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DA ALTROVE PROTEZIONE – SALMO 27 (26) (LECTIO) (2006/2007)

http://www.atriodeigentili.it/lectio/2006_07/02.htm

Lectio Divina 2006/07

a cura di Stella Morra

Azione Cattolica Diocesana

2. DA ALTROVE PROTEZIONE – SALMO 27 (26) (LECTIO)

Premessa
Il mese scorso, iniziando il percorso sulla paura, ci siamo fermati sul testo di Genesi, come descrizione della paura, movimento profondo che ci riguarda un po’ tutti. Ogni anno cerchiamo di rivolgere la nostra attenzione a tutti i tipi di testo presenti nella scrittura in modo da fare, poco per volta, l’orecchio a tutti; siccome da un po’ di tempo non ci soffermiamo sui Salmi, oggi rifletteremo sul 27, un Salmo molto conosciuto.
Il libro è composto da 150 Salmi. Nella trasmissione c’è stata un po’ di confusione sulla numerazione: dal 9 in poi ogni salmo è contrassegnato da due numeri, di cui uno tra parentesi; gli ultimi tre tornano ad avere un numero solo. Questo è successo perché, quello dei Salmi, era un libro di canti e preghiere molto usato nel mondo ebraico –tipo i nostri libretti dei canti per la Messa; proprio a causa del grande uso, alcuni Salmi si perdevano, anche solo in parte, e venivano riscritti, magari collegati uno all’altro.
I Salmi sono spesso studiati alla ricerca della loro unità, della logica che li abita. Come i nostri libretti contengono semplicemente i canti che vengono usati abitualmente e non c’è un’unità materiale di argomento, di racconto, così è per i Salmi: non c’è un’unità di argomento, di narrazione. I Salmi sono stati raggruppati dai vari studiosi in mille modi diversi, perché ognuno ha trovato un’unità di un certo tipo; in realtà l’unica vera unità sta semplicemente nel fatto che sono la preghiera di una comunità che crede e che si è data un percorso di dialogo con Dio. In questo sta una delle bellezze di questo libro; nei Salmi si trova di tutto: la disperazione, la gioia, la benedizione, le maledizioni.
Un gran numero di Salmi sono stati composti durante e dopo l’esilio, dopo il disastro che ha colpito la nazione di Israele. Tre sono i testi fondamentali prodotti durante e dopo l’esilio: Giobbe, Qoèlet e i Salmi. Faccio una presentazione, come mio solito, un po’ a cartoni animati. Il popolo di Israele si trova di fronte ad una tragedia nazionale, ad una depressione collettiva -come fatto sociale e non solo psicologico o personale-, si trova a non avere più un progetto, ha la sensazione che sia crollato tutto ciò su cui si era costituita l’unità di autocoscienza di popolo scelto da Dio, il patto, le promesse di Dio, – non dimentichiamo che il popolo di Israele si capisce come ‘popolo unito’ dall’Esodo in poi, diventa il popolo di Dio, eletto, dal momento in cui riceve la legge sul monte Sinai! – ed ora la fine del regno, la distruzione del tempio e l’esilio… cioè …non era vero niente, la scelta, le promesse, l’alleanza… Dove andranno a finire le promesse di Dio?
Di fronte a questa tragedia, nella scrittura ci sono tre tipi di reazione; quella di Giobbe è: perché? Come è possibile? Abbiamo tutti nelle orecchie il libro di Giobbe in cui lui chiama in causa Dio: è la reazione di chi, di fronte al dolore, sta in piedi e sfida il dolore. Poi c’è la reazione di Qoèlet: tutto è vanità. E’ la razione del cinismo; vuol dire: non ci credo più, è andata così, cosa ci vuoi fare? Non ho più uno slancio rispetto al progetto. La terza è quella dei Salmi, la reazione di rimanere di fronte a Dio e di chiedere conto a lui della situazione, punto per punto, di rimanere lì a fronteggiare la questione.
La cosa bella, secondo me, è che queste tre reazioni stanno tutte nella scrittura ispirata. Nel paradigma che noi abbiamo di rapportarci alla fatica e al dolore dell’esistenza, la scrittura ci offre tutte e tre queste reazioni. Si può dire: tutto è vanità; si può domandare perché, che cosa sta succedendo? e si può rimanere di fronte a Dio a contestare punto per punto la questione.
E’ molto interessante! Noi invece, in modo moralistico, saremmo tentati di dire che c’è un modo giusto di reagire al dolore, quello di non perdere la fiducia, sperare, continuare a credere… e che tutti gli altri modi sono sbagliati. Di per sé, al di là delle parole di fiducia che tornano, vanno e vengono, esattamente come nella nostra vita, -anche quando uno sta male, ha dei momenti in cui si tira un po’ su, poi perde la speranza…- non è che una parola sia vera e l’altra falsa; la questione è che le nostre parole non hanno la potenza delle parole di Dio. Non succede che, se diciamo ho fiducia, la fiducia ‘è’, come quando Dio dice ‘sia la luce’ e ‘la luce è’. Le nostre parole seguono la nostra vita e, dunque, costruiamo la fiducia in un tempo magari molto lungo, e andando su e giù, tra paura, preoccupazione, dubbio, incertezza. La cosa bella è che nella scrittura ci sono tutti questi passaggi, non ce n’è uno escluso. C’è anche il passaggio scettico di Qoèlet: niente conta niente, in fondo sono veramente deluso, tutto è vanità, tutto passa! Per dirla in termini moderni, è come dire: anche una reazione atea ha un posto nella scrittura.

La forza del desiderio
All’interno di questo discorso noi leggiamo un Salmo che fa parte di un gruppo, dal 25 al 34, costruito come una montagnola. Il Salmo 25 e il 34 sono detti salmi alfabetici -noi non lo vediamo più perché li leggiamo in traduzione. Alfabetici vuol dire che ogni versetto cominciava con una lettera dell’alfabeto, così si ricordava più facilmente. I Salmi alfabetici normalmente segnano i passaggi da una parte all’altra, da una situazione ad un’altra: c’è un Salmo alfabetico, poi un gruppo di Salmi, poi torna uno alfabetico che chiude la serie. Dunque il Salmo 25 e il 34 sono alfabetici; in mezzo c’è una unità di Salmi costruiti così: 26, 27, 28 sono di supplica -con parole moderne noi diremmo Salmi di desiderio; al centro c’è il 29, l’inno, o per noi, la crisi. L’inno spesso è usato per indicare il punto critico, il punto dove il desiderio sale e poi diventa un’altra cosa, si spezza; 30, 31, 32 sono i Salmi di riconoscimento, di ringraziamento, in cui uno riconosce il proprio desiderio trasformato in un’altra cosa. Il 33 è stato messo lì un po’ come aggiunta, è un Salmo di lode che non fa parte di questa unità.
Dicevo, una specie di monte: c’è un desiderio che dice di noi, di ciò che muove il nostro cuore, più che dire qualcosa di Dio. Quando uso la parola desiderio, questa ha il significato che le abbiamo attribuito più volte in questi anni: il desiderio è una potenza, un’energia; ciascuno di noi sa che il desiderio ci dà la forza di fare delle cose che non sapremmo fare; e i desideri veri si distinguono bene dai desideri finti, al di là delle chiacchiere -tutte le mamme che stanno sveglie la notte a causa dei loro bambini, teoricamente prima avrebbero pensato di non farcela, poi ce la fanno, normalmente. Il desiderio è un motore, un’energia, non tanto una domanda, è la forza che ci spinge ad essere e a fare ciò che di per sé non avremmo saputo o voluto fare. Il desiderio va coltivato, cresce, funziona come lievito; rispondere e fermarlo troppo presto significa ucciderlo; lasciarlo andare troppo avanti in modo ingovernato significa far crescere un rancore. Il desiderio ha una sua maturazione, c’è un punto in cui si trasforma in realtà o in un’azione del reale, perché altrimenti incancrenisce, o, se non si trasforma in realtà ma viene semplicemente stoppato, comincia a fermentare e ad un certo punto esplode.
Il Salmo 27 sta nella parte della crescita del desiderio. Noi ragioniamo normalmente al contrario, diciamo: prima del punto critico c’è la paura, poi c’è la fiducia. E la paura sarebbe sbagliata, mentre la fiducia sarebbe la parte positiva. C’è la paura perché sta arrivando una crisi, poi c’è la crisi, si mette tutto a posto, quindi ho fiducia e sono contento; la paura è sbagliata, la fiducia è giusta. Ma nella vita non funziona così. Questa è una favola. Ciò che sta prima possiamo chiamarlo paura, ma forse paura è l’altro nome di un desiderio… di che cosa? Noi abbiamo paura di qualcosa perché desideriamo qualcosa.
Se volete, il sottotitolo di questo salmo potrebbe essere: di cosa parliamo quando parliamo di paura? Parliamo di paura o di desiderio? E la fiducia che ne sortisce, non è un riconoscimento infantile del desiderio compiuto e basta, la fiducia è fidarsi del proprio desiderio, dell’energia che ti dà, della forza che ti conduce.

Salmo 27 (26)
Il Signore è mia luce e mia salvezza,
di chi avrò paura?
Il Signore è difesa della mia vita,
di chi avrò timore?
Quando mi assalgono i malvagi
per straziarmi la carne,
sono essi, avversari e nemici,
a inciampare e cadere.

Se contro di me si accampa un esercito,
il mio cuore non teme;
se contro di me divampa la battaglia,
anche allora ho fiducia.
Una cosa ho chiesto al Signore,
questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della mia vita,
per gustare la dolcezza del Signore
ed ammirare il suo santuario.

Egli mi offre un luogo di rifugio
nel giorno della sventura.
Mi nasconde nel segreto della sua dimora,
mi solleva dalla rupe.
E ora rialzo la testa
sui nemici che mi circondano;
immolerò nella sua casa sacrifici d’esultanza,
inni di gioia canterò al Signore.

Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi.
Di te ha detto il mio cuore: “Cercate il suo volto”;
il tuo volto, Signore, io cerco.

Non nascondermi il tuo volto,
non respingere con ira il tuo servo.
Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi,
non abbandonarmi, Dio della mia salvezza.
Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato,
ma il Signore mi ha raccolto.

Mostrami, Signore, la tua via,
guidami sul retto cammino
a causa dei miei nemici.

Non espormi alla brama dei miei avversari;
contro di me sono insorti falsi testimoni
che spirano violenza.

Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore.

L’inizio del Salmo dice che va tutto bene, non c’è paura, e finisce con la paura, con i nemici. Noi, che siamo un po’ moralisti, avremmo costruito il Salmo al contrario: prima i nemici, la paura, l’incoraggiamento ad andare avanti, ad essere forti e alla fine …”se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme; se contro di me divampa la battaglia, anche allora ho fiducia”. L’avremmo costruito in termini volontaristici: io ho paura e se mi impegno e sono bravo, alla fine ho fiducia.
Qui è esattamente il contrario perché ciò di cui si parla per i primi cinque versetti è un desiderio, non una realtà; è l’energia che spinge verso il Signore; è ciò che in qualche modo traduce il versetto 1, la domanda che il salmista fa a se stesso: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura? Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò timore?”. Noi diremmo: si sta facendo coraggio da solo, sta dicendosi come vorrebbe sentirsi, in realtà non si sente così, e prende atto, il riconoscimento è che per ora il suo desiderio è ancora inattuabile.
La parola chiave, che svolta, è quella del versetto 7 “abbi pietà di me”. Tutti e tre i salmi del desiderio, 26, 27 e 28 hanno a metà questa stessa espressione: “abbi pietà di me”. Se sale il desiderio, sale la paura, perché bisogna essere coraggiosi per desiderare molto e perché ciascuno di noi, se sta di fronte al proprio desiderio, non si sente all’altezza del proprio desiderio. I nostri desideri sono sempre migliori di noi, hanno più fiato, più aria, più gambe; siamo noi che siamo stanchi, impauriti; per questo i desideri fanno così paura; per questo li addomestichiamo diventando adulti. Solo i bambini sono capaci di esprimere i desideri così come li sentono, e li dicono ad alta voce, e non hanno paura di essere smentiti, che il desiderio si avveri oppure no. Tutti diciamo che i bambini sono facili da distrarre. Un bambino ha un desiderio, lo esprime, se gli rispondi di no, piagnucola un po’, lo distrai con un’altra cosa; non è così banale, non è che i bambini si distraggono, è che loro sono capaci di un desiderio alla volta; desiderano una cosa, se quella non c’è ne sono dispiaciuti, ma se subentra un altro desiderio, non sono feriti dalla delusione, non portano rancore, hanno esattamente il coraggio di cominciare a desiderare un’altra cosa, di entrare dentro quell’altro desiderio e di riceverne tutta la gioia senza conservare la ferita della frustrazione del primo. Noi siamo un po’ diversi; per questo addomestichiamo i desideri. L’altro nome della paura è desiderio!

Luce, salvezza, difesa
Nel primo versetto si usano tre attributi di Dio, non nomi assoluti, bensì relativi al salmista che parla, non una descrizione filosofica di Dio, ma chi è Dio per me. Il salmista dice: “Il Signore è mia luce, mia salvezza e difesa della mia vita…” Noi conosciamo bene questo versetto perché torna spesso nelle preghiere e nella liturgia e ci sembra un versetto spirituale; in realtà è molto concreto, serio, per niente spirituale. Tutti abbiamo una grande nostalgia di infanzia, essere convinti di sapere dove stiamo andando, avere luce, avere salvezza, sentirci protetti e avere difesa per la nostra vita, sapere che nella vita che abbiamo, che è poco o tanto, ma è l’unica cosa che abbiamo, ci sia qualcuno -come dice Baricco in Oceano mare, un padre, un amore, un prete che ti accompagni fino al mare. Qualcuno che protegga e benedica la nostra vita, che le consenta di non essere ferita.
Il salmista dice: “Il Signore è mia luce, mia salvezza, difesa della mia vita”. Di questi tre nomi, quello che a me fa sempre problema è mia salvezza. Mia luce mi pare chiaro. Per una come me che si occupa di studio, “più luce”! E’ la frase di Goethe, che pare abbia pronunciato come ultima parola prima di morire, “più luce”. Mi sembra un desiderio molto chiaro, capire meglio, sapere di più, non essere così confusi, saper vedere la verità delle cose e delle persone. Difesa della mia vita lo capisco anche meglio. La mia vita, che è l’unica che ho, è così in balìa di tutto, – più uno cresce più perde il senso di onnipotenza e sa che il proprio corpo, i propri sentimenti lo tradiscono, che le cose che vengono da fuori ti tradiscono, e arriva un’altra cosa -… poter credere ancora in un principe azzurro, un cavaliere dalla brillante armatura che difenda la nostra vita … che meraviglia! Non ho più bisogno di essere io che mi occupo di tutto; se si occupa qualcun altro io sto benissimo, non ho problemi. Ciò che io capisco meno, almeno nella mia storia, è mia salvezza, perché forse non ho ancora fatto, o non sto ancora facendo, l’esperienza di essere minacciata dall’esterno, da una cosa, una persona, una situazione, una malattia che mi minacci così fortemente, e forse non ho ancora sperimentato che cosa vuol dire il desiderio di una salvezza.
“Quando mi assalgono i malvagi per straziarmi la carne, sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere”.
Un bel desiderio vendicativo! Questi, che sono i cattivi, si facessero male loro, una volta!!! E non li perdono! Sono loro i cattivi, ma possano cadere!
“Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme; se contro di me divampa la battaglia, anche allora ho fiducia”.
Chi di noi non ha desiderato di essere così forte! Di avere un cuore che non trema! Di essere capace di non aver paura, di non dover combattere con la propria ansia!
“Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore ed ammirare il suo santuario”.
Nella logica in cui sto leggendo il Salmo, mi pare che diventi un po’ più chiaro: certo c’è un tema religioso, la casa di Dio, il tempio … ma in una lettura un po’ esistenziale è ovvio, tutti vorremmo una casa; perché nel nostro immaginario una casa è il luogo più sicuro che ci sia – che poi non è quasi mai vero, nella concretezza delle cose; le case spesso sono luoghi molto pericolosi o comunque faticosi, dove vivendo fianco a fianco, tutti i giorni, la fatica è notevole. In fondo però tutti rimaniamo dell’idea che, se arrivo fino a casa e chiudo la porta, poi sono al sicuro; che cosa mi potrà ancora accadere? Questa è casa!
Mi piacerebbe molto fare una ricerca su tutte le immagini di casa che ci sono nella scrittura, perché la casa è sempre molto ambivalente. Nei Vangeli, per esempio, per i discepoli, il desiderio di tornare a casa è sempre un sottile desiderio di tradimento, non essere ancora fino in fondo compromessi con quel Gesù che non ha una pietra dove poggiare il capo.
Celebreremo tra poco il Natale e nel Vangelo di Giovanni si dice che Dio ha posto la sua tenda in mezzo a noi, ha ripreso ad essere nomade, è venuto ad abitare in mezzo a noi, ma non ha messo su casa. Noi facciamo molta poesia su Abramo, essere nomadi della fede, ma poi il nostro desiderio è una casa. Possiamo chiudere le paure fuori casa, ma non possiamo chiudere fuori casa i desideri, e quindi siamo fregati.
Il salmista dice che ha chiesto solo di poter abitare nella casa del Signore, perché non è una casa qualsiasi quella che lui desidera, è la casa del Signore, la casa di colui che può!… per gustare la dolcezza del Signore, tutti i giorni della mia vita.
Poi ci sono questi due bellissimi versetti: “Egli mi offre un luogo di rifugio nel giorno della sventura. Mi nasconde nel segreto della sua dimora, mi solleva sulla rupe”.
Fa tutto e il contrario di tutto: da una parte nasconde, dall’altra mette in piena vista. Ma l’aspettativa, il desiderio che c’è è di un luogo di rifugio dove l’elezione sia totale, dove io sono colui che sta nell’intimità, quindi posso essere nascosto nel segreto o mostrato a tutto il mondo, messo in cima ad una rupe, salvaguardato, eletto, strappato via da ciò che accade a tutti. Il nostro desiderio di una casa è sempre un desiderio di elezione. E’ buffo, perché possiamo anche non aver paura di situazioni molto difficili; il problema vero è che non siamo in grado di affrontare una situazione difficile se non c’è motivo. Per un altro, per un amore, per un obiettivo, possiamo affrontare quasi qualsiasi cosa, molto più di ciò che immaginiamo di saper affrontare… Cioè: in una elezione non c’è più paura, non perché l’altro sia in grado di fare chissà che cosa, ma perché è il sentirsi eletti da qualcuno, sentirsi in una situazione che ci rende intoccabili, superiori ad ogni pericolo possibile.

Dal desiderio … la fiducia
“E ora rialzo la testa sui nemici che mi circondano; immolerò nella sua casa sacrifici d’esultanza, inni di gioia canterò al Signore”.
Fin qui era il desiderio che parlava. Questa espressione di rivincita è bellissima: ‘rialzo la testa’. In questi giorni, lavorando su questo salmo, pensavo come noi abbiamo l’abitudine di abbassare il capo nella preghiera, nella liturgia, lo consideriamo un atteggiamento pio, come se il Signore fosse nostro nemico, che ci fa abbassare la testa, come se avessimo bisogno di raccoglierci in noi, ma anche di stare chini, e di come invece il sentimento della fiducia è di colui che rialza la testa, che guarda negli occhi, che sta di fronte!
Non c’è una constatazione di fatto: fino a questo punto c’è un desiderio e qui comincia il mettere in moto questo desiderio. Il nome di questo desiderio è una paura, ma l’energia che il desiderio muove, è una fiducia. E’ come se dicesse: ok, adesso vado, adesso vado, adesso vado…! Si sta convincendo.
“Ascolta , Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi”.
Questo è il versetto decisivo. Il desiderio cresce finchè uno dice: ok, adesso vado … e c’è il punto di crisi, espresso in questa frase: Ascolta, Signore, la mia voce… abbi pietà di me! Per far diventare la paura il riconoscimento, bisogna far spazio a qualcosa che non siamo noi, deve esserci un interlocutore, uno che ascolta una voce. Dico una cosa banale: il novecento, che ha capito bene questa faccenda, cura le ansie con una terapia analitica; un analista si siede, ascolta la tua voce e in questo percorso tu un po’ alla volta… Ma questo è sempre stato chiaro: solo qualcuno di fronte a me che ascolta la mia voce, mi può consentire di far diventare i miei desideri, che stanno per esplodere, un riconoscimento del reale, un’azione nel reale, un’energia per il reale. Una paura raccontata ad un altro fa meno paura, molto semplicemente.
Qui c’è la realtà del salmista, non nel primo versetto quando dice: “Quando mi assalgono i nemici…allora ho fiducia”. Lì c’è il desiderio. Qui c’è la realtà: “Abbi pietà di me”. Qualcuno mi senta! “Rispondimi”!
Poi c’è il contraltare all’immagine della casa. “Di te ha detto il mio cuore: ‘Cercate il suo volto’; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto…”
Sono tre versetti che sembrano una ripetizione, ma in realtà sono tre passaggi fondamentali. “Di te ha detto il mio cuore: cercate il suo volto”, cioè: ho capito, ho intuito che questo dovevo fare: cercare il tuo volto. “Il tuo volto, Signore, io cerco”: ho capito ciò che dovevo fare, l’ho fatto. Adesso tu fai la tua parte: “non nascondermi il tuo volto”!
Questi tre pezzetti sono veramente la struttura di un amore: mi ci è voluto un po’ di tempo, ho capito quello che sentivo, quello che volevo –e non volevo solo una casa, ma un volto dentro una casa – volevo questo volto, perciò mi sono messo a cercare; ora non nasconderti, dimmi di sì!
“…non respingere con ira il tuo servo. Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi, non abbandonarmi, Dio della mia salvezza. Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto”.
E’ la constatazione, il riconoscimento –siamo nella metà di discesa del salmo- il riconoscimento che, a fronte di questo desiderio, la realtà può essere molto dura: mio padre e mia madre mi hanno abbandonato! Il versetto è duro, ma profondo; come sempre la scrittura vede bene nelle cose umane, non dice nemmeno, come in altri Salmi, i miei amici, bensì mio padre e mia madre, cioè il tradimento ricevuto è il più profondo, originario, radicale che possa accadere, ma … “il Signore mi ha raccolto”. Cioè: io ho capito che ti cercavo, ti sto cercando, non nasconderti.
Il riconoscimento che faccio è che, non solo non ti nascondi, ma mi hai già raccolto. Se ho cominciato a cercarti è perché già stavo nella tua mano! Perché tu mi avevi già trovato. Se abbiamo paura è perché siamo vivi. Non si può avere paura e desiderare di non averne, se non perché, prima di avere paura, siamo vivi, fiduciosi e coraggiosi.
Questa è la grande lezione di questo Salmo. Non sapremmo di avere paura e non vorremmo smettere di averne se non fossimo più coraggiosi di quanta paura abbiamo. Così come il salmista dice al Signore: non potrei cercare il tuo volto se nel punto più duro del tradimento non sapessi che tu mi hai già raccolto, che il primato è al fatto che tu mi hai accolto nella tua casa, nella tua vita.
C’è un paradigma di fondo nella teologia cristiana che dice che la grazia originale è precedente al peccato originale. Cioè: noi siamo abituati a pensare che uno sta lì come in un territorio neutrale, se fa le opere buone e non il peccato si salva, se invece non fa le opere buone e fa dei peccati, va all’inferno. Sto un po’ banalizzando; come se la salvezza fosse da una parte; dall’altra ci fosse la via della perdizione e noi fossimo in un territorio neutro e dovessimo entrare positivamente nell’uno o nell’altro luogo. Invece il pensiero cristiano, la scrittura ci dice che non è così. Noi siamo già dentro la salvezza. Se non facciamo niente stiamo già dalla parte giusta. Dobbiamo positivamente volerne uscire per spezzare questa logica. Se stiamo lì, abbiamo già vinto. Tutto il resto, anche la comprensione delle nostre dinamiche umane, funziona sempre secondo questo principio: ogni volta che noi scopriamo, sperimentiamo un dato negativo, non è che questo poi diventa positivo perché ci raccontiamo chissà che cosa, ma ogni volta che c’è un pezzo di qualcosa che noi viviamo come negativo, dobbiamo sempre chiederci qual è il positivo che lo contiene, che viene prima di quel pezzo.
Tutti sperimentiamo la paura, ma non sapremmo che è paura se non fossimo a priori montati e costruiti già coraggiosi, perché Dio ci ha fatti bene, non come una prova di coraggio, tipo favole medievali; non ci ha creati mezzi e mezzi, un po’ buoni e un po’ cattivi, con dei desideri e delle paure, con un po’ di bontà d’animo e un po’ di malvagità, con un po’ di capacità, intelligenza, potere, desiderio e un po’ di fragilità, stupidità, confusione… e vediamo chi vince; e sta lì a guardare la storia in cui l’angelo e il diavolo dentro di noi si combattono e scommette se vincerà la parte buona o quella cattiva. Dio non è così: ci ha creati in un bene e ogni volta che noi sperimentiamo un pezzo della nostra vita che per noi ha un sapore di male dobbiamo chiederci qual è il bene originario che già contiene quel male. Noi sperimentiamo la paura perché siamo stati raccolti dal Signore, perché abbiamo memoria che la nostra vita è difesa, perché siamo coraggiosi e fiduciosi, e ogni volta che abbiamo paura dovremmo essere contenti perché significa che sta passando Dio a ricordarci il coraggio e la fiducia, e ce lo ricorda facendoci un po’ male.
Allora si capiscono bene i versetti conclusivi:
“Mostrami; Signore, la tua via, guidami sul retto cammino, a causa dei miei nemici”.
E’ chiaro, a quel punto il problema è: ditemi come si fa, qual è la strada? Mostrami dove devo andare. Non c’è più né paura né fiducia, non c’è il desiderio infantile di tutto protetto, non c’è nemmeno la paura che fa sì che uno si nasconda, c’è un adulto che cammina: “…mostrami, Signore, la tua via…”.
C’è la realtà così com’è, che non è sempre divertente: ci sono i mentitori, i falsi testimoni che ispirano violenza, ma io posso dire: “Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”. Perché c’è la vita, prima, e dunque: “Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore”. Si finisce con una benedizione, con un dire bene della vita, del cuore, dell’essere forti, che non ha niente a che fare con il sogno infantile dell’inizio in cui tutto è protetto e incartato, perchè non è più un desiderio, è la realtà .
E la realtà è: certo ci sono falsi testimoni, ci sono degli avversari, cioè: l’insicurezza fa parte di noi, del mondo, ma il nostro desiderio ha una benedizione, siamo nella terra dei viventi e possiamo sperare nel Signore, essere forti e avere il cuore rinfrancato.

Pensierino natalizio: mi sembra che questo testo ci potrebbe aiutare bene a vivere un Natale non troppo sotto il segno di un sogno infantile iniziale: siamo tentati di vivere il Natale con lo spirito di sentirci tutti più buoni; va bene, ma non è solo questo. Il Natale è che Dio prende carne e si mette nella stessa logica di desiderio e riconoscimento. Il figlio di Dio sulla croce dirà anche lui: “Abbi pietà di me. Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”.
Anche lui arriverà, in un crescendo di desiderio, ad una crisi molto seria e il suo riconoscimento finale sarà il riconoscimento che il Padre farà sulla sua vita per cui la sua vita diventerà un corpo glorioso e il Figlio di Dio sarà risorto
Il Natale è solo l’inizio di questa storia, cioè il Natale è che il figlio di Dio si mette dalla nostra parte, nella nostra dinamica di desiderio e di riconoscimento. E ci dice, ancora una volta se ne avessimo bisogno, con tutti i racconti e tutta la liturgia legati al Natale, che poiché Dio è dalla nostra parte, il primato della benedizione è prima di ogni paura, prima di ogni crisi, prima di ogni violenza. Non c’è niente di male che può accaderci che possa toglierci dal luogo di benedizione da terra dei viventi dove stiamo.

Fossano, 16 dicembre 2006

(testo non rivisto dall’autore)

Il Libro di Giona, con una Lectio di Benedetto XVI.

http://kairosterzomillennio.blogspot.it/2013/02/il-segno-del-figlio-delluomo.html

IL LIBRO DI GIONA

mercoledì 20 febbraio 2013

Di seguito ill Vangelo di oggi, 20 febbraio, mercoledi della I settimana di Quaresima, con un commento.
Su questo Vangelo vedi anche in questo blog il post dal titolo: « Il segno di Giona », pubblicato il 14 ottobre del 2012, con una Lectio di Benedetto XVI.

Il libro di Giona e la sua prosecuzione neotestamentaria
è la più decisa negazione del relativismo
e dell’indifferenza che si possa immaginare.
Anche per i cristiani di oggi vale
« Alzati… e annunzia quanto ti dirò ».
Anche oggi deve essere annunciato l’unico Dio.
Anche oggi è necessario agli uomini Cristo, il vero Giona.
Anche oggi deve esserci pentimento perché ci sia salvezza.
E come la strada di Giona fu per lui stesso una strada di penitenza,
e la sua credibilità veniva dal fatto
che egli era segnato dalla notte delle sofferenze,
così anche oggi noi cristiani
dobbiamo innanzitutto essere per primi
sulla strada della penitenza per essere credibili.
Joseph Ratzinger 24 gennaio 2003

Dal Vangelo secondo Luca 11, 29-32
In quel tempo, mentre le folle si accalcavano, Gesù cominciò a dire: «Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona. Poiché come Giona fu un segno per quelli di Nìnive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione.
La regina del sud sorgerà nel giudizio insieme con gli uomini di questa generazione e li condannerà; perché essa venne dalle estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Ed ecco, ben più di Salomone c’è qui. Quelli di Nìnive sorgeranno nel giudizio insieme con questa generazione e la condanneranno; perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, ben più di Giona c’è qui».

Il commento
Giona, un predicatore. In ebraico il nome proprio Ionah vuol dire “colomba”. Giona semplice come una colomba, poche parole, taglienti come una spada. Il tempo è breve, tre giorni e tutto sarà distrutto. « Fu rivolta a Giona figlio di Amittai questa parola del Signore: Alzati, và a Ninive la grande città, e in essa proclama che la loro malizia è salita fino a me ». Amittai in ebraico è verità, quindi figlio di Amittai significa figlio della verità. « La verità, la realtà stessa, si sottrae all’uomo, egli appare sottoposto ad anestesia locale, capace di cogliere solo brandelli deformati del reale. » (J. Ratzinger, Fede e futuro). Gli abitanti di Ninive, la « città sanguinaria » (Nahum 3,1), sono l’immagine di quanti vivono anestetizzati, in una sorta di « impermeabilità della coscienza » (Dominum et vivificantem, 47): essi « non sanno distinguere la destra dalla sinistra » secondo le parole di Dio rivolte a Giona. La loro malizia è dunque la mancanza di « sensibilità e capacità di percezione » (Reconciliatio et Poenitentia,18) della verità: « Dicono fra loro sragionando: «La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio, quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati…. La nostra esistenza è il passare di un’ombra e non c’è ritorno alla nostra morte, poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro…. Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia perché questo ci spetta, questa è la nostra parte. La pensano così, ma si sbagliano; la loro malizia li ha accecati » (Cfr. Sap. 2). Giona, il figlio della Verità, è inviato ai niniviti, i figli della malizia che è inganno e menzogna, a quanti « non conoscono i segreti di Dio; non sperano salario per la santità né credono alla ricompensa delle anime pure ». Giona, come un segno, l’unico. Secondo l’esegesi rabbinica il nome di Giona e di Ninive sono composti, in ebraico, con le stesse lettere (Giona si scrive IVNH, e Ninive NINVH), e si assomigliano. Scopriamo così che agli abitanti di Ninive immersi nella malizia, Dio invia un loro fratello, uno che ha le loro stesse radici. Con la discesa nel ventre del pesce e la sua salvezza miracolosa, il Signore ha preparato Giona per annunciare ai suoi fratelli la parola di Verità, facendogli condividere il loro stesso destino. Veniva a loro dallo stesso inferno, parlava con un’esperienza capace di giungere al loro cuore. Per questo è stato un segno, e la sua predicazione è risuonata nel cuore dei niniviti come un’eco di verità a cui aggrapparsi per salvarsi.
Ninive, la nostra vita oggi. Gesù, il nostro Giona oggi: « Tre giorni e Ninive sarà distrutta ». Il terzo giorno era noto alla tradizione ebraica antica; nella Scrittura è quello nel quale si risolve una situazione critica, disperata, mentre appare spesso come il giorno del dono della vita: « Mai il Santo, benedetto egli sia, lascia i giusti nell’angoscia per più di tre giorni » (Gen. R. 91,7 su Gen. 42,18). Esattamente come ha sperimentato Giona salvato dalle fauci della balena proprio al terzo giorno. Allo stesso modo il Kerygma – l’annuncio – più antico proclama che Gesù « è risuscitato il terzo giorno secondo le scritture » (1 Cor. 15,4). Non a caso il Vangelo di oggi termina con la conversione degli abitanti di Ninive alla predicazione di Giona, dove predicazione traduce proprio l’originale greco Kerygma. Per Rabbì Levi il terzo giorno ha una virtù particolare, è benedetto a causa del dono della Torah sul Sinai (cfr. Es. 19,16). A Ninive, come nella nostra vita, si rinnova il dono della Torah, la Parola incarnata nella misericordia apparsa in Cristo. Egli, come Giona lo fu per quelli di Ninive, è fratello di ciascuno di noi, ha condiviso il destino di morte che l’uomo si è attirato peccando. Tre giorni, il riposo del Signore nel sepolcro dell’umanità, della nostra vita, il tempo favorevole per lasciarci raggiungere dal Suo amore e farci trascinare con Lui nel passaggio dalla morte alla vita. Solo Lui può annunciarci il Kerygma autentico, quello che attende e desidera il nostro cuore ormai da tre giorni, la Parola di Verità che il nostro cuore può comprendere e accogliere. E’ Lui l’unico segno offerto ad una generazione malvagia, l’unico che può salvarla. Lui attraverso la sua Chiesa, madre e maestra dell’umanità. Indossiamo allora il sacco e ricopriamoci di cenere, i segni della debolezza e della caducità bisognosa che tutti ci accomuna, della realtà che ci definisce quali peccatori, sine glossa e senza giustificazioni; disponiamoci al digiuno e alla preghiera, i segni della Grazia che prende vita nelle nostre esistenze, che si fa fiduciosa risposta all’amore di Dio. Inginocchiamoci in questa quaresima, in attesa della mano del Signore tesa a salvarci, della sua Parola di vita. Un Segno per convertirci.

1 PIETRO 3,15-18 – COMMENTO BIBLICO

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=1%20Pietro%203,15-18

BRANO BIBLICO SCELTO

1 PIETRO 3,15-18

Carissimi, 15 adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi.
Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, 16 con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. 17 E’ meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene che facendo il male.
18 Anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito.

COMMENTO
1 Pietro 3,15-18

La fortezza nella persecuzione
La Prima lettera di Pietro è uno scritto cristiano della fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma che secondo gli studiosi moderni è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire in qualche modo a Pietro o al suo ambiente. Essa non è una lettera vera e propria, ma un’omelia a sfondo battesimale. Essa si apre con l’indirizzo e una benedizione iniziale (1,1-5) a cui fa seguito il corpo della lettera che si divide in tre parti: 1) Identità e responsabilità dei rigenerati (1,6 – 2,10); 2) I cristiani nella società civile (2,11 – 4,11); 3) Presente e futuro della Chiesa (4,12 – 5,11). Nella seconda di queste tre parti l’autore, dopo aver dato direttive a ogni categoria di cristiani, suggerisce il comportamento da tenere nelle persecuzioni (3,13-18). Quest’ultimo brano è introdotto da una beatitudine rivolta a coloro che soffrono per la giustizia e da una esortazione a non avere paura dei persecutori (vv. 13-14); esso prosegue poi con alcune direttive (vv. 15-18) che sono riprese dalla liturgia.
La persecuzione non può non suscitare paura e sgomento; ma di fronte ad essa il credente deve assumere un atteggiamento positivo: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi (v. 15a). Il miglior antidoto nei confronti della paura consiste nel mantenere fermo il rapporto con Cristo. È soprattutto nei loro cuori che i credenti devono «adorare» (hagiazein, santificare) Cristo, riconoscendogli il compito di guida e maestro interiore. Così facendo essi daranno un senso alla loro vita, che si manifesterà in atteggiamenti di fiducia e di speranza. Vivendo in questo modo essi saranno preparati a dare una risposta convincente a coloro che, vedendo la loro speranza, pongono delle domande circa la sua origine. In altre parole, i cristiani non devono prendere l’iniziativa di dichiarare la loro fede: è sufficiente infatti che manifestino una speranza che susciti degli interrogativi, ai quali potranno rispondere indicandone l’origine nel messaggio evangelico. La testimonianza della vita deve dunque precedere quella verbale, che ha semplicemente la funzione di esplicitare ciò che in essa è implicito.
La risposta del cristiano alle domande che gli vengono fatte non deve però venir meno a precise esigenze di comportamento: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. È meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene che facendo il male» (vv. 15b-17). Un atteggiamento fatto di dolcezza (praütês, mitezza, non violenza), di rispetto (phobon, timore) e di «buona coscienza», cioè determinato da un’intenzione retta, senza secondi fini, è l’unico in grado di sconfessare quanti mettono in dubbio la rettitudine del loro comportamento «in Cristo», cioè della loro vita cristiana. È importante che alle parole corrispondano le opere, le quali soltanto sono veramente convincenti. Se poi, nonostante tutto, non si è capiti e si viene fatti oggetto di vessazioni, non bisogna sentirsi delusi perché, dovendo comunque soffrire, è meglio che ciò avvenga avendo fatto il bene piuttosto che il male.
Infine, nei momenti di difficoltà il cristiano deve sempre rifarsi all’esempio di Cristo: «Anche Cristo è morto una volta sola per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito» (v. 18). L’efficacia della sofferenza di Cristo è vista nel fatto che egli è morto «una sola volta» (apax) «per i peccati» (peri hamartiôn), cioè a motivo dei peccati, che ha eliminato una volta per tutte. L’idea di fondo è quella del Servo di JHWH il quale, prendendo su di sé le conseguenze dei peccati del popolo, ha rotto la spirale della violenza rendendo possibile la riconciliazione del popolo. L’autore sottolinea che Cristo, accettando volontariamente la sua morte, ha dimostrato di essere un giusto in quanto ha operato «per» (hyper) gli ingiusti, cioè ha messo un argine alla loro ingiustizia. E per questo motivo è morto sì «nella carne», cioè nel suo corpo mortale, ma è stato vivo «nello spirito» (pneumati), cioè ha dimostrato di essere portatore della potenza stessa di Dio, al quale ha ricondotto l’umanità peccatrice.

Linee interpretative
Le direttive contenute in questo brano rivelano una situazione in cui i cristiani sono fatti oggetto di vessazioni, se non di aperte persecuzioni. La preoccupazione più grande dell’autore è quella di prevenire lo scoraggiamento che potrebbe minare la loro fede. Egli perciò raccomanda di mantenere vivo il rapporto interiore con Cristo, dal quale soltanto scaturisce quella speranza che consiste nel dare un significato alle scelte quotidiane della vita. Questo modo di reagire alla persecuzione non solo darà loro la possibilità di mantenersi fedeli a Cristo, ma susciterà delle domande nei loro avversari, alle quali essi dovranno saper rispondere in modo sincero e spontaneo, indicando qual è la sorgente della loro speranza, cioè la fede in Cristo.
L’autore si preoccupa anche che i cristiani non cadano in un’autodifesa arrogante e aggressiva, che li metterebbe sullo stesso piano dei loro avversari. Essi devono saper evitare ogni tipo di violenza, anche solo verbale. In loro non deve esserci alcun senso di rivalsa, anzi devono imparare da Cristo che, soffrendo senza avere fatto nulla di male, collaborano con lui nella sua lotta contro il peccato e aprono agli altri la via verso Dio. In questa prospettiva anche la sofferenza più grande, quella della morte, non è poi una disgrazia così terribile, perché riguarda, come per Cristo, soltanto il corpo fisico, mentre in realtà rappresenta una vittoria dello Spirito sul potere del male.

PAPA BENEDETTO XVI – VESPRI A CONCLUSIONE DELLA SETTIMANA DI PREGHIERA

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2012/documents/hf_ben-xvi_hom_20120125_week-prayer_it.html

(propongo questo Omelia sulla « Resurrezione dai morti », ho messo in maiuscolo il tema proposto dal Papa – Emerito Benedetto XVI – in seguito ad un commento sul questo tema rivoltomi sul mio Blog : la pagina di San Paolo)

CELEBRAZIONE DEI VESPRI A CONCLUSIONE  DELLA SETTIMANA DI PREGHIERA
PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Festa della Conversione di San Paolo Apostolo
Basilica di San Paolo fuori le Mura
Mercoledì, 25 gennaio 2012

Cari fratelli e sorelle!
È con grande gioia che rivolgo il mio caloroso saluto a tutti voi che vi siete radunati in questa Basilica nella Festa liturgica della Conversione di San Paolo, per concludere la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, in quest’anno nel quale celebreremo il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, che il beato Giovanni XXIII annunciò proprio in questa Basilica il 25 gennaio 1959. Il tema offerto alla nostra meditazione nella Settimana di preghiera che oggi concludiamo, è: “TUTTI SAREMO TRASFORMATI DALLA VITTORIA DI GESÙ CRISTO NOSTRO SIGNORE” (CFR 1 COR 15,51-58).
Il significato di questa misteriosa trasformazione, di cui ci parla la seconda lettura breve di questa sera, è mirabilmente mostrato nella vicenda personale di san Paolo. In seguito all’evento straordinario accaduto lungo la via di Damasco, Saulo, che si distingueva per lo zelo con cui perseguitava la Chiesa nascente, fu trasformato in un infaticabile apostolo del Vangelo di Gesù Cristo. Nella vicenda di questo straordinario evangelizzatore appare chiaro che tale trasformazione non è il risultato di una lunga riflessione interiore e nemmeno il frutto di uno sforzo personale. Essa è innanzitutto opera della grazia di Dio che ha agito secondo le sue imperscrutabili vie. È per questo che Paolo, scrivendo alla comunità di Corinto alcuni anni dopo la sua conversione, afferma, come abbiamo ascoltato nel primo brano di questi Vespri: “Per grazia di Dio … sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana” (1 Cor 15,10). Inoltre, considerando con attenzione la vicenda di san Paolo, si comprende come la trasformazione che egli ha sperimentato nella sua esistenza non si limita al piano etico – come conversione dalla immoralità alla moralità –, né al piano intellettuale – come cambiamento del proprio modo di comprendere la realtà –, ma si tratta piuttosto di un radicale rinnovamento del proprio essere, simile per molti aspetti ad una rinascita. Una tale trasformazione trova il suo fondamento nella partecipazione al mistero della Morte e Risurrezione di Gesù Cristo, e si delinea come un graduale cammino di conformazione a Lui. Alla luce di questa consapevolezza, san Paolo, quando in seguito sarà chiamato a difendere la legittimità della sua vocazione apostolica e del Vangelo da lui annunziato, dirà: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).
L’esperienza personale vissuta da san Paolo gli permette di attendere con fondata speranza il compimento di questo mistero di trasformazione, che riguarderà tutti coloro che hanno creduto in Gesù Cristo ed anche tutta l’umanità ed il creato intero. Nella seconda lettura breve che è stata proclamata questa sera, san Paolo, dopo avere sviluppato una lunga argomentazione destinata a rafforzare nei fedeli la speranza della risurrezione, utilizzando le immagini tradizionali della letteratura apocalittica a lui contemporanea, descrive in poche righe il grande giorno del giudizio finale, in cui si compie il destino dell’umanità: “In un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba … i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati” (1 Cor 15,52). In quel giorno, tutti i credenti saranno resi conformi a Cristo e tutto ciò che è corruttibile sarà trasformato dalla sua gloria: “È necessario infatti – dice san Paolo – che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità” (v. 15,53). Allora il trionfo di Cristo sarà finalmente completo, perché, ci dice ancora san Paolo mostrando come le antiche profezie delle Scritture si realizzano, la morte sarà vinta definitivamente e, con essa, il peccato che l’ha fatta entrare nel mondo e la Legge che fissa il peccato senza dare la forza di vincerlo: “La morte è stata inghiottita nella vittoria. / Dov’è, o morte, la tua vittoria? / Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? / Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge” (vv. 54-56). San Paolo ci dice, dunque, che ogni uomo, mediante il battesimo nella morte e risurrezione di Cristo, partecipa alla vittoria di Colui che per primo ha sconfitto la morte, cominciando un cammino di trasformazione che si manifesta sin da ora in una novità di vita e che raggiungerà la sua pienezza alla fine dei tempi.
È molto significativo che il brano si concluda con un ringraziamento: “Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!” (v. 57). Il canto di vittoria sulla morte si tramuta in canto di gratitudine innalzato al Vincitore. Anche noi questa sera, celebrando le lodi serali di Dio, vogliamo unire le nostre voci, le nostre menti e i nostri cuori a questo inno di ringraziamento per ciò che la grazia divina ha operato nell’Apostolo delle genti e per il mirabile disegno salvifico che Dio Padre compie in noi per mezzo del Signore Gesù Cristo. Mentre eleviamo la nostra preghiera, siamo fiduciosi di essere trasformati anche noi e conformati ad immagine di Cristo. Questo è particolarmente vero nella preghiera per l’unità dei cristiani. Quando infatti imploriamo il dono dell’unità dei discepoli di Cristo, facciamo nostro il desiderio espresso da Gesù Cristo alla vigilia della sua passione e morte nella preghiera rivolta al Padre: “perché tutti siano una cosa sola” (Gv 17,21). Per questo motivo, la preghiera per l’unità dei cristiani non è altro che partecipazione alla realizzazione del progetto divino per la Chiesa, e l’impegno operoso per il ristabilimento dell’unità è un dovere e una grande responsabilità per tutti.

Pur sperimentando ai nostri giorni la situazione dolorosa della divisione, noi cristiani possiamo e dobbiamo guardare al futuro con speranza, in quanto la vittoria di Cristo significa il superamento di tutto ciò che ci trattiene dal condividere la pienezza di vita con Lui e con gli altri. La risurrezione di Gesù Cristo conferma che la bontà di Dio vince il male, l’amore supera la morte. Egli ci accompagna nella lotta contro la forza distruttiva del peccato che danneggia l’umanità e l’intera creazione di Dio. La presenza di Cristo risorto chiama tutti noi cristiani ad agire insieme nella causa del bene. Uniti in Cristo, siamo chiamati a condividere la sua missione, che è quella di portare la speranza là dove dominano l’ingiustizia, l’odio e la disperazione. Le nostre divisioni rendono meno luminosa la nostra testimonianza a Cristo. Il traguardo della piena unità, che attendiamo in operosa speranza e per la quale con fiducia preghiamo, è una vittoria non secondaria, ma importante per il bene della famiglia umana.
Nella cultura oggi dominante, l’idea di vittoria è spesso associata ad un successo immediato. Nell’ottica cristiana, invece, la vittoria è un lungo e, agli occhi di noi uomini, non sempre lineare processo di trasformazione e di crescita nel bene. Essa avviene secondo i tempi di Dio, non i nostri, e richiede da noi profonda fede e paziente perseveranza. Sebbene il Regno di Dio irrompa definitivamente nella storia con la risurrezione di Gesù, esso non è ancora pienamente realizzato. La vittoria finale avverrà solo con la seconda venuta del Signore, che noi attendiamo con paziente speranza. Anche la nostra attesa per l’unità visibile della Chiesa deve essere paziente e fiduciosa. Solo in tale disposizione trovano il loro pieno significato la nostra preghiera ed il nostro impegno quotidiani per l’unità dei cristiani. L’atteggiamento di attesa paziente non significa passività o rassegnazione, ma risposta pronta e attenta ad ogni possibilità di comunione e fratellanza, che il Signore ci dona.
In questo clima spirituale, vorrei rivolgere alcuni saluti particolari, in primo luogo al Cardinale Monterisi, Arciprete di questa Basilica, all’Abate e alla Comunità dei monaci benedettini che ci ospitano. Saluto il Cardinale Koch, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, e tutti i collaboratori di questo Dicastero. Rivolgo i miei cordiali e fraterni saluti a Sua Eminenza il Metropolita Gennadios, rappresentante del Patriarcato ecumenico, ed al Reverendo Canonico Richardson, rappresentante personale a Roma dell’Arcivescovo di Canterbury, e a tutti i rappresentanti delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, qui convenuti questa sera. Inoltre, mi è particolarmente gradito salutare alcuni membri del Gruppo di lavoro composto da esponenti di diverse Chiese e Comunità ecclesiali presenti in Polonia, che hanno preparato i sussidi per la Settimana di Preghiera di quest’anno, ai quali vorrei esprimere la mia gratitudine e il mio augurio di proseguire sulla via della riconciliazione e della fruttuosa collaborazione, come pure i membri del Global Christian Forum che in questi giorni sono a Roma per riflettere sull’allargamento della partecipazione al movimento ecumenico di nuovi soggetti. E saluto anche il gruppo di studenti dell’Istituto Ecumenico di Bossey del Consiglio Ecumenico delle Chiese.
All’intercessione di san Paolo desidero affidare tutti coloro che, con la loro preghiera e il loro impegno, si adoperano per la causa dell’unità dei cristiani. Anche se a volte si può avere l’impressione che la strada verso il pieno ristabilimento della comunione sia ancora molto lunga e piena di ostacoli, invito tutti a rinnovare la propria determinazione a perseguire, con coraggio e generosità, l’unità che è volontà di Dio, seguendo l’esempio di san Paolo, il quale di fronte a difficoltà di ogni tipo ha conservato sempre ferma la fiducia in Dio che porta a compimento la sua opera. Del resto, in questo cammino, non mancano i segni positivi di una ritrovata fraternità e di un condiviso senso di responsabilità di fronte alle grandi problematiche che affliggono il nostro mondo. Tutto ciò è motivo di gioia e di grande speranza e deve incoraggiarci a proseguire il nostro impegno per giungere tutti insieme al traguardo finale, sapendo che la nostra fatica non è vana nel Signore (cfr 1 Cor 15,58). Amen.

INTRODUZIONE ALLA LECTIO DIVINA, II DOMENICA T.O. : ISAIA 62,1-5

http://digilander.libero.it/comunitakairos/archivio/lectio/lettura/Isaia%2062,1-5.htm

INTRODUZIONE ALLA LECTIO DIVINA,  II DOMENICA  T.O.

ISAIA 62,1-5

[1] Per amore di Sion non mi terrò in silenzio, per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finché non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada. [2] Allora i popoli vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria;ti si chiamerà con un nome nuovo che la bocca del Signore indicherà. [3] Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. [4] Nessuno ti chiamerà più “Abbandonata”, né la tua terra sarà più detta “Devastata”, ma tu sarai chiamata “Mio compiacimento “ e la tua terra  “Sposata”, perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo. [5] Sì come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te.

La voce dello sconosciuto profeta, che ha scandito le parole di Dio, raccolte nella terza parte del libro di Isaia,* si leva qui alta nel presentare ad Israele un radioso destino di gloria per Gerusalemme, la città amata con passione, perché città amata dal Signore.
 Il contesto immediato è quello post-esilico.** Ad Israele è stato dato, per grazia, di tornare, con un nuovo esodo, da quell’esilio babilonese tormentato dal ricordo di Sion fumante tra le sue macerie, penoso segno dell’abbandono di Dio.
Ora, a fronte di rovine da sanare (58,12), in una situazione di precarietà nazionale, con il rischio di soccombere davanti a nuovi ed antichi nemici, tra cui l’inestirpabile ingiustizia nei rapporti cittadini (59,1-15), l’oracolo del profeta rassicura la smarrita comunità d’Israele con una consolante visione di salvezza: mai più morte e distruzione, mai più deportazione e rovina per Sion e per il suo popolo. E’ la revoca per sempre di un giudizio di condanna che troviamo al centro del brano (v 4).
Ma prima, nel linguaggio luminoso delle immagini – stella, lampada, corona, diadema – si dispiega anche un forte messaggio teologico: seppure la “giustizia” umana appare irrealizzabile, presto brillerà la Giustizia (zedek) divina, che per Israele non è che la stessa fedeltà del Signore alle Sue antiche promesse (57,16). E con essa la Salvezza (j’sha’) (v 1).
Solo allora in Sion sarà ristabilita la giustizia umana e la sua gloria sarà visibilità dell’amore ricevuto come salvezza (v2)
L’ultima parte dell’oracolo (v 4b-5) rafforza, sul piano esistenziale, il messaggio, introducendo la metafora sponsale per indicare lo speciale rapporto di tenerezza tra il Signore e Gerusalemme:”Sì, come un giovane sposa una vergine così ti sposerà il tuo creatore”.
Ma il cuore dell’ascoltatore abituato a scrutare la parola scorrendo a ritroso le scritture, può trasalire, perché prima d’ora la metafora matrimoniale vi è stata sempre usata a vergogna di Israele, bollata come sposa infedele, adultera peggiore della prostituta (Ez 16, 15-63). A lei è stato detto: “Tu ti sei disonorata con molti amanti e osi tornare da me? (Ger 3,1). Uguale accusa le è stata volta per prima in Osea (2, 4-15), mentre il profeta stesso è stato associato a questa sofferenza:  “Va’, ama una donna che è amata da un altro ed è adultera; come il Signore ama gli Israeliti ed essi si rivolgono ad altri dei” (Os 3,1). Può trasalire però di speranza, perché già allora, impensabilmente, dopo la minaccia di devastazioni – ”La ridurrò a una sterpaglia e a un pascolo di animali selvatici” (Os 2,14) – il Signore ha promesso di liberare tutta la sua tenerezza repressa: ”Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore. E avverrà in quel giorno – oracolo del Signore – io risponderò al cielo ed esso risponderà alla terra; la terra risponderà con il grano, il vino nuovo e l’olio e questi risponderanno a Izreèl” (Os 2, 21-24). A questa parola, dalla terra del suo esilio, si era già ispirato consolante il Deutero-Isaia: ”Viene forse ripudiata la moglie sposata in gioventù? Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore….con affetto perenne ho avuto pietà di te” (Is 54, 6-8).
Allora “vergine” è il nome nuovo di Sion, peccatrice perdonata, dato da chi ha potere di fare nuove tutte le cose.
Perché il Signore la sua fedeltà alle promesse, l’ha impegnata da sempre con Israele secondo la modalità dell’Alleanza. Anzi, di una Alleanza perenne, come è detto al cap 61, 9; e questa sponsale, non è che un’ultima forma di alleanza, come già appariva in Osea (2, 20). Più esplicita ”…giurai alleanza con te – dice il Signore Iddio – e divenisti mia” (Ez 16,8). Il tutto, come sempre, secondo le logiche divine: da un lato una ricchezza che vuole tutto donare, dall’altra una povertà, chiamata a tutto ricevere, prima che a ricambiare.
Ma un’ Alleanza anche che aspetta, come tutte le realtà veterotestamentarie, il compimento, l’incarnazione. Un’Alleanza che attende di farsi, anch’essa, nuova in Cristo.
 “L’Amato mio è per me e io per lui” (Ct 2, 16). Gesù, lo Sposo atteso, cui la Sposa appartiene (Gv 3, 25-30), e a cui, come a “unico sposo” deve essere presentata “quale vergine casta” (2Cor 11, 1-2), resa tale da un dono: “ le hanno dato una veste di lino puro splendente” (Ap.19,8).
“Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell’agnello” (Ap 19,9).

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*Capp 56-66, detti del Trito-Isaia
** A partire dal 538 a.C.

Da dove veniamo, Genesi 18,1-15 (Lectio)

http://www.atriodeigentili.it/lectio/lectio.htm#0607

Azione Cattolica Diocesana

Lectio Biblica 2004/05
a cura di Stella Morra

1. DA DOVE VENIAMO…

Genesi 18, 1-15

Premessa

Quest’anno abbiamo scelto di portare avanti una riflessione sull’Eucaristia attraverso un percorso sulla Parola di Dio.
Questo tema continua a tornare nei nostri incontri, nei seminari, nelle discussioni e l’abbiamo scelto con il solito criterio: se una cosa ci interessa, la facciamo per noi, aperta a chi vuole ed  in genere troviamo molte altre persone a cui interessa. Spesso invece nella scelta si usa il criterio opposto, per cui nelle parrocchie offriamo delle cose che noi facciamo con sforzo e ci stupiamo se gli altri non si divertono!
Inoltre, per la chiesa universale, questo è l’anno dell’Eucaristia: il Papa ha invitato tutti a riflettere su questo tema. Anche questa coincidenza ci conforta: ciò che continua a tornare nelle nostre discussioni è un nucleo che riguarda tutti e in questo si vede maggiormente, di questi tempi, la sofferenza e la fatica dei cristiani adulti a rimanere tali e ad essere nutriti come cristiani.
La chiesa ci invita a riflettere su ciò che viviamo con più di fatica,.
Come sempre, secondo un’abitudine dell’Atrio, ecco alcune segnalazioni librarie, per aiutarci a scegliere tra le tante proposte a disposizione.

* “La chiesa dall’Eucaristia”,  documento ufficiale del 2004;
* “Eucaristia – Il pasto e la parola” (Elledici, pp. 168, euro 11,00) scritto dal grande teologo Ghislain Lafont. E’ un testo semplice, vale la pena leggerlo; funziona come una millefoglie: ad ogni strato trovi un’altra crema!

Non so interpretare i motivi per cui il Papa abbia indetto l’anno dell’Eucaristia, ma posso dirvi i motivi per cui questo tema continua a ripresentarsi nei nostri incontri.
Innanzitutto spesso, per un adulto, l’Eucaristia è l’unico punto di contatto con un’appartenenza ecclesiale. Negli anni immediatamente post conciliari ci eravamo abituati a pensare che il cristiano che andava ‘solo’ a messa era una specie di cristiano minimo, ridotto all’osso, mentre c’erano cristiani impegnati che facevano tante cose. Era un pensiero da gruppi giovanili, quando uno sente che cambierà il mondo, per cui fa l’animatore, sta tutte le sere in parrocchia, fa catechismo, animazione…. Siamo diventati tutti un po’ più grandi, non abbiamo più la sensazione di poter cambiare il mondo, siamo più stanchi, non abbiamo più tutte le sere disponibili per stare in parrocchia e fare un sacco di cose….
Paradossalmente questo è diventato per noi un cammino di purificazione: la scoperta che forse si è cristiani davvero quando, al di là degli impegni in parrocchia, si poggia il proprio cristianesimo su altre questioni che sono più grandi, pur sembrando più semplici: sul modo di vivere, di pensare, di organizzarsi l’esistenza nella testa prima che nelle cose che si fanno, sulle cose che si considerano importanti e su quelle che si considerano meno …
Alla fine si ha la sensazione che il proprio essere cristiani sia riportato tutto all’andare a messa, come se questo fosse il minimo, quasi una cosa di cui vergognarsi.
Ridurre l’Eucaristia ad essere il minimo, ci pare non funzioni. L’Eucaristia, almeno per quello che abbiamo studiato al catechismo, è fonte e culmine, memoria del sacrificio della croce, dove Gesù ogni volta per noi muore e resuscita… Questo, più che il minimo, dovrebbe essere il massimo! Nella nostra esperienza quotidiana, però, non è così e spesso si va a messa, e ci si impegna durante la celebrazione, si canta, si fanno vari ‘servizi’… con il risultato che, alla fine della celebrazione, si ha la sensazione di aver fatto semplicemente il catechista per un’ora in più.
Questa riflessione ci ha molto inquietato perché al di là del disagio, il problema è serio e ci domandiamo: che cosa definisce il nostro essere cristiani? Che cosa vuol dire che l’Eucaristia è fonte e culmine?
Seconda considerazione: per noi che ne abbiamo parlato, le riduzioni che l’Eucaristia subisce sono fonte di domande che richiedono riflessioni e risposte. Spesso l’Eucaristia è una specie di esperienza borghese dell’anima – per dirla con un’espressione un po’ forte – in cui si viene coinvolti in una vicenda spirituale che si può vivere in modo più o meno concentrato o distratto a seconda dello stato d’animo con cui vi si partecipa. Come se la questione dell’Eucaristia fosse semplicemente l’esperienza spirituale del singolo… Questa riduzione è insopportabile per una celebrazione che, come sappiamo tutti, è comunitaria – cosa voglia dire in concreto comunitaria, è tutto da vedere….
Qualche volta l’Eucaristia subisce una riduzione di ordine sociologico: tutta l’esperienza è data dalla comunione, per cui se un gruppo ha fatto un bel percorso insieme, la messa di conclusione coinvolge molto, perché tutte le persone si conoscono bene, e per esempio il segno della pace significa tante cose… Ma, allora, se fai una bella cena va bene lo stesso? Perché se tutte le cose che mettiamo in una celebrazione – l’esperienza comune, la conoscenza – rischiano di esserci per  motivi che non hanno niente a che fare con l’Eucaristia, la morte e la resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo…. Qual è il valore aggiunto della grazia del sacramento rispetto ad un’esperienza puramente ’sociologica’?
Tutte queste cose sono il secondo motivo che ci ha arrovellati in questi anni. Di solito sono gli adolescenti che esprimono certi disagi, gli adulti si vergognano. Chi fa l’animatore potrebbe dire « mi annoio a messa »? … Può dirlo a quattordici anni, poi basta!
Io, per esempio, certe volte a messa mi annoio molto e credo che questa sia un’esperienza comune anche per adulti credenti. Spesso mi irrito con le omelie al punto che ormai privilegio le chiese dove la domenica non si fa omelia – cosa assolutamente antiliturgica, contraria le norme di diritto canonico. Quando uno ha quattordici anni tutte queste cose le sbraita, quando ne ha trenta o quaranta non le dice più e se le tiene, ma la sostanza non cambia. Il problema rischia di sussistere ugualmente. Oppure si sceglie e si accetta di sopportare un’ora di noia, col pensiero ‘Il Signore per noi ha fatto tanto!!!’ Una scelta ascetica, cosa senz’altro nobile, ma l’Eucaristia dovrebbe essere il cibo che ci fa vivere! Se diventa un’esperienza ascetica, non c’è più nessun luogo dove ci nutriamo!
A fianco di tutte queste questioni c’è il fatto che l’ Eucaristia – come tutti i punti centrali dell’esperienza credente – va ad innestarsi su un nucleo molto duro e severo della nostra esperienza umana, il nucleo del cibo e della festa.
I due archetipi fondamentali dell’Eucaristia dal punto di vista antropologico, sono il cibo, il pane, la cena e la festa. Questioni che, in questo secolo, sono tra le più problematiche nei nostri paesi. Il nostro è il secolo dei disturbi alimentari, dalla bulimia all’anoressia. Statisticamente abbiamo mediamente un pessimo rapporto con il cibo, ed è un tempo in cui è difficilissimo far festa. Tutti abbiamo un po’ nostalgia delle feste semplici di un tempo, quelle che si facevano con poco, non consumistiche… ma non riusciamo più a trovare il motivo per cui dovremmo far festa.
I temi del cibo e della festa sono molto più dell’esperienza antropologica, sono due delle dimensioni che ci fanno persone, ci fanno vivere e ci fanno vivere con gli altri.
Su questi due  punti di forte disagio della nostra cultura, della nostra esperienza di uomini e donne di questo tempo, su questo nucleo severo, non marginale, pretenderemmo di innestare un’esperienza religiosa che dovrebbe teoricamente funzionare!!!
Cercheremo di affrontare queste questioni a poco a poco con il solito metodo della lectio, facendoci guidare dalla Parola di Dio, con un’offerta di suggestioni che poi ognuno userà come meglio crede, che potranno essere approfondite con letture e percorsi vari che via via troveremo insieme… Useremo sempre lo stesso metodo, di un doppio livello di commento: uno che ci aiuti a riscoprire la nostra struttura antropologica ed uno che ci aiuti a scoprire il valore aggiunto dell’esperienza cristiana. Siccome siamo un po’ carenti su tutti e due gli aspetti, e siccome la Bibbia è sicuramente un’esperienza religiosa ma prima di tutto una grande esperienza di salute mentale, forse ci può aiutare su tutti e due i versanti.

Temi del percorso
Vivremo un percorso che all’inizio propone due grandi orizzonti: Da dove veniamo… e Verso dove andiamo: Il problema si radica molto lontano sia dal punto di vista antropologico, che da quello della novità cristiana. Il problema non è ‘vado alla messa della domenica nella mia parrocchia’, ma è cercare di ricostruire un luogo dell’anima dove l’Eucaristia possa trovare il suo posto. Poi ci saranno sempre Eucaristie più o meno ben celebrate, noi saremo un giorno meglio ed un giorno peggio disposti, avremo, da parte di preti, presidenze dell’Eucaristia più o meno efficaci… questo fa parte dell’esperienza umana e ci sarà comunque.
Ma come sempre, come abbiamo scoperto tante volte in questi anni, occorre aver un luogo dell’anima dove questa esperienza possa radicarsi; questo aiuta anche a sopportare le umane carenze con uno sguardo di misericordia. Non avere un luogo dell’anima rende dei giudici, per cui il problema si riduce ad essere: “il mio parroco predica male”. Forse è anche vero, ma non è quello il problema! Se ho un luogo dell’anima  – per una persona a cui io voglia bene – anche  i suoi difetti  mi inteneriscono. Se voglio bene a una persona, certe piccole manie mi fanno sorridere, perché ho un luogo interno dove entra anche il difetto dell’altro. Se io non ho quel luogo interno la minima cosa che l’altro fa diventa colpa sua, è un problema.
Se da adulti nella fede non troviamo un luogo dell’anima dove mettere l’Eucaristia, non ci sarà mai per noi un modo soddisfacente di celebrare l’Eucaristia e daremo la colpa a noi stessi o agli altri, a seconda del nostro carattere, e non usciremo da questa logica della colpa. Forse se troviamo un luogo interiore, i difetti umani nella loro quotidiana esperienza storica, ci faranno sorridere e diventeranno motivo di tenerezza.
Dopo questi due orizzonti – per cercare di ricostruire un luogo dell’anima e la questione del cibo – Cibo e niente altro? Poi una domanda: Da dove viene il nostro cibo? In marzo affronteremo la questione dura della novità del cristianesimo, quella che ci inquietava quando eravamo piccoli, cioè che per questo cibo serve una morte, un sacrificio. C’è un sacrificio che ci dà questo cibo; è una cosa che ci irrita, ci scandalizza: ma che razza di Dio è quello che vuole un sacrificio per nutrirci? Seguirà il tema Cibo e parole e poi la via di uscita sul tema del corpo Verso un corpo nuovo – che cosa vuol dire corpo personale e sociale, cosa vuol dire essere un corpo avere un corpo e nutrirsi al corpo di Cristo.

Il testo di oggi è l’inizio del capitolo18 della Genesi, 1-15.

Sogni e visioni
Questo è un episodio estremamente citato, un po’ meno letto. Conosciamo tutti la vicenda dei tre viandanti di Mamre, il querciolo, il pranzo di Abramo … Come spesso accade per la Bibbia, però, non leggiamo il testo con le parole che ha e la struttura sua propria.
L’episodio è misterioso; un po’ onirico quanto al genere letterario. Abramo sta nel deserto davanti alla tenda nell’ora calda e … ha un’insolazione: vede una cosa strana, un’apparizione! Per i racconti che riguardano i patriarchi, questo era un genere letterario molto comune per descrivere la realtà: sognano, hanno visioni…
C’è una ragione storica: questi testi sono stati scritti in un tempo di cultura cosiddetta prescientifica, dove la comunicazione tra i mondi era più facile, senza troppe porte, e si comprendeva di più il rapporto tra mondo divino e mondo umano. Uno chiudeva gli occhi, dormiva … e vedeva Dio, gli parlava, discuteva … Oppure appariva un angelo, e il personaggio di turno non si spaventava, ma gli parlava… e cominciava a trafficare con l’angelo.
Noi ci sentiamo più furbi, perché pensiamo che non sia possibile avere delle visioni così, se uno non ha bevuto o fumato qualcosa di strano. In realtà abbiamo trasferito questo tema della comunicazione tra mondi diversi nell’interiorità: facciamo lo stesso ragionamento, ma lo facciamo dentro anziché fuori.
Tutti noi abbiamo, dentro, un piano terra, quello ragionevole, razionale che non fa domande idiote da quattordicenne, che non spera troppo nei miracoli, ma agisce, si organizza per campare. Poi c’è un primo livello ‘seminterrato’ in cui stanno un po’ di senso di magia, il nostro animo bambino, l’animo che quand’è innamorato riesce a divertirsi anche con piccole cose e che ci farebbe piacere che ogni tanto qualcuno lo chiamasse fuori, a farsi vedere. C’è un secondo seminterrato dove stanno i nostri desideri più profondi, per esempio il desiderio che la vita funzioni, che qualcuno ci spieghi, che ci sia sempre una casa dove tornare. Il luogo dei desideri seri e profondi che in genere abbiamo confinato nel secondo seminterrato e che siamo sostanzialmente certi che nessuno potrà chiamare fino al piano terra – al massimo arrivano al primo seminterrato.
La nostra comunicazione tra cielo e terra è diventata una comunicazione tra terra e sotto terra. Non ho usato a caso queste immagini!
L’averlo spostato dentro ha due controindicazioni: innanzitutto ci siamo giocati una sorta di oggettività, una realtà, una storicità: è tutto soggettivo. Per esempio ci siamo giocati la grande comunicazione, perché non potendo raccontare di visioni d’angeli, non sappiamo mai come raccontare le cose serie che ci animano e in genere diciamo: “non te lo so spiegare, non si può capire”. Ci siamo giocati una comunicabilità.
In secondo luogo aver spostato dentro i sogni, i desideri, fa sì che invece di guardare verso l’alto, guardiamo l’ombelico, cioè siamo diventati tutti un po’ più narcisisti. E le visioni che abbiamo sono commisurate solo su noi stessi.

Alzare gli occhi …
“Abramo alzò gli occhi”.
Sarebbe divertente cercare da Genesi1-1 fino ad Apocalisse 21 tutte le volte che  nella Bibbia c’è questa espressione frequentissima centrale e decisiva: alzare gli occhi,  o il suo omologo, volgere lo sguardo… In tutta la Bibbia quando succede qualcosa, quando c’è un incontro con Dio, c’è sempre uno che alza gli occhi o che volge lo sguardo.
E’ chiaro che se noi abbiamo un problema di seminterrati non alzeremo mai gli occhi!
Sarebbe bellissimo leggere il vangelo di Giovanni, in cui continuamente si alzano gli occhi e tutte le volte che si alzano gli occhi succede una cosa.
La mia domanda è: forse non succedono più delle cose perché non alziamo gli occhi!?!
“Egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno”.
L’immagine è assolutamente sonnolenta. Abramo è seduto, non fa niente, fa caldo. Ha già ricevuto la promessa. Dio, che gli ha detto: “I tuoi discendenti saranno più numerosi delle stelle del cielo, della sabbia del mare..”… nel frattempo, dalla promessa in poi, lui è invecchiato!
Di Abramo non diciamo mai questo piccolo particolare che è anche nostro: nel frattempo siamo invecchiati! Per esempio, dalla promessa ricevuta di una chiesa diversa – nel Concilio Vaticano 2° – ad oggi… nel frattempo siamo invecchiati.
Abramo è invecchiato, e non è successo niente. Lui ci ha provato, si è dato da fare e, secondo la legge antica dei popoli della zona, ha preso la schiava Agar per avere una discendenza, perché Sara non gli dava un figlio. E’ nato Ismaele, che secondo la tradizione è il capostipite del mondo islamico, diciamo noi oggi, con tutti i problemi dei rapporti tra fratelli e fratellastri tipici della scrittura, ovviamente, perché da Abramo nascerà Isacco, capostipite di Israele, ma è nato anche Ismaele! In ogni caso Abramo si è dato da fare: c’è stata una promessa, sembrava che la promessa non si concretizzasse, lui stava invecchiando ed ha trovato una soluzione. Ha fatto del suo meglio, ha messo in moto ciò che dipendeva da lui.

… Avere fame
Nell’ora più calda del giorno Abramo stava seduto davanti alla tenda, tra la promessa e il sospetto che la promessa fosse una fregatura – perché poi aveva dovuto darsi da fare lui. E non c’era altro da fare se non stare seduto fuori al caldo, davanti alla tenda, perché nel frattempo è invecchiato!
Proprio lì  “alzò gli occhi”. Traduco con una frase che penso sia sufficientemente chiara.
Per apprezzare il cibo dell’Eucaristia bisogna avere fame. Per avere le visioni bisogna alzare gli occhi. Per desiderare il compimento della promessa bisogna essere delusi dal suo non compimento.
Forse noi non abbiamo abbastanza fame per l’Eucaristia, forse non alziamo gli occhi per vedere angeli; forse non abbiamo preso così sul serio una promessa da essere delusi dal fatto che non si è compiuta. Se l’esperienza del cristianesimo è per noi l’esercizio di un ‘felice compito’, che cosa c’è da aspettare? Il problema è ridotto a quello che faccio io, ma così generiamo solo sempre figli di una schiava! Il problema è che l’esperienza del cristianesimo è il cibo per una fame, per un desiderio, per lo sforzo di alzare ancora una volta gli occhi nella delusione.
Forse la domanda da farsi sarebbe. “Qual era la promessa su cui abbiamo creduto? Qual è la delusione che abbiamo lasciato entrare sottilmente senza scaldarci troppo? E poi, dopo questa promessa e questa delusione, sedersi nell’ora calda del giorno sapendo che non c’è più niente da fare.

Singolare e plurale
Altra annotazione. Abramo vide tre uomini.
“Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: ‘Mio Signore…”.
Tutto il testo nell’originale e nella traduzione, è molto incerto tra il singolare e il plurale. Questi sono tre, sono uno, chissà. Noi diciamo: è la Trinità, abbiamo una risposta perfetta, peccato che viviamo venti secoli dopo e la applichiamo  ad un testo che non funzionava così.
In tutta la storia dei patriarchi, prima dell’alleanza esplicita tra Dio e il popolo di Israele, l’incertezza linguistica tra il singolare e il plurale sul nome di Dio è costante. Uno dei nomi con cui Dio è chiamato è Eloim, che è un plurale – il cui singolare peraltro è Elia.
Questa incertezza tra singolare e plurale ha radici storiche, con cui non vi annoio. A me sembra, tuttavia, che debba esserci un motivo serio se questa, come molte altre espressioni, sono rimaste nella scrittura per venti secoli, perché gli agiografi non si sono fatti scrupolo di cambiare quello che non tornava se e quando non serviva. Se questo è il testo che noi possiamo leggere dopo tanti anni di riflessione credente, è perché lì c’è anche un segnale!
A me piace pensare che questo singolare e plurale rende Abramo veramente nostro fratello! Ma questa è una riflessione mia, collocata dentro questa cultura, questo tempo, queste vite che sono le nostre. Noi siamo molto incerti tra un drammatico narcisismo e un drammatico sovraffollamento dell’anima. Di fronte al mondo io sono al singolare, ma di fronte a me di solito sono un condominio, senza avere quasi mai chiaro chi sia l’amministratore, cioè chi sia che sta governando tutti i condòmini. Noi siamo molto incerti nel capire noi stessi tra un singolare e un plurale, perché ci piacerebbe essere unici, unitari, avere una sola idea, avere un solo comportamento – come dice la scrittura, avere una sola parola – però non è così. Abbiamo tante emozioni, tanti desideri, tanti pensieri spesso contrastanti. Siamo di fronte ad un Dio che ben capisce che cosa vuol dire essere singolari e plurali insieme; siamo di fronte ad un Dio che si presenta a noi parlando il linguaggio della nostra vita, un Dio che non si offre a noi con una vita che noi non riconosciamo, o una vita mutilata, in cui uno per forza deve diventare a tutti i costi singolare. Siamo di fronte ad un Dio che imbandisce un banchetto dove si può essere singolari e plurali, e anche essere incerti sul fatto se si è singolari o plurali.
L’Eucaristia, da questo punto di vista è una grande scuola, perché nell’Eucaristia non si può mai dire una cosa sola, bisogna sempre dirne due insieme, per esempio è un’esperienza partecipativa, non si fa un’Eucaristia senza che la comunità presente in qualche modo partecipi, ma è anche un’esperienza di passività, di un dono ricevuto dal Signore e nessuna delle due cose può essere esclusa. E’ un’esperienza di santi – l’Eucaristia è il cibo dei santi – ma è un’esperienza di peccatori, l’Eucaristia serve a chi è in strada, a chi ha le mani sporche. Il banchetto imbandito da Dio è un banchetto singolare e plurale. Direi in modo provocatorio, per andare a colpire una delle cose su cui di solito ci incartiamo: non è obbligatorio fare una scelta.

Di promessa in promessa
Una promessa che sembra non essere stata mantenuta diventa, noi diremmo, un risultato. Dio funziona così: promette, fa un po’ penare, poi, quando meno lo si aspetta… una promessa che sembra non essere mantenuta diventa un’altra promessa:
“Tornerò da te fra un anno a questa data  e allora Sara, tua moglie,  avrà un figlio” .
Quando i tre se ne vanno, non si vede niente: Isacco, non c’è ancora. Ma la logica è: una promessa sembra perdersi nelle tortuose vie della storia; Abramo cerca di rimanere fedele; arriva il momento buono, lui è ospitale… e qual è il risultato? Un’altra promessa! E dopo la nascita di Isacco? “Prendi tuo figlio Isacco, portalo sul monte di Moria e offrimelo in sacrificio!…” Ogni promessa, se esaudita, diventa un’altra promessa. Anche qui ci sarebbe un po’ da ragionare: se Dio compisse le sue promesse domani, sarebbe la fine del mondo!!! E forse sarebbe anche una buona idea, ci riposeremmo. Fino a che il mondo non finirà, le promesse avranno in sé una parte di compimento e una parte che, in modi strani e misteriosi, diventerà un’altra promessa.
Noi diciamo che l’Eucaristia è pane, ma se guardiamo l’ostia, tutto ci viene in mente tranne il pane. Lo diciamo con convinzione, pane… ma quale pane? Diciamo che rappresenta il corpo di Cristo… ma quale corpo? Nell’Eucaristia noi facciamo l’esercizio bambino e automatico di raddoppiare le promesse.

Dal cibo condiviso e dal sorriso
Poi c’è tutta una bella storia sul riso.
“ ‘Perché Sara ha riso…..?’…   Allora Sara negò: ‘Non ho riso!’… ‘Sì, hai proprio riso’ ”.
Sembra che questi tre angeli siano un po’ permalosi. Ma il tema del riso attraversa tutta la storia di Abramo. Nella pagina precedente, al capitolo 17, al versetto 17 si dice: “Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise e pensò: ‘Ad uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara all’età di novanta anni  potrà partorire?’ ”.
E al capitolo 21,versetto 6, alla nascita di Isacco: “Allora Sara disse: ‘Motivo di lieto riso mi ha dato Dio: chiunque lo saprà sorriderà di me!’.
Secondo la tradizione, il nome Isacco significa “figlio del sorriso”, proprio per connetterlo a questo tema del riso che attraversa tutta la sua storia.
Isacco, figlio del sorriso, è l’innocente destinato al sacrificio, proprio come Gesù, che è il grande sorriso di Dio sulla storia, finirà in croce! In Dio c’è uno strano rapporto tra il riso, il sorriso e la morte, il dolore! E l’Eucaristia, luogo della nostra festa è anche il luogo in cui facciamo memoria del sacrificio di Cristo.
Come si dimostra in questo testo, Dio ama coloro che sorridono. Ma cosa avremo mai da ridere? Oltre che sorridere, ci sono altre cose e forse bisogna ricevere dalla stessa mano il sorriso e l’ordine del sacrificio? Forse fanno parte del condominio i tempi di riso e i tempi di lacrime?
Cosa vuol dire che in qualche modo noi veniamo dal cibo, da questo banchetto preparato da Abramo per i suoi ospiti e dal riso?  Questo testo ci viene offerto come orizzonte di partenza:  noi siamo tutti figli di Abramo. Veniamo da un cibo condiviso e da un sorriso nascosto, ma smascherato. Per avere un luogo dentro di noi per l’Eucaristia, forse bisogna riconoscere il banchetto da cui veniamo e il sorriso da cui nasciamo.
Banchetto per tutti
Vi faccio notare che non è un caso che al versetto 8 si dica: “Prese latte acido e latte fresco insieme con il vitello”.
Questa  è una delle cose più gravi che si possano fare, secondo la legge ebraica: mescolare carne e latte. E’ proibito ancora oggi dalle  regole di purezza. Gli ebrei osservanti hanno due frigoriferi e due completi da cucina per non rischiare di usare lo stesso coltello sul formaggio e sulla carne, perché è una delle cose più gravi che potrebbero succedere. E Abramo, il padre al quale tutti si richiamano, compie un gesto chiaramente impuro.
Questo è un altro bellissimo elemento: il banchetto per i tre ospiti viene preparato in modo impuro: Abramo mescola le cose che non dovrebbe mescolate. Il banchetto a cui siamo invitati non è un banchetto per i puri.
Ho trovato su internet e stampato sullo stesso foglio due immagini che riguardano questo testo: il primo dipinto da Marc Chagall, ebreo, del ‘900 e l’icona della Trinità di Rubliev. E’ inquietante guardarle insieme perché è molto evidente che tra l’una e l’altra c’è la venuta di Gesù Cristo. L’immagine di Chagall è una lettura dell’episodio dal punto di vista dell’antico testamento; l’icona di Rubliev legge l’episodio a partire dal nuovo testamento. Si vede dai tavoli, che sono girati in maniera opposta. Nel primo caso, la lettura ebraica della vicenda, gli angeli danno la schiena a chi guarda. Quel banchetto per noi è chiuso! Non c’è posto, siamo osservatori che sbirciano di nascosto dietro alle spalle degli ospiti.
Nella Trinità di Rubliev  è esattamente il contrario: i tre sono seduti dai tre lati esterni, il lato vuoto è dalla parte di chi guarda il quadro, non solo, ma addirittura la prospettiva è rovesciata.
In tutti e due i quadri ricorre il tema del sacrificio: in uno è rappresentato il sacrificio di Isacco, nell’altro il sacrificio dell’agnello pasquale nella coppa che sta sul tavolo. Noi togliamo sempre dal banchetto l’aspetto duro, doloroso, il prezzo che è stato pagato per questo invito a pranzo. Ma non si può togliere, neppure in un’immagine armoniosa, bella, non sanguinolenta.
Nella nostra cultura, è ben comprensibile una logica, fatta di cibo, di festa a cui si è invitati. Ci pare normale che Dio, che sa fare le feste, ci inviti. In realtà tutti e due i quadri ci dicono che questa non è una festa qualsiasi, è una festa il cui padrone di casa è Dio e segue una logica particolare: l’innovazione evangelica è qualcosa di più della nostra semplice esperienza umana,!

Il posto dell’Eucaristia
Questo testo – spero di essere riuscita a mostrarvelo – ha un grande fascino, molto forte per noi oggi, perché amiamo questi testi un po’ magici, non troppo razionali, dove c’è un suono che ci fa aspettare con il fiato in gola un finale che speriamo diverso tutte le volte che lo leggiamo.
E’ un testo poetico, ma nello stesso tempo va a toccare quei nodi – il cibo, il riso, la discendenza – che sono tra i più delicati, che sono i luoghi più potenti della nostra vita. E’ in mezzo a questi nodi che bisogna trovare un posto per l’Eucaristia. Non si può trovare altrove, semplicemente come una pia pratica, come un esercizio di dovere rispetto ad una regola. Non si può semplicemente sperare che sia una delle cose che come adulto responsabile devo fare. In mezzo a questo luogo duro e delicato, questo luogo discriminante della nostra vita, laddove si giocano poi gli atteggiamenti fondamentali che “ci fanno”, è lì che troviamo il posto per l’Eucaristia!
E’ un punto delicato, molto profondo, nel secondo, anche terzo scantinato, ma ha una visibilità evidente. Forse in questo spazio dovremmo imparare a trovare un posto per l’Eucaristia, se vogliamo davvero che sia fonte, culmine, radicamento della vita cristiana. Ci vorrà un po’ di esercizio per trovare lì il suo posto, però non possiamo pretendere che l’Eucaristia sia ciò che deve essere se sta nella nostra vita come un soprammobile!
Forse questo percorso con la scrittura ci aiuterà a scavare un po’ in questi seminterrati ed a trovare lo spazio per l’esperienza dell’Eucaristia.

Fossano, 20 novembre 2004

 (Testo non rivisto dall’autore)

Il testo: Matteo 5,1-12, Le Beatitudini (Lectio)

dal sito:

http://www.cappellauniss.org/preghiera/lectio/5,1-12_secondo.htm

Beati gli afflitti, i miti, i misericordiosi,
coloro che hanno fame, i puri di cuore,
gli operatori di pace

Il testo: Matteo 5,1-12

Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli.
Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:

     “Beati i poveri in spirito,
     perché di essi è il regno dei cieli.
     Beati gli afflitti,
     perché saranno consolati.
     Beati i miti,
     perché erediteranno la terra.
     Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
     perché saranno saziati.
     Beati i misericordiosi,
     perché troveranno misericordia.
     Beati i puri di cuore,
     perché vedranno Dio.
     Beati gli operatori di pace,
     perché saranno chiamati figli di Dio.
     Beati i perseguitati per causa della giustizia,
     perché di essi è il regno dei cieli.
     Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi. 

Lectio

Beati gli afflitti

L’afflizione è un tristezza con pianto, un traboccare all’esterno di un’incontenibile pena interna. A questi Gesù dice: “Venite a me, voi tutti , che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,28-29).
Essi sono beati quando accettano la propria croce con fede (qualsiasi croce) senza ribellioni, senza andare a mormorare o lamentarci con altri (perché in tal caso ci ritroveremmo vuoti, col nostro dolore) e aderiscono a Gesù con mitezza e umiltà del cuore. Questa è la fede: è affidarsi a Gesù, è abbandonarsi a lui. Ecco la consolazione: “Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,30). E’ vero, perché la croce non la porti più da solo; Gesù la porta con te. C’è il dolore, ma non ti condiziona più, lo esperimenti dentro di te, ma esperimenti anche la completa libertà e una grande serenità.
Questa beatitudine si realizza soprattutto nella preghiera intima, personale, quando ci mettiamo dinanzi a Gesù in silenzio: parla solo il nostro dolore, siamo un’offerta dolorante. A poco a poco Gesù col suo Spirito ci pacifica., come nella tempesta sedata: “Sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia” (Mt 8,26).
Ma gli afflitti sono tali a motivo delle sofferenze altrui, come pure perché vedono il tanto male che devasta il mondo. In tal caso vivono in sé la compassione di Gesù e, di fronte al cuore chiuso dell’uomo autosufficiente, superbo e spesso violento, partecipano alla sofferenza del Signore, il grande afflitto, il Trafitto, che però è anche il più grande dei consolati (ossia il Glorificato) ed è causa della salvezza e di santità per tutti coloro che seguono la sua vita di oblazione e di vittima d’amore.

Beati i miti

Nella Scrittura la mitezza è sempre accompagnata dall’umiltà. ‘Poveri in spirito’ e ‘miti’ sono due aspetti di un’identica realtà, di un identico atteggiamento di spirito. I miti sono coloro che non avanzano pretese, che scusano facilmente i difetti del prossimo, pur non approvandoli, anzi lo aiutano amabilmente a correggersi, come fanno per se stessi. Sono disponibili al servizio dei fratelli con serena dolcezza, eliminando le eventuali difficoltà. Miti sono coloro che vincono con la perseveranza della bontà, con la forza della pazienza. E’ l’amore che non si stanca mai.
Il mite ama la pace, la serenità e le diffonde attorno a sé, tutto col sorriso.
I vizi opposti alla mitezza sono l’asprezza, l’avarizia che accaparra rende il cuore duro, la severità.
Per San Vincenzo de’ Paoli «non c’è nessuno più costante nel bene di coloro che sono miti e benigni; mentre coloro che si lasciano trasportare dalla collera e dalle passioni dell’appetito sensibile, sono ordinariamente molto incostanti, perché non operano se non a capriccio e impulsivamente» (1).
La mitezza delle beatitudini non ha quindi nulla della rassegnazione puramente passiva. Anzi… i miti sono i veri forti.

Gesù mite

A Gesù mite e umile di cuore, Matteo applica il testo di Isaia (42,1-4): “Ecco il mio servo che io ho scelto… Non contenderà, né griderà, non si udrà sulle piazze la sua voce. La canna infranta non spezzerà, non spegnerà il lucignolo fumigante finché abbia fatto trionfare la giustizia…”.
Gesù entrando in Gerusalemme come il re “mite” (Mt 21,5) profetizzato da Zaccaria (9,9) intraprende il cammino dell’umiliazione, che lo condurrà alla croce.

… perché possederanno la terra

La “terra” ereditata dai miti, nella quale essi trovano il loro riposo, è il mondo dell’amore di Dio, è Dio stesso. A questa terra tendiamo conformandoci sempre più a Cristo mite e umile.
Ora mitezza e umiltà vanno di pari passo. Non c’è l’una senza l’altra. Santa Teresa d’Avila nel Cammino di perfezione ci dice – utilizzando un’immagine – che l’anima che cammina nella via della perfezione è come il giocatore di scacchi: deve disporre i pezzi e muoversi con abilità, poiché scopo del gioco è catturare il re dandogli scacco matto. Tutti i pezzi (le pedine, le torri, gli alfieri, i cavalli) sono importanti, ma il pezzo più importante è la regina, che ha un potere tutto particolare per “catturare” il re e questa regina è l’umiltà.
Scrive la santa: “A scacchi, la guerra più accanita che il re deve subire, gli viene dalla regina. Orbene, non c’è regina che più obblighi alla resa il re del cielo quanto l’umiltà. Credetemi, la sorella che sarà più radicata nell’umiltà, lo possederà anche di più” (cap. XVI, 2).

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia

Gli affamati e gli assetati di giustizia sono coloro che cercano la volontà di Dio e si dedicano fedelmente alla costruzione di quel Regno che Cristo ha inaugurato: “Cercate il regno di Dio e la sua giustizia” (cf. 6,33). Gesù ha scelto qui un simbolo radicale, istintivo, primordiale, un bisogno di vita: fame e sete. E’ beato chi sente questo “bisogno” di vivere di vivere come Gesù che ha compiuto ogni giustizia facendosi solidale con i fratelli perduti (cfr. Mt 3,15). Da lui, fatto pane, anche noi prendiamo forza e sazietà filiali.

Beati i misericordiosi

E’ nuovamente il cuore che viene interpellato sia pure con un’espressione diversa, perché il termine eleémones indica probabilmente un vocabolo dell’Antico Testamento particolarmente suggestivo che veniva applicato a Dio: rachamim.  Si tratta di un plurale che diventa aggettivo applicato a Dio.  Rachamim sono le “viscere” materne, cioè qualcosa d’istintivo e di permanente, perché la madre non è tale soltanto in alcune ore o in alcuni istanti della sua vita, oppure in alcuni comportamenti o pensieri, ma lo è sempre. Dio è misericordioso sempre ed anche l’uomo è invitato ad esserlo sempre.Quanto san Francesco ebbe il coraggio di baciare il lebbroso, si sentì libero da tutte le paure, pieno di fede e di amore per Cristo. La misericordia usata al lebbroso si era riversata in misura più abbondante su di lui. E’ come se diffondi amore, pace, gioia: sono doni che non diminuiscono come i soldi, ma si moltiplicano e ritornano intensificati in te che li doni.

Beati i puri di cuore

Il “cuore”, nel linguaggio biblico, è la coscienza stessa della persona. Ancora una volta dobbiamo ritrovare la norma direzionale, la base, la struttura che sorregge tutto l’agire e il comportamento dell’uomo che ha mani innocenti e cuore puro, come dice il salmo 24 per definire l’uomo completo e perfetto. «Dal momento della conversione al giorno della morte, Francesco fu molto duro, sempre, con il suo corpo. Ma il suo più alto e appassionato impegno fu quello di possedere e conservare in se stesso la gioia spirituale. Affermava: “Se il sevo di Dio si preoccuperà di avere e conservare abitualmente la gioia interiore ed esteriore, che sgorga da un cuore puro, in nulla gli possono nuocere i demoni…» (2).

Beati gli operatori di pace

Beati cioè i pacificatori. Chi fa opera di pace continua l’opera di riconciliazione di Gesù… Vi sono persone che, a causa della loro profonda pace interiore emanano un’atmosfera di pace e di serenità, che dissolve nei cuori le inquietudini, ridesta la fiducia, rende l’animo tranquillo e sicuro. La loro anima è così piena dello Spirito Santo e di benevolenza verso i fratelli, che qualsiasi forma di aggressività, di violenza, di cupidigia è estranea al loro comportamento.

Beati i perseguitati per causa della giustizia

Quest’ultima beatitudine differisce dalle altre beatitudini, perché è ripresa per altri due versetti in forma ampia. Gesù si indirizza ai suoi ascoltatori: “Beati voi quando vi insulteranno… per causa mia”. Chi ama il Cristo e i fratelli, si scontra con il male: trova ostilità e persecuzione, in sé e fuori di sé. “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20). Le persecuzioni sono inevitabili per chi è fedele al Vangelo; sono un segno di Dio per chi crede, sono una prova di autenticità nella nostra fede, praticata nella nostra vita. “Rallegratevi ed esultate (lett. gridare/danzate)”: La beatitudine diviene gioia interna che si esprime con acclamazioni e canti di ringraziamento a Dio, come pure in danza. “La vostra ricompensa è grande nei cieli”. Ci è aggiudicata la più grande ricompensa: divenire eredi della vita eterna (cfr. Mc 10,17). La gioia del perseguitato è un’anticipazione della letizia del cielo. Nell’Apocalisse gli eletti alla fine dei tempi cantano: “Alleluia. Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente. Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta” (Ap 19,6-7).

Meditatio

Le beatitudini non si possono capire se non si vivono. Il miglior commento ad esse è la vita stessa dei santi; il loro bell’esempio e la loro intercessione ci incoraggiano a percorre una strada così impegnativa, che agli occhi di tanti è da “perdenti”… ma è la via autentica, quella della libertà, della felicità, della vita! 

La gioia di servire i poveri

Un pensiero di San Vincenzo de’ Paoli che ci richiama la quarta beatitudine : «L’uomo è felice nell’esercitare la carità. Fra tutte le opere di carità nessuna dà maggiore consolazione della visita ai poveri». Lo stesso San Vincenzo ci narra l’incontro con suor Andreina non molto tempo prima della sua morte: «Ad una domanda che le avevo fatto, suor Andreina mi aveva risposto: “Non ho alcuna pena, né alcun rimorso, se non di aver troppo goduto nel servire i poveri”. E siccome domandai: “Sorella, non c’è nulla nel passato che non vi faccia temere?”, essa aggiunse: “No, signore, nulla affatto, se non che provavo troppa soddisfazione quando andavo nei villaggi a trovare quella buona gente; volavo, talmente ero felice di servirli» (3).

Inseguendo l’Amato

San Giovanni della Croce ci è maestro anzitutto per la sua esperienza di fede. Egli ci mostra come anche l’incomprensione e il rifiuto da parte degli stessi confratelli carmelitani, proprio da coloro con i quali ha condiviso gli ideali profondi della propria esistenza, può divenire – quando è vissuto nella fede, a motivo di Cristo e in unione con Lui – il luogo della “rinascita”.Già tra il 1575-1576 San Giovanni della Croce era stato per breve tempo prigioniero dai Calzati di Avila. Invece il 2 dicembre 1577 è preso e strappato nella notte dalla sua casetta presso il Convento dell’Incarnazione, delle Carmelitane di Avila, e condotto prigioniero nel convento dei Calzati a Toledo. Vi giunge di notte, bendato, forse 1’8 dicembre e vi resterà fino al 17 agosto 1578. Conosciamo le condizioni disumane del suo carcere toledano e il pressing psicologico e spirituale esercitato su di lui con infinite astuzie.
È stato scritto che, in modo simbolico, «Toledo è il Tabor di Spagna» (4). Nei suoi scritti torna sovente questa espressione «noche sosegada». In spagnolo «sosiego» significa calma, serenità, pace, tranquillità. Un’immagine marina può aiutarci: quando il mare è in tempesta, e tanto più le onde sono gigantesche, le acque al fondo sono tanto più tranquille. Quella di Toledo è una traversata interiore ove l’inseguimento dell’Amato si acuisce talmente che sembra quasi giungere alla consumazione definitiva. Si tratta di una vera macina, che accentua a livelli altissimi l’opera di trasfigurazione che è in atto in Giovanni da lungo tempo. Egli è come cesellato, rifinito dallo scalpello dell’Amato, anzitutto nel cuore della sua fede, ma con incidenza di prim’ordine in tutte le dimensioni del suo vissuto: spirituale, psicologico, mistico, estetico. Denudandolo, quell’esperienza di fede, lo restituisce a sé stesso rinnovato. Egli rinasce. Il carcere non è un grembo materno, che lo rigenera, ma è il modo in cui assume ed elabora il carcere che lo rende uomo nuovo.Il criterio vale per lui e per tutti noi! Non è la croce che ha significato in sé, ma è Cristo che glielo imprime. Non è la croce che genera salvezza, ma l’amore di Colui che acconsente a esservi inchiodato.
Imprigionato, Giovanni è un uomo libero. Sperimenta come la libertà non consiste nel fare quello che si vuole, ma nel volere quello che si fa. Non ha cercato o voluto il carcere, e ne fuggirà appena possibile, ma per il tempo che vi rimane, quello è lo spazio di un appuntamento da non mancare, come lo fu Babilonia per gli ebrei, la croce per Gesù. Tanto più che i suoi carcerieri, verso i quali ha sempre parole di bontà, sono convinti di operare per il bene. In quei nove mesi toledani – il tempo di una gestazione – egli non abdica alla propria intelligenza: pensa, immagina, crea, progetta e, quando gli è reso possibile, scrive. Le sue opere poetiche (circa 970 versi), in molte delle loro espressioni più alte e raffinate, risalgono a questo periodo. Qui Giovanni della Croce ci appare nella sua autentica statura di discepolo del Signore. Non dobbiamo dimenticare che il percorso di Giovanni della Croce è stato lungo: è uno spirito provato, fin dalla più tenera infanzia. Le percosse della vita lo hanno lentamente forgiato, reso indomito. Lentamente si è trovato a non sottrarsi più a disagi, precarietà, emarginazioni, ma ad amarli. Diremmo che li preferisce come luoghi privilegiati per amare. Egli sa fin dall’adolescenza che il suo Signore abita il disagio: nel povero, nell’afflitto, nell’infermo, nel carcerato, in chi è solo, nell’angosciato. Giunto a maggiore età, preferisce alla carriera ecclesiastica l’Ordine carmelitano, nell’Ordine chiede per sé la regola non mitigata, divenuto sacerdote non più l’Ordine ma la Certosa, poi non la Certosa ma le fatiche della riforma. Progressivamente si è fatta strada in lui la consapevolezza – già colta come prefigurazione simbolica nella sua vita di fanciullo e di adolescente – che la sventura può diventare epifania di grazia. Il suo vissuto testimonia che la croce guarisce, come il serpente elevato da Mosè nel deserto (cf Gv 3, 14), e rigenera. Il suo metodo di vita e il suo criterio di scelta è radicale: ritiene che ove è necessario più impegno, lavoro, rischio, sofferenza, quello è il luogo ove meglio essere assimilato a Cristo crocifisso, suo sposo.

La vera e perfetta letizia

San Francesco spiega a frate Leone cos’è la vera e perfetta letizia. Non si tratta dell’esaltazione di un momento, di euforia, ma è la profonda serenità interiore di chi realizza l’esperienza di san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).  Un giorno Francesco, presso Santa Maria degli Angeli, chiamò frate Leone e gli disse: «Frate Leone, scrivi». Quegli rispose: “Eccomi, sono pronto». «Scrivi – disse – cosa è la vera letizia». «Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell’Ordine; scrivi: non è vera letizia. Così pure che sono entrati nell’Ordine tutti i prelati d’Oltr’Alpe, arcivescovi e vescovi, non solo, ma perfino il Re di Francia e il Re d’Inghilterra; scrivi: non è vera letizia. E se ti giunge ancora notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti tutti alla fede, oppure che io abbia ricevuto da Dio tanta grazia sa sanar gli infermi e da far molti miracoli; ebbene io dico: neppure qui è vera letizia».

«Ma cosa è la vera letizia?».

«Ecco, tornando io da Perugia nel mezzo della notte, giungo qui, ed è un inverno fangoso e così rigido che, all’estremità della tonaca, si formano dei ghiacciuoli d’acqua congelata, che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: “Chi sei?” Io rispondo: “Frate Francesco”. E quegli dice: “Vattene, non è ora decente questa di arrivare, non entrerai”. E mentre io insisto, l’altro risponde: “Vattene, tu sei un semplice ed un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te”. E io sempre resto davanti alla porta e dico: “Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte”. E quegli risponde: “Non lo farò. Vattene dai Crociferi e chiedi là”.Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia e qui è la vera virtù e la salvezza dell’anima» (5).

Alcune domande per la riflessione.

1.     Sono io nel numero dei miti che vincono con la perseveranza della bontà, con la forza della pazienza, dell’amore che non si stanca mai? Ripudio ogni forma di violenza, anche solo verbale? Indosso forse abitualmente la toga di giudice severo?
2.     Beati gli uomini che sono giustificati da Dio e diventano a lui graditi! Comprendiamo che il vangelo non deve essere solo ammirato, ma vissuto? Che la vera giustizia, secondo la misura di Dio, è la perfetta carità: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48)? Siamo convinti che c’è una sola, vera, grande tristezza nel mondo: quella di non essere santi?
3.     Sono convinto che la giustizia di Dio è il suo amore, e quindi la sua misericordia?  Sono disposto a perdonare di vero cuore al mio fratello/sorella? “Il giudizio di Dio – afferma Giacomo – sarà senza misericordia, per chi non avrà usato misericordia” (2,13)…
4.     La purità della sesta beatitudine riguarda la sincerità del cuore, la purezza d’intenzione, la lealtà, la rettitudine. Amo lo schietto candore della verità, non solo delle parole, ma anche della vita, come dice Paolo di Cristo: “Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, non fu ‘sì’ e ‘no’; ma in lui c’è stato il ‘sì’” ? (2Cor 1,19-20). Cammino nella purità di cuore, percorrendo il faticoso cammino della liberazione interiore? Sono innamorato di Cristo, sapendo che sarò puro di cuore solo se ho Gesù nella mente, nel cuore, nelle meni, in tutto me stesso?
5.     Frutto dello Spirito di Gesù è la gioia e la pace. Personalmente siamo in pace nel nostro intimo, evitando tutto ciò che può turbare la pace del cuore: il peccato ad occhi aperti, l’egoismo, la mancanza di carità? Se amiamo la pace del cuore, cerchiamo di diffonderla nei nostri fratelli? Abbiamo in orrore qualsiasi forma di violenza? Rifuggiamo dalle contese, dispute, polemiche? Quando uno alza la voce, siamo pronti ad abbassarla fino a tacere? Evitiamo qualsiasi forma di aggressività, conservando la calma in noi stessi e favorendola negli altri?
6.     Nelle prove della vita aderiamo alle tre condizioni: andare a Gesù, accettare la croce, abbandonarsi a Lui con cuore mite e umile? Siamo convinti che solo così si realizza la promessa della consolazione, perché non siamo soli a portare la croce, ma Gesù la porta con noi? 
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1 Perfezione evangelica. Tutto il pensiero di San Vincenzo de’ Paoli esposto con le sue parole, Ed. Vincenziane, Roma 1967, p. 394.
2 Fonti francescane, Assisi 1978, n. 1653.
3 Perfezione evangelica, cit., p. 272.
4 F. Ruiz, Notte e aurora,in AAVV,  Dio parla nella notte. Vita, parola, ambiente di San Giovanni della Croce, Il Messaggero del S. Bambino Gesù di Praga – Edizioni OCD, Arenzano (Genova) – Roma 990, p. 159.
5 Fonti francescane, Assisi 1978, n. 278.

Publié dans:BIBLICA (LECTIO) |on 20 mai, 2010 |Pas de commentaires »

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