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IL SEGNO DEL MANTELLO – IL MANTELLO DI ELIA

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IL SEGNO DEL MANTELLO – IL MANTELLO DI ELIA

« Poi, volendo Dio rapire in cielo in un turbine Elia, questi partì da Galgala con Eliseo. Elia disse a Eliseo: « Rimani qui perché il Signore mi manda fino a Betel ». Eliseo rispose: « Per la vita del Signore e per la tua stessa vita, non ti lascerò ». Scesero fino a Betel. I figli dei profeti che erano a Betel andarono incontro a Eliseo e gli dissero: « Non sai tu che oggi il Signore ti toglierà il tuo padrone? ». Ed egli rispose: « Lo so anch’io, ma non lo dite ». Elia gli disse: « Eliseo, rimani qui, perché il Signore mi manda a Gerico ». Quegli rispose: « Per la vita del Signore e per la tua stessa vita, non ti lascerò ». Andarono a Gerico. I figli dei profeti che erano in Gerico si avvicinarono a Eliseo e gli dissero: « Non sai tu che oggi il Signore ti toglierà il tuo padrone? ». Ed egli rispose: « Lo so anch’io, ma non lo dite ». Elia gli disse: « Rimani qui, perché il Signore mi manda al Giordano ». Quegli rispose: « Per la vita del Signore e per la tua stessa vita, non ti lascerò ». E tutt’e due si incamminarono. Cinquanta uomini tra i figli dei profeti li seguirono e si fermarono a distanza. Loro due si fermarono sul Giordano » (2 Re 2, 1-7).
In questa pagina abbiamo la chiamata di Eliseo, il cui nome significa « Dio è la mia salvezza », al ministero profetico e la paternità spirituale di Elia come eredità.
Eliseo era figlio di Safat, faceva il contadino e viveva con i genitori ad Abel-Mecola, una località di identificazione incerta. Molti sono i simboli che accompagnano questa chiamata.
« Arava con dodici paia di buoi ». Basterebbe soltanto questa citazione del v. 19, per descrivere la nostra riflessione sulla chiamata di Eliseo.
Il termine « Arare » nella Bibbia viene usato sia letterale che metaforico. Metaforicamente, il termine indica la situazione di una persona, di uno stato o il giogo dei nemici (Sal 129,3); oppure anche la consacrazione diretta, come dirà Gesù: « Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volta indietro, è adatto per il regno di Dio » (Lc 9, 62).
Il numero dodici è molto importante per vari aspetti. Fra questi ricordiamo la pienezza numerica del popolo di Dio evidenziandone i dodici figli di Giacobbe (Gen 35, 22-26), dai quali derivano le dodici tribù di Israele. Il numero dodici simboleggia la restaurazione di Israele. Gesù istituisce i dodici come garanzia dell’autenticità degli insegnamenti di Gesù, che dopo la sua resurrezione formeranno la Chiesa.
Ma ciò che caratterizza di più in questo versetto 19 è il simbolo del mantello, tipico indumento del profeta (cfr Zac 13, 4; Mt 3, 4). Esso indica la vita e la personalità di chi lo indossa (cfr 1 Sam 28, 14; 2 Re 1, 18).
Eliseo è stato attratto dalla personalità di Elia, è stato attratto proprio dall’uomo che vive alla presenza di Dio. Poco prima Elia aveva sperimentato il suo vivere alla presenza di Dio in modo « silenzioso », « come un lieve sussurro » (v. 13).
È interessante notare la differenza della vocazione di Eliseo dalle altre. Dio lo chiama inaspettatamente: non in un contesto di preghiera, ritiro spirituale o in modo straordinario come Mosè (Es 3, 1). Non è chiamato attraverso la mediazione della Parola come accadde a Samuele (1 Sam 3, 1) o attraverso l’animatore vocazionale; ma in tutt’altre faccende: la vita di ogni giorno, il lavoro. Questo perché la vocazione non è solamente il progetto generale della propria vita, pensato da Dio e faticosamente scoperto dal credente, ma soprattutto le singole chiamate giornaliere, sempre nuove e provenienti dalla stessa fonte, dalla medesima volontà d’amore che Dio ha nei nostri confronti e sempre orientate verso la piena realizzazione e felicità del nostro essere. È nell’esperienza della vita che incontriamo Dio, è nell’arco dell’esistenza che avvengono le continue chiamate. L’importante è essere vigili, saper « arare globalmente » (il numero dodici vuole indicare anche questa globalità), in pienezza per essere capaci di riconoscere la sua voce e pronti a rispondergli ogni giorno e tutto il giorno: « Ogni vocazione… è « mattutina », è la risposta di ciascun mattino a un appello nuovo ogni giorno » (NVNE, 26°).
Nel brano proposto non troviamo né il tempo né il luogo, perché non ha bisogno di citare quando la Vita (il mantello) ci passa accanto, « sopra », perché quell’Eliseo può essere chiunque: ogni uomo e ogni donna, appartenenti ad ogni luogo e ad ogni parte del tempo: questi possono partecipare al carisma profetico di Elia (cfr Mc 1, 16-20; Mt 9, 9; Lc 9, 61-62). Tuttavia vi è un passaggio obbligato nella scoperta d’ogni progetto vocazionale che è legato all’identificazione del senso fondamentale dell’esistenza umana. In pratica Eliseo ha capito che la sua vita, la sua esistenza è un bene ricevuto che tende, per natura sua, a divenire bene donato. Infatti, questa sua logica lo accompagna a salutare, a congedarsi dai genitori che l’hanno portato alla vita come un dono (cfr 19, 20).
Simbolo di questa donazione della propria esistenza sono i buoi uccisi, il giogo che li teneva per l’aratura usato per il fuoco e la tavola imbandita per la gente (cfr 19, 21). È un gesto iniziale ma che segna il cammino di una scelta responsabile. Il cammino è luminoso per Eliseo (cfr Sal 119, 105; 132, 17), perché il Padre veglia su di lui, sorgendo prima del sole. Ed è proprio in questo viaggio che Eliseo viene confermato nel suo ministero che raccoglie l’eredità di Elia. È il viaggio della fedeltà. Elia parte per il suo ultimo viaggio ed Eliseo non desiste dal seguirlo manifestandogli la sua fedeltà e comunione di vita. Non è facile quello che la vita da profeta richiede: costanza, fedeltà, impegno e sarà più difficile, quando non abbiamo modelli, punti di riferimento. Eliseo decide di impegnarsi in questo cammino di fedeltà che segnerà il passaggio (il Giordano) del carisma profetico di Elia ad Eliseo.
I « due terzi dello Spirito » (2, 9) richiede Eliseo ad Elia, evoca il diritto di primogenitura: « Dovrà riconoscere come primogenito il figlio della donna meno amata, e, fra tutto quel che possiede, gli darà il doppio rispetto all’altro. Questo infatti è il suo primo figlio e ha il diritto del primogenito » (Dt 21, 17). Eliseo vuol essere riconosciuto discepolo primogenito di Elia. È una richiesta esigente! (cfr 2, 10).
La condizione per diventare profeta simile ad Elia è un’intensa esperienza di Dio, per parlare di Dio al popolo, bisogna fare prima un’intensa esperienza di Lui, un’intensa esperienza contemplativa: dice infatti Elia « se mi vedrai » (2, 10). Eliseo deve fare questa esperienza, deve vedere.
Elia viene rapito, assunto in Dio, nella passione di Dio (il carro di fuoco). Egli è l’uomo vivente in Dio.
Eliseo vive questo distacco dal suo padre spirituale: « non lo vide più », ma gli rimane il mantello, la vita di Elia, il suo stile di vita da imitare come un discepolo fedele.
Questa è l’esperienza di vita di Eliseo che in Elia « è stato generato », ha raccolto la sua paternità spirituale per poter iniziare una vita nuova. Simbolo di questo inizio sono le vesti che Eliseo lacera (2, 12), per indossare le vesti di Elia che lo ha generato al ministero profetico. Lo assume come modello, si ispira a lui. Tanto è vero che il seguito del brano racconta il viaggio di ritorno di Eliseo, passando dalle stesse difficoltà di Elia fino al Carmelo e vivendo come Elia (cfr 2 Re 4, 5; 6-8; 13, 14-21).
La vocazione di Eliseo ci ricorda ancora oggi che siamo stati voluti « ad immagine e somiglianza di Dio » (Dt 1, 26-27) e inoltre, chiamati a diventare immagine di Dio attraverso la comunione con Cristo, conformandosi sempre più a Cristo che è la vera immagine di Dio, associandoci sempre più a Cristo diventiamo immagine di Dio. Il conformarsi a Cristo è un dono ed un impegno che ci accompagnano nella vita. Leggiamo in 2 Cor 3, 18: « E noi tutti a viso scoperto… veniamo trasformati in quella medesima immagine ».
Paolo ci fa capire che non abbiamo bisogno di aspettare la fine dei tempi per essere conformi all’immagine di Cristo risuscitato. È vero che la sua conformazione piena e definitiva avverrà solo alla fine. Giovanni dice « Noi fin d’ora siamo figli di Dio… Sappiamo perciò che… noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo così come egli è » (1 Gv 3, 2), ma è anche vero che già sulla terra, attraverso la propria esperienza di fede, l’uomo viene progressivamente trasformato dal di dentro e reso capace di contemplare in Gesù la presenza della gloria divina.
Questo ci deve far corrispondere sempre più al nostro battesimo, impegnandoci responsabilmente, perché tutti chiamati ad accettare e approfondire – come ha fatto Eliseo – quello che veramente siamo.

Publié dans:BIBLICA - RIFLESSIONI |on 27 mai, 2019 |Pas de commentaires »

LA SACRALITÀ DELL’ACCOGLIENZA NELLA BIBBIA

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LA SACRALITÀ DELL’ACCOGLIENZA NELLA BIBBIA

Rev. Mons. Bruno MAGGIONI

Docente della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale

Nel deserto l’ospitalità è una necessità per sopravvivere, e tutti ne hanno diritto da parte di tutti. Se colui che ospita e colui che è ospitato sono nemici, l’accettazione dell’ospitalità implica una riconciliazione. L’ospite è sacro e deve essere protetto da ogni pericolo. Il viaggiatore, che giungeva in un paese non conosciuto, sedeva sulla piazza del mercato finché uno dei cittadini non lo invitava a casa sua. Sin qui, si può dire, forse un po’ generalizzando, era il costume del tempo. Ma nella concezione biblica c’è molto di più.

Racconti di ospitalità
La Bibbia parla raccontando. E a proposito dell’ospitalità ci sono racconti particolarmente illuminanti. Ne scegliamo tre.
1 – Abramo e i tre visitatori (Gn 18,1-10).
“Il Signore apparve ad Abramo alle querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai detto». Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce». All’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese latte acido e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse a loro. Così, mentr’egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono. Poi gli dissero: «Dov’è Sara, tua moglie?». Rispose: «È là nella tenda». Il Signore riprese: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio». (Gn 18,1-10).
Vorrei che anzitutto il lettore si soffermasse un istante sulla bellezza e la freschezza del racconto. La Bibbia non è soltanto un libro da cui trarre insegnamenti. Ha anche una sua innegabile bellezza letteraria, che non va trascurata. Con poche battute l’autore ci informa sulle circostanze di tempo e di luogo, ponendoci davanti agli occhi un quadro ricco di particolari e vivace: Abramo siede all’entrata della tenda, che – come si usava – era collocata un poco discosta dalla strada; è l’ora calda del mezzogiorno, quando si suole riposare. Ecco lì, ad un tratto, i tre uomini. Abramo non li ha visti venire, quasi a significare che Dio arriva sempre di sorpresa. È già un particolare che suggerisce che nell’episodio si nasconde un di più. L’invito di Abramo è tipicamente orientale: cortese e insieme pressante, e alle sue molte parole fa contrasto la risposta breve dei tre visitatori. Qui – come già all’inizio e poi anche alla fine – c’è uno strano passaggio dal plurale al singolare: i visitatori sono tre, ma Abramo si rivolge ad essi come se fosse uno solo. Tre e uno: gli ospiti sono il Signore.
Ora tutto è in movimento. Le donne si affaccendano per impastare e cuocere il pane, e Abramo corre all’armento per procurarsi la carne. Durante il pasto Abramo attende in piedi, rispettosamente, e sulla scena torna la calma. Poi, improvvisamente, i tre visitatori pongono ad Abramo una domanda e gli fanno una promessa, mostrando in tal modo di conoscere tutta la sua situazione: “Il Signore rispose: tornerò da te fra un anno e tua moglie avrà un figlio”. Non si tratta di tre semplici viandanti, sono il Signore.
Questo racconto può essere considerato esemplare per il tema dell’ospitalità. Un’ospitalità che rivela qui tutto il suo spessore teologico: accogliere dei pellegrini sconosciuti è accogliere il Signore!.
All’epoca dei patriarchi, e in tutto il mondo antico, l’ospitalità era la virtù per eccellenza. Amare il prossimo significava, in concreto, offrirgli ospitalità. Si legge nel libro del Deuteronomio: “Il Signore vostro Dio… non usa parzialità, rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito” (10,18).
2 – Elia e la vedova
“Il profeta Elia si alzò e andò a Zarepta. Entrato nella porta della città, ecco una vedova raccoglieva la legna. La chiamò e le disse: «Prendimi un po’ d’acqua in un vaso perché io possa bere». Mentre quella andava a prenderla le gridò: «Prendimi anche un pezzo di pane». Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ di olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo».
Elia le disse: «Non temere; su, fa’ come hai detto, ma prepara prima una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché dice il Signore: La farina della giarra non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà, finché il Signore non farà piovere sulla terra».
Quella andò e fece come aveva detto Elia: «mangiarono il profeta, la vedova e il figlio di lei per diversi giorni. La farina della giarra non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunziata per mezzo di Elia» (1 Re 17,10-16).
“Il profeta Elia si alzò e andò a Zarepta”, queste le prime parole. Ma occorre sapere che se Elia si alzò, è unicamente perché il Signore glielo aveva ordinato: “Su, alzati, và in Zarepta di Sidòne e ivi stabilisciti” (1 Re 17,9). Se poi il profeta, vedendo una povera donna che raccoglie legna, osa dirle “Prendimi un po’ d’acqua e anche un po’ di pane”, è ancora perché il Signore glielo aveva detto: “Ecco, io ho dato ordine a una vedova di là, per il tuo cibo” (17,9). Con questa premessa comprendiamo l’annotazione che conclude il racconto: tutto è accaduto, “secondo la parola che il Signore aveva pronunziato”. L’autore sacro vuol farci capire – e questa è la sua prima lezione – che protagonista dell’episodio non è Elia, né la vedova, ma la Parola del Signore. Tutto avviene in obbedienza a questa Parola, una Parola che realizza ciò che promette, una Parola che salva: “La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì”. Elia e la donna sono presentati come due esempi di obbedienza. Ed è perché obbediente per primo alla Parola, che il profeta diventa, a sua volta, portatore di questa Parola, il suo tramite: tutto avvenne “secondo la Parola che il Signore aveva pronunziata per mezzo di Elia”.
C’è una seconda premessa da ricuperare: se Elia si reca a Zarepta di Sidòne, una città straniera, è perché è in fuga, minacciato dal re: “Nasconditi presso il torrente Cherit”, si legge in 14,3. La minaccia è la sorte di tutti i profeti che hanno l’ardire di opporsi alle menzogne dei potenti. Fuggiasco e minacciato dagli uomini, ma protetto dal Signore, questa è la seconda lezione: “I corvi gli portavano pane al mattino e carne alla sera, e beveva al torrente” (17,6). Aiutato da Dio, dunque, ma il nostro racconto aggiunge qualcosa di più: mostra che l’aiuto del Signore passa attraverso gli uomini. L’ospitalità di Dio si serve della generosa ospitalità di una vedova. L’accoglienza del fratello è la trasparenza visibile dell’accoglienza di Dio, che ne detta le qualità, la misura e l’universalità. Una generosità, quella della vedova, che Dio ricompensa: “Quella andò e fece come aveva detto Elia: mangiarono Elia, la vedova e il figlio di lei per diversi giorni”. La vedova aiuta il profeta e il profeta aiuta la vedova. Chi dona al Signore, riceve. L’ospitalità aiuta gli uomini a vivere meglio nel mondo.
La vedova di Zarepta ha avuto l’onore di essere ricordata dallo stesso Gesù, nella sinagoga di Nazareth: “C’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una carestia in tutto il paese, ma a nessuna di esse fu mandato Elia se non a una vedova in Zarepta di Sidòne” (Lc 4,25-26). Si arguisce facilmente da queste parole che Gesù ha colto nell’episodio un terzo aspetto: un’altra lezione: Dio non aiuta soltanto il suo popolo, ma anche gli stranieri, perché il suo amore è universale e non fa differenze, e la fede, l’obbedienza e la generosità le puoi trovare anche là dove non pensi, anche fuori del tuo popolo, della tua chiesa e del tuo gruppo.
3 – Marta e Maria: Lc 10,38-42
Mentre era in viaggio verso Gerusalemme, “Gesù entrò in un villaggio e una donna di nome Marta lo accolse nella sua casa” (Lc 10,38). All’inizio del medesimo viaggio Gesù aveva chiesto ospitalità in un villaggio di samaritani, ma fu respinto (9,52-53). Ora invece una donna lo ospita in casa, come più avanti – alla fine del medesimo viaggio – lo ospiterà il pubblicano Zaccheo (19,1-10). In questo c’è già un primo insegnamento: l’ospitalità, appunto. Luca, però, non si riferisce al dovere generico dell’ospitalità (per altro considerato nel Nuovo Testamento come uno dei doveri più espressivi della fraternità cristiana), bensì a una forma più precisa di ospitalità, quella nei confronti di Gesù e dei suoi discepoli. Si tratta di un’ospitalità che richiede una disponibilità particolare. Perché Gesù e i suoi discepoli portano in casa una “parola” che capovolge le abitudini e il modo di vivere.
Marta assume nei confronti dell’ospite un ruolo tipicamente femminile: tutta affaccendata prepara la tavola. Maria, al contrario, si intrattiene con l’ospite, assumendo un ruolo che la mentalità del tempo riservava agli uomini: un fatto insolito che neppure Marta condivide, prigioniera della mentalità corrente.
Le parole con le quali Gesù risponde a Marta ricordano che il servizio non deve assillare al punto da far dimenticare l’ascolto: “Marta, Marta, ti preoccupi e ti agiti per troppe cose… “. L’accoglienza non è solo servizio.
Marta non è la figura dell’amore per il prossimo, e Maria non è la figura dell’amore per il Signore. Nel nostro passo non c’è alcuna traccia di divaricazione fra il Signore e il prossimo. Entrambe le sorelle sono di fronte al medesimo ospite, che è al tempo stesso – come l’immagine dell’ospite dice con chiarezza – il Signore e il prossimo. È questo il punto forza dell’episodio. Non ci sono due modi di ospitare e amare, ma uno solo, che si tratti del Signore o del prossimo. Perciò l’episodio deve essere letto simultaneamente in due modi: come accogliere e servire il Signore, come accogliere e servire il prossimo.
La tensione – che dunque non è fra il Signore e il prossimo – non è però neppure semplicemente fra l’ascolto e il servizio, la contemplazione e l’azione. È piuttosto fra l’ascolto e il servizio che distrae, lo stare con l’ospite e il troppo affaccendarsi che impedisce di fargli compagnia, fra il secondario e l’essenziale. Sono appunto questi i rimproveri di Gesù a Marta.
Marta è tanto occupata che non è più attenta: così indica il verbo greco perispao, “essere distratto, rivolto altrove”. È tanto l’affaccendarsi per l’ospite che non c’è più spazio per intrattenerlo. Marta è “affannata” (10,41) e “agitata”. Luca utilizza qui il medesimo verbo (merimnan) adoperato altrove per dire che non bisogna agitarsi per il cibo, il vestito e il domani (12,22-32). Affannarsi è l’atteggiamento dei pagani. Anche l’agitarsi per Dio o per il prossimo può diventare “pagano”.
La ragione di tanta agitazione – che distrae dall’ospite che pure si vorrebbe accogliere – sono le “troppe cose” (10,41). A questo punto la tensione che percorre l’episodio assume un’ulteriore sfumatura, che forse è quella che sta alla radice di tutte le altre: la tensione fra il troppo e l’essenziale, il secondario e il necessario. Il troppo è sempre a scapito dell’essenziale. Le troppe cose impediscono non soltanto l’ascolto, ma anche il vero servizio. Fare molto è segno di amore, ma può anche far morire l’amore. L’ospitalità ha bisogno di compagnia, non soltanto di cose.
Un po’ di vocabolario e qualche conclusione
Il vangelo presenta Gesù come predicatore itinerante (“Non ha dove posare il capo”) e più volte si parla di lui come ospite: non solo nella casa di Marta e Maria, ma anche di Zaccheo e di Levi.
Sono note poi alcune sue parole. Per esempio: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato… Chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo… non perderà la sua ricompensa” (Mt 10,40-42). E ancora: “Chi accoglie uno di questi bambini accoglie me” (Mc 9,37). Qui c’è già tutta la teologia dell’accoglienza.
Il verbo privilegiato per esprimere questa accoglienza è dechomai (e i suoi numerosi composti) che significa accogliere, ma anche sentire e capire, per esempio le parole dell’ospite, i suoi desideri e i suoi bisogni. Sempre dice la compiacenza e la gentilezza. I composti sottolineano poi l’amicizia, la stima verso l’ospite, anche se sconosciuto. E suggeriscono anche di accogliere qualcuno facendolo entrare nella comunità e nel proprio paese.
Nell’epistolario neotestamentario numerosi sono gli inviti a essere ospitali. Il dovere di essere ospitali rientra nei doveri cristiani comuni, dal vescovo (1 Tm 3,2; Tito 1,8) alla vedova (1 Tm 5,10). Nella lettera ai Romani la virtù dell’ospitalità si trova accanto alla perseveranza nella preghiera e alla sollecitudine per i fratelli. E la lettera agli Ebrei pone l’uno accanto all’altro l’amore fraterno e l’ospitalità, “praticando la quale alcuni hanno accolto degli angeli senza saperlo” (13,2). E infine l’anziano, che scrive la terza lettera di Giovanni, insiste perché il presbitero Gaio si comporti fedelmente nei suoi doveri verso i fratelli, anche stranieri (3 Gv 5).
Ma voglio concludere questa conversazione con l’affermazione di Gesù più ricca e paradossale: “Ero forestiero e mi avete accolto” (25,35).
Al tempo di Gesù, forestiero poteva essere lo sconosciuto di passaggio, che chiede l’ospitalità per una notte, e che è spontaneo giudicare con diffidenza perché non sai chi egli sia e ne ignori le abitudini e le intenzioni. Più frequentemente era l’immigrato, che cerca lavoro e migliori condizioni di vita. Per dire l’ospitalità Gesù ricorre qui a un verbo (sunago) il cui significato base è raccogliere, riunire cose sparse. Di qui il senso di raccogliere chi è sperduto, ospitarlo nella stessa casa, unirlo ai gruppi dei fratelli. Questo verbo così ricco di significato è ricordato in Matteo 25 tre volte. Non dice solo l’aiuto, ma proprio l’accoglienza. E difatti Gesù fa rientrare il forestiero nel numero dei suoi “piccoli fratelli”. Forestiero per gli altri ma non per lui. E si comprende che l’ospitalità è più ampia del semplice aiuto, perché significa aprirsi alla persona e non soltanto ai suoi bisogni. Significa aprire la casa e non soltanto dare un aiuto. E c’è di più: il forestiero da ospitare è nel contempo il prossimo da trattare come se stesso e il Signore da servire con tutto il cuore. Perciò deve essere accolto come si riceve il Signore, cioè con riguardo, con delicatezza, e persino umilmente.
Una semplice annotazione
Una delle caratteristiche della nostra civiltà è l’anonimato e, forse, anche la diffidenza e la paura di chi è forestiero. Abitiamo nello stesso palazzo e non ci conosciamo. E c’è molta solitudine. In questo contesto l’ospitalità acquista ancora tutto il suo valore e la sua urgenza, anche se è vero che deve esprimersi in forme nuove, diverse da quella del tempo di Abramo o di Gesù. Deve dare, per esempio, un’anima e un po’ di cuore alle strutture sociali; deve creare famiglie aperte all’accoglienza dell’anziano e del malato; deve creare luoghi di accoglienza per l’immigrato e il forestiero; deve creare esempi di comunità cristiane, pluraliste e accoglienti.
Si legge nel Concilio Vaticano Secondo (Gaudium et Spes 27): “Oggi urge l’obbligo che diventiamo generosamente prossimi di ogni uomo, e rendiamo servizio coi fatti a colui che ci passa accanto: vecchio abbandonato da tutti o lavoratore straniero ingiustamente disprezzato, o esiliato, o fanciullo nato da un’unione illegittima, che patisce immeritatamente per un peccato da lui non commesso, o affamato che richiama la nostra coscienza…”.

 

« STELLA DEL MATTINO… »

http://www.stpauls.it/madre/1111md/vescovo.htm

La parola del Vescovo

di mons. Mario Meini, vescovo di Fiesole

« STELLA DEL MATTINO… »

La Stella del mattino nell’astrologia antica è spesso identificata con Sirio e, a motivo della sua bellezza, anche con Venere. È la stella più luminosa del firmamento, che sorge prima del levar del sole ed era ritenuta l’annunciatrice del nuovo giorno e della luce, della vita stessa.
Nella Sacra Scrittura le stelle sono creature di Dio, egli le chiama per nome ed esse eseguono i suoi comandi, manifestando la sua gloria (cf Gen 1,14-18; Is 40,26; Sal 147, 4). Il futuro Messia è indicato nella profezia di Balaam come «stella che spunta da Giacobbe e scettro da Israele» (Nm 24,17), indicando così una prospettiva di dominio regale, che terrà salda la condizione del popolo di Dio.
Nel libro dell’Apocalisse Gesù stesso si presenta come «la stella radiosa del mattino» (Ap 22,16), ossia la prima delle stelle, quella che porta la luce sulla terra, la prima di tutte le creature, il principio di tutto (cf Col 1,15). Ma il Signore ha promesso anche ai suoi fedeli di dare loro in premio la stella del mattino (cf Ap 2,28), ossia di far brillare la sua luce nei loro cuori (cf 2Pt 1,19). Come scrive san Beda, «Cristo è la stella mattutina che, passata la notte dei tempi, promette ed estende sui santi l’eterna luce della vita». Anche la liturgia della Chiesa indica Cristo risorto come stella mattutina, «la stella che non conosce tramonto», che verrà alla fine dei tempi.
Ma la liturgia non manca di indicare anche Maria come sorgente luminosa portatrice di luce. Ne fanno testimonianza alcuni testi della festa della natività della Vergine, dove si canta: «Nel mondo si è accesa una luce alla nascita della Vergine». E ancora: «La sua vita santa illumina la Chiesa… Celebriamo con fede l’odierna natività della Madre di Dio; la sua immagine è luce per tutto il popolo cristiano».
Soprattutto è la tradizione popolare che progressivamente affianca (e talvolta forse sostituisce) alla interpretazione cristologica quella mariana. Si indica la Madre del Signore come aurora foriera di luce e il suo figlio Gesù come vera luce del mondo. Si indica la Madre come stella del mattino e Cristo suo figlio come «sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte» (Lc 1,78-79).
Così generazioni di fedeli hanno pregato e pregano con fiducia Maria come stella mattutina perché ogni giorno doni al mondo il suo Figlio a illuminare ogni uomo. È la preghiera di tutta la Chiesa che intercede per tutti coloro che soffrono e che sono nelle tenebre. Una preghiera semplice e calorosa, una preghiera corale che abbraccia l’universo, nell’attesa colma di fiducia che le tenebre non possono vincere la luce, che Maria ogni giorno, come vera stella del mattino, annuncia: il sorgere di Cristo, luce e vita di tutti.
È la preghiera fiduciosa di ogni famiglia: di chi desidera un futuro di luce per i figli, di chi si impegna ogni giorno nel custodire il calore degli affetti, di chi nella sofferenza guarda alla Madre di Dio e confida nella sua intercessione.
È la preghiera di ogni donna cristiana che ha scelto come stile di vita non la vana ricerca della bellezza esteriore (Venere), ma l’autentica luminosità della bellezza interiore (Maria). È la preghiera potente contro ogni insidia del maligno (il diavolo è detto anche Lucifero, stella che porta la luce), perché nessuno resti abbagliato dalle sue seduzioni e accolga da Maria la vera luce che viene da Cristo suo figlio.
È la preghiera potente contro ogni tentativo di contrastare l’annuncio del Vangelo (l’espressione Stella del mattino emerge fra l’altro anche nel gergo massonico), preghiera fatta propria dalla Chiesa, cosciente che contro di lei nessuna forza avversa potrà prevalere.
È la preghiera di chiunque guarda con fede a Maria e la invoca come madre del Signore, affidando a lei se stesso, la propria famiglia, la Chiesa e il mondo intero. Ciascuno con questa invocazione può crescere nella speranza. Ciascuno può trovarvi pace.

 

Publié dans:BIBLICA - RIFLESSIONI |on 7 novembre, 2017 |Pas de commentaires »

IL LAVORO

http://ora-et-labora.net/lavoro.html

Tratto dal libro « Vocabulaire de Théologie biblique » – Les Éditions du Cerf – (Traduzione libera)

« Travail » a cura di Jacques Guillet S.J. e Paul de Surgy

IL LAVORO

Dovunque, nella Bibbia, l’uomo è occupato nel lavoro. Tuttavia, poichè questo lavoro dell’artigiano o del piccolo agricoltore è molto diverso dal lavoro intenso e organizzato del mondo moderno, noi siamo portati a credere che la Scrittura ignori la realtà del lavoro o la conosca male. E dato che non vi troviamo dei giudizi di principio sul valore ed il significato del lavoro, talvolta noi siamo tentati di prendere a prestito qualche affermazione casuale e di utilizzarla per dimostrare una nostra teoria. Anche se non risponde a tutte le nostre domande, la Bibbia, presa nella sua globalità, ci introduce nella realtà del lavoro, del suo valore, della sua fatica e della sua redenzione.

I. Valore del lavoro 1. Il comandamento del Creatore – Nonostante l’abituale pregiudizio, il lavoro non deriva dal peccato: prima della caduta, « Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. » (Gn 2, 15). Se il Decalogo prescrive il sabato, è solo alla fine di sei giorni di lavoro (Es 20, 8 ss). Questa settimana di lavoro ricorda i sei giorni che Dio impiegò per creare l’universo e sottolinea che, formando l’uomo « a sua immagine » (Gn 1, 26), Dio ha voluto farlo partecipe del suo disegno. Infatti, dopo aver dato ordine all’universo, l’ha messo nelle mani dell’uomo, a cui ha dato il potere di occupare la terra e di sottometterla (Gn 1, 28). Tutti coloro che lavorano, anche se « Non fanno brillare né l’istruzione né il diritto » tuttavia, mediante la propria attività, tutti « sostengono le cose materiali (la Creazione) » (Sir 38, 34). Non dobbiamo neanche stupirci che l’azione del Creatore sia spesso descritta tramite i gesti dell’operaio, che da forma all’uomo (Gn 2, 7), fabbrica il cielo « con le (sue) dita » e fissa le stelle al loro posto (Sal 8, 4); al contrario, il grande inno che canta il Dio creatore descrive l’uomo al mattino che « esce al suo lavoro, per la sua fatica fino a sera » (Sal 104, 23; cf. Sir 7, 15). Questo lavoro dell’uomo è la continuazione della creazione di Dio, è il compimento della sua volontà. 2. Valore naturale del lavoro – Questa autentica volontà di Dio non è per niente espressa nei comandamenti dell’Alleanza, nè in quelli del Decalogo, nè in quelli del Vangelo. Ciò è normale, non ci si deve sorprendere: il lavoro è una legge della condizione umana imposta ad ogni uomo, prima ancora che egli sappia di essere chiamato da Dio alla salvezza. Da questo fatto derivano tutte quelle reazioni della Bibbia nei riguardi del lavoro, che interpretano sostanzialmente il giudizio di una coscienza onesta e retta. In particolare se ne trovano negli scritti dei saggi, deliberatamente attenti ad arricchire la religione d’Israele prendendo il meglio dell’esperienza morale dell’umanità. In tal modo la Bibbia si dimostra severa nei confronti dell’ozio per delle semplici ragioni; l’ozioso non ha niente da mangiare (Pr 13, 4) e rischia di morire di fame (Pr 21, 25); niente stimola a lavorare più della fame (Pr 16, 26), e S. Paolo non esita ad utilizzare questo argomento per mostrare in quale stato di aberrazione sono coloro che si rifiutano di lavorare: »che neanche mangino » (2 Ts 3, 10). Ancora, l’ozio è un decadimento; si ammira la donna sempre attiva, poichè « il pane che mangia non è frutto di pigrizia » (Pr 31, 27) e ci si fa beffe degli oziosi: »La porta gira sui cardini, così il pigro sul suo letto » (Pr 26, 14). Non è più un uomo, è  » una pietra imbrattata »,  » una palla di sterco » (Sir 22, 1-2), che si respinge con disgusto. In compenso la Bibbia sa apprezzare il lavoro ben fatto, l’abilità e l’ attaccamento al proprio mestiere del contadino, del fabbro o del vasaio (Sir 38, 26.28.30). E’ colma di ammirazione per i frutti dell’arte, il palazzo di Salomone ( 1 Re 7, 1-12) ed il suo trono, « non ne esistevano di simili in nessun regno » (1 Re 10, 20), ma soprattutto il tempio di Jahve e le sue meraviglie (1 Re 6; 7, 13-50). La Bibbia non ha pietà per la cecità dei fabbricanti di idoli, ma rispetta la loro abilità e si indigna che tanta fatica sia sprecata per un « nulla » (Is 40, 19 ss; 41, 6 ss). 3. Valore sociale del lavoro. – Questa stima del lavoro non nasce solo dall’ammirazione davanti alle realizzazioni dell’arte, bensì si appoggia su una visione molto solida dell’importanza del lavoro nella vita sociale e nei rapporti economici. Senza i contadini e gli artigiani « sarebbe impossibile costruire una città » (Sir 38, 32). All’origine della navigazione troviamo tre fattori: « fu inventata dal desiderio di guadagni e fu costruita da una saggezza artigiana; ma la tua provvidenza, o Padre, la guida » (Sap 14, 2 ss). Concezione realista ed equilibrata, suscettibile di spiegare, a seconda dell’importanza relativa di questi tre elementi, le aberrazioni a cui può andare incontro il lavoro, così come le meraviglie che può realizzare, per esempio quella che permette ai naviganti di « affidare le loro vite anche a un minuscolo legno » e di perfezionare così la Creazione, impedendo che « che le opere della Sapienza siano inutili » (Sap 14, 5).

II. La fatica del lavoro Poichè il lavoro è un dato fondamentale dell’esistenza umana, si trova immediatamente e profondamente colpito dal peccato: « Con il sudore del tuo volto mangerai il pane » (Gn 3, 19). La maledizione divina non ha per oggetto il lavoro, così come non ha per oggetto il parto. Come quest’ultimo è la dolorosa vittoria della vita nei confronti della morte, così la fatica quotidiana ed incessante dell’uomo che lavora è il prezzo con cui deve pagare il potere sul creato che Dio gli ha affidato; il potere rimane, ma la terra, maledetta, oppone resistenza e deve essere domata (Gn 3, 17 ss). Il peggio è che questa faticosa sofferenza, anche se ha per effetto dei risultati spettacolari, come nel caso di Salomone, è resa vana dalla morte: »Allora quale profitto c’è per l’uomo in tutta la sua fatica e in tutto l’affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e preoccupazioni penose; il suo cuore non riposa neppure di notte. Anche questo è vanità! » (Qo 2, 22-23). Doloroso, sovente sterile, il lavoro è ancora nell’umanità uno dei terreni dove il peccato dispiega le sue forze in modo terribile. Arbitrarietà, violenza, ingiustizia e rapacità fanno costantemente del lavoro non solo un peso opprimente, ma anche una sorgente di odio e di divisione. Operai frustrati dal misero salario (Ger 22, 13 ; Gc 5, 4), contadini depredati dalle tasse (Am 5,11), popolazioni sottomesse al lavoro obbligatorio da parte di un governo nemico (3 Sam 12, 31) o dal loro stesso sovrano (1 Sam 8, 10-18; 1 Re 5, 27; 12, 1-14), schiavi condannati al lavoro e ad essere percossi (Sir 33, 25-29). Questo triste quadro non è sempre la conseguenza di errori personali, bensì è l’aspetto ordinario del lavoro vissuto dalla razza di Adamo. Israele ha conosciuto questa esperienza in Egitto, nella sua forma più disumana; lavoro forzato, ad un ritmo opprimente, con dei sorveglianti spietati, in mezzo ad un popolo ostile, a vantaggio di un governo nemico, lavoro sistematicamente organizzato per annientare un popolo e toglierli ogni capacità di opposizione (Es 1, 8-14; 2, 11-15; 5, 6-18). In definitiva siamo già all’ « universo dei campi di concentramento », il « campo di lavoro ».

III. La redenzione del lavoro Ma Jahve ha liberato il suo popolo da questo universo disumano, frutto del peccato. La sua alleanza con Israele comporta una serie di prescrizioni destinate a preservare il lavoro, se non da tutto ciò che ha di faticoso, almeno dalle forme distorte dovute alla cattiveria umana. Il sabato è fatto per interrompere l’opprimente continuità del lavoro (Es 20, 9 ss), per assicurare all’uomo e a tutte le attività della terra un tempo di riposo, (Es 23, 12; Dt 5, 14), sull’esempio di un Dio che si è rivelato come un Dio che lavora, che si riposa e che libera dalla schiavitù (Dt 5, 15). Numerosi articoli della Legge sono destinati a proteggere lo schiavo o il salariato, che deve essere pagato il giorno stesso (Lv 19, 13) e non deve esere sfruttato (Dt 24, 14 ss). I profeti richiameranno queste esigenze (Ger 22, 13). Se Israele rimane fedele all’Alleanza, non sarà dispensata dal lavoro, ma questo sarà fecondo, poichè « Dio benedirà l’opera delle sue mani » (Dt 14, 29; 16, 15; 28, 12; Sal 128, 2). Il lavoro produrrà il suo risultato naturale; colui che pianta una vigna gusterà i suoi frutti, colui che costruisce una casa l’abiterà (Am 9, 14; Is 62, 8 ss; cf Dt 28, 30).

IV. Il Nuovo Testamento La venuta di Gesù Cristo proietta sul lavoro i paradossi e le illuminazioni del Vangelo. Nel Nuovo Testamento il lavoro è contemporaneamente esaltato ed ignorato o visto dall’alto, come se fosse un dettaglio senza importanza. E’ esaltato dall’esempio di Gesù, lavoratore (Mc 6, 3) e figlio di lavoratore (Mt 13, 55), e dall’esempio di Paolo che lavora con le sue mani (At 18, 3) e se ne vanta (At 20, 34; 1 Cor 4, 12). Tuttavia i Vangeli mantengono un sorprendente silenzio sul lavoro; sembra che conoscano questa parola solo per indicare le opere a cui occorre applicarsi, cioè quelle di Dio (Gv 5, 17; 6, 28), o per portare come esempio gli uccelli del cielo che « non seminano, nè mietono » (Mt 6, 28). La poca importanza data al lavoro da una parte e la sua valorizzazione dall’altra parte, non rappresentano una contraddizione, ma i due poli dell’atteggiamento fondamentale del cristiano. 1. Il lavoro perituro – « Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna » (Gv 6, 27). Gesù Cristo non ha altra missione che di portare il Regno di Dio e quindi non parla d’altro, poichè questo Regno viene prima di tutto (Mt 6, 33). Tutto il resto, mangiare, bere, vestirsi, non è senza importanza, ma chi se ne preoccupa a tal punto da perdere il Regno, ha perso tutto, anche se avesse conquistato l’universo (Lc 9, 25). Di fronte alla conoscenza di Dio, che è qualcosa di assoluto, tutto il resto perde importanza; in questo mondo, « la cui scena passa » (1 Cor 7, 31), conta soltanto ciò che « tiene uniti al Signore senza distrazioni » (1 Cor 7, 35). 2. Valore positivo del lavoro – Dare al lavoro il suo giusto posto, distinto da Dio, non è per niente svalorizzarlo, al contrario gli si restituisce il suo valore reale nella creazione, valore che è altissimo. Non solo Gesù, come Jahve nell’Antico Testamento, prende a prestito termini e paragoni dal mondo del lavoro; pastore, vignaiolo, medico, seminatore, senza quella sfumatura di comprensione che si nota nel libro del Siracide, così tipica dell’intellettuale, nei confronti del lavoro manuale, della sua necessità e dei suoi limiti (Sir 38, 32 ss); – non solo presenta l’apostolato sotto forma di un lavoro, quello della mietitura (Mt 9, 37; Gv 4, 38) o della pesca (Mt 4, 19); ma egli suppone, da tutto il suo comportamento, un mondo al lavoro, il contadino nel suo campo, la massaia nelle faccende domestiche (Lc 15, 8), e trova anormale il sotterrare un talento senza farlo fruttare (Mt 25, 14-30). Nel caso della moltiplicazione dei pani, ci tiene a far notare che è un’eccezione e che spetta all’uomo preparare e cuocere il proprio pane. Nello stesso spirito di leale adesione alla condizione umana, Paolo dirà « di tenersi lontani da ogni fratello che si comporta in maniera indisciplinata (oziosamente) », prendendo come pretesto che la parusia è vicina (2 Ts 3, 6). 3. Valore cristiano del lavoro – Come nuovo Adamo, il Cristo permette all’umanità di compiere fino in fondo la missione di dominare il mondo (Eb 2, 5 ss; Ef 1, 9 ss): salvando l’uomo, da al lavoro il suo pieno valore. Rende il suo obbligo più impellente, fondandolo sulle concrete esigenze dell’amore soprannaturale; rivelando la vocazione dei figli di Dio, egli mette in luce tutta la dignità dell’uomo e del lavoro che è al suo servizio, stabilisce una gerarchia di valori che ci permettono di giudicare e di sapere come comportarci nel lavoro. Instaurando il Regno che non è di questo mondo, ma vi si trova come un fermento, il Cristo restituisce la sua qualità spirituale al lavoratore, da al suo lavoro la dimensione della carità e fonda le relazioni generate dal lavoro sul principio nuovo della fraternità nel Cristo (Fil ). In virtù della sua legge d’amore (Gv 13, 34), obbliga a reagire contro l’egoismo ed a fare il possibile per diminuire la fatica degli uomini al lavoro. Tuttavia, facendo partecipe il cristiano del mistero della sua morte e delle sue sofferenze, egli attribuisce un valore nuovo a questa inevitabile fatica. 4. Il lavoro e il nuovo universo – Quando infine il Signore ritornerà e rivestirà tutti gli eletti della sua gloria di risorto, il dominio sull’universo da parte dell’umanità sarà pienamente realizzato attraverso di lui ed in lui, senza ostacoli di peccato, di morte o di sofferenza. Ma, ancor prima dell’ultimo giorno, il lavoro porta il suo contributo nel ritorno della creazione a Dio, nella misura in cui è compiuto nel Cristo. Lo schiavo che sopporta la sua condizione nel Cristo è già  » un liberto affrancato del Signore » (1 Cor 7, 22) e prepara la creazione ad « essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio » (Rm 8, 21). Resterà qualcosa dell’opera realizzata? La Scrittura non incoraggia nessun messianismo temporale;  » passa la scena di questo mondo!  » (1 Cor 7, 31) e la rottura tra lo stato attuale e lo stato futuro del mondo non lascia spazio ad un ordinamento che farebbe passare nel mondo futuro senza sconvolgimenti. Tuttavia, una certa permanenza dell’opera dell’uomo, sotto una forma impossibile da precisare, sembra intravedersi nelle affermazioni paoline sulla dominazione e la ricapitolazione dell’universo attraverso il Cristo (Rm 8, 18 ss; Ef 1, 10; Col 1, 16.20). Senza che nessun testo ci permetta di soddisfare una curiosità fatalmente ingenua e limitata, la Scrittura considerata nel suo insieme ci invita a sperare che la creazione riscattata e liberata continui sempre ad essere l’universo dei figli di Dio riuniti nel Cristo.

 

IL RISVEGLIO (biblica)

http://camcris.altervista.org/risveglio.html

IL RISVEGLIO (biblica)

E la parola dell’Eterno fu rivolta a Giona, figlio di Amittai, dicendo:
« Lèvati va’ a Ninive, la grande città e predica contro di lei, perché la loro malvagità è salita davanti a me ».
Ma Giona si levò per fuggire a Tarshish, lontano dalla presenza dell’Eterno.
Così scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarshish. Pagò il prezzo stabilito e
s’imbarcò per andare con loro a Tarshish, lontano dalla presenza dell’Eterno.
Ma l’Eterno scatenò un forte vento sul mare e si levò una grande
tempesta sul mare, sicché la nave minacciava di sfasciarsi.
I marinai spaventati, gridarono ciascuno al proprio dio e gettarono in mare il carico che era sulla nave per alleggerirla.
Intanto Giona era sceso nelle parti più recondite della nave, si era coricato e dormiva profondamente.
Il capitano gli si avvicinò e gli disse: « Che fai così profondamente addormentato?
Alzati, invoca il tuo DIO! Forse DIO si darà pensiero di noi e non periremo ».
i) È un grido dello Spirito rivolto a ogni peccatore… Ma in questo tempo anche alla Chiesa. È un appello per questo tempo indirizzato a ogni singolo credente. È una necessità impellente per il popolo di Dio, ed è una esigenza improrogabile per la vita della chiesa.
1. – È il desiderio di Dio espresso fin dai tempi più remoti, è e deve essere il desiderio di ogni vero credente che ama il Signore e crede nel Suo imminente ritorno.
2. – È l’incombete pericolo che muove lo Spirito di Dio a gridare nel cuore di ognuno di noi… « Risvegliati! »
« Risvegliati tu che dormi… E Cristo ti inonderà di luce! »
Il tempo stringe; la luce della Parola brilla e illumina chi non vuole più vivere nelle tenebre dell’ignoranza, nell’oscurità del peccato, nella tomba della sonno. Ma qualcuno deve andare e annunciare la Parola. Giona invece preferisce andare in « vacanza ». E dorme nella stiva mentre la nave sta per affondare. Il capitano della nave lo chiama, lo scuote e parla con lui: « Che fai qui, dormi? Alzati… »
3. – È Dio che parla: La scrittura dice… non è l’esigenza di un uomo o il bisogno di una organizzazione. È Dio stesso che si rivolge a noi e ci dice « Risvegliati… » Alla chiesa di oggi dice: Sorgi, risplendi, perché la tua luce è giunta, e la gloria dell’Eterno Si è levata su te. Poiché ecco, le tenebre ricoprono la terra e una fitta oscurità avvolge i popoli, ma su di te si leva l’Eterno e la sua gloria appare su di te.

A. – I PERICOLI DEL SONNO
1. – Nonostante chi dorme sia vivo, egli non è sensibile al pericolo che si avvicina… inconsapevole e ignaro di cosa succede attorno a lui.
2. – Egli non sente più le parole pronunciate dai suoi familiari, non vede più nessuna scena, bella o brutta che sia, ed è incosciente della sua condizione o dello stato in cui si trova.
3. È inattivo: non lavora, non produce, non porta nessun frutto.
4. Molte persone muoiono perché dormono. Per un incendio, per incidenti stradali, per un malore…

B. – PUÒ QUALCUNO SVEGLIARE SE STESSO?
1. – Quante volte abbiamo sentito questo commento: « Risvegliati… tu che dormi… siamo noi che dobbiamo svegliarci, non è Dio che manda il risveglio. »
2. – Ma come può qualcuno svegliarsi se sta dormendo e forse profondamente immerso nel sonno? Persone dal sonno pesante sanno che per svegliarsi ci vuole una buona « sveglia », o qualcuno che vada vicino al letto e li « chiami » o li « scuota » e non sempre questo qualcuno è « gradito » in quel momento.
3. – A volte il risveglio è necessario perché altrimenti si fa tardi sul lavoro… a scuola… ad un appuntamento. Ma come abbiamo già detto il risveglio a volte è fatale, è questione di vita o di morte. Una mamma può svegliare « dolcemente » il suo bambino per mandarlo a scuola; ma lo sveglierà « bruscamente » se la casa sta bruciando.
4. – Se vedessimo un uomo profondamente addormentato mentre la sua casa sta per crollare cosa faremmo? E come mai alcuni stanno assistendo al crollo della loro stessa casa, del loro matrimonio, con impassibilità? E come mai non sentiamo l’urgenza di « svegliare » i peccatori che sappiamo stanno precipitando nell’abisso? Se non avvertiamo questa urgenza, se non facciamo questo nostro dovere, la risposta può essere una sola: anche noi stiamo dormendo!

C. – LA SVEGLIA
La sveglia di Dio suona ancora stasera per noi: RISVEGLIATI, grida lo Spirito.
La Parola di Dio è la Sua sveglia: « Suona la tromba in Sion, dai l’allarme… » sta dicendo il Signore ai predicatori della Sua parola.
È fastidioso tutto questo… è meglio rimandare, dormire ancora un po’… ancora un po’… c’è ancora tempo… non è poi così tardi, dormire ancora un po’… fino al letargo spirituale, e infine al coma.
Ma anche per chi è in coma c’è possibilità… c’è speranza, si studiano terapie e metodi per far « sentire » la voce dei familiari che vogliono « risvegliare » il paziente da quella triste condizione…. Si cerca in tutti i modi di risvegliarlo perché non è ancora morto. E così Dio, è scritto nella Parola, « non trita la canna rotta e non spegne il lucignolo fumante. »
Ma da dove viene tutto questo sonno? Perché in questo tempo è difficile restare svegli? Si può dormire di sonno naturale, ma anche di sonno forzato o imposto. Un sonnifero viene propinato a chi si vuol far dormire… e in questo tempo gli « agenti del nemico », il ladro di ogni tempo, propinano anche ai credenti i loro sonnifero, figuratamente parlando, per intontire le menti dei figli di Dio con bevande « frizzanti » ma drogate.
Ognuno si guardi intorno e lasci che lo Spirito Santo faccia luce negli angoli più nascosti del cuore e della coscienza, affinché possiamo non essere ingannati, e possiamo sventare e smascherare le trame astute di Satana.
Il suo obiettivo in questo tempo è quello di tenere i cristiani storditi e intorpiditi nello spirito, come Giona, nel fondo di quella nave, mentre il mondo sta morendo.

D. – COME OSSA SECCHE
Ezechiele ebbe la visione di un grande risveglio: cap. 37 – « Possono queste ossa rivivere? » Possono essere risvegliati? La ragione umana, condizionata dal pessimismo e dal dubbio dice che ciò è impossibile, ma Dio dice: « Profetizza a queste ossa e di’ loro: Ossa secche, ascoltate la parola dell’Eterno. Così dice il Signore, l’Eterno, a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e voi rivivrete. »
Il risveglio non è opera dell’uomo, è opera di Dio. È Dio, per mezzo della Sua parola che ci sveglia, che sensibilizza la nostra coscienza, che ci libera dal torpore religioso… RISVEGLIATI. E quel grido ci fa saltare giù dal letto, perché dal tono di voce che Egli usa capiamo che è un ordine perentorio: il pericolo è imminente, Risvegliati, il tempo per lavorare è poco, Risvegliati, il sole è già alto (Isaia 60:1-2) e tu cosa fai ancora dormendo? Come Giona in quella stiva… dormiva profondamente. Il capitano gli si avvicinò e gli disse: « Che fai così profondamente addormentato? Alzati, invoca il tuo DIO! » In parole povere quel capitano è la sveglia per Giona: risvegliati Giona, la nave sta per affondare e se tu dormi affonderai insieme alla nave.
Romani 13:11 E questo tanto più dobbiamo fare, conoscendo il tempo, perché è ormai ora che ci svegliamo dal sonno, poiché la salvezza ci è ora più vicina di quando credemmo.
Risvegliarsi vuol dire prendere di nuovo coscienza e consapevolezza dei propri doveri, delle proprie necessità, di cosa siamo chiamati a fare e a eseguire. Ossa secche: non potevano fare molto, ma quando si risvegliarono, perché lo Spirito entrò di nuovo in loro allora si alzò un grande e poderoso esercito.

E. – IL FRUTTO DEL RISVEGLIO
1. – Guardiamo nella Parola:
a) Per Mosè significò la fine di un tempo di inutilità per passare ad un tempo di grandi avvenimenti guidati da Dio per la liberazione del Suo popolo.
b) Per Giosuè la fine di un pellegrinaggio estenuante in un deserto senza fine per passare alla conquista della terra promessa.
c) Per Gedeone la fine dell’oppressione dei Madianiti.
d) Per il popolo d’Israele sempre fu l’inizio di periodi di vittoria sui nemici e di benedizioni straordinarie.
e) Per il figliuol prodigo la fine delle sue sventure: non più guardiano di porci… e una nuova vita presso il Padre.
f) Per la chiesa primitiva la salvezza di intere moltitudini che trovarono in Cristo il loro Salvatore. E questo straordinario fenomeno si è ripetuto nei secoli, fino ai nostri giorni.
Siamo stanchi di un cristianesimo mediocre e senza frutto? Vogliamo vedere la gloria di Dio manifestata ancora in questi giorni? Risvegliamoci… Isaia 52:1-2 Risvegliati, risvegliati, rivestiti della tua forza, o Sion; indossa le tue splendide vesti, o Gerusalemme, città santa! Poiché non entreranno più in te l’incirconciso, e l’impuro. Scuotiti di dosso la polvere, levati e mettiti a sedere, o Gerusalemme; sciogliti le catene dal collo, o figlia di Sion che sei in cattività!

F. – IL RISVEGLIO CI RIPORTA AI VALORI DELLA CHIESA APOSTOLICA
- Erano perseveranti nell’insegnamento della Parola. La Parola era apprezzata, non giudicata. Oggi alcuni ascoltano la Parola e cercano solo di trovare l’errore, di giudicare il predicatore; è un tempo in cui, troppo spesso l’insegnante si sente alunno e l’alunno si erige a maestro. Tanti maestri… ma purtroppo maestri a se stessi. Verrà il tempo, infatti, in cui non sopporteranno la sana dottrina ma, per prurito di udire, si accumuleranno maestri secondo le loro proprie voglie… Altri sono come quel terreno roccioso… alla fine del culto hanno già dimenticato. Altri ancora sono entusiasti, accettano la Parola con zelo… ma poi durante la settimana le spine soffocano ogni pianticella che il seme della Parola aveva fatto spuntare. Ma il fondamento del risveglio è la Parola…. E riscoprire il valore della Parola di Dio ha sempre determinato risvegli in ogni epoca del nuovo, del vecchio testamento e della storia della chiesa.
– Erano perseveranti nella comunione; si amavano e si cercavano; il mondo riconosceva che erano persone speciali, per l’amore che avevano gli uni per gli altri.
– Erano perseveranti nel rompere il pane… ogni giorno, di casa in casa. Ricordavano la morte del Signore, e questo atto li univa nello Spirito per essere un corpo solo e fare ogni cosa nel pari consentimento.
- Perseveravano nella preghiera: un risveglio è sempre preceduto e seguito da una chiesa che prega tanto. Il segno più evidente del letargo spirituale della chiesa oggi è la mancanza di preghiera. Di quanto poco interesse questo soggetto eserciti sui credenti. Le riunioni di preghiera sono disertate dai più, diventano la cenerentola delle riunioni. Eppure dovremmo sapere che « il nostro combattimento non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potestà, contro i dominatori del mondo di tenebre di questa età, contro gli spiriti malvagi nei luoghi celesti. » E dovremmo sapere anche che le armi della nostra guerra non sono carnali, ma potenti in Dio a distruggere le fortezze… » e questa battaglia si vince solo per mezzo della preghiera. Questa forza spirituale si ottiene solo nella preghiera. Quando i santi pregano, l’inferno trema, perché sa che il suo regno è in pericolo.

Conclusione:
- Vediamo i segni dei tempi: Gesù sta per tornare: le vicende del mondo ce lo attestano: guerre, rumori di guerre, conseguenze incalcolabili.
- Peccato dilagante e ormai senza più freni o inibizioni di sorta.
- Sette religiose e pseudoreligiose che si dichiarano « risvegliate », avanzano e conquistano i posti più importanti della politica e dell’economia.
- L’Islam si diffonde e si espande minacciosamente.
- Il terrorismo e la minaccia nucleare alimentano le paure e le ansie degli uomini.
- Come chiesa del Signore non possiamo restare inattivi, non possiamo « dormire » ma dobbiamo reagire al grido dello Spirito che ripete ancora: Risvegliati!
- Risvegliati Chiesa del Signore, alzati come un solo uomo e « combatti » per innalzare l’Evangelo di Gesù Cristo, unica speranza per questo mondo disastrato.
Sorelle e Fratelli cari, la nave di questo mondo sta per colare a picco! Non possiamo dire: « Si salvi chi può », « ognuno pensi per se ». Gesù disse che chi tenterà di salvare la sua vita la perderà. Ma chi la perderà per il Signore la guadagnerà.
Aiutaci, Signore, a non dormire come Giona: che ci sia un vero risveglio nella nostra comunità e nella nazione. Che ognuno di noi sia coinvolto per portare un frutto eterno alla gloria di Dio, benedetto in eterno.

CARLO MARIA MARTINI – IL PECCATO

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_ritrovaresestessi3.htm

CARLO MARIA MARTINI – IL PECCATO

Il rifiuto del disegno di Dio

«Il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: « Dove sei? ». Rispose: « Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto ». Riprese: « Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’ albero di cui ti avevo comandato di non mangiare? ». Rispose l’uomo: « La donna che mi hai posta accanto mi ha dato dell’ albero e io ne ho mangiato ». Il Signore Dio disse alla donna: « Che hai fatto? ». Rispose la donna: « Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato ». Allora il Signore Dio disse al serpente: « Poiché tu hai fatto questo, sii maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. lo porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno »» (Genesi 3, 9-15). Questo dialogo serrato tra Dio e l’uomo fa emergere la confusione, l’oscurità, la vergogna del peccato dell’uomo. Quattro volte parla il Signore e i primi tre interventi sono domande precise: dove sei? chi ti ha fatto sapere che eri nudo? che cosa hai fatto? E le tre domande perentorie sono seguite da una terribile profezia che indica uno stato di inimicizia e di divisione all’interno dell’esperienza umana e della storia. Alle quattro parole di Dio, tre volte rispondono gli uomini e con risposte timide, incerte, reticenti e, in parte, menzognere. Adamo afferma di avere paura, paura di Dio. Denuncia così un rapporto falsato con quel Dio d’amore in cui non sa più riconoscere il Padre, il Misericordioso di cui non scopre più il volto. E aggiunge, accusando Eva: la donna che mi hai posto accanto mi ha dato dell’ albero e io ho mangiato. Denuncia quindi anche un suo rapporto irresponsabile con la compagna della sua vita, ributtando su di lei la colpa che gli rimorde nella coscienza. Da parte sua la donna, in timore e confusione, risponde: il serpente mi ha ingannata, mostrando un rapporto irresponsabile con se stessa, con la sua colpevolezza personale, con la chiarezza delle sue responsabilità. Nell’insieme, Adamo ed Eva, con le loro parole, sottolineano la divisione, l’oscurità, la confusione che derivano all’uomo dallo stato di peccato, cioè di lontananza da Dio. Dio, al principio, sogna una terra di pace e di benevolenza, in cui il lavoro non è opprimente e la convivenza non è guerra; a tale sogno l’uomo si ribella e lo splendore, l’immenso valore della libertà donatagli da Colui che l’ha creato e amato, si trasforma, nelle sue mani, in strumento di negazione, in un progetto alternativo a quello che gli era stato proposto. Ma la domanda rivolta dal Signore ad Adamo: «Dove sei?» è la domanda che Dio rivolge a ciascuno di noi che non abbiamo affidato pienamente la nostra vita al suo disegno di amore: dove siamo, a causa della non fiducia o della poca fiducia in lui? Adamo è l’uomo di tutti i tempi, che non accetta l’amore di Dio, che rifiuta la condizione di creatura e di figlio, che non vuole essere figlio adottivo di Dio, che si ribella a un Dio che lo serve. La sua paura ha segnato tutta la storia, ha segnato l’umanità che teme Dio immaginandolo come un tremendo punito re, che ha paura della morte, della sofferenza, di ogni forma di privazione o di pericolo. Rifiutando Dio, noi e la nostra società non andremo lontano e le conquiste del progresso potranno essere addirittura la nostra babele e la nostra morte. Nelle risposte che Adamo ed Eva danno al Signore noi troviamo che manca, in realtà, l’unica parola adeguata, l’unica parola che stenta a salire dalle labbra di ogni uomo, proprio perché si è perso di vista il vero volto di Dio: «Ho peccato contro di te!». E la risposta semplice di Davide, nel Salmo 50. In un brano del vangelo di Luca possiamo leggere un altro dialogo, corrispondente a quello avvenuto nel giardino dell’Eden tra Dio, Eva, Adamo e il serpente. E il racconto dell’ Annunciazione: «L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: « Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te ». A queste parole, ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: « Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’ Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine ». Allora Maria disse all’angelo: « Come è possibile? Non conosco uomo ». Le rispose l’angelo: « Lo Spirito santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’ Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio… ». Maria disse: « Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto »» (cfr. Luca 1 26-38). Il testo della Genesi prevedeva che la maledizione contro il serpente si allargasse a una lotta incessante tra paura e speranza, tra rifiuto del progetto d’amore di Dio e piena accoglienza, prevedeva la vittoria definitiva del bene. Maria accoglie la Parola, il disegno di Dio ed è l’aurora della salvezza definitiva. Così una donna è la destinataria dell’ annuncio di un inizio nuovo e, di fronte a questa inattesa principalità di una donna che entra a far parte del progetto redentivo, ci domandiamo se davvero abbiamo compreso a fondo la rilevanza di questo evento che fa da eco a quel: «Porrò inimicizia tra te e la donna». Vuol dire che c’è un principio riconciliatore di Maria e, in lei, di ogni persona che partecipa al suo mistero. Un potere riconciliatore che il mondo non ha ancora riconosciuto e che la storia della Chiesa è destinata a esprimere. Anche il saluto: «piena di grazia», significa molte cose. Maria è bellissima, di una bellezza ontologica, è amata da Dio con amore gratuito e redentivo. Tale principalità della grazia che si china sull’umanità peccatrice e la riabilita è il fondamento della « buona notizia » ed è costitutivo, non contingente come lo è il peccato. La principalità del peccato era pervasiva, invadente, onnipresente, ma incapace di pervenire davvero al fondo dell’uomo: il peccato cioè attacca l’uomo fino in fondo e però non a fondo. La grazia, invece, risana fino in fondo e a fondo, ricostituendo nell’intimo l’uomo e l’umano. Contemplando questa nuova Eva ciascuno di noi – nonostante i peccati, le negligenze, le infedeltà, i timori – ritorna a credere nel chiarore delle origini, ritorna a inseguire la gioia e lo splendore di quei giorni in cui Dio scendeva nella brezza della sera a passeggiare nel giardino. Ritorna, ciascuno di noi, a essere motivo di speranza per il mondo.

Altre tipologie di peccato nella Bibbia Ancora nei primi capitoli della Genesi, la Bibbia ci presenta altre tre tipologie del peccato. Esse mostrano come i tre rapporti fondamentali che costituiscono la pienezza dell’uomo, l’ideale dell’umanità – il rapporto con Dio, il rapporto tra gli uomini e il rapporto con la terra – venga disconosciuto e pervertito.

Il racconto di Caino e Abele «Dopo un certo tempo, Caino offrì i frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: « Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo »» (Genesi 4, 3-7). Che cosa ha fatto Caino? Probabilmente la sua offerta era imperfetta o avara, non dettata da riverenza e amore verso il Signore. Tuttavia il peccato prende in lui forza e violenza quando egli si rattrista e non riesce ad accettare che il fratello sia migliore di lui, non riesce a vivere in pace con uno che ha un destino diverso dal suo. Caino non realizza quell’unità dei diversi che costituisce l’umanità e, anziché sentirsi spronato a salire al livello di Abele, vorrebbe che il fratello scendesse al suo. Vive la tristezza dell’invidia, che è una delle cause più gravi dello scatenarsi di guerre, di conflitti sociali, delle forme di razzismo che devastano l’umanità. Forme drammatiche ai nostri giorni e cresceranno di violenza in Europa a mano a mano che aumenterà il numero di persone di altre razze, di altre culture perché faremo grande fatica a vivere la fraternità con gli africani, con gli arabi, con gli asiatici, a vivere la dimensione dell’accoglienza dell’ altro, a cercare lo scambio, a rallegrarci del bene dell’ altro. Caino ha perduto il senso, il valore del rapporto con il fratello e giunge a uccidere. In tale situazione, non è più in grado di ascoltare la voce di Dio, tanto è vero che Caino la banalizza, se ne prende gioco. «Allora il Signore disse a Caino: « Dov’è Abele, tuo fratello? ». Rispose: « Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello? »» (v. 9).

Il racconto dei figli di Dio e delle figlie degli uomini «Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero le loro figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero. Allora il Signore disse: « li mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni ». C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi» (Genesi 6, 1-4). Il brano evoca leggende e saghe antiche di cui è difficile dire quale sia stato il contenuto vero. Lo scrittore sacro però ritiene questi brandelli di memorie per offrirci un quadro della dimenticanza, perdita e confusione di rapporti fondamentali. Il primo è di nuovo sul tema della fraternità, sul rapporto uomo-donna: «ne presero per mogli quante ne vollero». Leggiamo qui l’inizio della considerazione della donna quale oggetto, quale cosa; non come un « tu » con cui avviene uno scambio unico e indivisibile. La donna è vista come forma di possesso, non nella sua dignità pari a quella dell’uomo. C’è un altro aspetto che oggi sentiamo vivamente ed è dato dalla menzione un po’ oscura dei giganti, quasi che l’umanità si sia illusa e si possa illudere di creare uomini con poteri divini, superuomini. Pensiamo alla tremenda tentazione della biotecnologia: prendere in mano la vita, moltiplicarla, creare nuove razze di umanità, nuove forme del vivere, immaginare che la terra possa essere oggetto di sfruttamento totale e che l’uomo debba vivere in tubi stellari. Tutti progetti che la scienza, credendosi onnipotente, elabora senza più fermarsi e smarrendo il rapporto equilibrato dell’uomo con la terra. È quindi la perdita dell’ armonica relazione uomo-terra, uomo-corpo, dell’ attenzione ai ritmi dell’ esistenza, che certamente sono in continua evoluzione e l’uomo deve saper dominare, ma che non possono essere impunemente distrutti.

Il racconto della torre di Babele «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’ oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: « Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco ». li mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: « Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra ». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. li Signore disse: « Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro ». li Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra» (Genesi 11, 1-9). È un racconto misterioso, allusivo, pieno di simboli e si riferisce a situazioni originarie dell’umanità; in questo senso è esemplare. Dice non soltanto ciò che è avvenuto, ma ciò che può avvenire, che avviene. Che cosa è accaduto? Il punto di partenza è una situazione di perfetta comunione: «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole». A un certo punto però si scopre il mattone. Mentre prima si costruiva con il legno, o mettendo le pietre una sull’ altra facendo una casa al massimo di un piano, con il mattone, strumento ben maneggevole e di costruzione leggera, l’uomo comincia a pensare di non avere più limiti alla sua possibilità operativa e di poter arrivare addirittura in cielo. Di per sé siamo di fronte a un fatto tecnico che non è né buono né cattivo. Tuttavia vi leggiamo dietro l’entusiasmo, la presunzione, l’ambizione che viene dalle scoperte; un po’ come oggi la scoperta del computer con cui posso imitare l’intelligenza e tenere il mondo m mano. «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (v. 4). Dalla soddisfazione della scoperta del mattone nasce un progetto esorbitante, la pretesa di un’impresa colossale, destinata a durare per sempre, a significare l’autosufficienza umana, la capacità che l’umanità ha di edificare se stessa in assoluto. Siamo noi che ci diamo gloria e siamo noi gli arbitri del nostro destino presente e futuro. Sottilmente, senza una dichiarazione esplicita, laicamente, è rotto il contatto con Dio. Perché, in verità, è Dio che dà un nome, che lancia un ponte verso l’uomo. Il peccato dunque non consiste nel proposito di costruire una torre, bensì nella rottura della coordinata del timore di Dio, della soggezione dell’uomo al Signore del cielo e della terra. Il testo biblico non fa applicazioni morali, ma le cogliamo nella conclusione del castigo divino: « »Scendiamo e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro ». li Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra» (vv. 7-9). Noi siamo in pieno dentro tale tentazione, molto più che nei secoli passati: le continue scoperte, infatti, ci fanno ritenere di non dover dipendere più da nessuno, di poter dare il nome a noi stessi. Quanto più assumiamo responsabilità sociali, civili, politiche, scientifiche, tanto più ci troviamo immersi in una mentalità che ha perduto le coordinate, le ha confuse, spinge a vivere situazioni che vanno dall’esaltazione alla depressione, situazioni di sfiducia nella vita, di scoraggiamento, di amarezza perché dalla voglia sfrenata di possedere tutto si passa facilmente al senso della propria povertà fisica, morale, spirituale e si finisce per non capire più nulla. Quello della torre di Babele è il racconto di una colpa collettiva; mentre il rifiuto del disegno di Dio da parte di Adamo ed Eva era espresso in termini individuali, il rifiuto della gente di Babele è narrato in termini collettivi. La radice di questo peccato è la pretesa dell’uomo di essere il centro di tutto, di non avere bisogno di Dio, di staccarsi dalla dipendenza creativa, magari senza negarla, ma agendo per proprio conto. E il fenomeno odierno di guazzabuglio culturale: idee, pensieri, progetti, filosofie che contrastano tutte con l’idea di servire l’uomo.

LA MALDICENZA – RIFLESSIONI BIBLICHE SULLA MALDICENZA E LA GELOSIA

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LA MALDICENZA

RIFLESSIONI BIBLICHE SULLA MALDICENZA E LA GELOSIA

Mosè aveva un fratello e una sorella, Maria, la più anziana. Da giovane ella aveva vegliato sul piccolo Mosè (Esodo 2:4,7). Era una profetessa (Es. 15:20). Si sentì forse spodestata della sua influenza per il ritorno di Sefora (cfr. Es. 18:5 e Num. 12:1). Comunque coinvolse nel suo scontento Aaronne ed entrambi parlarono contro Mosè: « L’Eterno ha egli parlato solo per mezzo di Mosè? Non ha egli parlato anche per mezzo nostro? » (v. 2). La « moglie Cuscita » era un pretesto, il motivo profondo era la gelosia. Del resto Mosè era solo l’ultimogenito; suo fratello e sua sorella volevano ben credere che Dio avesse parlato per mezzo di lui, ma anche per mezzo di loro. A loro ripugnava il dover accettare l’influenza crescente che Dio conferiva al suo servitore, mentre avrebbero dovuto riconoscere il posto di autorità che gli era stato affidato.
Non è forse così, spesso, tra noi? Per gelosia o per dispetto, ci mettiamo a parlar male di tale o tal fratello, anche di un servitore del Signore. Ci si compiace nella maldicenza, nel riferire un male forse reale, ma con lo scopo di disprezzare agli occhi del proprio interlocutore colui che l’ha commesso. Si va anche fino alla calunnia, raccontando ciò che è falso, o fortemente esagerando. Il male prodotto è irreparabile. Dopo esserci umiliati davanti al Signore, potremo ben scusarci col nostro interlocutore (non con colui sul conto del quale abbiamo fatto della maldicenza o della calunnia, cosa che lo affliggerebbe ancor più) e pregarlo di dimenticare, ma nel frattempo il male si sarà già sparso e avrà fatto la sua opera. Tre cose, dice un proverbio arabo, non possono essere trattenute: la freccia che vola, la parola detta, il tempo passato. Giacomo avverte: « Se uno… non tiene a freno la sua lingua… la religione di quel tale è vana! » (Giac. 1:26). Pensiamo anche all’effetto prodotto sui bambini che troppo spesso sentono nella famiglia maldicenze e critiche.
Levitico 19:16 l’aveva precisato: « Non andrai qua e là facendo il diffamatore fra il tuo popolo ». L’apostolo Pietro ne sottolinea tutta la gravità: « Gettando dunque lungi da voi… ogni sorta di maldicenze, … appetite il puro latte spirituale… se pure avete gustato che il Signore è buono » (1 Pietro 2: 1-3). Questo « se pure » non sembra forse mettere in dubbio che si possa aver gustato la bontà del Signore se ci si dà alla maldicenza? Questa è da principio concepita nel cuore, poi nei risentimenti che si nutrono contro l’uno o l’altro, o nell’importanza che si attribuisce a se stessi; poi il nemico sa suscitare l’occasione propizia per pronunciare la parola malvagia. Si vorrà far vedere che « si sa quella certa cosa »; troppo spesso, poiché si manca di soggetti di conversazione, si sparla degli altri. E tali « rivelazioni » sono come « ghiottonerie » (Prov. 26:22) per quelli che le ascoltano! « La lingua è un piccolo membro… un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta » (Giac. 3:5).
È fatta una promessa al Salmo 15 a colui che non maledice con la sua lingua: egli « dimorerà nella tenda dell’Eterno »: comunione benedetta col Signore di colui che ha vegliato sulle sue labbra. Davide supplicava: « Siano grate nel tuo cospetto le parole della mia bocca e la meditazione del mio cuore » (Salmo 19:14). Le risoluzioni e i buoni propositi esteriori non sono un soccorso sufficiente: la lingua non può essere domata. È l’essere interiore che deve essere cambiato, rinnovato, trasformato. Bisogna giudicare i pensieri malvagi che ci spingono a sparlare del nostro fratello, o anche a calunniarlo, quando sono ancora in noi.
Oggetto della maldicenza da parte del fratello e della sorella, Mosè tace. Ma « l’Eterno l’udì », e li convoca, tutti e tre, alla tenda di convegno; poi fa venire davanti a sé solo Aaronne e Maria. Egli prende la difesa del suo servitore, fedele in tutta la sua casa, col quale egli parla a tu per tu, e che vede la sembianza dell’Eterno: « Perché non avete temuto di parlar contro il mio servo, contro Mosè? E l’ira dell’Eterno s’accese contro loro… ed ecco che Maria era lebbrosa; Aaronne guardò Maria, ed ecco era lebbrosa ». La profetessa, che aveva cantato le lodi dell’Eterno, doveva essere, d’ora in poi, esclusa dal campo, e continuare così la sua vita, fino a quando la morte la libererà dalla sua orrenda malattia.
Quale tragedia! Dio non prende queste cose alla leggera. La coscienza di Aaronne e di Maria parla. Essi si pentono. Riconoscono il loro peccato, per il quale hanno agito stoltamente. Aaronne, benché sacerdote, non è in grado di pregare per sua sorella. Alla sua domanda pressante, Mosè, che per la prima volta nel nostro testo apre la bocca, senza alcun risentimento grida all’Eterno: « Guariscila, o Dio, te ne prego ». Ma la disciplina deve seguire il suo corso. Maria sarà guarita, a condizione però che porti « la vergogna per sette giorni », lasciata fuori del campo. Tutto il popolo ne soffre con lei e non parte finché Maria non è riammessa.
« Perché dunque non avete temuto di parlare contro il mio servo? ». Queste parole non risuonano forse anche alla nostra coscienza? Senza dubbio, ogni servitore del Signore ha i suoi mancamenti e le sue deficienze (Giac. 3:2); non è questa una ragione per metterle in evidenza e servirsene contro di loro. Al contrario, l’amore copre gli errori altrui; ne parla col Signore perché Egli corregga e guarisca; oppure direttamente con l’interessato se, in casi particolari, egli è condotto a farlo. Sparlare di servitori di Dio, di nostri fratelli, chiunque essi siano, non può che attirare la disciplina del Signore su noi stessi, ostacolando la comunione con lui, rendendo vano il nostro servizio, producendo aridità nell’anima, e dei frutti spesso molto amari.
Non dovremmo prendere molto più a cuore questo peccato di maldicenza che noi commettiamo con così tanta leggerezza? Non accogliamo più i commenti sfavorevoli che qualcuno ci fa, e rispondiamo come ha fatto un fratello ad uno che ne criticava un altro: « Vado a parlargliene »; e l’interlocutore subito lo pregò di non farlo! Nel giudizio di noi stessi, cercare le cause che ci hanno condotto a fare della maldicenza, giudicarle veramente davanti a Dio, e accettare, se occorre, la vergogna e la correzione necessarie.

(dal libro « Il cammino nel deserto », di Georges Andrè, edito da: Il messaggero cristiano) 

Publié dans:BIBLICA - RIFLESSIONI |on 9 juin, 2015 |Pas de commentaires »

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