, dal quale deriva l’armonia di tutte le cose, fino al punto di diventare essa stessa (come l’angelo di jhwh, lo Spirito, la gloria) una figura di Dio, un intermediario mediante il quale il Dio trascendente si rende presente in questo mondo. Proprio perché rappresenta l’ordine presente nel cosmo, la sapienza diventa così la metafora privilegiata per rappresentare l’opera creatrice di Dio, lo strumento per eccellenza mediante il quale il Dio trascendente si immerge nella realtà contingente di questo mondo. Ma in questa funzione la sapienza diventa spontaneamente anche lo strumento mediante il quale Dio chiama l’uomo, sua creatura prediletta, a entrare liberamente in comunione con sé e inserirsi armonicamente nell’ordine di questo universo, raggiungendo così la sua salvezza.
In questo ruolo di mediatrice della salvezza la sapienza entra nel campo già occupato dalla «parola di Dio» che trova la sua massima condensazione nella legge mosaica. È quindi inevitabile l’incontro tra queste due realtà mediante le quali Dio chiama l’uomo alla comunione con sé. Sapienza e legge diventano allora un’unica cosa. L’identificazione con la legge mosaica riempie la sapienza di un significato nuovo in quanto ne fa la portatrice della profonda esperienza religiosa propria del popolo di Israele. Ma anche la legge si arricchisce in quanto diventa espressione di una realtà preesistente, scelta da Dio non solo per attuare la sua opera creatrice, ma anche per entrare in comunione con l’umanità di tutti i tempi e di tutti i luoghi. La legge mosaica, intesa come sapienza di vita (decalogo) diventa così la luce non solo di Israele ma anche di tutta l’umanità, portando con sé tutti i beni salvifici.

IL LAVORO : PERCORSO BIBLICO

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IL LAVORO : PERCORSO BIBLICO

Brevemente:

- Il lavoro fa parte dell’esistenza autenticamente umana, è dato al momento della Creazione, prima del peccato (libro della Genesi).
- Il lavoro non è un idolo, è orientato verso il riposo sabbatico (libro dell’Esodo).
– Gesù ha lavorato :
Ha lavorato a Nazaret come falegname.
La sua vita pubblica è anche un lavoro: insegna, guarisce i malati, trasforma gli uomini, compie l’opera di Redenzione fino alla croce dove trasforma tutto nell’amore.
– Gesù onora il nostro lavoro e ci insegna a viverlo senza angoscia.
Ciascuno, deve « lavorare », in un modo o nell’altro.
a) Il dovere di coltivare e di conservare la terra
L’Antico Testamento presenta Dio come il Creatore Onnipotente, (cfr. Gn 2, 2; Gb 38, 41; Sal 104; Sal 147) che plasma l’uomo a Sua immagine, invitandolo a lavorare la terra, (cfr. Gn 2, 5 -6), e a custodire il giardino dell’Eden dove Egli l’ha posto (cfr. Gn 2,15).
Alla prima coppia umana, Dio affida il compito di sottomettere la terra e di dominare su ogni essere vivente, (cfr. Gn 1, 28). Il dominio dell’uomo sugli altri esseri viventi non deve essere tuttavia dispotico e senza senso; al contrario, egli deve « coltivare e custodire » i beni creati da Dio (cfr. Gn 2,15): beni che l’uomo non ha creato, ma ha ricevuto come un dono prezioso posto dal Creatore sotto la sua responsabilità. Coltivare la terra non significa abbandonarla a sé stessa; esercitare un dominio su di lei vuol dire prenderne cura, come un re saggio prende cura del suo popolo ed un pastore del suo gregge.
Nel disegno del Creatore, le realtà create, buone in sé stesse, esistono in funzione dell’uomo. Lo stupore di fronte al mistero della grandezza dell’uomo, fa esclamare il salmista:

« Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell’uomo, perché te ne curi?
Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,
di gloria e di onore l’hai coronato.
Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto suoi piedi. » (Sal 8,5-7).

Il lavoro appartiene alla condizione originale dell’uomo e precede la sua caduta; non è dunque né una punizione né una maledizione.
Diventa fatica e pena a causa del peccato di Adamo ed Eva, che rompono il loro rapporto di fiducia e d’armonia con Dio (cfr. Gn 3,6-8).
Il divieto di mangiare « dell’albero della conoscenza del bene e del male » (Gn 2,17) ricorda all’uomo che egli ha ricevuto ogni cosa in dono e che egli continua ad essere una creatura e non il Creatore.
Il peccato d’Adamo ed Eva fu precisamente provocato da questa tentazione: « Sarete come dèi » (Gn 3,5). Essi vollero la sovranità assoluta su tutte le cose, senza sottoporsi alla volontà del Creatore. Da allora, il suolo è diventato avaro, ingrato, subdolamente ostile (cfr. Gn 4,12); solo con il sudore della sua fronte sarà possibile trarne il cibo (cfr. Gn 3,17.19). Tuttavia, nonostante il peccato dei progenitori, rimangono invariati l’intenzione del creatore e il senso delle sue creature, fra le quali dell’uomo che è destinato a coltivare e custodire la creazione.
Il lavoro deve essere onorato poiché è fonte di ricchezza o, almeno, di condizioni degne di vita e, in generale, è uno strumento efficace contro la povertà (Cfr Pr 10,4), ma non bisogna cedere alla tentazione di idolatrarlo, poiché non si può trovare in esso il senso ultimo e definitivo della vita. Il lavoro è essenziale, ma è Dio, e non il lavoro, la fonte della vita e il fine dell’uomo. Il principio fondamentale della Sapienza è infatti il timore del Signore; l’ esigenza della giustizia, da cui deriva, precede l’esigenza del guadagno:
« È meglio avere poco con il timore del Signore che un tesoro ricco con la preoccupazione » (Pr 15,16)
« È meglio avere poco con la giustizia che redditi abbondanti senza il buono diritto » (Pr 16,8)
Il vertice dell’insegnamento biblico sul lavoro è il comando del riposo sabbatico. Il riposo apre all’uomo, legato alla necessità del lavoro, la prospettiva di una libertà più piena, quella del Sabato eterno (Cfr. Eb 4,9-10). Il riposo permette agli uomini di ricordare e di rivivere le opere di Dio, dalla Creazione alla Redenzione, di riconoscersi come la sua opera (cfr. Ef 2,10) e rendere grazie per la loro vita e la loro esistenza, a lui che ne è l’Autore.
La memoria e l’ esperienza del sabato costituiscono un rifugio contro l’asservimento al lavoro, volontario o imposto, e contro qualsiasi forma di sfruttamento, larvato o palese. Infatti il riposo sabatico è stato istituito non soltanto per permettere la partecipazione al culto divino ma anche difendere il povero; ha anche una funzione liberatrice delle degenerazioni anti-sociali del lavoro umano.
Questo riposo, che può anche durare un anno, comporta infatti un’espropriazione dei frutti della terra a favore dei poveri e, per i proprietari della terra, la sospensione dei diritti di proprietà:
« Per sei anni seminerai la terra e ne ammasserai il prodotto. Ma il settimo anno, la lascerai arata e ne abbandonerai il prodotto; i poveri del vostro popolo ne mangeranno e gli animali dei campi mangeranno quello che avranno lasciato. Farete la stessa cosa con la vostra vigna e per il vostro uliveto » (Es 23,10-11).
Quest’abitudine risponde ad un’intuizione profonda: l’accumulo dei beni da parte di alcuni può condurre ad una sottrazione dei beni ad altri.
Consiglio Pontificio Giustizia e Pace,
Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 2 aprile 2004, § 255-258
b) Gesù, uomo del lavoro.
Nella sua predicazione, Gesù insegna ad apprezzare il lavoro.
Egli stesso « diventato in tutto simile a noi, ha dedicato la maggior parte della sua vita sulla terra al lavoro manuale, al suo banco di falegname, nel laboratorio di Giuseppe (Cfr Mt 13,55; Mc 6,3), al quale era sottoposto (cfr. Lc 2,51).
Gesù condanna il comportamento del servo pigro, che nasconde sotto terra il talento (Cfr Mt 25,14-30) e loda il servo fedele e prudente che il padrone trova ad eseguire i compiti che gli ha affidato (Cfr Mt 24,46).
Il Cristo descrive la sua missione come un’opera: « Mio padre è all’opera fino ad ora ed opero anche io „ (Gv 5,17) ed i suoi discepoli lavorano come operai nella raccolta della messe del Signore, che rappresenta l’umanità da evangelizzare (Cfr Mt 9,37-38). Per questi operai vale il principio generale secondo il quale « l’operaio merita il suo salario„ (Lc 10,7); essi sono autorizzati a rimanere nelle case in cui sono accolti, a mangiare e bere ciò che è offerto loro (Cfr Ibid.).
Nella sua predicazione, Gesù insegna agli uomini a non lasciarsi asservire dal lavoro.
Essi devono preoccuparsi innanzitutto della loro anima; guadagnare il mondo intero non è lo scopo della loro vita (Cfr Mc 8,36). Infatti, i tesori della terra si consumano, mentre i tesori del cielo sono imperituri: è a questi che occorre legare il proprio cuore (Cf Mt 6,19-21). Il lavoro non deve essere motivo di angoscia (Cfr Mt 6,25.31.34): preoccupato ed agitato da molte cose, l’uomo rischia di trascurare il Regno di Dio e la sua giustizia (Cfr Mt 6,33), di cui ha veramente bisogno; tutto il resto, compreso il lavoro, trova il suo posto, il suo senso ed il suo valore soltanto se è orientato verso l’unica cosa necessaria, che non sarà mai tolta (Cfr. Lc 10,40-42).
Durante il suo ministero terreno, Gesù lavora instancabilmente, compiendo opere potenti per liberare l’ uomo dalla malattia, dalla sofferenza e dalla morte.
Il sabato, che il Vecchio Testamento aveva proposto come giorno di liberazione e che, osservato unicamente nella forma, era svuotato del suo significato autentico, è ribadito da Gesù nel suo valore originale: « Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!„ (Mc 2,27). Con le guarigioni compiute proprio in questo giorno di riposo (Cfr Mt 12,9-14; Mc 3,1-6; Lc 6,6-11; 13,10-17; 14,1-6), Egli vuole dimostrare che il sabato appartiene a lui, poiché egli è realmente il Figlio di Dio, e che il sabato è il giorno in cui ci si deve dedicare a Dio e agli altri.
Liberare dal male, praticare la fratellanza e la condivisione, vuol dire conferire al lavoro il suo significato più nobile, quello che permette all’umanità di incamminarsi verso il Sabato eterno, nel quale il riposo diventa la festa alla quale l’uomo aspira interiormente. E’ proprio nella misura in cui il lavoro orienta l’umanità a fare l’esperienza del sabato di Dio e della sua vita conviviale, esso diventa la festa alla quale l’uomo aspira interiormente, il lavoro inaugura sulla terra la nuova creazione.
Il lavoro inaugura sulla terra la nuova creazione.
L’attività umana di arricchimento e di trasformazione dell’universo può e deve fare apparire le perfezioni che in esso sono nascoste e che, nel Verbo increato, trovano il loro principio ed il loro modello.
Infatti, gli scritti di Paolo e di Giovanni mettono in luce la dimensione trinitaria della creazione e, in particolare, il legame che esiste tra il Figlio-Verbo, il « Logos„, e la creazione (Cfr Gv1,3; 1 Co 8,6; Col 1,15-17).
Creato in lui e da lui, riacquistato da lui, l’universo non è un ammasso casuale, ma un « cosmos„, di cui l’ uomo deve scoprire l’ordine, custodirlo e portarlo al suo completamento. In Gesù, il mondo visibile, creato da Dio per l’uomo ma sottoposto alla caducità quando il peccato è entrato in esso (Rm 8,20; Cfr. ibid., 8,19-22), trova nuovamente il suo legame originario con la fonte divina della Sapienza e dell’Amore. In tal modo, cioè mettendo in luce, in una progressione crescente, « le ricchezze insondabili del Cristo » (Ef 3,8), nella creazione, il lavoro umano si trasforma in un servizio reso alla grandezza di Dio.
Il lavoro rappresenta una dimensione fondamentale dell’esistenza umana come partecipazione all’opera non soltanto della creazione, ma anche della redenzione.
L’uomo che sopporta la stanchezza e la pena del lavoro in unione con Gesù, coopera in un certo senso con il Figlio di Dio alla sua opera redentrice e testimonia che è discepolo del Cristo portando la croce ogni giorno, nell’attività che è chiamato a compiere. In questa prospettiva, il lavoro può essere considerato come un mezzo di santificazione ed un’animazione delle realtà terrene nello Spirito del Cristo.
Così concepito, il lavoro è un’espressione dell’umanità piena dell’uomo, nella sua condizione storica e nel suo orientamento escatologico: la sua azione libera e responsabile ne rivela la relazione intima con il Creatore ed il potenziale creativo, mentre ogni giorno combatte contro la deformazione del peccato, in particolare guadagnando il suo pane con il sudore della fronte.
Consiglio Pontificio Giustizia e Pace,
Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 2 aprile 2004, § 259-263.
c) Il dovere di lavorare
La coscienza del carattere transitorio « della scena di questo mondo„ (Cfr 1 Co 7,31) non dispensa da nessun impegno storico, ed ancor meno dal lavoro (Cfr 2 Tes 3,7-15), il quale fa parte integrante della condizione umana, pur non essendo l’unica ragione di vivere.
Nessun cristiano, per il fatto che appartiene ad una Comunità solidale e fraterna, deve sentirsi in diritto di non lavorare e vivere a spese degli altri (Cfr 2 Tes 3,6-12); tutti sono invece esortati dall’Apostolo Paolo a farsi « un punto d’onore„ nel lavorare con le loro mani per « non dipendere da nessuno » (1 Tes 4,11-12) ed a praticare una solidarietà, anche sul piano materiale, dividendo i frutti del lavoro con « i bisognosi » (Ef 4,28).
San Giacomo difende i diritti violati dei lavoratori: « Ecco: il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto i vostri campi, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore degli eserciti » (Gc 5,4).
I credenti devono vivere il lavoro secondo lo stile del Cristo e farne un’occasione di testimonianza cristiana « nei confronti degli estranei » (1 Tes 4,12).
Consiglio Pontificio Giustizia e Pace,
Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 2 aprile 2004, § 264

Publié dans:biblica, lavoro |on 4 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

GESÙ MAESTRO DI SAPIENZA

http://www.donatocalabrese.it/jesus/sapienza.htm

GESÙ MAESTRO DI SAPIENZA

Nei libri del Nuovo Testamento sono presenti dei testi che parlano della sapienza di Dio o che, a proposito di Gesù, ricorrono ad espressioni che l’Antico Testamento utilizza per parlare della Sapienza…
Non si può negare che molti discorsi di Gesù sono simili a quelli dei saggi. Gli abitanti di Nazaret se ne sono resi conto considerando Gesù superiore agli scribi (G. Ravasi, Sapienza, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, ed. Paoline, pag. 1432). Infatti nel Vangelo secondo Matteo leggiamo:
« Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi »(Mt 7,28-29).
Lo stesso insegnamento di Gesù espresso in parabole è a carattere sapienziale, tanto è vero che anche i rabbi d’Israele, chiamati saggi, utilizzano la parabola per spiegare ai discepoli il senso di un testo della Scrittura (cfr. G. Ravasi, Sapienza, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, ed. Paoline, pag. 1432).
Quindi la predicazione del Maestro si caratterizza per molti discorsi a carattere sapienziale. E’ il caso del celebre discorso della montagna o delle beatitudini (Mt 5,7), oppure quello tenuto nella sinagoga di Cafarnao e relativo al Pane di vita (Gv 6).
Accanto a questi discorsi ad ampio respiro ci sono anche delle massime a carattere sapienziale, come questa: « Tutti quelli che mettono mano alla spada, di spada periranno » (Mt 26,52), « Chi vuol salvare la propria vita, la perderà (M6 16,25), oppure « Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio » (Mt 22,21), e tantissime altre.
Quindi nella predicazione del Nazareno capita spesso di esprimersi come i saggi di Israele. Ma alcuni testi del Nuovo Testamento, a cominciare dai Vangeli Sinottici, vanno oltre, attribuendo a Gesù ciò che l’Antico Testamento attribuisce alla Sapienza personificata, come leggiamo in questo brano del Vangelo secondo Matteo:
« Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero » (Mt 11,28-30).
Gesù parla come il saggio del libro del Siracide: « Avvicinatevi a me o ignoranti, fermatevi nella mia casa per istruirvi…., sottomettete il collo al suo giogo [della Sapienza]« (51,23-26); ma nello stesso testo, al capitolo 6, la medesima immagine del giogo è più esplicitamente applicata all’insegnamento della Sapienza stessa: « Introduci i piedi nei suoi ceppi ed il collo nei suoi lacci. Abbassa le tue spalle per caricartela, non infastidirti per i suoi legami…Alla fine otterrai il tuo riposo, si muterà per te in godimento »(Sir 6,24-25).
Nel Vangelo secondo Matteo Gesù dice: « La regina del sud si leverà a giudicare questa generazione e la condannerà, perché essa venne dall’estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c’è più di Salomone! »(Mt 12,42; anche Luca 11,31).
Salomone esprimeva una Sapienza ricevuta da Dio; possiamo dunque pensare che in Gesù si esprime una Sapienza più grande, la Sapienza stessa di Dio (G. Ravasi, Sapienza, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, ed. Paoline, pag. 1440s.).
In un altro passo del Vangelo redatto da Matteo, Gesù dice: « Perciò ecco, io vi mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città » (Mt 23,34). Il brano parallelo di Luca è presentato, invece, in maniera diversa: « Per questo la sapienza di Dio ha detto: Manderò a loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno »(Lc 11,49).
Quindi, Luca evidenzia come la Sapienza di Dio sembra essere Gesù stesso che, in conclusione, fa proprie le parole della stessa Sapienza di Dio: « Si, ve lo ripeto… »(Lc 11,51).
In Matteo leggiamo: « Alla Sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere » (Mt 11,19). Si comprende chiaramente che queste opere che rendono giustizia alla Sapienza sono le « opere di Cristo ».
Questi testi che dipendono probabilmente dalla stessa fonte comune a Matteo e Luca, la fonte Quelle, che significa Detti, i Detti di Gesù, sono molto discussi. Non affermano in modo esplicito che Gesù è la Sapienza, lo suggeriscono solamente (per tutto questo: G. Ravasi, Sapienza, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, ed. Paoline, pag. 1440s.).
Tutto quanto è stato detto in riguardo a Gesù Maestro di sapienza è riportato nei Vangeli. Ma a questo punto a noi interessa il Gesù storico, che è al centro della nostra ricerca. Siamo sicuri, cioè che il Gesù Maestro di sapienza, anzi il Gesù che s’identifica con la stessa Sapienza di Dio, come descritto in filigrana nei Vangeli, sia un attributo del Gesù terreno, quello veramente esistito duemila anni fa? La risposta non può essere che affermativa, ed ora vediamo perché.
Alle origini della predicazione cristiana, troviamo l’attività missionaria dei predicatori itineranti della Galilea (Cfr. Pius-Ramon Tragan, La preistoria dei Vangeli, Ed. Servitium, pag. 108). Un movimento nato con la stessa predicazione di Gesù. Pietro e i primi discepoli hanno seguito il Maestro in Galilea e l’hanno accompagnato a Gerusalemme (Mc 14,32-42.66-72) ; poi, dopo la cattura del Maestro, sono tornati in Galilea, dove Gesù è apparso loro (Mc 14,28; 16,7), continuando a tenere rapporti con gli altri gruppi di discepoli rimasti a Gerusalemme (Gal 1,19; Atti 12,17) (Pius-Ramon Tragan, La preistoria dei Vangeli, Ed. Servitium, pag. 136).
Questo movimento giudeo-cristiano di predicatori itineranti non è durato molto, ma da esso è scaturito un messaggio assimilato da altre correnti del Cristianesimo primitivo. Dall’humus di questo movimento derivano: la fonte Quelle, che come abbiamo detto, raccoglie i Detti di Gesù, ed il Vangelo di Tommaso, che è apocrifo.
La fonte Q si caratterizza per un contenuto a carattere sapienziale ed è nata, come fonte scritta antecedente ai Vangeli, dall’ambiente degli ascoltatori diretti di Gesù. Ricevendo la sua predicazione l’hanno compresa e sviluppata secondo gli schemi della sapienza popolare (Cfr. Pius-Ramon Tragan, La preistoria dei Vangeli, Ed. Servitium, pag. 137).
Tutti gli insegnamenti sapienziali di Gesù, i suoi Detti, le parabole, raccolti nella fonte Q, Quelle, sono stati quindi elaborati, dapprima oralmente, poi in diverse redazioni, dai predicatori itineranti di Galilea e successivamente da altri discepoli Galilei non itineranti.
La fonte Q è presente, a parere unanime degli studiosi, nei Vangeli di Matteo e di Luca, e comprende aspetti importantissimi dell’insegnamento del Maestro come le Beatitudini e la preghiera del Padre nostro. Quindi, questa caratterizzazione sapienziale di Gesù, così come ci viene presentata dai Vangeli, è tipica di questa fonte Q che, a parere della stragrande maggioranza di studiosi, è antecedente alla stessa redazione dei Vangeli, quindi molto vicina al Gesù storico.
Andare all’origine della fonte Q per ricostruirne la preistoria, quella che ci presenta il Gesù terreno e non filtrato attraverso i vari stadi redazionali, conduce ad un’altra interessante scoperta avallata da Kloppenborg (The Formation of Q: Trajectories in Ancient Wisdom Collections, (Studies in Antiquity and Christianity), Philadelphia 1987, 1-40, in Pius-Ramon Tragan, La preistoria dei Vangeli, Ed. Servitium, pag. 162) che porta ad una conclusione: l’idea di Gesù Maestro di sapienza è ampiamente fedele al Gesù storico.
J.S. Kloppenborg individua uno strato più originario che raccoglieva unicamente materiale etico-sapienziale, ripartito in sei unità (I: Lc 6,20b-49; II: 9,57-62; 10,2-11.16; III: 11,2-4.9-13; IV: 12,2-7.11-12; V: 12, 22b-31.33-34; VI: 13,24; 14,26-27; 17,33; 14,34-35), raccolto insieme secondo il modello tradizionale delle « istruzioni dei saggi »(Pius-Ramon Tragan, La preistoria dei Vangeli, Ed. Servitium, pag. 162).
Secondo gli studiosi l’ordine originario si ricostruisce meglio da Luca, rispetto a Matteo.
Come abbiamo detto prima, parallelamente ai lógia della fonte Quelle, c’è un’altra collezione di massime che va sotto il nome di Vangelo diTommaso. La scoperta di Nag Hammadi, nell’Alto Egitto, ha portato, nel 1948, all’individuazione di una redazione copta di questo testo. Anche qui, gli studiosi hanno rilevato che una prima versione di tipo sapienziale di questa fonte è stata messa in circolazione probabilmente verso gli anni 50 d.C. E, come per la fonte Quelle, che origina da una tradizione sapienziale, così il Vangelo di Tommaso, che nonostante il nome non è canonico, quindi non è riconosciuto dalla Chiesa primitiva, contiene un insegnamento sapienziale originario. Infatti un carattere proprio del Vangelo di Tommaso è di essere il primo scritto della tradizione non canonica che contiene parabole di Gesù. Ora, poiché l’insegnamento delle parabole è una delle caratteristiche del Gesù terreno, le parabole del Vangelo di Tommaso potrebbero appartenere a una fase molto primitiva della tradizione gesuanica, cioè risalente direttamente a Gesù.
Pur essendo di uno stile minore rispetto alle parabole dei Vangeli sinottici, queste contenute nel Vangelo di Tommaso in alcuni casi potrebbero essere più originali (la perla, la pecorella smarrita, la luce sul lampadario, il seminatore, la zizzania, il banchetto) e più primitive (la giara e la farina, la spada dell’assassino) (Pius-Ramon Tragan, La preistoria dei Vangeli, Ed. Servitium, pag. 174s.).
Tutto questo ci induce a pensare che tra le immagini che i discepoli e gli ascoltatori si sono fatti del Gesù terreno, questa del Maestro di Sapienza è una delle più fedeli all’originale storico.
Come detto in precedenza, il Nuovo Testamento non identifica mai esplicitamente Gesù con la Sapienza, pur attribuendogli molto di quello che i testi dell’Antico Testamento attribuivano alla sapienza. Questo succede perché Gesù supera infinitamente la Sapienza quale potevano conoscerla i saggi dell’Antico Testamento; la Rivelazione del Nuovo Testamento è allo stesso tempo in continuità e in rottura con quella dell’Antico Testamento.
E’ solo in epoca successiva che Gesù sarà esplicitamente detto Sapienza di Dio. Questo titolo cristologico è rimasto lungo tutto il corso della storia cristiana. Tra i testimoni più significativi ricordiamo Origene (III secolo), il beato Enrico Suso (1335), San Luigi Maria Grignion de Montfort. E se da una parte il giudaismo riconosce nella tôrah la Sapienza di Dio, il cristiano, per parte sua, proclama nella fede, che Dio si è rivelato pienamente in Gesù, presenza di Dio tra gli uomini, Emmanuele, ed è per questo che Gesù è detto Sapienza di Dio (per tutto questo: G. Ravasi, Sapienza, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, ed. Paoline, pag. 1441s.).

Publié dans:biblica, GESÙ: MAESTRO |on 18 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

SE CRISTO NON FOSSE PIU’ SCANDALO E FOLLIA PER UOMINI E POPOLI – H. U. v. Balthasar

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SE CRISTO NON FOSSE PIU’ SCANDALO E FOLLIA PER UOMINI E POPOLI – H. U. v. Balthasar

Di fronte ad una folla di almeno quindicimila persone prende la parola von Balthasar, una delle più grandi figure della teologia contemporanea, che di recente ha ricevuto il premio « Paolo VI » dalle mani di Papa Wojtyla. Quello che segue è il testo integrale della sua relazione.

H. U. v. Balthasar:

Miei cari ascoltatori, il tema che mi avete riservato – Se Cristo non fosse più scandalo e follia per uomini e popoli – ha un titolo alquanto teatrale, sebbene esprima perfettamente il vostro intento. Il mio sarà quello di reinserirlo nel suo contesto biblico, così da renderlo pienamente comprensibile Scandalo è una parola del Vangelo e proviene senza dubbio dal Cristo stesso. Significa esattamente: trabocchetto, trappola che si richiude sull’animale, ma anche pietra d’inciampo, ostacolo che può fare inciampare e cadere. Follia è una parola usata da San Paolo per mettere in evidenza che la saggezza di Dio, manifestata soprattutto nella Croce del Signore, oltrepassa e contraddice ogni saggezza puramente umana e a quest’ultima può apparire come insipienza, come follia. Per capire bene bisogna aggiungere immediatamente la frase paolina: « la follia di Dio è più sapiente degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini » (1 Cor 1, 25).Prendiamo in esame, per prima, la parola scandalo che nel Nuovo Testamento appare 54 volte. Ci sono due tipi di scandalo: quello degli uomini che seducono i deboli, i piccoli, coloro che credono nell’esistenza del peccato e ai quali bisognerebbe attaccare una pietra al collo per farli sprofondare nel mare. La libertà umana è minacciata dalla sua stessa debolezza: sventurati coloro che ne abusano. Ma c’è un altro scandalo, quello del Cristo stesso, soprattutto del Cristo crocifisso, scandalo inevitabile per l’intera ragione umana, scandalo voluto e istituito, del resto, da Dio stesso, poiché sta scritto: « Ecco, io pongo in Sion una pietra d’inciampo, una pietra di scandalo; ma chi crede in essa non sarà confuso » (Rom 9,33). Se Dio istituisce lo scandalo in Sion, dà immediatamente anche il modo di evitarlo: chi crede in lui – è il Cristo quello di cui si parla – non sarà confuso. Ma chi è colui che crede non solo per un pezzo di cammino, come la folla, come la maggior parte degli apostoli, ma fino alla fine scandalosa, come quelle poche donne, come Maria e il discepolo prediletto? Unicamente colui che aderisce fino in fondo. San Pietro ripete: « Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare…e chi pone su essa la sua fede non sarà confuso » (1 P 2,6), e aggiunge: « Essi vi inciampano perché non credono alla Parola » (1 P 2,8), perché credono solo finché piace loro e sembra loro ragionevole e non finché la Parola dura, e cioè fino all’ignominia della Croce, in cui tutta la saggezza e la potenza umana sembrano confuse, in cui sembra contraddetta ogni parola del Cristo stesso, in cui sembra spenta ogni speranza in lui, il Messia. Sarà necessario molto tempo, anche dopo la Resurrezione, perché questi discepoli si convincano che la loro fede era insufficiente: « l’annuncio delle donne sembra loro « puro vaneggiamento » (Luc 24,11), Gesù deve rimproverare loro la loro incredulità (Me 16,14). Ed eccoci al secondo termine. La follia. Non si vuol credere se non a ciò che si comprende con la propria umana sapienza, a ciò che rientra nelle proprie categorie anche le più sublimi: ciò che le oltrepassa, la sapienza di Dio, appare irrazionale. Noi siamo quei saggi e quei capaci ai quali, secondo le parole di Gesù, Dio ha nascosto il suo mistero; mentre i piccoli non distinguono ciò che comprendono ancora da ciò che non comprendo no più, ma procedono senza esitazione e ingoiano, per così dire, il boccone tutto in una volta. Secondo le parole del Cristo, essi sono i soli cui rivela tutta la sua sapienza misteriosa. Nelle categorie dei saggi e capaci insieme, Paolo include sia i Giudei sia i Pagani. I Giudei chiedono dei segni per credere, crederanno solo a ciò che avranno visto, l’apostolo Tommaso sarà l’ultimo nel Vangelo a reclamare la visione. I Greci sono in cerca della saggezza, anch’essi limitano il loro assenso a ciò che sembra loro saggio, la loro capacità di comprendere le cose intellettuali sarà la peggior pietra d’inciampo. Hanno una filosofia sottile ma chiusa, con un’allacciatura in alto, senza apertura ad una cosa che li supera. Se costruiscono un altare ad un Dio ignoto, è ancora dedicato ad una di quelle numerose ampio, io divinità incluse nel loro ben noto Olimpo. Aldilà non c’è che un ‘destino’ che non interessa più la sapienza, perché lui stesso non ne ha Tutto ciò è forse molto più vicino alla nostra epoca che non a quella di Gesù, sebbene il problema sia sempre lo stesso. Ma siamo progrediti molto in saggezza puramente umana, sia ampliando immensamente il campo delle nostre conoscenze cosmiche, psicologiche e sociologiche, sia riducendo dei problemi un tempo filosofici, e in un certo senso apertamente discutibili, in risultati acquisiti delle cosiddette ‘scienze umane’, sia semplicemente vietando – e questo è il positivismo – di porre il problema della causa ultima (problema considerato insolubile) per limitarsi alle questioni risolvibili dei rapporti intramondani. Al limite, possiamo allargare il campo di tali conoscenze ad un al di là che E morte do spiritismo e l’occultismo lo fanno a delle forze psicologiche non ancora ben note. I Russi, a partire dal loro materialismo, si ostinano a scoprire nuove armi da guerra, ma qualsiasi divenire autentico della scienza umana è escluso da queste ricerche. Ecco a che punto siamo, tutti insieme, Paesi dell’Est e paesi occidentali. All’Est predomina il materialismo, in Occidente il positivismo. E non crediate che questa evoluzione si arresti davanti alle porte della Chiesa. Oggi più che mai la Chiesa è minacciata da una lacerazione che la scinde fino in fondo in due campi che, girando entrambi intorno allo scandalo e alla follia divina, sono nocivi in ugual misura. Quello che è chiamato ‘progressismo’ è un aperto rifiuto dello scandalo, si deve adattare la dottrina cristiana alla comprensione dell’uomo d’oggi. Certi esegeti delle due sponde dell’oceano vi si applicano eliminando come superate sia alcune parole di Cristo che alludono alla sua prossima resurrezione e morte, sia soprattutto, e qui si uniscono ad essi celebri teologi, il senso della Croce come sacrificio offerto al Padre ‘pro nobis’. Poiché Gesù non ha menzionato il senso salvifico della sua morte né per il popolo d’Israele, né per tutta l’umanità, questa interpretazione della Croce deve essere una pia invenzione della teologia tardiva (come si usa dire) di San Paolo e di San Giovanni. Piuttosto che un sacrificio vicario per il peccato del mondo, bisogna vedervi una testimonianza suprema dell’amore paterno che, essendo sempre infinito e incondizionato, non ha bisogno di essere riconciliato ed è del resto incapace di cambiamento. Non si tratta di un’ira divina che, per mezzo della Croce, dovrebbe cedere ad un amore ormai totale. Ma, noi rispondiamo, che strana follia di Dio, dimostrare la sua affezione per noi consegnando il suo Figlio eterno a quell’atroce supplizio, non per la remissione dei peccati, ma come prova del suo amore! Questo non è certo ciò che pensa il Nuovo Testamento e soprattutto la Lettera agli Ebrei. Lasciamo da parte tutte le teorie che vedono in Gesù solo una specie di profeta (lo si trova in molti libri ebraici contemporanei che reclamano Gesù per Israele), esse non vedono che il compimento dell’Antico Testamento è anche un rovesciamento (finita la Terra Santa! finito il popolo etnico: partite, andate nel mondo intero per annunciare la Buona Novella a tutti popoli! Da allora, come hanno sentito con immensa gioia i Padri de a Chiesa, il mondo intero è terra santa.). Lasciamo da parte anche tutte le chiese laterali e settarie che si riferiscono unicamente ad un Gesù storico, o ad una Bibbia letterale e che non vogliono accettare una presenza perpetua e attiva dello Spirito Santo di Gesù nella sua Chiesa santa, sacramentale e istituzionale, come la vuole Cristo che istituisce Pietro capo della sua Chiesa indefettibile e Maria Madre di tutta la comunità santa: il Cristo di costoro resterà astratto e inaccessibile oppure l’approccio con lui sarà pietistico, soggettivo e sdolcinato. Ma quest’ultima riflessione ci porta ad un nuovo aspetto dello scandalo e della follia divina: la Chiesa del Cristo partecipa intimamente a queste qualità, ma solo se professa una fede totale nella Croce salvifica del Signore. Una Chiesa liberale e progressista non ha bisogno di essere perseguitata, si fa fuori da sola. Ma aggiungiamo una parola sulla tendenza contraria: il tradizionalismo. Esso non nega espressamente lo scandalo del Cristo e quello della sua Chiesa, ma il centro del suo interesse è altrove: nell’affermazione che non si deve toccare il deposito tramandato che per esso si esprime innanzitutto nella ‘lettera’: la ‘lettera’ della messa di Pio V, la ‘lettera’ dei Concili precedenti, il Vaticano II il quale, interpretando alcune verità secondo lo Spirito, avrebbe tradito la ‘lettera’ e sarebbe perciò inaccettabile. Questo è la negazione implicita della presenza di Cristo per mezzo atteggiamento dello Spirito nella Chiesa di tutti i tempi, quindi anche in quella d’oggi. Lo scisma rappresentato dal tradizionalismo estremo e antiromano non è che una nuova forma di un letteralismo sopraggiunto dopo ogni Concilio ecumenico importante, fin da Nicea e Calcedonia. E’ una forma di razionalismo che, invece di credere allo Spirito che regna nella Chiesa, si fida del proprio sapere, del proprio maggior sapere, e tradisce quindi la folle sapienza di Dio per aderire alla propria umana sapienza. Ma c’è un fenomeno affine di cui non vogliamo dimenticarci: ci si può fissare talmente e in modo unilaterale sul concetto di scandalo cristiano e di follia di Dio da farne una teoria inglobante che non lascia più spazio ad una sapienza divina al di là di questi concetti esprimono. Allora la follia divina diventa per me una cosa spiritualmente manipolabile, un metodo filosoficamente applicabile, una dialettica. E’ in questo modo che il Luteranesimo giunge a parlare di un Dio la cui sapienza ha necessariamente un aspetto diabolico, che la Bontà divina è al tempo stesso Collera divina, cosa che, alla fine, porterà al razionalismo dialettico di Hegel per il quale la Croce, il Venerdì Santo è, come egli dice, speculativa, cioè la legge stessa della ragione, che la si chiami umana o divina. La danza sacra che i filosofi di oggi fanno attorno all’hegelismo, ultima tappa della filosofia prima del materialismo e del positivismo, si rivela infeconda e sterile, gira solo attorno a se stessa, dimenticando sempre più il vero mistero: quello della Croce e della sua presenza reale nella Chiesa di tutti i tempi per mezzo dello Spirito. Nessuna sapienza umana può manipolare lo scandalo cristiano e la follia di Dio a proprio conto. Ed è proprio ciò che dobbiamo ricordare alle due Americhe, che quest’anno sono in particolare a tema del vostro Meeting, pero sebbene le loro ideologie siano ben diverse e in molti punti perfino opposte. L’America del Nord, che è in testa nelle ricerche tecniche, sociologiche e psicologiche tende ad erigere la ragione ad assoluto. Concederà un proprio posto al fenomeno religioso, in quanto atteggiamento umano privilegiato, ma non si curerà del lato oggettivo di questa o quella religione che si presenterà come rivelata, conoscerà una tolleranza senza limiti per tutte le forme, anche totalmente contrarie fra loro, di espressioni dogmatiche o quasi dogmatiche; e questo porterà alla convinzione che tutti quelli che credono in qualcosa di sacro saranno per i cristiani dei cristiani anonimi, gli come saranno, per esempio, per i buddisti dei buddisti anonimi. Sull’elenco telefonico di Los Angeles ci sono in fila pagine e pagine di Chiese di tutti i tipi i cui templi passano spesso da una setta all’altra. Un aspetto di scandalo, in questo, è una follia più umana che divina, una follia che non preoccupa nessuno; come in Italia sono stati soppressi i manicomi, così negli Stati Uniti si tollera con benevolenza ogni forma più o meno inoffensiva di credenza religiosa degli uomini. Si potrebbe dire che è preoccupante il fatto che nel Continente non ci possa essere persecuzione per una Chiesa che conservi, al suo centro, il vero scandalo cristiano. Il cristiano, purché si comporti in modo moralmente tollerabile per la società, sarà lasciata in pace. Il moralismo generale avrà partita vinta e la testimonianza cristiana, che per noi porta al martirio, gli sarà sottomessa come una specie al genere Certo, ci sarà la lotta delle razze (e non delle classi) e Martin Luter King, ottimo cristiano, sarà il martire di questa lotta, ma la sua morte sarà piuttosto la vittoria di una razza che di una religione. Nell’America del Sud incontriamo un razionalismo totalmente diverso. E’, e qui bisogna semplificare, la lotta fra due forme razionalistiche e politiche di comprensione del cristianesimo. Non vale la pena insistere sul cosiddetto cattolicesimo dei cosiddetti oppressori, che potrebbe quasi sempre ridursi a una forma di tradizionalismo H quale permette ad una classe dirigente l’espressione classica di una fede cattolica limitata alla recita di un Credo e alla pratica dei sacramenti. Da tutto questo, scandalo e follia sono esclusi. Mentre cattolicesimo e diritto politico sono intimamente congiunti. Il contrario di questo amalgama è più difficile da definire ed è noto come teologia della liberazione. Il problema è sapere in che senso si tratta di una teologia cristiana propriamente detta o di un movimento sociologico che si serve, a ragione o a torto, del Vangelo. Non metto assolutamente in dubbio la buona fede di molti, perfino della maggior parte di quei teologi che si riconoscono nella teologia della liberazione. Ma la domanda terribilmente scottante è un’altra: con che diritto si servono del Vangelo e del suo scandalo per fare politica? L’opzione per i poveri può essere detta centrale nell’atteggiamento di Gesù, ma vi vede Egli solo i materialmente poveri o tutti i poveri diavoli non piuttosto indigenti o ricchi che falliscono la loro entrata nel Regno dei Cieli? C’è, certamente, la difficoltà dei ricchi di passare per la cruna dell’ago, e la forza di testi simili. Ma non sono né la ricchezza né il potere politico che per Gesù separano il Regno in due campi. Il povero che non possiede alcun comfort in terra è più aperto alla Buona Novella del ricco pieno di preoccupazioni economiche. Ma bisogna forse aiutare il povero ad acquisire una parte di questo benessere? C’è, senza dubbio, un limite molto stretto fra miseria, che deve essere in tutti i casi soppressa, e povertà, che può essere una grazia che ci avvicina al Regno. Charles Péguy con molta ragione ci ha inculcato questa distinzione, egli non fa altro che seguire la parabola del Samaritano. Ed è la carità cristiana, essa sola, che ci deve animare a seguirlo, una carità che ispira una politica, ma che non si identifica con essa. Fra le due c’è una differenza livello. Due gesuiti francesi ce lo dicono sotto ogni punto di vista: P. Fracou che lavora in Cile e che ci ha dato quel libro dal titolo famoso: « Prima (di tutto) il Vangelo », cioè prima della politica. Esso ristabilisce lo scandalo della Croce unica di Cristo e vieta di confonderlo con quello della miseria umana. P. Pierre Ganne, mio vecchio amico durante gli studi teologici, che purtroppo è morto, nel suo nuovo libro sullo Spirito Santo ci inculca: concetto di Alleanza è che solo l’uomo libero è capace di stabilire dei rapporti veri, è l’uomo libero che diventa giusto e non l’uomo giusto che diventa libero. L’Esodo comincia con la liberazione; dopo, all’interno di questa liberazione (operata da Dio), si può chiedere al popolo di stabilire dei rapporti giusti. La decisione di giustizia parte dall’uomo; se il suo cuore è schiavo, egli non può avere il concetto di rapporti giusti guardate Lenin. Non ci sono esempi di rivoluzioni che non abbiano rafforzato il regime amministrativo e poliziesco. Non dimentichiamo che Satana si traveste da angelo di luce. Le nostre illusioni sono spesso a base di generosità. La libertà degli altri non è qualcosa che io scelgo. Non ne sono la fonte. La perversione del paternalismo porta a proclamare: Io scelgo il tuo benessere, la tua felicità. Ora, il mondo è pieno di questa pretesa, di scegliere la nostra felicità, è perfino un tema politico. In questo mondo il Vangelo è inintelligibile. Leggete tutto il libro, pubblicato da ‘Centurion’, 1984. La politicizzazione della carità è quindi un altro modo di pervertire la follia della Croce. Ma lasciamo ai latino-americani la loro chance di trovare nella loro situazione estremamente difficile l’equilibrio che permetta eli unire teologia e politica senza identificarle. Concludiamo ricordando che lo scandalo della Croce e la follia di Dio non sono affatto degli slogans a nostra disposizione. Entrambi i termini, il cui significato converge, non sono altro che l’espressione del fatto che la Sapienza divina ci supera infinitamente. San Paolo ce lo ripete in tutte le letture. Questa sapienza ci supera, ma non ci è sottratta. Avendo finito di inculcare il mistero della Croce, sofferta pro nobis, l’Apostolo continua: Aiuto sì, la sapienza che noi esponiamo fra i (cristiani diventati) perfetti Dio l’ha rivelata a noi per mezzo dello Spirito che scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. L’uomo terreno non accoglie le cose proprie dello stato di Dio; per lui sono stoltezza e non le può capire, perché è grazie allo Spirito che si giudica. Ma l’uomo spirituale giudica tutte le cose, (perché) noi possediamo il pensiero di Cristo. Noi l’abbiamo, non come un possesso, ma sempre come dono. E questo dono ci è dato non per noi, ma per essere comunicato e questo dono liberatore si diffonde solo nella comunione. E la comunione che libera ed è la libertà, essa sola, che rende possibile la comunione. Ma noi non costruiamo né la libertà né la comunione. Entrambe e la loro unità sono pura grazia di Dio.

Publié dans:biblica, Teologia |on 13 novembre, 2014 |Pas de commentaires »
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