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IL CUORE – SIMBOLI BIBLICI

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IL CUORE – SIMBOLI BIBLICI

Il termine cuore si riferisce principalmente alla persona nella sua totalità e non soltanto al cuore come sede dei sentimenti e dell’affetto. Il cuore è il luogo da dove scaturiscono pensieri, sentimenti intimi, progetti, razionalità, autenticità, comportamenti.
Nella Bibbia, infatti, con il cuore si pensa, si ascolta, si decide, si ama, si giudica, si ricorda, ci si relaziona. Il cuore può essere puro (cfr. Mt 5,8) e cercare Dio o doppio (cfr. Sal 12,3) che provoca comportamenti cattivi. Gesù esprime lapidariamente questa concezione con l’espressione: «Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12,34). Anna, la madre del profeta Samuele esprime la gioia che inonda tutta la sua persona con le parole: «Il mio cuore esulta nel Signore» (cfr.1 Sam 2,1). Anche Dio, che è pienamente coinvolto nella storia del suo popolo, ha un cuore che lo determina positivamente: «Il mio cuore si commuove dentro di me» (Os 11,8).
Il cuore, in quanto interiorità, è spesso offuscato dall’apparenza esteriore, ma Dio lo vede senza inganno: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti, l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1 Sam 16,7). Il salmista prega: «Scrutami, o Dio, e conosci il mio cuore, provami e conosci i miei pensieri» (Sal 138, 23). Il libro del Deuteronomio raccomanda di ricordare nel cuore e di meditare ciò che Dio ha fatto per il popolo (4,39) per non inorgoglire il cuore e dimenticare Dio. Invita a fissare i suoi precetti nel cuore (cfr. Dt 6,4.6; 8, 14-17). Molti passi biblici, in particolare i testi profetici ricordano che la fedeltà a Dio si realizzerà quando egli porrà nel loro intimo ‘un cuore nuovo’ capace di riconoscere Dio e di servirlo (cfr. Ger 31,33). La persona dal cuore vivo è incapace d’ipocrisia. Il salmista chiede a Dio di liberarlo dall’orgoglio del cuore che lo porterebbe a cercare cose superiori alle sue forze, ingannandosi (Sal 131,1). Il libro dei Proverbi consiglia di affidarsi a Dio con tutto il cuore più che alla propria intelligenza (cfr. Prov 3,5). Gesù proclama beati coloro il cui cuore è puro, rivolto, cioè, unicamente a Dio da cui dipende (Mt 5, 8) e rimprovera coloro avendo indurito il cuore non possono credere in lui. Dopo la sua risurrezione rimprovera la loro incredulità e durezza di cuore (Mc 16,1).
Gesù nel Nuovo Testamento spiega che il male come anche il bene hanno origine nel cuore: «Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (cfr. Mc 7,21-13). I pensieri nascono dal cuore e poi si formulano nella mente: «Perché pensate cose cattive nei vostri cuori» (Mc 2,26; cfr. Lc 1,51; Sal 140,3). Gesù si autodefinisce mite e umile di cuore (cfr. Mt 11,25-30) perché il suo essere profondo è incapace di imporsi con la violenza e le relazioni che egli stabilisce donano riposo e ristoro.

Da Sapere
Nei racconti dell’infanzia, Luca per tre volte afferma che Maria ‘conservava nel cuore queste cose’ e le meditava, indicando in lei la serva fedele che non dimentica le parole e gli eventi di Dio, anzi lasciandole depositare nel suo profondo (cuore) ha realizzato nella vita la parola di Dio ricevuta e amata (cfr. Lc 1, 66; 2,19; 2,61).
I verbi della fede sono collegati con la docilità del cuore come questi esempi evidenziano: amare (Dt 6,5); ricordare (Dt 4,9); ascoltare (cfr.1Re 3,8); osservare (Sal 119,34); cercare (Sal 27,8; 119,10); servire (Gs 22,5); lodare (Sal 86,12 ); convertirsi (Gl 2,13); custodire fedelmente (Sal 119, 68), valutare con saggezza (cfr. Sal 90,12).

Publié dans:BIBLICA - TEMI |on 7 mai, 2018 |Pas de commentaires »

L’UOMO, FATTO A IMMAGINE DI DIO

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L’UOMO, FATTO A IMMAGINE DI DIO

La contraddizione presente in ogni uomo, fra le sue meravigliose caratteristiche fisiche e le sue infime qualità morali, trova spiegazione soltanto nella rivelazione biblica che ci rivela che cosa accadde all’uomo, dopo essere stato creato “a immagine e somiglianza di Dio”. Ma la stessa rivelazione ci comunica anche come Dio ha operato per far sì che l’uomo possa godere per l’eternità la gloria delle perfezioni divine. Che cos’è l’uomo?  Nell’articolo precedente abbiamo visto che Dio preparò il pianeta terra. Le caratteristiche di questo pianeta, in particolare la biosfera, sono assolutamente uniche, come hanno dimostrato tutte le esplorazioni dell’uomo nello spazio compiute fino a questo momento.  Ma che tipo di creatura è questo uomo posto come custode del pianeta terra? Il Salmista, dopo aver contemplato il creato, in particolare i cieli, per poi considerare sé stesso in questo contesto maestoso, rimase meravigliato. Ecco le parole che rivolse a Dio: “Quando io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai disposte, che cos’è l’uomo perché tu lo ricordi? Il figlio dell’uomo perché te ne prenda cura?” (Sl 8:3-4). Già: che cos’è l’uomo? Il Salmista si sentiva significativo per il semplice motivo che riusciva a contemplare il resto del creato. Ma la sua riflessione nasceva da qualcos’altro. Sapeva che Dio è dietro ogni cosa creata. Infatti aveva iniziato questo Salmo, scrivendo: “O Signore, Signore nostro, quant’è magnifico il tuo nome in tutta la terra! Tu hai posto la tua maestà nei cieli” (v. 1). Secondo la Bibbia Dio ha creato l’uomo come l’apice della sua opera creatrice, con la capacità di contemplare il resto del creato, dominarlo e di percepire oltre il creato stesso il suo Creatore (Ge 1:28; Sl 19:1-6).  Di conseguenza l’uomo trova il suo supremo significato nel lodare il Creatore e glorificarlo con la propria vita. Secondo Stephen Hawking, il noto scienziato inglese, invece, che non concepisce niente e nessuno oltre l’universo fisico, ogni persona crea un significato per la propria vita in base al proprio modo di concepire l’universo intorno a sé. In questo caso non ci sarebbe nessuno rapporto intrinsecamente significativo fra l’indi- viduo e il resto della realtà.  L’uomo, un essere contraddittorio  Prima di investigare ulteriormente il significato dell’uomo, dando ascolto alla Parola del Creatore, vale la pena osservare ciò che sembra essere un vero e proprio paradosso. Mentre sul piano fisico, l’uomo è l’insieme di numerosi sistemi sofisticatissimi, compresi i cinque sensi, che rendono possibile la vita in questo mondo, a livello morale è un vero e proprio disastro. In qualsiasi momento della storia ci sono innumerevoli esempi di questo fatto. Ad esempio, mentre alle Olimpiadi di Londra (2012) centinaia di persone manifestavano la propria destrezza in gare con un alto grado di difficoltà come il salto con l’asta, in Siria la popolazione si stava sparando in una guerra civile, distruggendo in modo indiscriminato tutto ciò che era stato costruito in molti anni.  Tale è l’uomo, così come lo conosciamo: un essere contraddittorio, da una parte un capolavoro, dall’altra invece un disastro sul piano morale e sociale. La teoria che l’uomo sia il prodotto di un processo di selezione non può spiegare questo paradosso, perché non può giustificare il contrasto fra l’incredibile raffinatezza biologica e intellettuale dell’uomo da una parte e la sua persistente incapacità di comportarsi in modo socialmente accettabile dall’altra. L’origine del paradosso  La Parola di Dio getta luce sulla natura enigmatica dell’uomo.  L’Ecclesiaste lo spiega in questi termini: “Dio ha fatto l’uomo retto, ma gli uomini hanno cercato molti sotterfugi” (Ec 7:29). L’evangelista Giovanni offre un’analisi simile quando definisce i termini del giudizio di Dio: “La luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3:19).  Lungi dal trovarsi in una traiettoria ascendente che si muove verso un punto omega, come ipotizzato dal paleontologo evoluzionista e sacerdote cattolico Pierre Teilhard de Chardin SJ (1881–1955), tanto a livello intellettuale quanto a livello pratico “l’andazzo di questo mondo” rispecchia la grave caduta, avvenuta all’inizio della storia. Infatti è impossibile comprendere la natura contraddittoria dell’uomo se non si tiene conto dei fatti riferiti nei primi tre capitoli della Bibbia e ribaditi ripetutamente nella rivelazione speciale. Il racconto della creazione caratterizza l’uomo così: “Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina” (Ge 1:27). La duplice origine dell’uomo, essendo un prodotto sia della polvere della terra sia del soffio di Dio (Ge 2:7), determinò una nobiltà e uno scopo eccezionali. Quale agente di Dio e vice-re sulla terra, ad Adamo fu dato il compito di dare un nome alle creature nonché di curare il resto del creato (2:15-20).  Sempre i primi capitoli della Bibbia raccontano perché l’uomo, dall’essere stato creato retto, cominciò a seguireuna traiettoria verso il basso. Questo dipese dalla sua decisione di disubbidire al suo Creatore (Ge 3). Così la specie umana, dopo che Adamo ed Eva ebbero cominciato a riprodurre la specie (1:28; 4:1-2), un processo anche questo altamente sofisticato, vide il primo frutto della loro unione mostrare assoluta incapacità di vivere in modo pacifico con altri della medesima specie, arrivando, per gelosia, a porre fine alla vita del suo fratello (4:3-24).  Tutto il resto della storia, per quanto dipende dall’uomo, è un susseguirsi di peccato, sofferenza e morte. Ma proprio nel contesto in cui si consumò il dramma primordiale della morte spirituale della prima coppia, aveva avuto inizio un’altra storia, che vede Dio promettere e poi intervenire per la restaurazione dell’uomo, contro le forze della malvagità (Ge 3:15).  Ci si domanda se, dopo la disubbidienza di Adamo e Eva, l’umanità abbia conservato la propria nobiltà di persone fatte a immagine di Dio o se gli siano rimasti soltanto quegli aspetti dell’immagine di Dio che lo accomunano a ogni cosa creata, che manifesta la sua gloria (Ro 1:19-21). Tre considerazioni ci portano a rispondere che l’immagine rimane integra, sebbene compromessa dal peccato.  In primo luogo, nel descrivere la colpa dell’omicida, dopo il diluvio universale, Dio pronunciò le seguenti parole: “Il sangue di chiunque spargerà il sangue dell’uomo sarà sparso dall’uomo, perché Dio ha fatto l’uomo a sua immagine” (Ge 9:6). Uccidendo un’altra persona, l’omicida offende Dio stesso perché la persona uccisa è portatrice dell’immagine di Dio. Né qui né altrove nella Scrittura quest’immagine viene scissa in diversi aspetti (quali “morale” e“naturale”). In secondo luogo, in tutta la storia biblica, Dio si rivolge all’uomo con istruzioni e ordini, pretendendol’ubbidienza della fede. La serie di inviti che Dio rivolge all’uomo continua fino all’ultimo brano della Bibbia (Ap 22:17). L’uso dell’imperativo da parte di Dio non è una finzione, bensì la conferma che l’uomo, in quanto fatto a immagine di Dio, è considerato come responsabile delle proprie decisioni e azioni. Ciò che manca nell’uomo separato da Dio è la santità e la giustizia, non l’immagine che lo rende responsabile per la scelta di dare ascolto o meno al suo Creatore.  In terzo luogo appare significativo che, nel riassumere le responsabilità etiche dell’uomo, Pietro inizia con questa direttiva: “Onorate tutti” (1P 2:17). Ogni persona, non importa quanto sia caduta in basso, va onorata in quanto portatrice dell’immagine di Dio.   Il destino dell’uomo Chi si lascia orientare dalla Parola di Dio non ha problemi a sottoscrivere la seguente dichiarazione: Dio ha creato ogni cosa “per la manifestazione della gloria della sua eterna potenza, sapienza e bontà” (“Confessione di Westminster, 1646; cap. IV, I).  Ad esempio il salmista scrive: “Tutte le nazioni che hai fatte verranno a prostrarsi davanti a te, Signore, e glorificheranno il tuo nome. Poiché tu sei grande e operi meraviglie; tu solo sei Dio. O SIGNORE, insegnami la tua via; io camminerò nelle tua verità; unisci il mio cuore al timor del tuo nome. Io ti loderò Signore, Dio mio, con tutto il mio cuore, e glorificherò il tuo nome in eterno” (Sl 86:9-12). Anche l’agire dei discepoli di Cristo dovrebbe mirare a portare gli uomini a glorificare Dio (Mt 5:16; cfr. 1P 2:12).  Similmente lo scopo di avere, nell’ambito delle chiese locali, “un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù” è:“affinché di un solo animo e d’una stessa bocca glorifichiate Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo. Perciò accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo vi ha accolti per la gloria di Dio” (Ro 15:5-6). Ma lo scopo di glorificare Dio è soltanto un lato delle finalità per cui Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. L’altro lato, su cui la Bibbia insiste molto, è che il destino dell’umanità è di godere la gloria di Dio, contemplarla e gustarla. La vera crisi sperimentata da Israele al tempo del sommo sacerdote Eli era che la gloria di Dio, che aveva riempito il tabernacolo al tempo di Mosè e aveva accompagnato Israele durante le loro peregrinazioni nel deserto, si era allontanata (Es 40:35; Nu 9:15-23; 1 S 4:21-22). Lo stesso dramma si ripeté al tempo di Ezechiele, quando la gloria di Dio abbandonò il tempio (Ez 10:4, 18; 11:22-23). Il vero dramma dell’umanità intera è che: “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Ro 3:23). Essere privi della gloria di Dio significa non avere il diritto di stare nella sua presenza e quindi godere delle sue benedizioni. Senza Dio, l’uomo rimane nella morte e nelle tenebre spirituali. Al contrario, ricevere “vita eterna” significa tornare a conoscere “il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17:3). Il destino di coloro che ottengono questa conoscenza di Dio è di vivere per sempre nella sua presenza.  Gesù aveva glorificato Dio Padre sulla terra, facendo la sua volontà in modo perfetto e completo (Mt 17:5; Gv 12:12:28; 17:4; 19:30). Nel fare questo anche Gesù stesso è stato glorificato, in particolare in virtù della sua vittoria sulla croce (Gv. 12:23-32). Ma nella sua preghiera sacerdotale Gesù non si limita a caratterizzare il proprio operato come un modo per manifestare la gloria di Dio nel mondo.  Esprime anche questo desiderio riguardo al destino dei suoi discepoli:  “Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché vedano la mia gloria che tu mi hai data; poiché mi hai amato prima della fondazione del mondo” (Gv 17:24). Coloro che sono i beneficiari dell’opera di salvezza che Gesù ha compiuto sulla terra sono “messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce” in quanto: “Dio ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasportati nel regno del suo amato Figlio. In lui abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati” (Cl 1:12-14).  Non siamo più “privi della gloria di Dio”; al contrario siamo destinati a vedere la gloria di Cristo ed esserne partecipi per l’eternità! Questo è il vero destino di chi è riconciliato con Dio per mezzo di Cristo.  Così Paolo può definire la “ricchezza della gloria” di coloro che fanno parte della chiesa: “Cristo in voi, la speranza della gloria” (Cl 1:24-27). Ecco l’aspetto caratterizzante il cielo: “la presenza gloriosa di Dio”. È questo che Gesù desidera per noi.   Conclusione Per non sentirci condizionati da ciò che succede intorno a noi, giorno per giorno, dobbiamo ricordare qual è la nostra vera natura e qual è il nostro destino. Ricordare che siamo stati creati all’immagine e somiglianza di Dio ci nobilita. Ricordare che l’umanità discesa da Adamo, in quanto ribelle a Dio, è per natura spiritualmente morta e priva della gloria di Dio, spiega il perché dei tanti problemi che affliggono la nostra società. L’uomo vive come essere frustrato, incapace di sentirsi realizzato.  Per coloro che sono stati riconciliati con Dio per mezzo della croce, invece, la presenza di Cristo in loro per mezzo dello Spirito Santo può definirsi “la speranza della gloria” (Cl 1:27). Tale speranza li stimola a manifestare la gloria di Dio in questo mondo e, così facendo, aiutare coloro che non conoscono Dio a intravedere la sua gloria e a sentirne il bisogno.

Publié dans:BIBLICA - TEMI, BIBLICA CREAZIONE |on 19 avril, 2016 |Pas de commentaires »

FIAT LUX: LA SIMBOLOGIA DELLA LUCE NELLA SACRA SCRITTURA

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FIAT LUX: LA SIMBOLOGIA DELLA LUCE NELLA SACRA SCRITTURA

Gennaio 2015

Filippo Serafini, docente di Sacra Scrittura, Istituto Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare, Roma   È difficile sottovalutare l’importanza della luce nella Bibbia, dato che essa compare fin dalla sua pagina iniziale, essendo la prima delle opere create (Gen 1,3: «Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu»), e si ritrova anche nella pagina conclusiva (Ap 22,5: «Non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli»). Nella Bibbia l’uso concreto dei termini legati al campo semantico della luce (oltre al sostantivo «luce», in ebraico ’ôr e in greco phôs, pensiamo a vocaboli come «lampada», «lucerna», «lucernario», «illuminare», «brillare», «splendere», «rischiarare», ecc.) si intreccia con quello metaforico. Il nostro intendimento è di presentare soltanto alcuni punti fondamentali legati all’esperienza della luce così come viene esposta agli autori biblici. La luce nel Primo Testamento Conviene precisare fin dall’inizio che la concezione ebraica antica, che soggiace per lo meno ai testi dell’Antico Testamento, è diversa dalla nostra: mentre noi riconduciamo l’esperienza della luce sulla terra al ruolo fondamentale del sole, l’israelita sembra presupporre una certa indipendenza della luce. Certo il sole era considerato una fonte di luce, ma non l’unica perché anche le stelle e la luna lo sono (cfr. Gen 1,14-16; Is 30,26; 60,19; Ger 31,35; Ez 32,8; Sal 136,7-9) né si percepisce una maggiore importanza del sole nei confronti di luna e stelle (non si aveva idea che in realtà la luna riflette la luce solare, come noi ben sappiamo). A tale concezione soggiace forse l’esperienza della presenza di luce anche quando il sole non si vede (come con il cielo nuvoloso o all’aurora, nel momento in cui un chiarore compare al’orizzonte prima che il sole sorga). Questo spiega perché l’autore biblico possa immaginare in Gen 1 la creazione della luce, narrata nei vv. 3-5, come precedente la creazione degli astri, narrata nei vv. 14-19. Inoltre in questo testo la luce è associata primariamente al «giorno» («Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte», Gen 1,5) e l’idea fondamentale è appunto quella dell’alternarsi di giorno e notte, come ritmo ordinato del tempo all’interno del quale si inserisce la vita. La separazione tra luce e tenebre crea quindi l’«ordine» basilare e si contrappone alla situazione negativa descritta al v. 2, con il dominio delle tenebre (per un approfondimento su come vada interpretato il racconto di Gen 1 si veda P. Benvenuti – F. Serafini, Genesi e Big Bang, Assisi 2013). L’ordinato alternarsi di luce e tenebre non le mette comunque sullo stesso piano: rimane la superiorità della luce, per la quale vale il giudizio di «bontà» formulato da Dio stesso (Gen 1,4). D’altra parte, non c’è nemmeno, nella Bibbia, un dualismo ontologico tra luce e tenebre: è vero che le tenebre sono un simbolo negativo, associato al caos e alla desolazione (realtà che l’antico israelita percepiva come antitetiche alla creazione, cfr. Ger 4,23), ma poste entro i loro limiti e controllate dalle leggi volute dal creatore fanno parte dell’ordinamento del mondo (per questo Is 45,7 può mettere in bocca al Signore l’affermazione: «Io formo la luce e creo le tenebre»). Il racconto di Gen 1 propone quindi come scansione temporale fondamentale il giorno, nell’alternanza di luce e tenebre, dando priorità a questo aspetto rispetto alle suddivisioni del calendario basate sul corso della luna e del sole, come i mesi e le stagioni. La prima pagina della Bibbia si conclude con la «consacrazione» (Gen 2,3) del settimo giorno, che ha così un particolare legame con Dio: lo scopo del narratore e ricordare che la separazione fondamentale tra luce e tenebre non crea soltanto la possibilità per la vita, ma anche per la relazione fra l’uomo e Dio che è essenziale per la vita stessa. Nella predicazione profetica questo tema ritorna con l’evocazione del «giorno del Signore», come momento decisivo per la storia di Israele. Esso è collegato al giudizio e quindi appare come giorno di tenebra e ira per i peccatori (cfr., p. es., Gl 2,2; Am 5,18.20), un giorno in cui la luce degli astri si oscurerà (cfr., p. es., Is 13,9-10; Am 8,9); d’altra parte, poiché in esso si realizza la pienezza della presenza divina in mezzo agli uomini, è anche giorno di luce più intensa (cfr. Is 30,26) o un giorno senza tenebra (Zc 14,6-7: «In quel giorno non vi sarà né luce né freddo né gelo: sarà un unico giorno, il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno né notte, e verso sera risplenderà la luce»). L’immagine, quindi, assume i toni escatologici, fa riferimento, cioè, alla fine dei tempi, in cui Dio ristabilirà la pienezza e il suo splendore dominerà (cfr. Is 60,19 e il versetto di Apocalisse citato all’inizio). Si impone quindi l’associazione tra luce e vita che trova espressione in diversi passi ma sopratutto nella formula «luce della vita» (o «luce dei viventi»), che ricorre in Gb 33,30 e Sal 56,14 in contesti che richiamano la liberazione divina dal pericolo di morte. Per contrasto chi è morto non vede la luce (cfr., p. es., Sal 49,20) e gli inferi (še’ōl in ebraico) sono concepiti come «la terra delle tenebre e dell’ombra di morte, terra di oscurità e di disordine, dove la luce è come le tenebre» (Gb 10,21-22). Dal punto di vista antropologico questo ha un riflesso nell’idea che la «luce degli occhi» sia associata alla salute e/o alla forza vitale dell’individuo, come appare in 1Sam 14,27: «Giònata… allungò la punta del bastone che teneva in mano e la intinse nel favo di miele, poi riportò la mano alla bocca e i suoi occhi si rischiararono» (cfr., in senso contrario, Sal 38,11). Su questo sfondo si comprendono i passi in cui il benessere rappresentato dalla luce degli occhi è associato alla legge divina (Sal 19,9) o alla sapienza (Qo 8,1). In senso ampio, quindi, la luce è simbolo della salvezza che è evidentemente, nella prospettiva biblica, un dono divino (cfr., p. es., Sal 18,29: «Signore, tu dai luce alla mia lampada; il mio Dio rischiara le mie tenebre»; Is 9,1: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse»). In questo ambito va compreso l’uso dell’espressione «luce del volto» di Dio (cfr. Sal 4,7; 44,4) e di quella analoga, secondo cui Dio «fa risplendere il suo volto» (cfr., p. es., Nm 6,25; Sal 31,7), che indicano il favore e la benedizione divina accordata ai suoi fedeli. La luce di Dio ha anche un risvolto etico, in quanto consente all’uomo di «camminare» (verbo che è una metafora della condotta morale) secondo la sua volontà e quindi in rettitudine (Is 2,5 usa l’espressione «camminiamo alla luce del Signore» per riprendere il concetto espresso al v. 3 con la frase «camminare per i suoi sentieri»). Non sorprende che quindi le tenebre notturne siano concepite come il momento favorevole per le opere dei malvagi (cfr., p. es., Gb 24,14-16), ma anche come la situazione in cui si trova il peccatore che, riconoscendo la sua colpa, confida nel riscatto da parte del Signore (Mi 7,8-9 «Non gioire di me, o mia nemica! Se sono caduta, mi rialzerò; se siedo nelle tenebre, il Signore sarà la mia luce. Sopporterò lo sdegno del Signore perché ho peccato contro di lui, finché egli tratti la mia causa e ristabilisca il mio diritto, finché mi faccia uscire alla luce e io veda la sua giustizia»). Quest’idea del possibile riscatto dalla situazione di tenebra, accentua la colpevolezza di chi si vuole sottrarre alla luce, avvitandosi in una situazione negativa descritta magistralmente in Sap 17, che rilegge il racconto degli Egiziani avvolti dalle tenebre (una delle “piaghe” inviate da Dio per convincere il Faraone a liberare Israele) considerandoli il “tipo” degli avversari di Dio. Si noti come, essendo nell’Antico Testamento l’idea della giustizia divina strettamente connessa con quella della salvezza, anche a essa si applichi al metafora della luce; addirittura l’apparire della luce può essere poeticamente legato alla scomparsa di iniquità e ingiustizie (cfr. il bel passo poetico di Gb 38,12-15). Da tutto quanto appena si detto si comprende come la Legge, in quanto espressione della volontà divina e della sua giustizia, sia anch’essa «luce» per l’uomo (Is 51,4; Sal 119,105). Più direttamente è la presenza stessa di Dio che è luce, come appare nei racconti del Pentateuco che parlano della colonna di fuoco che guida il popolo (Es 13,21-22; 14,20) e in Is 60,1: «Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te». La straordinarietà della figura di Mosè è segnata anche dal fatto che la luce divina si riflette in qualche modo sul suo volto (cfr. Es 34,29-30.35). Va rilevato che in questi casi si fa sempre riferimento alla percezione umana della vicinanza di Dio, non compare nell’Antico Testamento una descrizione della realtà divina come «luce» (anche Sal 104,2, che descrive il Signore «avvolto di luce come di un manto», si colloca in un contesto che descrive la gloriosa manifestazione di Dio nel creato). La luce che viene nel mondo: il messaggio del Nuovo Testamento Nel Nuovo Testamento si ritrovano i valori simbolici della luce già individuati nell’Antico Testamento, ma con sottolineature peculiari e aspetti innovativi. Notiamo dapprima, però, un uso più concreto del termine: l’apparizione di una «luce dal cielo» (At 9,3; 22,6; 26,13) è legata all’epifania di Gesù Cristo a Paolo, così come l’apparizione di un angelo illumina la cella in cui Pietro è imprigionato (At 12,7); analogamente l’evento della trasfigurazione di Gesù è descritto facendo riferimento alla luce (cfr. Mt 17,2.5). Questa descrizione di particolari manifestazioni del divino come apparizioni di una «luce» si discosta dall’Antico Testamento che preferisce parlare del fuoco (cfr., p. es., Es 3,2; 19,18; 24,17). Probabilmente il riferimento alla luce, senza precisazione della sua fonte, veniva percepito dagli autori del Nuovo Testamento come rimando più adeguato alla trascendenza divina. Dal punto di vista antropologico, interessante è il detto di Mt 6,22-23, che paragona l’occhio umano a una lampada, secondo un’immagine comune sia nel mondo greco che in quello giudaico: «La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!». Si faccia attenzione che il riferimento finale alla «luce» è probabilmente sempre un immagine dell’occhio: come organo della vista è ciò che consente che ci sia luce nella persona. Il detto, quindi, non fa tanto riferimento a una “illuminazione interiore”, ma al valore dello sguardo sulla realtà che si vive e sui rapporti con gli altri, che può essere «semplice» (cioè retto, limpido, mite) o «cattivo» (cioè, malizioso, invidioso, cupido). L’occhio esprime l’intenzionalità fondamentale che il soggetto applica alla realtà e questa si riflette sulla sua situazione complessiva di vita (rappresentata dal «corpo»), descritta come luminosa o tenebrosa. Nel brano parallelo l’evangelista Luca aggiunge un versetto («Se dunque il tuo corpo è tutto luminoso, senza avere alcuna parte nelle tenebre, sarà tutto nella luce, come quando la lampada ti illumina con il suo fulgore», Lc 11,36) che sembra suggerire che la vita di colui che ha lo sguardo «semplice» sia capace di diffondere luce; con ciò ci si ricollega all’interpretazione matteana del detto sulla lampada che non va nascosta (Mt 5,14-16 «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli»). Come si vede il fine della testimonianza, data dalle opere buone che sgorgano dallo sguardo semplice sulla realtà, è la glorificazione di Dio, il riconoscimento della sua paternità e del suo operare nella storia. Infatti diversi detti collegano l’immagine della luce al processo del pubblico manifestarsi e quindi della rivelazione: così è per il detto sulla lampada che non si può nascondere in Mc 4,21-22 («Diceva loro: “Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? O non invece per essere messa sul candelabro? Non vi è infatti nulla di segreto che non debba essere manifestato e nulla di nascosto che non debba essere messo in luce”»; cfr. Lc 8,16; 11,33) e per Mt 10,27 («Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze»; cfr. Lc 8,17; 12,2-3). Quello che Gesù annuncia, infatti, è di per se stesso destinato a diventare manifesto, in quanto espressione del disegno divino di salvezza che chiede all’uomo di essere accolto. Ma ciò significa, ovviamente, che Gesù stesso (o meglio: il Messia atteso) può essere definito «luce» (così in Mt 4,16, nella ripresa di Is 9,1; e in Lc 2,32): questo non tanto in relazione alla sua natura, ma piuttosto alla sua missione, che è quella di donare la salvezza divina (riprendendo quindi il valore simbolico della luce che si trova in diversi passi dell’Antico Testamento). La connessione fra luce e offerta della salvezza si può trovare anche nella parola apostolica (cfr At 13,47, dove Paolo e Barnaba applicano alla loro attività l’oracolo di Is 4,6, e Ef 3,8-9), ovviamente in quanto proclamazione del Vangelo di Gesù. Collegando questo a Mt 5,14-16 si vede come la vita dell’apostolo e discepolo debba essere improntata all’assoluta trasparenza luminosa del suo parlare e del suo agire in riferimento all’annuncio del Cristo. La rappresentazione della rivelazione divina con la metafora della luce viene ripresa nelle lettere paoline, con alcuni tratti caratteristici. Anzitutto sottolinea la possibilità per il credente di conoscere o comprendere la realtà salvifica che gli viene donata (2Cor 4,6: «Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo»; cfr. anche Ef 1,17-18: «Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi»). In questa stessa prospettiva il momento iniziale della vita cristiana, la conversione alla fede in Gesù Cristo può essere definita come «illuminazione» (cfr. Eb 6,4; Eb 10,32; secondo alcuni autori questi passi farebbero riferimento al battesimo, ma non è certo; l’uso del termine «illuminazione» per indicare il battesimo si trova però nel II secolo d.C, negli scritti di Giustino). In secondo luogo la manifestazione del Cristo è anche svelamento di ciò che si trova nella profondità del cuore umano (1Cor 4,5 «Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode»; cfr. Ef 5,13 dove l’accento è però sulla condanna) e quindi vale come giudizio. In questo la prospettiva escatologica (cioè quella della fine dei tempi) e quella etica (relativa alla prassi quotidiana) si intrecciano. Infatti il cristiano, accogliendo la salvezza di Cristo, è reso già ora «capace di partecipare alla sorte dei santi nella luce» (Col 1,12): in questo versetto si deve evidentemente intendere la «luce» come una metafora della comunione con la divinità. D’altra parte sono ripetuti gli inviti a vivere nella luce e a rifiutare le opere delle tenebre, dove l’immagine si riferisce senz’altro alla rettitudine dell’agire (cfr Rm 13,12; Ef 5,8-9); anzi il richiamo alla separazione primordiale fra luce e tenebre (2Cor 4,6) spiega anche la calda esortazione a uno stile di vita chiaramente distinto da quello dei non-credenti (2Cor 6,14 «Non lasciatevi legare al giogo estraneo dei non credenti. Quale rapporto infatti può esservi fra giustizia e iniquità, o quale comunione fra luce e tenebre?»). L’idea della separazione e della distinzione rispetto ai non credenti, sia dal punto di vista etico sia da quello della speranza nella vita futura, soggiace probabilmente anche all’uso dell’espressione «figli della luce» (cfr. Lc 16,8; Gv 12,36; Ef 5,8; 1Ts 5,5) che non si trova nell’Antico Testamento, ma è frequente nei testi di Qumran. Nel Vangelo di Giovanni è Gesù stesso a definirsi «luce del mondo» (Gv 8,12; 9,5; cfr. 12,35-36.46) e il significato dell’immagine è duplice: da una parte, infatti, sottolinea il ruolo di Gesù nella Rivelazione, anzi il suo essere la Rivelazione stessa (la «verità» nel linguaggio giovanneo) che va accolta con fede (non a caso la definizione di Gv 9,5 apre il racconto del miracolo di guarigione del cieco nato che non solo riacquista la vista, ma giunge alla fede); dall’altra la connessione fra luce e vita riprende il tema della salvezza, ovvero della pienezza di vita, offerta da Dio agli uomini in Gesù. La connessione tra luce e vita, che risale all’esperienza basilare dell’essere umano e che veniva affermata dal racconto di Gen 1, viene ripresa in forma marcatamente cristologica, affermando che tale connessione dipende dal “Verbo” sin dal «principio» (cfr. Gv 1,4 «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini») e va accolta dall’uomo credendo in Gesù di Nazareth. Chi rifiuta la sua persona si trova di fatto nelle «tenebre» (Gv 3,19-21; cfr. 11,9-10): in tal senso la rivelazione e l’offerta di salvezza sono anche giudizio, perché smascherano alcune situazioni o posizioni esistenziali come radicalmente opposte alla volontà divina di vita e quindi apportatrici di morte. Nella prima lettera di Giovanni la «luce» non è posta come predicato di Gesù, ma di Dio (1Gv 1,5: «Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna»). Questo non va inteso come una pura definizione dell’essenza divina, cosa che tra l’altro comporterebbe di intendere il vocabolo «luce» in senso concreto e non metaforico, perché il contesto immediatamente seguente mette in rapporto tale affermazione con la condotta concreta dei credenti, che devono «camminare nella luce» (1Gv 1,7). L’immagine serve quindi anzitutto a ricordare la relazione costante che il cristiano deve avere con Dio, riproducendo nella sua esistenza quotidiana ciò che ha accolto credendo alla rivelazione (cfr. 1Gv 2,9-10: «Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo»), inoltre richiama innegabilmente il fatto che Dio è fonte, per il credente, di ogni bene, di vita e di salvezza, secondo l’abituale significato della metafora nel Nuovo Testamento. Si può dire che l’affermazione di 1Gv 1,5 presupponga che la pienezza e la potenza di vita stiano anzitutto (o forse “soltanto”) in Dio. Per concludere… Al termine di questo breve percorso possiamo tornare a prendere in considerazione la prima e l’ultima pagina della Bibbia, che abbiamo evocato all’inizio. Se Gen 1 ci ricorda che la nostra vita è resa possibile dall’alternanza di luce e tenebre e scorre attraverso entrambe (anche a livello simbolico, visto che ogni esistenza umana ha luci e ombre), la grandiosa visione della Gerusalemme celeste in Ap 21,9–22,5 ci fa intravvedere il destino a cui l’umanità è chiamata in Cristo, quella pienezza di luce e di vita il cui desiderio è iscritto nell’intimo di ciascuno di noi.   Letture consigliate R. Vignolo – L. Giangreco, «Luce e tenebre», in R. Penna – G. Perego – G. Ravasi, Temi Teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, pp. 774-780. H. Ritt, «φῶς, φωτός, τό», in H. Balz – G. Schneider, Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 20042, cc. 1853

Publié dans:BIBLICA - TEMI, BIBLICA: STUDI |on 24 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

PERCHÉ SONO PASSATI TRE GIORNI TRA LA MORTE E LA RESURREZIONE?

http://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Perche-sono-passati-tre-giorni-tra-la-morte-e-la-Resurrezione

PERCHÉ SONO PASSATI TRE GIORNI TRA LA MORTE E LA RESURREZIONE?

Questa settimana padre Filippo Belli, docente di Teologia biblica alla Facoltà teologica dell’Italia centrale, risponde sul significato dei «tre giorni» tra la morte e la Resurrezione di Gesù.

Percorsi: SPIRITUALITÀ E TEOLOGIA
03/07/2013 di Redazione Toscana Oggi

Nei Vangeli si legge che Gesù Cristo è resuscitato il terzo giorno dopo la morte. Così pure è scritto nel Credo «apostolico» e in quello «niceno-costantinopolitano» che recitiamo nelle Messe festive. Qual è l’interpretazione teologica su questo lasso di tempo fra i due eventi, morte e resurrezione?
Franco Contè

Il Nuovo Testamento più volte riferisce della risurrezione di Gesù dai morti al «terzo giorno». L’espressione è diventata quindi normativa per indicare non solo il tempo cronologico, ma anche l’unicità di quell’evento in tutto il suo significato.
Ci sono diversi livelli in cui l’espressione può essere compresa, senza tuttavia che si escludano.
Il primo, il più naturale, è quello cronologico. In effetti le narrazioni dei vangeli ci indicano il terzo giorno dopo la morte come il momento in cui i discepoli (per prime le donne) hanno ricevuto l’annuncio della risurrezione come appena avvenuto, e come comprova l’apparizione del Risorto stesso. L’affermazione della risurrezione dei morti al terzo giorno ha dunque valore innanzitutto di testimonianza del fatto reale, tanto che se ne può indicare precisamente il momento in cui è accertato tale fatto. La memoria cristiana è ancorata e ben salda su questo dato, tanto da stabilire il primo giorno dopo il sabato (il terzo giorno, appunto) come il giorno proprio del Signore, il dies Domini, la Domenica.
Un secondo livello di comprensione è legato a quello che potremmo chiamare la proverbialità dell’espressione ad indicare un breve lasso di tempo, un momento passeggero. Ci sono diversi episodi biblici in cui i tre giorni indicano il tempo in cui si compie qualcosa di importante ma anche passeggero. Per ricordarne uno, i tre giorni (di peste) sono il tempo proposto da Dio a Davide come una delle prove da scegliere dopo il suo peccato per aver voluto fare un censimento del popolo (2Sam 24,10-17). Da questo genere di testi (cf. ancora Gen 40,12; 2Re 20,5.8; Gn 2,1) nasce la concezione secondo la quale Dio non permette al giusto di soffrire oltre il terzo giorno. Lo stesso Gesù utilizza tale espressione in questo modo nei suoi annunci della passione e risurrezione ai discepoli, segnalando nei «tre giorni» il momento di passaggio dalla morte alla risurrezione.
Ci sono poi altri testi biblici interessanti a riguardo, perché segnalano il terzo giorno come il momento di un intervento decisivo da parte di Dio per la storia del suo popolo. In particolare occorre ricordare la manifestazione del Signore al Monte Sinai durante il cammino del popolo nel deserto (Es 19). Similmente è al terzo giorno che Abramo arriva al luogo dove deve sacrificare Isacco (Gen 22).
Non si può, infine, ignorare alcune profezie che vedono nel terzo giorno il momento di risollevamento da una situazione penosa. I tre giorni nel ventre del pesce della profezia di Giona, che Gesù utilizza espressamente (Mt 12,40), sono il momento buio e misterioso da dove invece riparte la vita. Così anche la profezia di Os 6,2 che giustamente i Padri della Chiesa hanno applicato alla Pasqua di Cristo. Essa afferma che il Signore «in due giorni ci ridarà la vita e il terzo giorno ci rimetterà in piedi e noi staremo alla sua presenza». Se in Osea questa indicazione era un auspicio per incitare il popolo a convertirsi, in Gesù si è realizzata pienamente e concretamente. In Lui davvero il Signore ci ha rimesso in piedi il terzo giorno risuscitandolo dai morti e inaugurando una nuova era in cui noi stiamo alla sua presenza.
Una tradizione rabbinica ben attestata riteneva che la corruzione della morte iniziasse a essere effettiva sui cadaveri dopo il terzo giorno. Ecco, il Signore non ha permesso, come dice il salmo, che Gesù vedesse la corruzione (Sal 16,9-11) per essere il principio di una vita nuova nella quale la morte (col suo potere corrosivo e distruttivo) non avesse più potere.
Il terzo giorno allora segnala il momento storico in cui Dio, oltre l’apparente inevitabilità della morte, ha iniziato quella vita nuova risorgendo Gesù dai morti.
Per noi rimane un richiamo della speranza cristiana oltre e attraverso tutte le vicissitudini brutte della vita. C’è sempre un terzo giorno, Dio c’è lo assicura in Gesù morto e risorto, una speranza certa.

Filippo BellI

LA CATEGORIA BIBLICA DELL’ACQUA E IL SUO SIMBOLISMO

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LA CATEGORIA BIBLICA DELL’ACQUA E IL SUO SIMBOLISMO

Per una rilettura nel contesto della pastorale giovanile

Giuseppe De Virgilio

(NPG 2003-07-64)

Il tema dell’acqua è ampio in quanto abbraccia l’esistenza umana ed è presente lungo la storia biblica. Esso appare ai primordi dell’umanità (Gen 1,1), dove viene presentato il Creatore che agisce attraverso il suo “Spirito” (ruah) sulle acque cosmiche; ma si ritrova anche ampiamente attestato nell’Apocalisse e nella visione finale in riferimento alla “nuova creazione” (Ap 21,1: il mare; 22,2: il fiume e la fecondità). Ad uno sguardo complessivo si può affermare che una considerevole parte della tradizione extrabiblica e biblica fa riferimento all’acqua come elemento fondamentale e presupposto costitutivo della struttura del mondo (Gen 1,6: “divise poi in acque superiori ed inferiori”). Essa è principio di vita e di morte a seconda della situazione in cui si trova e in cui si usa, è semplice e chiara nella sua costituzione fluida, ma può costituire nella sua grande massa un senso di mistero, di penetrabilità di luce solo parziale e di forza incontrollabile. Unitamente alla sua notevole attestazione quantitativa (oltre 1500 riferimenti biblici), la categoria dell’acqua porta in sé una consistente valenza simbolica legata alle origini della creazione, alla vita degli uomini e alla loro esperienza di fede, con un’ampia gamma di significati. Dopo un accenno all’impiego biblico del termine “acqua” e ai suoi derivati, articoliamo il nostro percorso in due parti:
– l’acqua come categoria espressiva della vita e della storia del popolo ebraico;
– l’acqua come simbolo dell’esperienza cristiana.
L’elaborazione dei principali messaggi legati al nostro tema ci consente di rileggere la categoria in una prospettiva esistenziale e segnatamente rivolta al mondo giovanile e al suo contesto.

L’impiego biblico del termine “acqua” e i suoi derivati
Il termine ebraico majîm (“le acque” attestato circa 580 nell’AT) e quello greco hydōr (LXX traduce quasi sempre con questo termine l’ebraico majîm) designano la categoria dell’acqua e i suoi derivati. In Es 15,8 e Sal 77,16 hydōr allude ai “torrenti” (dall’ebraico nāzal); con il termine greco pēghē (impiegato oltre 50 volte) si indica l’erompere dell’acqua sorgiva (Gn 2,6) e, al plurale, le sorgenti che provengono dall’abisso (Gn 7,11; 8,2). Molto di frequente la parola viene usata come complemento di termini idrografici (Sal 1,3: ruscelli d’acqua; Gn 24,13: fonte d’acqua) o unita ad una località (Gs 11,5.7: acqua di Merom; Gs 16,1: acqua di Gerico; Gdc 5,19: acque di Meghiddo). Inoltre con il termine majîm rabbîm nella Bibbia si indica anche la massa marina delle acque (Is 23,3; Ez 27,26; Sal 29,3; 77,20; 107,23). Il suo uso linguistico allude ad una materia che si manifesta in varie forme: con l’acqua si indicano fenomeni meteorologici (nubi, nebbia, foschia, grandine, rugiada, neve, brina), designazioni geografiche (fonti, ruscelli, fiumi, canali, torrenti, mari) e usi domestici (bevanda, economia della casa, lavoro). Conseguentemente le immagini che si collegano all’acqua non sono proprie del concetto stesso, ma vengono espresse in forme diverse e con l’ausilio di specificazioni e di ampliamenti di senso. Rileggendo le narrazioni bibliche è possibile cogliere la ricchezza espressiva e simbolica della categoria dell’acqua nei suoi contesti.

L’acqua come categoria espressiva della vita del popolo ebraico

Le idee e i messaggi connessi all’acqua si fondono nella storia salvifica vissuta dal popolo ebraico e nel contesto concreto della terra di Canaan, della sua situazione idrica e della cultura legata alla vita quotidiana e agli scambi sociali tra i gruppi sociali del tempo. Alla luce delle ricorrenze della categoria dell’acqua, possiamo distinguere con L. Goppelt un uso proprio e uno traslato. Nell’uso proprio del termine si individuano tre aspetti legati all’acqua.

L’acqua come elemento indispensabile di vita per gli uomini e la natura
Molte sono le allusioni al ruolo dell’acqua per la sussistenza umana: essa insieme al pane è una necessità vitale e benedetta da Jahvé (Es 23,25). Così la costante pane-acqua ritorna nelle vicende di importanti personaggi biblici: Davide (1Sam 30,11-12); Elia (1Re 18,4.13; 22,27); Eliseo (2Re 6,21); Ezechiele (Ez 4,11-16s). Il digiuno totale consiste nel rinunciare al pane e all’acqua (Es 34,28, Dt 9,9.18). Troviamo l’impiego dell’acqua nelle frequenti citazioni di pozzi e cisterne (Gn 26,18; 37,20), in riferimento all’irrigazione della terra coltivabile (Dt 11,10; 2Re 18,17), per l’abbeverazione del bestiame (Gn 30,38) e soprattutto l’approvvigionamento idrico durante il cammino attraverso il deserto. Al popolo assetato, che mormora per la scarsa fede (Nm 20,24; 27,14; Sal 81,8; 106,32) Dio risponde con il prodigio della sorgente scaturita dalla roccia (Es 17,2-7; Nm 20,7-11). Questo episodio sarà ripreso come insegnamento per il popolo nella grande profezia del nuovo esodo (Is 48,20-21), quando il Signore farà fiorire il deserto (Is 41,17-18) e la gente di Israele con tutto il suo bestiame sarà dissetata (Is 43,20). L’acqua come elemento di vita è presente nella promessa della terra “fertile”, che si differenzia dalla steppa e dal deserto. È proprio questa terra fertile promessa da Jahvé che sarà la “stabile dimora del popolo” (Nm 24,7; Dt 8,7; 11,11). Essa diventerà successivamente immagine soltanto parziale del “luogo escatologico” che prefigura, per i giusti, una terra paradisiaca nella quale sgorgheranno torrenti di acqua viva (Is 30,23-26): sarà lo stesso Signore a fornire pane e acqua per la vita degli uomini (Is 55,1).

L’acqua come marea fluttuante
Un secondo aspetto è dato dalla presentazione dell’acqua come un oceano o una marea fluttuante, presentata in modo particolare in tre contesti veterotestamentari. Il primo contesto è costituito dal racconto di creazione di matrice sacerdotale (Gn 1,1-2,4a), secondo il quale il creatore “separa” le acque del mare (immagine del caos cosmico) facendo sorgere la volta celeste e collocando le acque superiori al di sopra della volta celeste (oceano celeste, cf Gb 36,27-28; Sal 29,3; 33,7; 148,4) e le acque inferiori al di sotto del firmamento (il mare su cui poggia la calotta terrestre, cf Sal 104, 2-4). La marea fluttuante, per opera di Dio, da caos cosmico si trasforma in parte costitutiva del cosmo ordinato secondo le leggi della creazione. Il secondo contesto, unito al precedente, è dato dal racconto del diluvio universale dove le acque primordiali si riversano per ordine di Dio sulla terra dal di sopra dei cieli e dal di sotto (Gn 7,11), provocando il ritorno del caos e della morte. In questo caso le acque rappresentano la potenza del caos che minaccia la terra e i suoi abitanti. Il terzo contesto è costituito dalla narrazione della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù di Egitto e dal passaggio del Mar Rosso (Es 14-15). La funzione dell’acqua distruttrice è sottolineata soprattutto nella tragica sorte degli inseguitori di Israele che vengono travolti dalla potenza delle onde, mentre il popolo è libero e salvo sulla terra ferma (Es 14,27-30; 15,19-21). Questo evento salvifico del “passaggio attraverso le acque” diventerà una costante simbolica nell’esperienza di Israele e nella sua rielaborazione teologica (Sal 77,17.20-21; 78,13; 106,9-11; 136,13-15; Is 51,10; 63,12; Ne 9,11). Una ripresa di questo tema può essere intravista nell’episodio del transito dell’arca attraverso il fiume Giordano nell’ingresso della terra promessa (Gs 3,8; 4,18) e nel gesto simbolico del profeta Elia che divide con il suo mantello le acque dello stesso fiume (2Re 2,8).

L’acqua come mezzo di purificazione
Un terzo aspetto relativo all’impiego della categoria dell’acqua è collegato alla sua valenza rituale e purificativa. Nella pratica dell’ospitalità l’acqua viene offerta ai forestieri per la lavanda dei piedi (Gn 18,4; 19,2; 2Sam 11,8). Insieme all’olio, al sangue e al fuoco, l’acqua diviene per la comunità ebraica un elemento necessario per le purificazioni rituali, prescritte e tramandate nella tradizione levitica (cf Lv 11-15). Secondo le leggi di purificazione, ogni persona che era contaminata doveva lavare il suo corpo con l’acqua corrente (Lv 14,5-6; Nm 19,9-22), così come i riti di purificazione vengono svolti mediante aspersioni su persone e oggetti (Lv 14,7.51; Nm 8,7; 19,18-19). Insieme al bagno del corpo nella legislazione levitica è spesso prescritto per l’uomo il lavaggio dei vestiti (Lv 14,8-9; 15,5-13; Nm 8,7.21) e di tutto ciò che viene a contatto con il mondo pagano ed impuro, in quanto Israele, quale popolo consacrato a Jahvé, è chiamato a tenersi distante da tutto ciò che lo rende profano. Particolare è il caso di un rinvenimento di cadavere contemplato in Dt 21,6, che prescrive agli anziani della comunità la lavanda delle mani “su una giovenca decollata” per affermare la propria innocenza e purificare il luogo mediante il sangue (cf Nm 19,11-13). In questa linea rituale si colloca il simbolismo della purificazione dal peccato mediante il segno dell’acqua (Sal 51,9) e della remissione delle colpe di tutto il popolo mediante un’aspersione escatologica (Ez 36,25), simbolo del perdono finale di Dio (Is 1,16; 4,4; Ger 33,8) e soprattutto la prospettiva battesimale neotestamentaria. Nello sviluppo del giudaismo fino al tempo di Gesù i farisei elaborarono un sistema articolato di prescrizioni rituali per la purificazione (lavanda di mani, stoviglie, vesti, ecc.) menzionato nei vangeli nel contesto della polemica tra Gesù e i farisei (Mc 7,2-5). L’uso dell’acqua per la purificazione è inoltre prescritto presso le comunità esseniche (Qumr¯an) con una forte valenza rituale per la “santificazione totale” degli adepti.

Il percorso simbolico nella storia del popolo di Dio
Oltre al suo uso proprio, la categoria dell’acqua si caratterizza per la sua valenza metaforica e simbolica. Evidenziamo alcuni aspetti che ci aiutano a cogliere la ricchezza della categoria dell’acqua nella tradizione biblica.

L’acqua creatura di Dio
Nei racconti della creazione, che conservano i modelli culturali mesopotamici, si pone in evidenza come l’acqua è inserita nell’ordine istituto da Dio. Infatti secondo l’antica visione cosmogonica dell’universo, la potenza dell’acqua è saggiamente utilizzata da Dio per separare, per inondare la terra di pioggia (Gn 7,11; 8,2), per far scendere la rugiada sull’erba (Gb 29,19). È Dio il “signore del mondo” e quindi anche dell’acqua: da lui proviene la vita, la siccità (Am 7,14; Is 44,27) o l’inondazione (Gb 12,15), “egli spande la pioggia sulla terra” (Gb 5,10) e veglia affinché cada regolarmente “a suo tempo” (Lv 26,4). Nella sua provvidenza Dio accorda agli uomini le piogge di autunno e di primavera (Dt 11,14; Ger 5,24) assicurando la prosperità al paese (Is 30,23-25). Tra tutti i testi biblici il Sal 104 riassume con particolare efficacia il dominio del Creatore sulle acque: egli ha creato le acque superiori come quelle dell’abisso (104,3.6), regola il flusso del loro corso (104,7), le ritiene affinché non sommergano il paese (104,9), fa sgorgare le sorgenti (104,10) e discendere la pioggia (104,13) per portare gioia e prosperità sulla terra (104,11-18). L’associazione dell’acqua con gli estremi, trascendenza dei cieli e profondità degli abissi, fa di questa categoria una delle più efficaci per esprimere la grandezza e l’onnipotenza di Dio sull’uomo e sulla storia.

L’acqua nella storia del popolo di Dio
L’azione di Dio nei riguardi del suo popolo si può rileggere attraverso la valenza simbolica dell’acqua. Infatti è comune sentire di Israele che la fecondità rappresenti una benedizione divina dispensata sul popolo (Lv 26,3-5; Dt 28,1.12), mentre la siccità appare come una punizione per gli empi e i peccatori (Is 5,13; 19,5-7). La chiave di lettura della storia biblica della nostra categoria è segnata dalla fedeltà all’alleanza e dall’obbedienza alla legge, in base alla quale l’Onnipotente accorda o rifiuta l’acqua, e quest’ultima diventa strumento di vita o di morte per la comunità ebraica. La parola di Dio è paragonata alla pioggia che viene a fecondare la terra (Is 55,10-11; Am 8,11-12), e la dottrina che la sapienza di Dio elargisce è considerata come “un’acqua vivificatrice” (Sir 15,3; 24,25-31). Così per coloro che obbediscono alla voce del Signore e lo servono fedelmente l’acqua sarà dono di fecondità e di rinnovamento (Gn 27,28; Sal 133,3; Ez 47), sorgente di vita (Es 17,1-7) e guarigione (il caso di Naaman il siro che si lava nel Giordano: 2Re 5,10.14), mentre per quanti abbandonano Dio per seguire altri idoli ci sarà siccità e desolazione (cf il caso di Acab e la sfida di Elia sul Carmelo, 1Re 18,18). Nella medesima prospettiva simbolica va letta la “grande purificazione” del diluvio, devastatore dell’umanità corrotta (Gn 6-9), la settima piaga contro l’Egitto (una terribile tempesta accompagnata da grandine e piogge torrenziali, Es 9,33-35), l’uragano contro i nemici di Giosuè a Gabaon (Gs 10,11) e la copiosa pioggia sulle truppe nemiche raccolte ai piedi del Tabor, al tempo di Debora (Gdc 5,4). Secondo lo schema interpretativo desunto dalle narrazioni cultuali e parenetiche, la storia dell’alleanza tra Jahvé e il suo popolo è quindi fortemente segnata dal simbolismo dell’acqua che accompagna il progressivo cammino della comunità santa nel compimento delle promesse di Dio.

La valenza escatologica
Un ulteriore rilevante aspetto è associato alla categoria dell’acqua: la sua valenza escatologica, vista nella prospettiva della restaurazione del popolo di Dio, con il ritorno degli esuli dall’esilio di Babilonia. È proprio a partire dall’evento drammatico dell’esilio babilonese (2Re 25), che prende forma una consistente riflessione escatologica nella quale viene rielaborata la teologia del nuovo esodo e ricollocata nella prospettiva della restaurazione finale mediante splendidi prodigi. Come un tempo Jahvé aveva dato acqua dalla roccia per spegnere la sete del suo popolo (Nm 20,1-13; Sal 78,16.20; 114,8; Is 48,21), così il Dio fedele all’alleanza un giorno rinnoverà questo prodigio (Is 43,20) e il deserto si trasformerà in un fertile frutteto (Is 41,17-20), in tutto il paese ci saranno abbondanti sorgenti (Is 35,6-7). È centrale in questa prospettiva l’immagine di Gerusalemme, dal cui tempio ricostruito sgorgherà una fonte perenne (Ez 47,1-12) e lungo il suo corso sarà abbondante e rigogliosa la vegetazione. Questo è il segno della speranza, del ritorno della gioia e della felicità “paradisiaca”. In questo tempo di gioiosa ricomposizione il popolo troverà nelle acque benedette la purezza (Zc 13,1), la vita (Gioe 4,18) e la santità (Sal 46,5). “In breve, Dio è la fonte di vita per l’uomo e gli dà la forza di fiorire nell’amore e nella fedeltà. Lontano da Dio l’uomo non è che una terra arida e senza acqua, votata alla morte; egli quindi sospira verso Dio come la cerva anela all’acqua viva. Me se Dio è con lui, egli diventa come un giardino che possiede in sé la fonte stessa che lo fa vivere” (M.-E. Boismard).

L’acqua come simbolo dell’esperienza cristiana
La maggior parte degli aspetti rilevati riguardo all’acqua nel percorso veterotestamentario sono ripresi nella predicazione di Gesù e della prima comunità cristiana, in modo particolare nella prospettiva battesimale e nella letteratura giovannea. Sia in senso proprio che figurato, la categoria dell’acqua riassume complessivamente le tre dimensioni indicate per l’Antico Testamento: si presenta come dono di Dio per la vita (l’immagine del bicchiere di acqua fresca: Mt 10,42; il ricco epulone, Lc 16,24-26), come marea fluttuante (l’immagine del lago [mare] di Genezaret: Mc 4,35; il fiume di acqua: Ap 12,15) e come elemento rituale di purificazione (in casa di Simone il Fariseo: Lc 7,44; i riti dei giudei: Mc 7,2-5; la lavanda dei piedi: Gv 13,1-11). È essenziale notare che la riflessione neotestamentaria intorno alla categoria dell’acqua è in un rapporto strettissimo con la persona di Gesù, il quale è venuto a portare agli uomini le acque vivificatrici promesse dai profeti. Per ragioni di sintesi preferiamo soffermarci brevemente su quattro momenti salienti della vita di Cristo collegati al simbolismo dell’acqua, dai quali possiamo cogliere la specificità del messaggio cristiano: il battesimo (Mt 3,11-17), il segno di Cana (Gv 2,1-12), il dialogo con la samaritana (Gv 4,1-42) e la rivelazione salvifica a Gerusalemme (Gv 5; 7; 9; 13; 19).

L’acqua nel battesimo al Giordano
Il simbolismo dell’acqua trova il suo pieno significato nel battesimo cristiano (cf Mt 3,13-17), la cui risonanza neotestamentaria viene rielaborata in diversi luoghi neotestamentari (Rm 6; 1Cor 6,11; Ef 5,26; Tt 3,5; Eb 10,22; 1Pt 3,21; 2Pt 2,22). La scena del battesimo è preceduta dall’allusione all’acqua fatta dal Battista: “Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me e io non son degno neanche di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco” (Mt 3,11). In questa affermazione si coglie il passaggio dall’antico rito di purificazione in uso nel mondo giudaico-veterotestamentario, alla trasformazione spirituale operata dal Cristo. Per il credente il “battesimo con acqua” costituisce l’incipiente purificazione finale, che procura il perdono dei peccati e il processo della conversione, mentre Gesù compie il rinnovamento del cuore mediante il dono dello Spirito. Giovanni, compiendo il gesto battesimale verso Gesù, si serve dell’acqua del Giordano, che un tempo aveva purificato lo straniero Naaman dalla lebbra (2Re 5,10-14). L’intero racconto di Mt 3,13-17 ruota intorno al binomio acqua-Spirito: la predicazione escatologica di Giovanni, l’incontro con Gesù, l’immersione nelle acque del Giordano, l’attestazione dello Spirito e la conferma della voce divina dal cielo. Nel segno dell’acqua si unisce l’aspetto purificativo e rituale della tradizione ebraica con il rinnovamento del credente che si converte e aderisce a vangelo (Eb 9,13). L’affermazione del Battista viene ripresa più volte nel racconto degli Atti degli Apostoli, in una prospettiva spiccatamente ecclesiale e sacramentale. In At 1,5 si allude alla promessa dello Spirito Santo fatta da Gesù durante le apparizioni pasquali, mentre in At 19,1-7 Paolo incontra alcuni discepoli che avevano ricevuto il battesimo di Giovanni e li orienta al battesimo cristiano nello Spirito. Allo stesso modo l’adesione alla fede da parte dei non circoncisi implica il dono del battesimo, come momento culminante dell’esperienza cristiana (At 10,47-48; 11,16-17). Questi passi fanno riferimento all’evento del Giordano e al significato profondo che si attribuisce al battesimo di Gesù. Dio concede lo Spirito Santo non in modo automatico, bensì in funzione della fede e della formazione della chiesa (At 8,16-17). In definitiva l’acqua nel battesimo al Giordano possiede una ricca simbologia che evidenzia il dinamismo dell’esistenza cristiana, dal processo di conversione all’impegno a favore della costruzione della comunità dei credenti.

L’acqua cambiata in vino a Cana
Tra i diversi messaggi contenuti nella nota pagina di Gv 2,1-12, va evidenziato il “passaggio” dell’acqua nel vino necessario alla buona riuscita delle nozze. L’abbondante vino della gioia e della festa è quindi derivato dall’acqua, che era nelle giare di pietra a disposizione per la lavanda delle mani e per la purificazione dei vasi (Gv 2,6). Questa osservazione potrebbe fornire un ulteriore senso teologico al cambiamento degli elementi: il dono della gioia messianica e della salvezza portata da Cristo (vino) subentra ai riti e alla legge (acqua) vigente presso il popolo di Israele (cf Gv 1,17). Infatti facendo riempire di acqua le giare, Gesù indica la volontà di “ristabilire il rapporto con Dio” che la Legge antica (scritta su pietre) non aveva ottenuto. La trasformazione in vino, rilevata dall’assaggio del maestro di tavola, spiega che la purificazione è indipendente dalla Legge dell’antica alleanza: tale purificazione non avverrà al di fuori (acqua che lava), ma nell’intimo dell’uomo (vino che si beve). La narrazione si conclude con l’affermazione: “Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,11). L’inizio dei segni indica l’inizio di un modo nuovo di comprendere l’esperienza della fede cristiana, che implica un salto di qualità nel credere non tanto al miracolo, quanto alla persona di Gesù, “sposo dell’umanità” che trasforma il vecchio in nuovo, l’acqua in vino.

L’acqua nel dialogo con la samaritana
Un prezioso testo cristologico collegato con il simbolismo dell’acqua è l’incontro tra Gesù e la donna samaritana (Gv 4,1-42). L’incontro tra i due personaggi culmina nel messaggio enigmatico di Cristo: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: ‘Dammi da bere!’, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva” (Gv 4,10). Il dialogo tra i due personaggi ruota intorno al concetto di “acqua viva”: la donna viene gradualmente guidata da Cristo all’interno del suo cuore per scoprire il senso nascosto di quelle parole e cogliere la verità della propria vita. L’acqua viva, che in Gv 7,37 allude al dono dello Spirito Santo, viene proposta a partire dall’immagine veterotestamentaria del “pozzo di Giacobbe” (Gv 4,5-6.12). Il Signore trasforma l’acqua delle promesse fatte a Giacobbe (pozzo) in una “sorgente zampillante per la vita eterna” (Gv 4,14), un dono che estingue la sete e che porta l’uomo alla pienezza della sua realizzazione. La profezia diventa compimento in Gesù. “Il suo dono, l’acqua viva, che diventa la sorgente di acqua, è la sua parola (Gv 8,37; 15,7), il suo spirito (Gv 7,39; 14,17) lui stesso (Gv 6,56; 14,20; 15,4-5): in Gv 7,39 è appropriatamente spiegata dall’evangelista” (L. Goppelt). Il senso conferito alla categoria dell’acqua è profondamente cristologico. Gesù diventa la risposta alla domanda del cuore umano: se il pozzo di Giacobbe ha avuto un ruolo vitale ma temporaneo per i personaggi patriarcali, sarà l’incontro nella fede con Cristo-sorgente a compiere quel desiderio di verità e di pace che ci spinge “oggi” a rimetterci in discussione e ad accogliere “il profeta” che disseta la nostra sete.

L’acqua elemento di rivelazione e segno di salvezza
Infine vanno menzionati, nel contesto dei racconti relativi al ministero di Gesù in Gerusalemme, almeno quattro episodi legati all’acqua e al suo simbolismo. I primi due sono racconti di guarigione: il malato da trentotto anni presso la piscina di Betzaetà (Gv 5, 1-9) e il cieco nato che va a lavarsi nella piscina di Siloe (Gv 9,7). Entrambi ottengono la salute nel giorno di sabato: il primo viene guarito senza entrare nell’acqua della piscina, a dimostrazione che l’adesione a Cristo ottiene una grazia escatologica che abolisce le regole naturali e supera la stessa norma del sabato (Gv 5,7-9.17.20-21). Il secondo riceve il fango sugli occhi e ritrova prima la vista fisica (Gv 9,7) e, dopo un lungo percorso di discernimento (Gv 9,8-35), fa l’incontro con Cristo ed entra nell’esperienza della fede (Gv 9,36-43). In quest’ultimo racconto di guarigione il cieco guarito ci aiuta a comprendere come il percorso di “riconoscimento” di Cristo comincia dall’atto purificatore dell’acqua di Siloe e dalla sua immersione. L’evangelista gioca sul senso della parola “Siloe” (che significa Inviato), in riferimento a Cristo e di conseguenza “lavarsi in Siloe” esprime un’allusione al contesto battesimale. Gli ultimi due testi rappresentano il compimento del nostro percorso biblico: l’acqua nel gesto della lavanda dei piedi (Gv 13,1-11) e il costato trafitto di Gesù sulla croce, da cui esce “sangue ed acqua” (Gv 19,34). Con il gesto della lavanda viene rappresentato in figura ciò che Gesù compirà nella passione a favore dei suoi discepoli: un amore “fino all’ultimo” (eis telos: Gv 13,1.34; 15,13). Questo amore consiste nel “rendere puri i suoi discepoli” di fronte a Dio (Gv 13,6-11) e nel dare l’esempio estremo del servizio reciproco (Gv 13,12-20), di come il Cristo non è venuto per essere servito ma per dare la vita (cf Mc 10,45). La scena descritta in Gv 19,31-34 va colta in tutta la sua ricchezza simbolica: la trafittura del costato da cui fuoriesce “sangue ed acqua” non sottolinea solo il sopravvenire della morte, ma vuole ricordare che i due sacramenti qui simboleggiati, eucaristia e battesimo, derivano dalla morte di Gesù e con ciò sono consegnati alla chiesa. Come in una inclusione, il quarto vangelo apre con l’acqua del battesimo al Giordano e chiude l’esistenza terrena di Gesù con l’acqua del suo costato trafitto. Una chiara allusione a questa elaborazione teologica si trova in 1Gv 5,6-8, dove l’autore collega il significato dell’acqua battesimale con quello della morte pasquale e del dono dello Spirito, così come nel dialogo notturno con Nicodemo la “rinascita da acqua e da Spirito” si riferisce ugualmente al battesimo (Gv 3,5) che è un “venire alla luce” (Gv 3,21). In definitiva la categoria dell’acqua accompagna il graduale manifestarsi di Gesù agli uomini ed evidenzia la fecondità e la vita che Dio, nel suo Spirito, dona a quanti si affidano a Lui.

L’acqua, categoria comunicativa nel contesto giovanile
Il nostro percorso ci ha consentito di evidenziare numerosi e ricchi contenuti biblici, che chiedono di essere tradotti nel contesto esistenziale e pastorale. Ci sembra opportuno segnalare almeno cinque relazioni in grado di coniugare i contenuti della riflessione biblico-teologica con le attese e le aspirazioni del contesto giovanile del nostro tempo:
– acqua / “dono di vita”;
– acqua / “appello alla conversione”;
– acqua / “riscoperta battesimale”;
– acqua / “segno di servizio”;
– acqua / “attesa di speranza”.

Acqua – “dono di vita”
L’analisi proposta ci ha mostrato come la categoria dell’acqua esprima in primo luogo il senso della vita e della fecondità, che è forte nel cuore del mondo giovanile. Il libro del Siracide ricorda all’uomo ciò che gli è essenziale: “Indispensabili alla vita sono l’acqua, il pane, il vestito e una casa che serva da riparo” (Sir 29,21). Il bisogno di vita autentica e di essenzialità sono aspetti centrali della ricerca esistenziale e progettuale dei giovani, troppe volte disattesi o mistificati. L’amore per la vita, la freschezza che nasce dal desiderio di libertà, trovano nell’applicazione della nostra categoria riferimenti efficaci per poter esprimere la bellezza del “dono dell’esistenza”. Come l’acqua è creatura di Dio, elemento costitutivo del mondo, essenziale alla natura e agli uomini, così la vita va letta e proposta come “dono straordinario”, deve caratterizzarsi per la sua “fluidità”, per la sua “purezza” e la sua “fecondità”. Tuttavia l’acqua non può essere feconda se non riceve una “separazione” come nel modello della creazione. Dio, separando le acque, crea e dà ordine al cosmo; così è per la vita e la sua progettualità. Come l’acqua governata da Dio scende dal cielo, segue un percorso, viene convogliata dagli uomini per l’irrigazione e feconda la terra, così la vita chiede di essere spesa secondo un progetto di totale donazione agli altri.

Acqua – “appello alla conversione”
Un secondo aspetto è legato al bisogno di cambiamento e di conversione: entra qui in gioco la capacità di “saper guardare” dentro la vita e di lasciarsi guidare nel discernimento. Non c’è decisione di conversione senza prima l’incontro con il proprio cuore ferito e deluso. Abbiamo considerato come l’impiego dell’acqua nella Bibbia designi in vari modi la purificazione dal peccato da parte del singolo e della comunità. L’acqua, dono di Dio per la vita, è il segno di una purificazione non solo esteriore, ma interna, profonda. La dinamica della conversione implica un “rinascere”, una capacità di accogliere la forza spirituale per intraprendere il cammino di verità di fronte a se stessi, agli altri e a Dio. All’anziano Nicodemo, Gesù annuncia la necessità di “rinascere dall’acqua e dallo Spirito” (Gv 3,5), in una duplice prospettiva: purificare i peccati della vita passata e rinnovarsi nel nuovo modo di “vedere-credere” in Dio attraverso il dono dello Spirito (che viene “dall’alto”). Così nei vari simboli biblici della purificazione/conversione rappresentati dallo “scendere-immergersi” nell’acqua, dall’aspersione con l’acqua, dal “passaggio attraverso l’acqua”, dal superamento delle prove rappresentate dalla violenza delle acque fiumane, dal “camminare sopra le acque”, diventano un invito concreto a “risalire dalle acque”, ad accettare la verità della propria esistenza e a saper superare con realismo gli errori, i conflitti e gli ostacoli che ci oppongono al progetto di Dio.

Acqua – “cammino battesimale”
In continuità con la precedente relazione, la categoria dell’acqua nella sua rilettura neotestamentaria, implica la riscoperta e il recupero della centralità del proprio cammino catecumenale e battesimale e con esso la dimensione comunitaria. Il battesimo è per se stesso il “sacramento giovane” che viene posto come condizione iniziale del cammino verso la vita. Esso non è solo il bagno che lava i nostri peccati (1Cor 6,11; Ef 5,26), ma attraverso il ricco simbolismo dell’immersione-emersione del neofita esso configura il credente alla morte e risurrezione di Cristo, principio pasquale di vita nuova. Di fronte alla difficoltà di proporre il senso dell’esperienza battesimale al mondo giovanile, la rilettura della categoria dell’acqua nelle sue narrazioni e simbologie, aiuta a rileggere in profondità l’itinerario dell’incontro personale e comunitario con Dio (il diluvio, il passaggio del mar Rosso, la guarigione di Naaman il siro, ecc.). Occorre notare come l’intero percorso battesimale implichi l’ingresso nell’esperienza comunitaria: il neofita viene accolto dalla chiesa e scopre il suo posto “dentro” la comunità dei credenti. Questa realtà costituisce senza dubbio la frontiera più delicata dell’esperienza pastorale con il mondo giovanile: la dimensione comunitaria rappresenta la condizione vitale per vivere il proprio battesimo e portare a compimento il progetto di Dio.

Acqua – “segno di servizio”
Un ulteriore messaggio che emerge dalla nostra analisi è la connessione tra la categoria dell’acqua e il gesto del servizio, particolarmente significato dalla scena della lavanda dei piedi (Gv 13,1-11). Riprendendo l’antica tradizione dell’ospitalità, secondo la quale si offriva al forestiero acqua per lavarsi i piedi, Gesù compie il segno dell’amore estremo che anticipa il dono totale di sé. Il linguaggio del servizio parla al mondo giovanile senza rischi di retorica: servire per amore significa “chinarsi” davanti agli altri e scegliere di “lavare i piedi”, gesto che lo schiavo eseguiva verso il suo padrone. Il messaggio evangelico propone il radicale rovesciamento delle relazioni interpersonali: è il maestro che lava i piedi ai suoi discepoli e dà l’esempio a tutti. Pietro interpreta il gesto come una purificazione rituale (Gv 13,9), ma Gesù corregge l’idea aprendo la prospettiva nuova dell’amore fraterno e della totale offerta di sé agli altri: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Gv 13,14). Nel segno della lavanda dei piedi è racchiuso tutto il mistero del servizio cristiano, la sua dignità, la sua sconvolgente profezia, che già in diversi modi tantissimi giovani interpretano e vivono.

Acqua – “attesa di speranza”
Un ultimo aspetto è dato dalla dimensione dell’attesa e della speranza, che si coglie in particolar modo in due testi giovannei: la rivelazione nell’ultimo giorno della festa delle capanne (Gv 7,39) e la scena del costato trafitto del crocifisso (Gv 19,34). In entrambi i testi emerge in modo suggestivo la “promessa” dello Spirito Santo che il Risorto avrebbe effuso sui credenti e la pienezza dell’amore rivelata nel mistero pasquale. La fede in Gesù, generata dall’incontro personale con il Risorto, fa abbeverare a Cristo e dalla sua acqua fa nascere la “forza della speranza”, come uno sgorgare di “fiumi di acqua viva”. Lo stesso simbolo è ripreso in Ap 7,17, dove si afferma che Cristo condurrà gli eletti alle sorgenti delle acque della vita e, a chi ha sete, il Signore darà da bere alla sorgente della vita (Ap 21,6). L’acqua diventa così una immagine per esprimere la forza della speranza cristiana, che vede il mondo giovanile protagonista di questo tempo, non sottomesso alla logica della massificazione e del calcolo umano, ma profeticamente libero di guardare al tempo che passa come un incessante scorrere di un acqua viva in attesa di quel “fiume di acqua di vita che scaturisce dal trono dell’agnello” (Ap 22,1).

Conclusione
Le considerazioni svolte intorno alla categoria dell’acqua ci hanno fatto cogliere non solo la consistenza simbolica e l’ampiezza del tema, ma soprattutto la natura del cambiamento avvenuto nel passaggio dall’Antico Testamento alla persona di Gesù Cristo, “sorgente di acqua viva”. In effetti questa importante categoria diventa una significativa chiave di lettura per rileggere l’incontro con la persona di Gesù e “rimanere in Lui”. Ripercorrendo il vangelo giovanneo non è difficile constatare come la categoria dell’acqua possa costituire un’efficace chiave di lettura dell’incontro con Cristo. Gesù si immerge nell’acqua del Giordano (Gv 1) e trasforma l’acqua della purificazione in vino nuovo (Gv 2). A Nicodemo, visitatore notturno, annuncia che si può “rinascere” solo “dall’acqua e dallo Spirito” (Gv 3) e alla samaritana rivela di essere Lui stesso “la sorgente di acqua zampillante” (Gv 4). Il Signore guarisce il malato alla piscina di Betzaetà annullando la lunga attesa per la sua risposta di fede (Gv 5) e dopo il segno della moltiplicazione dei pani dimostra la sua signoria, “camminando sulle acque” (Gv 6). Al culmine della festa delle Capanne Gesù rivela la promessa dell’acqua viva per i credenti (Gv 7), tra i quali sarà anche il cieco nato, guarito dopo essersi lavato alla piscina di Siloe (Gv 9). Così l’acqua della lavanda dei piedi anticipa, come segno dell’amore estremo (Gv 13), l’evento della glorificazione del Figlio crocifisso, dal cui costato, come dalla roccia del deserto esce “sangue ed acqua” (Gv 19) per la salvezza del mondo.

Publié dans:biblica, BIBLICA - TEMI |on 14 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

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