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LA PAROLA DI DIO VA A BUON FINE (Is 55, 10-11)

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LA PAROLA DI DIO VA A BUON FINE (Is 55, 10-11)

di Sergio Tattoli
18 marzo 2016

Un giorno una parola – commento a Isaia 55, 10- 11

Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l’ho mandata.
Isaia 55, 10-11
Gesù disse: «Quelli che hanno ricevuto il seme in buona terra sono coloro che odono la parola e l’accolgono e portano frutto»
Marco 4, 20
Gli eventi naturali della pioggia e della neve che cadono producendo l’effetto di irrigare la terra e renderla fruttuosa offrono al profeta Isaia lo spunto per parlare dell’incontrastabile efficacia della parola divina. La realtà è costellata di eventi in palese contrasto con la volontà di Dio! Non ci spieghiamo l’esistenza del bene e del male! Non comprendiamo il perché dell’arroganza, dell’odio, della violenza che noi esseri siamo proclivi a esercitare contro i nostri simili! Evidentemente fanno parte di un disegno il cui contorno ci appare poco nitido, e non riusciamo a decifrare la figura che rappresenta: non riusciamo a comprendere compiutamente il suo volere e il perché del suo agire.
La metafora proposta dal profeta Isaia ci rende attenti a prendere sul serio la parola del Signore, poiché la sua efficace parola è in grado di produrre veri, duraturi, profondi benefici in chi l’accoglie. Ha effetti trasformanti nella vita di coloro che lo seguono. È il faro verso il quale guardare per orientarci nel turbolento mare della vita.
Di fronte alle contraddizioni della realtà di questo mondo tendiamo a pensare che siano le inspiegabili forze del male ad avere il sopravvento. Ma Dio non ci ha lasciati senza una valida speranza di fronte alle nostre perplessità umane. Ha preso l’iniziativa, e nella persona di Gesù si è rivelato: è venuto a parlarci toccando l’essenza della nostra umanità. La parola di Dio si è fatta carne nella persona di Gesù.

GIOVANNI PAOLO II – LA “PATERNITÀ” DI DIO NELL’ANTICO TESTAMENTO

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GIOVANNI PAOLO II – LA “PATERNITÀ” DI DIO NELL’ANTICO TESTAMENTO

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 20 gennaio 1999

1. Il popolo di Israele – come abbiamo già accennato nella scorsa catechesi – ha sperimentato Dio come padre. Al pari di tutti gli altri popoli, ha intuito in lui i sentimenti paterni attinti all’esperienza abituale di un padre terreno. Soprattutto ha colto in Dio un atteggiamento particolarmente paterno, partendo dalla conoscenza diretta della sua speciale azione salvifica (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 238).
Dal primo punto di vista, quello dell’esperienza umana universale, Israele ha riconosciuto la paternità divina a partire dallo stupore dinanzi alla creazione e al rinnovarsi della vita. Il miracolo di un bimbo che si forma nel grembo materno non è spiegabile senza l’intervento di Dio, come ricorda il salmista: « Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre . . .  » (Sal 139 [138], 13). Israele ha potuto vedere in Dio un padre anche in analogia con alcuni personaggi che detenevano una funzione pubblica, specialmente religiosa, ed erano ritenuti padri: così i sacerdoti (cfr Gdc 17, 10; 18, 19; Gn 45, 8) o i profeti (cfr 2 Re 2, 12). Ben si comprende inoltre come il rispetto che la società israelitica richiedeva per il padre e i genitori inducesse a vedere in Dio un padre esigente. In effetti la legislazione mosaica è molto severa nei confronti dei figli che non rispettano i genitori, fino a prevedere la pena di morte per chi percuote o anche solo maledice il padre o la madre (Es 21, 15.17).
2. Ma al di là di questa rappresentazione suggerita dall’esperienza umana, in Israele matura un’immagine più specifica della divina paternità a partire dagli interventi salvifici di Dio. Salvandolo dalla schiavitù egiziana, Dio chiama Israele ad entrare in un rapporto di alleanza con lui e perfino a ritenersi il suo primogenito. Dio dimostra così di essergli padre in maniera singolare, come emerge dalle parole che rivolge a Mosè: “Allora tu dirai al faraone: dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito” (Es 4, 22). Nell’ora della disperazione, questo popolo-figlio potrà permettersi d’invocare con il medesimo titolo di privilegio il Padre celeste, perché rinnovi ancora il prodigio dell’esodo: “Abbi pietà, Signore, del popolo chiamato con il tuo nome, di Israele che hai trattato come un primogenito” (Sir 36, 11). In forza di questa situazione, Israele è tenuto ad osservare una legge che lo contraddistingue dagli altri popoli, ai quali deve testimoniare la paternità divina di cui gode in modo speciale. Lo sottolinea il Deuteronomio nel contesto degli impegni derivanti dall’alleanza: “Voi siete figli per il Signore Dio vostro . . . Tu sei infatti un popolo consacrato al Signore tuo Dio e il Signore ti ha scelto, perché tu fossi il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra” (Dt 14, ls.).
Non osservando la legge di Dio, Israele opera in contrasto con la sua condizione filiale, procurandosi i rimproveri del Padre celeste: “La Roccia, che ti ha generato, tu hai trascurato; hai dimenticato il Dio che ti ha procreato!” (Dt 32, 18). Questa condizione filiale coinvolge tutti i membri del popolo d’Israele, ma viene applicata in modo singolare al discendente e successore di Davide secondo il celebre oracolo di Natan in cui Dio dice: “Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio” (2 Sam 7,14; 1 Cron 17,13). Appoggiata su questo oracolo, la tradizione messianica afferma una filiazione divina del Messia. Al re messianico Dio dichiara: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato” (Sal 2, 7; cfr 110 [109], 3).
3. La paternità divina nei confronti d’Israele è caratterizzata da un amore intenso, costante e compassionevole. Nonostante le infedeltà del popolo, e le conseguenti minacce di castigo, Dio si rivela incapace di rinunciare al suo amore. E lo esprime in termini di profonda tenerezza, anche quando è costretto a lamentare l’incorrispondenza dei suoi figli: “Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore: ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare . . . Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? . . . Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Os 11, 3s.8; cfr Ger 31, 20).
Persino il rimprovero diviene espressione di un amore di predilezione, come spiega il libro dei Proverbi: « Figlio mio, non disprezzare l’istruzione del Signore e non aver a noia la sua esortazione, perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto » (Pr 3, 11-12).
4. Una paternità così divina e nello stesso tempo così « umana » nei modi con cui si esprime, riassume in sé anche le caratteristiche che solitamente si attribuiscono all’amore materno. Anche se rare, le immagini dell’Antico Testamento in cui Dio si paragona ad una madre sono estremamente significative. Si legge ad esempio nel libro di Isaia: « Sion ha detto: ‘Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato. Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo seno? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai » (Is 49, 14-15). E ancora: « Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò » (Is 66, 13).
L’atteggiamento divino verso Israele si manifesta così anche con tratti materni, che ne esprimono la tenerezza e la condiscendenza (cfr CCC, 239). Questo amore, che Dio effonde con tanta ricchezza sul suo popolo, fa esultare il vecchio Tobi e gli fa proclamare: “Lodatelo, figli d’Israele, davanti alle genti: Egli vi ha disperso in mezzo ad esse per proclamare la sua grandezza. Esaltatelo davanti ad ogni vivente; è Lui il Signore, il nostro Dio, lui il nostro Padre, il Dio per tutti i secoli” (Tb 13, 3-4).

LECTIO DIVINA PERSONAGGI BIBLICI – SARAH GENESI (16,1-2; 18,1-2.9-15; 21,1-2)

http://www.novena.it/Lectio_divina_personaggi_biblici/lectio_sarah.htm

LECTIO DIVINA PERSONAGGI BIBLICI – SARAH GENESI (16,1-2; 18,1-2.9-15; 21,1-2)

A cura di fra Vincenzo Boschetto

16,[1] Sarai, moglie di Abram, non gli aveva dato figli. Avendo però una schiava egiziana chiamata Agar, [2] Sarai disse ad Abram: « Ecco, il Signore mi ha impedito di aver prole; unisciti alla mia schiava: forse da lei potrò avere figli ». 18,[1] Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. [2] Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, [9] Poi gli dissero: « Dov’è Sara, tua moglie? ». Rispose: « E’ là nella tenda ». [10] Il Signore riprese: « Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio ». Intanto Sara stava ad ascoltare all’ingresso della tenda ed era dietro di lui. [11] Abramo e Sara erano vecchi, avanti negli anni; era cessato a Sara ciò che avviene regolarmente alle donne. [12] Allora Sara rise dentro di sé e disse: « Avvizzita come sono dovrei provare il piacere, mentre il mio signore è vecchio! ». [13] Ma il Signore disse ad Abramo: « Perché Sara ha riso dicendo: Potrò davvero partorire, mentre sono vecchia? [14] C’è forse qualche cosa impossibile per il Signore? Al tempo fissato tornerò da te alla stessa data e Sara avrà un figlio ». [15] Allora Sara negò: « Non ho riso! », perché aveva paura; ma quegli disse: « Sì, hai proprio riso ». 21,[1] Il Signore visitò Sara, come aveva detto, e fece a Sara come aveva promesso. [2] Sara concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia, nel tempo che Dio aveva fissato. La lettura di queste pagine della Genesi, racchiude le vicende di Sarai moglie di Abramo anche se le pagine citate, riportano le vicende di Agar. La storia di Sarai si presenta, a ciascuno di noi, con un duplice aspetto: sterilità e gratuità. La Bibbia non dice tanto sulla sterilità di Sarai, ma in penombra noi possiamo vedere la sua sofferenza e la sofferenza d’ogni sterilità: «Ecco, il Signore mi ha impedito…» (16,2). Questa donna, sterile, incarna la sofferenza per la maternità mancata, ma al contempo ha dentro di sé una grande forza di volontà a non rassegnarsi e ricorre ai metodi allora consentiti. Sara non è l’unica donna nella Bibbia che si trova impedita, sterile: vedi per esempio Anna moglie di Elkana (Cfr. 1Sam 1,1ss). Per questa sua grande fortezza gli viene mutato il nome: «Dio disse ancora ad Abramo: non chiamare più tua moglie Sarai; d’ora in poi il suo nome è Sarah. per mezzo di lei ti darò un figlio» (Gen 17,15-16). Qui abbiamo un gioco di parole che nella lingua ebraica assume vari significati: da Sarai a Sarah. Il nome che termina con la lettera i, come in ebraico terminano certi suffissi di possesso, sembra sottolineare la presunzione di Sarai nel momento in cui decise in cuor suo di dare la sua ancella al marito per aiutarlo a garantire la discendenza, che tanto desidera e che Dio promette. Ma non era quello l’aiuto che Sarai poteva dare a suo marito, ma da una Sarah capace di rinunciare a ogni possessiva presunzione di sé a vantaggio della propria uterina ( il significato della lettera h) natura di donna e di madre responsabile di figli autentici. Il cambiamento del nome, nella Bibbia indica il progetto di Dio sulla persona, sul popolo; infatti, il nome Sarah significa “Mia principessa”. Sarah, infatti, sarà madre di numerosi re. Questa forza di volontà il Signore la benedice, visita Abramo e fa una promessa inaudita. L’«Inaudito» si rende presente nella vita di questa coppia, diventa un punto d’incontro perché la sterilità sia feconda, perché Sara dia frutto: generi! L’annuncio che Dio fa è inaudito perché sfida l’ordine naturale, ma «c’è forse qualcosa impossibile per il Signore?». Nella Bibbia, queste sono parole che si ripetono quando Dio chiama qualcuno per realizzare il suo disegno d’amore (cfr Lc 1,19-20.37). Queste sono parole che ogni volta si ripetono quando Dio fa visita a ciascuno di noi e trova qualche ostacolo, quando la nostra vita è come un deserto senza vita, infeconda: «come una terra arida senza acqua» (Sal 62,2), come un deserto bruciato, come un vicolo cieco, come un orizzonte chiuso senza speranza, come un vuoto incolmabile senza attesa, come un grembo di donna incapace di generare. Avere sete di Dio è già un dono di Dio. Lasciata a se stessa, la carne non è altro che rifiuto, occhi chiusi, orecchie turate, cuore indurito (Mt 13,10-15). Spesso, questa è la nostra vita! Non ha senso vivere per vivere; ha senso vivere se si loda Dio: la grazia divina non solo sorpassa infinitamente la vita fisica, ma è quella che le conferisce significato. È una pagina di fede quella che abbiamo davanti, una fede che diventa rischio. «Si tratta di due orizzonti lontani verso i quali l’uomo si deve incamminare con un lungo e defatigante itinerario che raffigura la dialettica della fede, sempre sospesa ala promessa e al rischio» (G. Ravasi). Ma proprio perché la fede si trasforma in rischio, la fede di Sarah davanti alle parole dell’Inaudito conosce il dubbio, il sospetto, l’esitazione, la sospensione: «Allora Sarah rise dentro di sé e disse: « Avvizzita come sono dovrei provare il piacere, mentre il mio signore è vecchio! »» (18,21). Vi è un po’ d’ironia nell’atteggiamento di Sarah e una reazione da parte dell’Inaudito, dei Tre personaggi (Dio). La storia di questa donna insegna che non esiste situazione disperata che Dio non sappia capovolgere: «Tornerò da te alla stessa data e Sarah avrà un figlio» (18,14). Alla reazione di Dio vi è paura e imbarazzo e una certa autodifesa: « »Non ho riso! »» (18,15). Nella Bibbia il riso ha vari significati, ma nel riso di Sarah e nella sua autodifesa possiamo leggere il nostro riso, le nostre finzioni dinanzi alla Parola di Dio, dinanzi alla sua Parola che continuamente chiama; ma è un riso che Dio sa trasformare in nuova umanità, promessa, certezza, vita, dono per l’altro… perché il Signore «non ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra Devastata, ma tu sarai chiamata Mio compiacimento e la tua terra, Sposata» (Is 62,4); il figlio che nasce prenderà nome Isacco, cioè “JHWH ha riso”. Sì, Dio ride dinanzi agli ostacoli. Il Suo riso spazza ogni nostra perplessità, paura, ogni male degli uomini: «Colui che è assiso nei cieli se ne ride, il Signore si fa beffe» (Sal 2,4; cfr anche Sal 37,13; 59,9). «È un riso che disarma nel senso più vero, privando della sua forza l’apparente potente predominio dell’incredulità e dell’arroganza» (Gerhard Ebeling). «Nel tempo che Dio aveva fissato» (21,2). C’è un tempo che Dio fissa per Sarah, per ciascuno di noi, per farci visita. Nel tempo stabilito, il riso di Dio visita Sarah portando vittoria sulla sua sterilità, portando il dono di generare, il miracolo della nascita, il passaggio dall’essere infecondo ad essere fecondo: la vita; perché essere visitati da Dio è incontrare la vita. Generare, per la Bibbia, non è l’espressione di una legge naturale ma l’evento dell’amore di Dio personale dove tutto si trasforma in dono. Nell’incontro con la vita Sarah scopre “un di più” che viene dall’amore personale di Dio dove per Sarah, inizia un nuovo rapporto, un nuovo cammino. Nell’atteggiamento di Sarah, sembra ricordare le parole di Gesù: «Chi rimane in me, fa molto frutto. Chi non rimane in me viene gettato via» (Gv 15,5-6). Questo è il dilemma posto da Gesù ai discepoli: accettare di essere innestati in Lui o essere soppressi, perché «senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,5). Chi rimane «in me». Gesù pone l’accento in questo rimanere in Lui perché fonte e mèta della vita personale e comunitaria, è l’unico sentiero di fecondità evangelica e pastorale perché ha in sé la fecondità di Cristo che ha dato se stesso per amore. Il portare frutto dipende dal rapporto personale dei discepoli con Gesù. Diversamente si è sterili, secchi, inutili a se stessi e agli altri. «Allora sarete miei discepoli» (Gv 15,8). È una conclusione significativa. Si è discepoli solo in conseguenza del rimanere in Cristo ed è da questo rimanere in Lui che scaturisce il dovere della testimonianza. Anche Sarah, nella sua vita, scoprendo il “di più”, ha dimorato nella Parola dell’Eterno dando senso e valore alla sua stessa vita e a quella degli altri generando a tutti Isacco, il sorriso di Dio, divenendo madre d’Israele. Questa sua maternità si fa gratuità fino alla morte, fino al raggiungimento della Terra che Dio promise di dare. Sarah muore a centoventisette anni la sua gratuità fu di esempio per tutti, anche in terra straniera e Abramo acquista nella terra Ittita, da Efron figlio di Zocar, la caverna di Macpela per seppellirvi Sarah (Gen 23).

Interrogarsi 1. Quali situazioni di “infecondità” riscontri nella tua vita e nella società in cui vivi? 2. Qual è il senso della visitazione di Dio a Sara… di Dio nella tua vita? 3. Nella tua vita, c’è l’apertura personale verso Dio dove vi incontrate e parlate da amici? 4. Come ti rapporti, nella società in cui vivi, in modo sterile o gratuito? 5. Quale è il tempo che Dio ha fissato per te?

Preghiera Hai un compito, anima mia, un grande compito, se vuoi. Scruta seriamente te stessa, il tuo essere, il tuo destino; donde vieni e dove dovrai posarti; cerca di conoscere se è vita quella che vivi o se c’è qualcosa di più. Hai un compito, anima mia, purifica, perciò, la tua vita: considera, per favore, Dio e i suoi misteri, indaga cosa c’era prima di questo universo e che cosa esso è per te, da dove è venuto e qual sarà il suo destino. Ecco il tuo compito, anima mia, purifica, perciò, la tua vita. Accostati al Dio che ti parla nel Figlio suo e saprai la via della gioia. (S. Gregorio di Nazianzo, † 410)

Actio Medita oggi queste parole e portale nella tua vita quotidiana: «Noi siamo liuti, tu il suonatore. Non sei tu che emetti sospiri attraverso essi? Noi siamo flauti, ma il soffio è tuo, o Signore! Noi siamo dei monti, ma l’eco è tua, o Signore!».

SALMO 26, 1-6 – FIDUCIA IN DIO – GIOVANI PAOLO II 2004

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Vita%20Spirituale/04-05/10-Salmo_26.html

SALMO 26, 1-6 – FIDUCIA IN DIO – GIOVANI PAOLO II 2004

Il Salmo 26 viene distribuito dalla Liturgia in due diversi brani. La prima parte di questo dittico poetico e spirituale (cf vv. 1-6) viene pregata ai Vespri del mercoledì della 1a settimana e ha come sfondo il tempio di Sion, sede del culto di Israele. Infatti il Salmista parla esplicitamente di «casa del Signore», di «santuario» (v. 4), di «rifugio, dimora, casa» (cf vv. 5-6). Anzi, nell’originale ebraico questi termini indicano più precisamente il «tabernacolo» e la «tenda», ossia il cuore stesso del tempio, dove il Signore si svela con la sua presenza e la sua parola. Si evoca anche la «rupe» di Sion (cf v. 5), luogo di sicurezza e di rifugio, e si allude alla celebrazione dei sacrifici di ringraziamento (cf v. 6). Se, dunque, la liturgia è l’atmosfera spirituale in cui è immerso il Salmo, il filo conduttore della preghiera è la fiducia in Dio, sia nel giorno della gioia, sia nel tempo della paura.

Una lotta simbolica La prima parte del Salmo, che ora meditiamo, è segnata da una grande serenità, fondata sulla fiducia in Dio nel giorno tenebroso dell’assalto dei malvagi. Le immagini usate per descrivere questi avversari, che sono il segno del male che inquina la storia, sono di due tipi. Da un lato, sembra che ci sia un’immagine di caccia feroce: i malvagi sono come belve che avanzano per ghermire la loro preda e straziarne la carne, ma inciampano e cadono (cf v. 2). Dall’altro lato, c’è il simbolo militare di un assalto compiuto da un’intera armata: è una battaglia che divampa impetuosa seminando terrore e morte (cf v. 3). La vita del credente è spesso sottoposta a tensioni e contestazioni, talora anche a un rifiuto e persino alla persecuzione. Il comportamento dell’uomo giusto infastidisce, perché risuona come un monito nei confronti dei prepotenti e dei perversi. Lo riconoscono senza mezzi termini gli empi descritti dal Libro della Sapienza: il giusto «è diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti; ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita è diversa da quella degli altri, e del tutto diverse sono le sue strade» (Sap 2,14-15).

Il Dio della vita Il fedele è consapevole che la coerenza crea isolamento e provoca persino disprezzo e ostilità in una società che sceglie spesso come vessillo il vantaggio personale, il successo esteriore, la ricchezza, il godimento sfrenato. Tuttavia egli non è solo e il suo cuore conserva una sorprendente pace interiore, perché – come dice la splendida «antifona» d’apertura del Salmo – «il Signore è luce e salvezza, è difesa della vita» del giusto (Sal 26,1). Egli ripete continuamente: «Di chi avrò paura?… Di chi avrò timore?… Il mio cuore non teme… Anche allora ho fiducia» (vv. 1.3). Sembra quasi di ascoltare la voce di San Paolo che proclama: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Rm 8,31). Ma la quiete interiore, la fortezza d’animo e la pace sono un dono che si ottiene rifugiandosi nel tempio, ossia ricorrendo alla preghiera personale e comunitaria.

Sorgente della pace L’orante, infatti, si affida alle braccia di Dio e il suo sogno è espresso anche da un altro Salmo (cf 22,6): «Abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita». Là egli potrà «gustare la dolcezza del Signore» (Sal 26,4), contemplare e ammirare il mistero divino, partecipare alla liturgia sacrificale ed elevare le sue lodi al Dio liberatore (cf v. 6). Il Signore crea attorno al suo fedele un orizzonte di pace, che lascia al di fuori lo strepito del male. La comunione con Dio è sorgente di serenità, di gioia, di tranquillità; è come entrare in un’oasi di luce e di amore. Il nostro rifugio Ascoltiamo ora, a sigillo della nostra riflessione, le parole del monaco Isaia, di origini sire, vissuto nel deserto egiziano e morto a Gaza verso il 491. Nel suo Asceticon egli applica il nostro Salmo alla preghiera nella tentazione: «Se vediamo i nemici circondarci con la loro furbizia, cioè con l’accidia, sia che indeboliscano la nostra anima nel piacere, sia perché non conteniamo la nostra collera contro il prossimo quando agisce contro il suo dovere, oppure se aggravano i nostri occhi per portarli alla concupiscenza, o se vogliono condurci a gustare i piaceri della gola, se rendono per noi come un veleno la parola del prossimo, se ci fanno svalutare la parola altrui, se ci inducono a far differenze tra i fratelli dicendo: “Questi è buono, quest’altro è cattivo”: se dunque tutte queste cose ci circondano, non perdiamoci di coraggio, ma gridiamo piuttosto come Davide con cuore fermo dicendo: “Signore, protettore della mia vita!” (Sal 26,1)» (Recueil ascétique, Bellefontaine 1976, p. 211).

 Giovanni Paolo II / L’Osservatore Romano, 22-03-2004

PREGARE CON UN SALMO – SALMO 131 (130) di sr. Anna Maria Tittarelli r.c.

http://www.arcidiocesibaribitonto.it/pubblicazioni/articoli-on-line/messaggeri-della-tenerezza-di-dio-accanto-a-chi-soffre

PREGARE CON UN SALMO – SALMO 131 (130)   di sr. Anna Maria Tittarelli r.c.  

Israele ha manifestato nei salmi tutta la vita dell’uomo, le speranze e le attese della storia. Questa manifestazione Cristo l’ha fatta propria, l’ha riconosciuta e l’ha compiuta  e per questo la Chiesa ce la offre perché anche noi impariamo a pregare come il Cristo  ha fatto, nella storia e per il mondo.  I Salmi sono la nostra vita divenuta preghiera.

“Nei salmi come in uno specchio ritroviamo anche il nostro volto”.                              

(S. Atanasio)

“Preghi? Sei tu che parli a Dio. Leggi? È Lui che ti parla. I salmi sono contemporaneamente Parola di Dio al suo fedele e parola d’uomo a Dio.”                                          

  (S. Gerolamo) SALMO 131 (130)      

… come bimbo svezzato…

Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze. Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia. Speri Israele nel Signore, ora e sempre.

Sguardo a Dio, il Signore! Sguardo su di sé: nel cuore nello sguardo nessun orgoglio nessuna superbia ma umiltà verità.  Immagine del bimbo tra le braccia della mamma. Tra le braccia del Dio della tenerezza che ci ama più di una madre: tranquillità e sicurezza                 fiducia abbandono filiale   speranza per l’oggi e per il futuro  

L’ESPERIENZA DEL SALMISTA Il salmista nella sua preghiera si rivolge al Signore esprimendo il suo stato d’animo con l’immagine di un lattante tranquillo, sazio e silenzioso, stretto al seno di sua madre. Il sorriso materno sembra venire a cicatrizzare le sue ferite piccole e grandi dovute ad esperienze negative. Rannicchiato nella calda intimità di un amore tenero e forte, il giusto guarda senza più invidia il mondo e le sue grandezze. La pace è una conquista raggiunta vincendo la tentazione dell’orgoglio e della superbia che rovina la vita propria e quella degli altri; lasciando spazio alla vera umiltà che non è mediocrità o disinteresse, ma è riconoscimento della propria situazione, della propria realtà. Quello del salmista è un cammino di liberazione dalle passioni per giungere ad una libertà e ad un sereno equilibrio che gli permette di godere la gioia e la pace di vivere alla presenza di Dio. Egli si sente profondamente e teneramente amato da Dio che, come una sollecita mamma, lo fa crescere cullandolo tra le sue braccia. Il salmista sperimenta la consolazione di Dio e il suo amore appas-sionato, descritto dal profeta Isaia:  (dice il Signore:) “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, Io invece non ti dimenticherò mai…” (49,15) “…i suoi bimbi saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno accarezzati. Come una madre consola un figlio così Io vi consolerò…” (66,13) “Dice il Signore Dio, il Santo di Israele: <Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza>”  (30,15) Il salmista termina la sua preghiera augurando a tutto il popolo quella libertà, quella pace del cuore che è frutto della speranza e di un abbandono totale in Dio. La pienezza di Dio genera calma e silenzio, e la felicità di essere un <bimbo> amato!   L’ESPERIENZA DI GESU’

Un bambino tra le braccia della madre: immagine tanto umana, ordinaria; ma quando il Figlio di Dio in persona  si è abbandonato a quel modo nelle braccia di Maria, questa umile realtà ha assunto un carattere sacro che ci rimanda all’amore di tenerezza di Dio. L’esperienza che Gesù bambino ha fatto, ce l’ha rivelata parlandoci di Dio che è Padre nel suo amore forte e appassionato; che è <madre>  nel suo affetto di tenerezza e nella sua sollecitudine. Credendo a questo amore possiamo veramente abbandonarci e vivere come bambini: “…se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. …” (Mt 18,2-5)  Diventare come bambino nel senso di Cristo è un segno della maturità cristiana. Gesù, nella sua sollecitudine, vuol farci recuperare la dimensione della pace e della serenità che si appoggia più nel Signore che nelle cose: “…perché vi affannate? ..non state con l’animo in ansia…cercate il regno di Dio…”  (Lc 12,22-32) È a coloro che si sentono <piccoli> che viene rivelato il mistero dell’amore salvifico di Dio: per questo Gesù loda e benedice il Padre.      (cfr. Mt 11,25-26) Gesù ha vissuto continuamente unito al Padre, sentendosi Figlio che riceve tutto da Lui e che tutto dona al Padre, con il quale è in comunione d’amore: “…non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite.” (Gv 8,28-29) Gesù ha sperimentato in pienezza l’abbandono nelle mani del Padre, tutta la sua vita, fino alla fine: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46)  

LA MIA ESPERIENZA CRISTIANA

Uno degli aspetti fondamentali della vita cristiana è l’atteggiamento di umiltà e di semplicità: caratteristiche del bambino che si affida totalmente all’amore della madre e del padre. Stare tra le braccia di Dio è l’esperienza più gioiosa che posso fare: ho già sentito  questa  pace del cuore,  questa  sicurezza in  Dio? Il nostro mondo di oggi è un mondo di violenza, di rumore, di velocità: mi lascio prendere da tutto questo oppure cerco quei valori di silenzio, di semplicità, di preghiera, che fanno maturare la mia vita cristiana? So cercare in Dio la pienezza della mia vita, rinunziando a crearmi ambizioni e desideri di successo secondo il criterio del mondo? La pace del cuore deriva dall’umiltà che è superamento della tentazione dell’orgoglio, della presunzione che mi allontana da Dio: come posso fare questa esperienza di umiltà?   ADORAZIONE Guardo Gesù che si è fatto Bambino, che ha sperimentato cosa vuol dire crescere come figlio amato. Anch’io sono una figlia, un figlio, amato dal Padre che vuole riversare su di me tutti i suoi doni di tenerezza, di sicurezza, di grazia e di consolazione. Guardo alla mia vita e chiedo perdono al Signore per la mia poca umiltà, per quell’orgoglio che mi ha allontanato da Lui, che mi ha dato la presunzione di sentirmi migliore degli altri. Mi lascio prendere tra le braccia di questo Dio e chiedo a Gesù la grazia di convertirmi per diventare quel bambino che Lui vuole: un bambino felice perché si abbandona a Colui dal quale si sente protetto.

Preghiera Guarda Signore, il mio cuore umiliato ma pentito e perdona tutti i miei peccati: quando ho cercato di fare cose che oltrepassano le mie forze; quando mi sono vantato presso i semplici; quando mi sono sforzato per glorificare me stesso. Mi umilio profondamente perché tu, Signore, possa discendere fino a me.                            

S. Agostino

IL RISVEGLIO (biblica)

http://camcris.altervista.org/risveglio.html

IL RISVEGLIO (biblica)

E la parola dell’Eterno fu rivolta a Giona, figlio di Amittai, dicendo:
« Lèvati va’ a Ninive, la grande città e predica contro di lei, perché la loro malvagità è salita davanti a me ».
Ma Giona si levò per fuggire a Tarshish, lontano dalla presenza dell’Eterno.
Così scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarshish. Pagò il prezzo stabilito e
s’imbarcò per andare con loro a Tarshish, lontano dalla presenza dell’Eterno.
Ma l’Eterno scatenò un forte vento sul mare e si levò una grande
tempesta sul mare, sicché la nave minacciava di sfasciarsi.
I marinai spaventati, gridarono ciascuno al proprio dio e gettarono in mare il carico che era sulla nave per alleggerirla.
Intanto Giona era sceso nelle parti più recondite della nave, si era coricato e dormiva profondamente.
Il capitano gli si avvicinò e gli disse: « Che fai così profondamente addormentato?
Alzati, invoca il tuo DIO! Forse DIO si darà pensiero di noi e non periremo ».
i) È un grido dello Spirito rivolto a ogni peccatore… Ma in questo tempo anche alla Chiesa. È un appello per questo tempo indirizzato a ogni singolo credente. È una necessità impellente per il popolo di Dio, ed è una esigenza improrogabile per la vita della chiesa.
1. – È il desiderio di Dio espresso fin dai tempi più remoti, è e deve essere il desiderio di ogni vero credente che ama il Signore e crede nel Suo imminente ritorno.
2. – È l’incombete pericolo che muove lo Spirito di Dio a gridare nel cuore di ognuno di noi… « Risvegliati! »
« Risvegliati tu che dormi… E Cristo ti inonderà di luce! »
Il tempo stringe; la luce della Parola brilla e illumina chi non vuole più vivere nelle tenebre dell’ignoranza, nell’oscurità del peccato, nella tomba della sonno. Ma qualcuno deve andare e annunciare la Parola. Giona invece preferisce andare in « vacanza ». E dorme nella stiva mentre la nave sta per affondare. Il capitano della nave lo chiama, lo scuote e parla con lui: « Che fai qui, dormi? Alzati… »
3. – È Dio che parla: La scrittura dice… non è l’esigenza di un uomo o il bisogno di una organizzazione. È Dio stesso che si rivolge a noi e ci dice « Risvegliati… » Alla chiesa di oggi dice: Sorgi, risplendi, perché la tua luce è giunta, e la gloria dell’Eterno Si è levata su te. Poiché ecco, le tenebre ricoprono la terra e una fitta oscurità avvolge i popoli, ma su di te si leva l’Eterno e la sua gloria appare su di te.

A. – I PERICOLI DEL SONNO
1. – Nonostante chi dorme sia vivo, egli non è sensibile al pericolo che si avvicina… inconsapevole e ignaro di cosa succede attorno a lui.
2. – Egli non sente più le parole pronunciate dai suoi familiari, non vede più nessuna scena, bella o brutta che sia, ed è incosciente della sua condizione o dello stato in cui si trova.
3. È inattivo: non lavora, non produce, non porta nessun frutto.
4. Molte persone muoiono perché dormono. Per un incendio, per incidenti stradali, per un malore…

B. – PUÒ QUALCUNO SVEGLIARE SE STESSO?
1. – Quante volte abbiamo sentito questo commento: « Risvegliati… tu che dormi… siamo noi che dobbiamo svegliarci, non è Dio che manda il risveglio. »
2. – Ma come può qualcuno svegliarsi se sta dormendo e forse profondamente immerso nel sonno? Persone dal sonno pesante sanno che per svegliarsi ci vuole una buona « sveglia », o qualcuno che vada vicino al letto e li « chiami » o li « scuota » e non sempre questo qualcuno è « gradito » in quel momento.
3. – A volte il risveglio è necessario perché altrimenti si fa tardi sul lavoro… a scuola… ad un appuntamento. Ma come abbiamo già detto il risveglio a volte è fatale, è questione di vita o di morte. Una mamma può svegliare « dolcemente » il suo bambino per mandarlo a scuola; ma lo sveglierà « bruscamente » se la casa sta bruciando.
4. – Se vedessimo un uomo profondamente addormentato mentre la sua casa sta per crollare cosa faremmo? E come mai alcuni stanno assistendo al crollo della loro stessa casa, del loro matrimonio, con impassibilità? E come mai non sentiamo l’urgenza di « svegliare » i peccatori che sappiamo stanno precipitando nell’abisso? Se non avvertiamo questa urgenza, se non facciamo questo nostro dovere, la risposta può essere una sola: anche noi stiamo dormendo!

C. – LA SVEGLIA
La sveglia di Dio suona ancora stasera per noi: RISVEGLIATI, grida lo Spirito.
La Parola di Dio è la Sua sveglia: « Suona la tromba in Sion, dai l’allarme… » sta dicendo il Signore ai predicatori della Sua parola.
È fastidioso tutto questo… è meglio rimandare, dormire ancora un po’… ancora un po’… c’è ancora tempo… non è poi così tardi, dormire ancora un po’… fino al letargo spirituale, e infine al coma.
Ma anche per chi è in coma c’è possibilità… c’è speranza, si studiano terapie e metodi per far « sentire » la voce dei familiari che vogliono « risvegliare » il paziente da quella triste condizione…. Si cerca in tutti i modi di risvegliarlo perché non è ancora morto. E così Dio, è scritto nella Parola, « non trita la canna rotta e non spegne il lucignolo fumante. »
Ma da dove viene tutto questo sonno? Perché in questo tempo è difficile restare svegli? Si può dormire di sonno naturale, ma anche di sonno forzato o imposto. Un sonnifero viene propinato a chi si vuol far dormire… e in questo tempo gli « agenti del nemico », il ladro di ogni tempo, propinano anche ai credenti i loro sonnifero, figuratamente parlando, per intontire le menti dei figli di Dio con bevande « frizzanti » ma drogate.
Ognuno si guardi intorno e lasci che lo Spirito Santo faccia luce negli angoli più nascosti del cuore e della coscienza, affinché possiamo non essere ingannati, e possiamo sventare e smascherare le trame astute di Satana.
Il suo obiettivo in questo tempo è quello di tenere i cristiani storditi e intorpiditi nello spirito, come Giona, nel fondo di quella nave, mentre il mondo sta morendo.

D. – COME OSSA SECCHE
Ezechiele ebbe la visione di un grande risveglio: cap. 37 – « Possono queste ossa rivivere? » Possono essere risvegliati? La ragione umana, condizionata dal pessimismo e dal dubbio dice che ciò è impossibile, ma Dio dice: « Profetizza a queste ossa e di’ loro: Ossa secche, ascoltate la parola dell’Eterno. Così dice il Signore, l’Eterno, a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e voi rivivrete. »
Il risveglio non è opera dell’uomo, è opera di Dio. È Dio, per mezzo della Sua parola che ci sveglia, che sensibilizza la nostra coscienza, che ci libera dal torpore religioso… RISVEGLIATI. E quel grido ci fa saltare giù dal letto, perché dal tono di voce che Egli usa capiamo che è un ordine perentorio: il pericolo è imminente, Risvegliati, il tempo per lavorare è poco, Risvegliati, il sole è già alto (Isaia 60:1-2) e tu cosa fai ancora dormendo? Come Giona in quella stiva… dormiva profondamente. Il capitano gli si avvicinò e gli disse: « Che fai così profondamente addormentato? Alzati, invoca il tuo DIO! » In parole povere quel capitano è la sveglia per Giona: risvegliati Giona, la nave sta per affondare e se tu dormi affonderai insieme alla nave.
Romani 13:11 E questo tanto più dobbiamo fare, conoscendo il tempo, perché è ormai ora che ci svegliamo dal sonno, poiché la salvezza ci è ora più vicina di quando credemmo.
Risvegliarsi vuol dire prendere di nuovo coscienza e consapevolezza dei propri doveri, delle proprie necessità, di cosa siamo chiamati a fare e a eseguire. Ossa secche: non potevano fare molto, ma quando si risvegliarono, perché lo Spirito entrò di nuovo in loro allora si alzò un grande e poderoso esercito.

E. – IL FRUTTO DEL RISVEGLIO
1. – Guardiamo nella Parola:
a) Per Mosè significò la fine di un tempo di inutilità per passare ad un tempo di grandi avvenimenti guidati da Dio per la liberazione del Suo popolo.
b) Per Giosuè la fine di un pellegrinaggio estenuante in un deserto senza fine per passare alla conquista della terra promessa.
c) Per Gedeone la fine dell’oppressione dei Madianiti.
d) Per il popolo d’Israele sempre fu l’inizio di periodi di vittoria sui nemici e di benedizioni straordinarie.
e) Per il figliuol prodigo la fine delle sue sventure: non più guardiano di porci… e una nuova vita presso il Padre.
f) Per la chiesa primitiva la salvezza di intere moltitudini che trovarono in Cristo il loro Salvatore. E questo straordinario fenomeno si è ripetuto nei secoli, fino ai nostri giorni.
Siamo stanchi di un cristianesimo mediocre e senza frutto? Vogliamo vedere la gloria di Dio manifestata ancora in questi giorni? Risvegliamoci… Isaia 52:1-2 Risvegliati, risvegliati, rivestiti della tua forza, o Sion; indossa le tue splendide vesti, o Gerusalemme, città santa! Poiché non entreranno più in te l’incirconciso, e l’impuro. Scuotiti di dosso la polvere, levati e mettiti a sedere, o Gerusalemme; sciogliti le catene dal collo, o figlia di Sion che sei in cattività!

F. – IL RISVEGLIO CI RIPORTA AI VALORI DELLA CHIESA APOSTOLICA
- Erano perseveranti nell’insegnamento della Parola. La Parola era apprezzata, non giudicata. Oggi alcuni ascoltano la Parola e cercano solo di trovare l’errore, di giudicare il predicatore; è un tempo in cui, troppo spesso l’insegnante si sente alunno e l’alunno si erige a maestro. Tanti maestri… ma purtroppo maestri a se stessi. Verrà il tempo, infatti, in cui non sopporteranno la sana dottrina ma, per prurito di udire, si accumuleranno maestri secondo le loro proprie voglie… Altri sono come quel terreno roccioso… alla fine del culto hanno già dimenticato. Altri ancora sono entusiasti, accettano la Parola con zelo… ma poi durante la settimana le spine soffocano ogni pianticella che il seme della Parola aveva fatto spuntare. Ma il fondamento del risveglio è la Parola…. E riscoprire il valore della Parola di Dio ha sempre determinato risvegli in ogni epoca del nuovo, del vecchio testamento e della storia della chiesa.
– Erano perseveranti nella comunione; si amavano e si cercavano; il mondo riconosceva che erano persone speciali, per l’amore che avevano gli uni per gli altri.
– Erano perseveranti nel rompere il pane… ogni giorno, di casa in casa. Ricordavano la morte del Signore, e questo atto li univa nello Spirito per essere un corpo solo e fare ogni cosa nel pari consentimento.
- Perseveravano nella preghiera: un risveglio è sempre preceduto e seguito da una chiesa che prega tanto. Il segno più evidente del letargo spirituale della chiesa oggi è la mancanza di preghiera. Di quanto poco interesse questo soggetto eserciti sui credenti. Le riunioni di preghiera sono disertate dai più, diventano la cenerentola delle riunioni. Eppure dovremmo sapere che « il nostro combattimento non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potestà, contro i dominatori del mondo di tenebre di questa età, contro gli spiriti malvagi nei luoghi celesti. » E dovremmo sapere anche che le armi della nostra guerra non sono carnali, ma potenti in Dio a distruggere le fortezze… » e questa battaglia si vince solo per mezzo della preghiera. Questa forza spirituale si ottiene solo nella preghiera. Quando i santi pregano, l’inferno trema, perché sa che il suo regno è in pericolo.

Conclusione:
- Vediamo i segni dei tempi: Gesù sta per tornare: le vicende del mondo ce lo attestano: guerre, rumori di guerre, conseguenze incalcolabili.
- Peccato dilagante e ormai senza più freni o inibizioni di sorta.
- Sette religiose e pseudoreligiose che si dichiarano « risvegliate », avanzano e conquistano i posti più importanti della politica e dell’economia.
- L’Islam si diffonde e si espande minacciosamente.
- Il terrorismo e la minaccia nucleare alimentano le paure e le ansie degli uomini.
- Come chiesa del Signore non possiamo restare inattivi, non possiamo « dormire » ma dobbiamo reagire al grido dello Spirito che ripete ancora: Risvegliati!
- Risvegliati Chiesa del Signore, alzati come un solo uomo e « combatti » per innalzare l’Evangelo di Gesù Cristo, unica speranza per questo mondo disastrato.
Sorelle e Fratelli cari, la nave di questo mondo sta per colare a picco! Non possiamo dire: « Si salvi chi può », « ognuno pensi per se ». Gesù disse che chi tenterà di salvare la sua vita la perderà. Ma chi la perderà per il Signore la guadagnerà.
Aiutaci, Signore, a non dormire come Giona: che ci sia un vero risveglio nella nostra comunità e nella nazione. Che ognuno di noi sia coinvolto per portare un frutto eterno alla gloria di Dio, benedetto in eterno.

SALMO 16 (15) FIDUCIA, OLTRE LA MORTE.

http://www.padresalvatore.altervista.org/Salmo16.htm

SALMO 16 (15) FIDUCIA, OLTRE LA MORTE.

(Padre Salvatore)

Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto a Dio: «Sei tu il mio Signore,
senza di te non ho alcun bene».
Per i santi, che sono sulla terra,
uomini nobili, è tutto il mio amore.
Si affrettino altri a costruire idoli:
io non spanderò le loro libagioni di sangue
né pronunzierò con le mie labbra i loro nomi.

Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi,
è magnifica la mia eredità.
Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio cuore mi istruisce.
Io pongo sempre innanzi a me il Signore,
sta alla mia destra, non posso vacillare.
Di questo gioisce il mio cuore,
esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,

perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro,
né lascerai che il tuo santo veda la corruzione.
Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena nella tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.

VERSIONE DI D.M. TUROLDO

Fa’ che il tuo cuore sia la mia custodia,
ove riponga tranquillo la fiducia, Signore.

Ho detto a Dio: Signore,
tu sei il mio unico bene.

Non più simulacri di santi,
potenze profane adorate sulla terra:
sequela di idolo, di un dio straniero,
molta pena con sé comporta.

Non più verserò le lor libagioni di sangue,
né il lor nome infetti più la mia bocca.

E’ lui, il Signore, la mia porzione,
mio calice, mio destino.

Delizioso è quanto mi hai dato in sorte,
veramente splendida è la mia eredità.

Benedico il Signore che la mente m’ispira
e i reni miei illumina pure la notte.

Sono fissi al Signore gli occhi miei per sempre,
con lui a fianco, incertezza non scuote.
Gioiscono cuore e sensi per questo e tripudiano:
tutto il mio essere riposa sicuro.

Non è da te abbandonare una vita agli Inferi,
lasciare che la fossa inghiotti un fedele.
Tu la via alla vita m’insegnerai:
oh, la gioia al vedere il tuo volto,
solo gioia lo starti vicino!

Il Sal 16 (15) è un salmo di fiducia.
La speranza che esso esprime, la potremmo chiamare “neotestamentaria”, perché sa sfidare il limite invalicabile dello Sheol e della stessa morte.
La tradizione cristiana ha considerato il Sal 16 messianico. L’Apostolo Pietro, dopo la Pentecoste, utilizzò i vv. 8-11 nella sua apologia del Cristo risorto (At 2,25-28.31); e Paolo, argomentò in modo analogo, citando lo stesso salmo, nel suo discorso nella sinagoga d’Antiochia di Pisidia (At 13,35).
In questa prospettiva il salterio monastico utilizza questo salmo per i primi vespri della Domenica, anticipando, con ciò, il mistero della risurrezione che si celebra nella Pasqua settimanale.
Il Salterio romano usa il salmo 15 (16) per la compieta del giovedì, ponendo l’accento sul tema della fiducia, presente nel salmo e nell’ora liturgica celebrata.
Il lezionario dei Santi lo applica a san Francesco e ad altri Santi Religiosi che hanno scelto Dio come “unico bene”.
Il testo liturgico attuale deriva dalla versione greca dei LXX, secondo l’uso degli Atti degli Apostoli. Anche così, possiamo dare a questo salmo il titolo “Il canto della mistica” (G. F. RAVASI), perché narra un’esperienza assolutizzante di Dio, quale, appunto fu quella di Francesco d’Assisi.
Stando al testo ebraico, cui si rifà la versione di TUROLDO, l’esperienza religiosa descritta dal salmo, è più tormentata e sofferta, perché è la narrazione della crisi di fede di un levita che è ritornato al suo Dio, dopo un periodo d’apostasia e di sincretismo. “I santi”, cui si sono versate “libagioni di sangue”, sono i Baal il cui culto prevedeva anche il sacrificio cruento dei primogeniti.
Più che un salmo francescano, risulta essere, allora, una confessione agostiniana. Il Salmista potrebbe dire con il Vescovo d’Ippona: “Tardi t’amai Bellezza sempre antica e sempre nuova. Tardi t’amai!”.

“Adonai, tu sei il mio TOV”
Dio tu sei il mio bene, la bontà che mi avvolge, la bellezza che mi affascina (v. 2). Dio è ora percepito come “il bene”, “la Bontà”, nel senso precisato da Gesù nella risposta al “giovane ricco” in Mc 10,18 e Mt 1917. Chi ha incontrato il Signore, scopre che tutti gli altri valori possono e debbono essere “venduti” per Lui (Mc 10,21).
“Adonai, tu sei il mio TOV!” Tradotto in latino: “O Bonitas!”. È l’esclamazione con cui il fondatore della Certosa, san Bruno, esprimeva la sua esperienza di Dio. È l’esperienza che lo Spirito Santo cerca di suggerire ad ognuno di noi.

Non più… non più… non più… (v. 3-4).
Il sì radicale detto a Dio suppone la rinuncia a tutto ciò che non è Dio. Richiede uno stacco definitivo dal passato idolatrico e sincretista (cf. 1Re 14,22-24) che hanno portato (forse) il sacerdote che prega nel salmo, fino alle “libagioni di sangue”, cioè al sacrificio cruento dei primogeniti (cf. Sal 106,35-38). La crisi, superata con una vera conversione, è stata molto più terribile di quella descritta da un altro Levita, nel Sal 73,28.
Adesso, però, anche la sola invocazione dei nomi dei Baal (che è una forma d’adesione all’idolo), sarà evitata. Ora la sua bocca canterà soltanto le lodi del Dio d’Israele.

“Il Signore è mia parte d’eredità” (v. 5).
È questo il corrispettivo dell’appartenenza reciproca (l’Alleanza) rinnovata tra il Signore e l’orante.

“Il Signore… i reni miei illumina pure la notte” (v. 7).
Dio è un patner serio. Da adesso in poi guida il suo fedele e fa in modo che la sua coscienza ( i “reni” come sede dell’emotività) suggerisca azioni conformi alla Legge divina. La stessa trasmissione della vita (altro significato dei reni) è guidata e protetta dall’intervento personale di Dio.

“Il Signore, sta alla mia destra” (v. 8).
A differenza dei Baal di cui toccavi solo un simulacro, l’invisibile Jhwh è un Dio di cui percepisci la presenza e la cui vicinanza non t’atterrisce, anzi ti dà pace e serenità.

“Non abbandonerai la mia vita nello Sheol” (v. 9).
L’uomo è fatto di fango ed è votato alla morte (cf. Gen 3,19); tuttavia se nei confronti di Dio è un fedele (chasid), il Signore lo strapperà dalle fauci dello Sheol. Così la morte non potrà dichiarare di aver vinto definitivamente sul credente. La fossa (Ebraico: shachat), non sarà automaticamente “corruzione” (Greco: diaphtorà, come traduce la LXX, ripresa dai testi citati dagli Atti degli Apostoli).

Oh, la gioia al vedere il tuo volto! (v. 11b).
Vedere il volto di Dio è un modo per dire di essere nel Tempio, dove c’è gioia e delizia, sempre.

“Senza fine alla tua destra” (v. 11c).
È Cristo che canta. Lui che s’è assiso, per sempre, alla destra del Padre, in nostro favore (cf. Rm 8,34; Eb 10,12; 1Pt 3,22).

Preghiera
Dio, fonte d’ogni intelligenza e luce che illumini i cuori,
se tu ci accompagni nel nostro cammino,
a nessun’incertezza soccomberemo:
e quando saremo al termine del lungo viaggio,
riposeremo senza fine in te,
che sei la sola ragione della nostra gioia. Amen.

(David Maria Turoldo)

 

COME È POSSIBILE CHE DIO ABBIA CREATO L’UNIVERSO IN SEI GIORNI?

http://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Come-e-possibile-che-Dio-abbia-creato-l-universo-in-sei-giorni

COME È POSSIBILE CHE DIO ABBIA CREATO L’UNIVERSO IN SEI GIORNI?

Ancora una lettera sul racconto biblico della creazione. Risponde don Francesco Carensi, docente di Sacra Scrittura.

Percorsi: BIBBIA – SCIENZA E TECNICA – SPIRITUALITÀ E TEOLOGIA Parole chiave: creazione (5) 25/06/2014   Seguo sempre con interesse i dibattiti che riguardano la Scienza e la Fede, entrambe a servizio della Verità, che è Dio. Volevo partire con una domanda, perché sapersi porre le giuste domande è la strada che porta a trovare la verità; per cui chiedo: può Dio aver creato tutto l’universo in soli 6 giorni di 24 ore, ed essersi riposato il settimo? Emanuele Giannetti

Quando leggiamo i primi capitoli della Genesi che cosa ci aspettiamo? La fede e la scienza si interessano degli stessi temi, ma secondo prospettive diverse: la scienza si interessa del «come» dati fenomeni accadono e siano accaduti, la fede al senso e al «perché» . Forse pensiamo che ci sia opposizione fra le due? Pensiamo che la ricerca scientifica sia di ostacolo alla vita di fede o viceversa che la fede limiti la scienza? Siamo d’accordo con l’affermazione di Wittgenstein: «Noi sentiamo che, anche dopo che tutte le proposizioni o domande scientifiche hanno avuto una risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati». L’evoluzionismo darwiniano e la teoria del big bang hanno costituito nel passato una sfida per la dottrina della Chiesa. Oggi tali ipotesi scientifiche sono comunemente accettate e nessuno legge più letteralmente il testo di Genesi 1, ma si coglie in esso una storia di salvezza. Il creato è cosa di Dio, primo tempio in cui si manifesta l’azione divina. La vita in mezzo al creato deve essere una liturgia continua, un rendimento di grazie attraverso il tempo. La creazione è un atto di potenza e bellezza e armonia. Il protagonista dell’Idiota di Dostoevskij, principe Myskin non risponde esplicitamente, ma il suo atteggiamento  compassionevole, di commozione per le miserie altrui, fa trarre come conseguenza, che la bellezza che salverà il mondo sia l’amore che condivide il dolore. Il termine ebraico tob usato da Genesi 1, indica tanto «bello» quanto «buono». Perché gli ebrei hanno nel primo racconto della creazione parlano di sette giorni? A Babilonia gli ebrei erano venuti a contatto con le tradizioni religiose di quel popolo, al centro del quale c’era la figura principale del Dio di quella città, Marduk. In onore di questo Dio, per la festa del nuovo anno, era composto un poema, che cantando le lodi di Marduk, raccontava le origini del mondo. Questo poema è noto come Enuma elish, E racconta che alle origini del mondo vi fu la lotta di due divinità primordiali, una maschile e l’altra femminile, che fu la madre degli altri dei. Al termine di questa lotta, Marduk sconfigge sua madre e la spezza in due, costruendo con le due metà della dea il firmamento e la terra. Dopo questa battaglia gli dei decidono di creare l’uomo, che viene fatto modellando del fango impastato con il sangue di un Dio ribelle. L’uomo è mescolanza di umano e divino, è creato per essere schiavo degli dei. I sacerdoti ebrei sentono il dovere di rispondere a questa visione del mondo, e creano così il racconto di Genesi 1,1-2,4a , nel quale il Dio di Israele crea da solo, e non deve combattere contro alcuno per creare il mondo. L ’uomo viene creato come essere libero, e non come schiavo degli dei. Dio non crea per necessità, ma per amore; è un testo di grande speranza. Il testo usa lo stesso linguaggio dei babilonesi, linguaggio del mito che l’autore biblico critica. La presenza del numero sette è ricorrente: sette giorni, il primo versetto composto da sette parole, il versetto 2 da 14 (7×2), il termine «Dio» si trova 35 volte (7×5), l’espressione «cielo e terra» 21 volte (7×3). Per sette volte il verbo «creare». Dunque lo schema settenario, sette giorni, è usato dai sacerdoti per esprimere la completezza della creazione che ha il vertice nella creazione dell’uomo il sesto giorno («era cosa molto buona») e il settimo giorno il riposo di Dio al quale l’uomo partecipa ricordando che il primato di ogni opera e attività è di Dio.

Francesco Carensi

UN PADRE FEDELE – GEREMIA CAP 30-33

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16441.html

UN PADRE FEDELE – GEREMIA CAP 30-33

don Marco Pratesi

Nel libro di Geremia i cc. 30-33 costituiscono un « libretto della consolazione », nel quale oracoli pronunziati in situazioni diverse sono raccolti e letti in prospettiva unitaria come annunzio di una restaurazione di tutto Israele (regni del nord e del sud), che non è semplice ritorno al passato ma creazione di qualcosa di nuovo. Il presente breve testo invita alla gioia, perché il Signore sta comunque portando avanti il proprio disegno di salvezza. Per noi non ha molta importanza se il profeta, all’inizio del suo ministero (al tempo del re Giosia e della sua riforma religiosa), si stia rivolgendo al regno del nord (Efraim, Israele), come sembra più probabile, oppure abbia presente Giuda, come di solito avviene. L’essenziale è che egli vede avanzare la salvezza di Dio, nella forma di un ritorno in massa degli Israeliti dispersi. Nonostante le intricate e dolorose vicende storiche, nelle quali Israele sembra oramai sul punto di dissolversi, Dio intende rimanere fedele al suo popolo, mantenendogli il suo speciale status di primogenito fra le nazioni. E’ noto che il primogenito godeva di una posizione del tutto speciale tra i figli (cf. Gn 27; Es 4,22-23; 13,11-16). Israele è ancora « la prima tra le nazioni », il capo tra i popoli (v. 7). Nonostante le apparenze contrarie, la dispersione e la decimazione, tutto ciò rimane. Certo, l’attuazione del proposito di Dio passa attraverso una purificazione dolorosa: ciò che torna in patria è pur sempre un resto (ibidem). Una simile esperienza, un simile passaggio nel crogiolo (cf. 9,7), significa la caduta di ogni presunzione di sé e l’ingresso in una nuova dimensione di fede. Ma proprio per questo il legame tra Dio e il suo popolo non solo non è abolito, ma risulta addirittura approfondito: è il tema della nuova alleanza (cf. 31,31-34). Israele non dirà più a un pezzo di legno « Tu sei mio padre », e alla alla pietra: « Tu ci hai dato la vita » (2,27); all’invocazione « Padre mio, tu sei l’amico della mia giovinezza » non si accompagnerà più l’ostinazione nella pratica infedeltà idolatrica (3,4; cf. 3,19). Finalmente Dio potrà dire in verità: « io sono un padre per Israele » (v. 9). A questa più consapevole e umile fiducia Dio risponde donando un ritorno piano, tranquillo, senza ostacoli, agevole anche per i più impediti: lo zoppo, il cieco, l’incinta, la partoriente. Il piano di Dio non si arresta, mai; procede e si approfondisce nonostante, anzi proprio attraverso, gli ostacoli. Siamo chiamati a vivere sempre più e meglio l’esperienza della paternità di Dio, che ci libera dalle dipendenze idolatriche e ci fa scoprire la nostra identità vera nell’essere suoi figli amati. Tutto ciò si realizza attraverso la spoliazione da ogni preteso diritto alla cura paterna di Dio: più profondamente accogliamo questa « umiliazione », più l’intervento di Dio si fa forte, spianando davanti a noi ogni ostacolo. Sarà l’esperienza di Gesù di Nazaret, colui che, definitivamente, è il capo di quel corpo che è la nuova umanità, e il primogenito dei risorti (cf. Col 1,18).

 

L’INNAMORATA DEL CANTICO

http://www.christusrex.org/www1/ofm/mag/TSmgitB2.html

la terra santa – rivista bimestrale della custodia francescana di terra santa

marzo – aprile 1998

L’INNAMORATA DEL CANTICO

SR ELENA BOSETTI, SGBP

Il Cantico dei Cantici ci ripropone nella sua freschezza il progetto originario, la reciprocità uomo-donna che il peccato degli inizi ha trasformato in dominio dell’uno sull’altra. Così con la pagina del cantico ci ricolleghiamo idealmente all’inizio del nostro itinerario, al canto d’amore della prima coppia umana.
I protagonisti del Cantico sono due giovani che condividono l’esperienza pastorale. « A contatto con le cose create da Dio, intatte come appena uscite dalla sua mano, i due giovani scoprono se stessi come avvolti nel grande flusso dell’Amore, realtà divina presente nel mondo che vince la morte. E questa scoperta avviene a partire dalla loro condizione di pastori, a contatto diretto con la natura » (E. Bosetti, La tenda e il bastone, Cinisello B. 1992, 134).
Invochiamo lo Spirito dell’amore più forte della morte.

1. IN ASCOLTO
I due amanti del Cantico fanno la loro prima comparsa sotto la veste di un pastore e di una pastorella. La terminologia pastorale si coniuga con quella dell’amore nella sua fase di fidanzamento, quando passione, ricerca, desiderio, incontro – i motivi si susseguono in un circolo senza fine – si consumano in un’atmosfera rarefatta al confine tra il sogno e la realtà.

1.1. Attirami dietro a te!
Il brano che apre il cantico (1,1-4) è simile a un’ouverture musicale: è un tutto compiuto, ma aperto a sviluppi ulteriori. Inizia il canto come solista la donna e il motivo dominante è quello del desiderio:
« Mi baci coi baci della sua bocca » (v. 2a).
Notiamo subito: non già due bocche che s’incontrano, ma piuttosto due bocche che si cercano, brama di ciò che si vorrebbe ma che ancora non si ha. Oppure: di ciò che si è già gustato e che ci ha conquistate con il suo ineffabile sapore e profumo, e che però ha lasciato un desiderio insopprimibile di rivivere quell’esperienza:
« poiché più soavi del vino sono le tue coccole… » (dodêka: v. 2b)
Amore, tenerezza, coccole, intrecciate con il simbolismo del vino, di grande rilievo nella Bibbia e nella letteratura orientale. Il v. 3 sottolinea la « fragranza », il senso dell’odorato. Il profumo ha un’importanza fondamentale in Oriente! Ebbene la giovane donna canta che il suo profumo è proprio lui, l’amato. Si nota un gioco lessicale tra shem (nome) e shemen (profumo). La tua presenza è il mio profumo!

« Attirami (rapiscimi!) dietro a te, corriamo » (v. 4)
La giovane esprime il desiderio di essere introdotta nella stanza nuziale, nell’alcova del re-pastore per gioire e far festa, per assaporare (« ricordare ») le sue tenerezze. Il testo esprime un forte desiderio d’intimità e si muove su un doppio piano. Infatti la parola hadar, che abbiamo tradotto con alcova, indica letteralmente « le stanze interne » (allusione alla stanza interna del Tempio, il Santo dei santi?)) e il far festa è al contempo « un ricordare », un celebrare. Portami – sembra dire la giovane innamorata – dove si possa far memoria della nostra storia d’amore. Dammi di assaporare ciò che mi hai fatto gustare! A questo punto c’è il passaggio dall’io al noi: « Di te ci si innamora »! E’ un contagio d’amore.

1.2. Dimmi dove pascoli il gregge!
In Ct 1,5-8 abbiamo l’autopresentazione della donna in una cornice pastorale. Immaginiamo la scena: lei in primo piano e sullo sfondo le figlie di Gerusalemme (coro). Lei si presenta alle amiche. Racconta di sé, della sua figura (scura ma bella), della sua storia d’amore (non ha saputo custodire la sua vigna). Ma al v. 7 il discorso cambia direzione: dal voi passa al tu. Mentre sta parlando alle amiche, la giovane si rivolge direttamente a lui come se fosse presente. Lui però non c’è. Ci sono le figlie di Gerusalemme. Ma lei si volge a lui in prima persona: « dimmi »!

« Amore dell’anima mia dimmi dove vai a pascere il gregge » (Ct 1,7).
La risposta, di fatto, viene dal coro:
« Segui le orme del gregge… » (Ct 1,8).

Cerchiamo di approfondire i vari elementi.
- Lo scenario: è l’ora del meriggio, assolata, capace di dare alla testa…
- Sulle piste infuocate dei beduini, una donna.
- Scura ma bella. Una bellezza che fa armonia con l’ambiente pastorale in cui lei vive. La pelle scura è il risultato della sua vita esposta al sole.
Dunque una bellezza feriale, non sofisticata.
- Controllo e opposizione inutili da parte dei suoi fratelli. Lei, benché giovane, ha il coraggio della propria autonomia.
- La donna invoca l’amato: « dimmi dove pasci! »
- E il coro indica una sicura pista di ricerca: « segui le orme del gregge ».

Dunque: dalle orme del gregge al ritrovamento del pastore.
L’amore si profila già come continua ricerca, con la pazienza di passare attraverso delle tracce: non direttamente le orme del pastore, ma quelle del gregge. Una ricerca « mediata », nella convinzione che dove si trova il gregge lì è il pastore.

1.3. Il mio diletto è mio e io sono sua
Ci fermiamo sul brano 2,8-17. Si trova subito dopo il « duetto dell’incontro » (Ct 1,9-2,7), il canto estasiato di due innamorati abbracciati senza vergogna (come nel giardino dell’Eden), estasiati l’uno dell’altro. E’ un duetto che non conosce i falsi pudori e che ricorre alle immagini più ardite per descrivere la bellezza della persona amata. Questa volta è lui a cominciare, ma l’ultima parola tocca a lei: « Figlie di Gerusalemme vi scongiuro, non destate l’amore finché non lo desideri » (2,7).
Ct 2,8-17 ci ambienta in una scena stupenda, di primavera. E’ di nuovo lei che prende l’iniziativa. Si noti la tensione progressiva:

- la voce
- i passi
- gli occhi
- il « nostro muro », quello dell’incontro, degli appuntamenti… ma che ora impedisce di vedere, perché Lui è al di là del muro…
- e di nuovo la voce, ormai decifrabile. Sono parole sognate e invocate.
Lei aveva supplicato: « Rapiscimi! » (1,4). Lui ora le dice: « Vieni via! ». Corri via con me! C’è perfetta corrispondenza tra lei che vede lui dalle inferiate e lui che vede lei come colomba tra la roccia.
In sequenza: volto – voce – voce – volto.
Il v. 15 che ha suscitato le interpretazioni più stravaganti:
« Catturateci le volpi / le volpi piccoline
che devastano le vigne / le nostre vigne in fiore ».

Le piccole volpi potrebbero essere, secondo alcuni esegeti, i cuccioli degli sciacalli golosi dei grappoli d’uva in maturazione. Dato però il simbolismo vigna – corporeità femminile, si può intendere l’immagine delle volpi piccoline come ciò che attenta l’amore nella sua integrità.

La donna del cantico ribadisce la sua fedeltà e il desiderio di lui:
« Il mio amato è mio e io sono sua,
di lui che pasce tra i gigli » (v. 16).

E’ una formula di mutua appartenenza, di alleanza sponsale. Si canta la gioia ineffabile della reciproca appartenenza.

1.4. Verso l’amore che non ha tramonto
Ci fermiamo su Ct 7,11-8,7. In questo brano vengono ripresi elementi già noti e raccolti in un vertice sublime dove la donna non sperimenta più il dominio dell’uomo, ma invece la gioia del suo appassionato desiderio. Viene invertita la formula di Gen 3,16. Mentre Gen 3,16 attesta al contempo attrazione e dominio:
« Verso tuo marito (il tuo uomo) sarà la tua passione
ma egli ti dominerà »,

in Ct 7,11 la donna, usando le stesse parole, capovolge la situazione:
« Io sono per il mio diletto
e verso di me è la sua (di lui) passione » (Ct 7,11).

Tra i due amanti del Cantico vi è reciprocità piena, senza alcuna violenza e sopraffazione dell’uno sull’altro, senza prepotenza maschile. Lei chiede di essere posta come perenne segno d’amore sul cuore e sul braccio di lui. In modo che anche i momenti di lontananza e di inevitabile separazione siano legati dal ricordo dell’amore e dal desiderio di un nuovo incontro:
Mettimi come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l’amore,
tenace come gli inferi è la passione:
le sue vampe son vampe di fuoco,
una fiamma del Signore!
Le grandi acque non possono spegnere l’amore
né i fiumi travolgerlo.
Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa
in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio (Ct 8,6-7).

Il pensiero corre all’Apocalisse, alle nozze definitive della Sposa con l’Agnello… ma il testo ci provoca più radicalmente a vivere la vita presente come questione di amore. Nella prospettiva del Cristo che ha teneramente amato la sua Chiesa e si è dato tutto per lei (cf. Ef 5,25).
La vita cristiana è decisamente questione di amore sia in rapporto al Diletto pastore, sia in rapporto al gregge di Lui. Esempio tipico di questa sintesi può essere ritenuto Gv 21: Mi ami? Pasci! Seguimi!

Concludo con questa pagina di S. Teresa di Gesù, Dottore della Chiesa:
Gesù mio!… Chi potrà far intendere quanto ci sia vantaggioso gettarci fra le braccia di Dio e stabilire con sua Maestà questo patto: Io mi curerò del mio Diletto e il mio Diletto si curerà di me; Egli veglierà sui miei interessi e io sopra ai suoi?
… Torno a dirvi e a supplicarvi, mio Dio, di concedermi per il sangue di vostro Figlio, ch’Egli mi baci col bacio di sua bocca.
Che cosa sono senza di Voi, o Signore?
Che cosa valgo se non sono unita a Voi?
E dove vado a finire se anche per poco mi allontano da Voi?
(S.Teresa di Gesù, Pensieri sull’amore di Dio, IV,7: Opere, Roma 1992, 1012).

 

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