Archive pour la catégorie 'BIBLICA – COMEMNTI ALLE LETTURE DELLA DOMENICA'

PRIMA LETTURA – ATTI DI APOSTOLI 5, 27B-32. 40B-41 – MARIE-NOËLLE THABUT

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COMMENTI DA MARIE-NOËLLE THABUT, DOMENICA 10 APRILE 2016

(traduzione Google dal francese)

PRIMA LETTURA – ATTI DI APOSTOLI 5, 27B-32. 40B-41

Gli Apostoli erano appena stati frustati a causa del loro parlare di Gesù. Essi vengono rilasciati e, che quando lasciano la corte, Luca dice: « Sono andati via rallegrandosi d’essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. » Come se fossero stati decorati… decorati con il titolo di « profeti ». Forse l’hanno poi ripensato alle parole di Gesù: « Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi e insulti respingono e proscrivere vostro nome come malvagio, per il Figlio uomo. Rallegratevi in ??quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli; è infatti allo stesso modo facevano i loro padri, i profeti. « (Lc 6, 22-23). Si ricordano, inoltre, che la frase che Gesù aveva detto: « Mi hanno perseguitato, perseguiteranno anche voi. « (Gv 15, 20). Ecco, quanto è successo? Questa non è la prima volta che gli Apostoli Pietro e Giovanni hanno portato davanti al Sinedrio, vale a dire, la corte di Gerusalemme, lo stesso che condannò Gesù qualche settimana prima; già una volta dopo la guarigione dello zoppo della Porta Bella, un miracolo che aveva fatto un sacco di rumore in città, sono stati arrestati, incarcerati durante la notte, poi messo in discussione e ha permesso di parlare; ma erano stati finalmente rilasciato. Al momento del loro rilascio, avevano cominciato a predicare ed a fare miracoli. Così hanno arrestato una seconda volta, imprigionati … ma erano miracolosamente consegnati durante la notte da un angelo del Signore. Ovviamente, questo è miracolosa liberazione galvanizzare solo le loro energie! E cominciarono a predicare più forte. Ed è qui che siamo con la lettura di questa Domenica. Così sono di nuovo arrestati e portati davanti alla corte. Il sommo sacerdote li interrogò, noi guadagnare la risposta bella di Pietro: « Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. « E Pietro alla corte una breve sintesi del suo intervento precedente; a poco a poco disse loro questa: ci sono due logiche, la logica di Dio e degli uomini; la logica degli uomini (che significa il vostro, si tribunale ebraico), vale a dire, un criminale, è soppresso, e dopo la sua morte, nessuno lo farà ancora fare per pubblicizzare! Gesù, agli occhi delle autorità religiose, era un impostore, è stato rimosso, questo ha un senso! E ‘anche il dovere di evitare che le persone indottrinare troppo inclini a fare affidamento su una presunta Messia. Condannato, eseguito, appeso alla croce, è un maledetto di Dio è maledetto. E ‘stato scritto nella legge. Ma poi, la logica di Dio, è un’altra cosa: sì, si eseguisse, appesi alla forca della croce … Ma, contro ogni aspettativa, non solo non è maledetto da Dio, ma, invece, egli è stato sollevato da Dio, è diventato il capo del Salvatore: « egli è Dio, con la sua mano destra, lo sollevò dal Principe e Salvatore, per dare a Israele conversione e il perdono dei peccati . « Quest’ultima frase è un enormità di orecchie ebrei: se la conversione e il perdono dei peccati è presente nell’elenco di Israele, vuol dire che le promesse sono soddisfatte. Questa garanzia degli Apostoli, che nulla sembra silenzio può esasperare solo i giudici; e molti di loro non vedono più una soluzione: cancellare la abolito Gesù; questo è dove un uomo straordinario, Gamaliele, il ragionamento dovrebbe essere un modello per noi, quando ci troviamo di fronte a iniziative che non amano. Purtroppo, la lettura liturgica di questa Domenica non mantiene episodio di Gamaliele passa direttamente dalle parole di Pietro per la decisione del tribunale; gli apostoli non sono condannati a morte come alcuni vorrebbero, abbiamo semplicemente li frusta e che vengono rilasciati. Ma prendere il tempo di leggere i versi che mancano; Così Peter appena detto, « Noi siamo testimoni di queste cose con lo Spirito Santo, che Dio dona a coloro che gli obbediscono » (il che significa che, in questo momento, non obbedisci Dio). Luca dice: « Esasperato da queste parole, stavano progettando di ucciderli. Ma un uomo si alzò nel Sinedrio; è stato un fariseo di nome Gamaliele, un dottore della legge onorato da tutte le persone « ; (Parentesi, era lui che fu il maestro di Saulo di Tarso, il futuro San Paolo; cfr At 22: 3); egli ordina a far emergere un momento Pietro e Giovanni, e si rivolge gli altri giudici; in sostanza, il suo ragionamento è il seguente: di due cose, o la loro attività viene da Dio … o no, sono impostori; e qui è la fine del suo discorso: « Se è che gli uomini solo il loro lavoro, sparirà da solo … se è di Dio, non sarà possibile farli sparire. Non cercate il rischio di ritrovarsi in guerra con Dio! « (Atti 5: 38-39). Se Gamaliele stava parlando oggi, senza dubbio avrebbe riconosciuto che la chiesa è una società di Dio per duemila anni ha resistito tutti, anche nelle nostre debolezze e le nostre debolezze! ——– complemento Gamaliele è un ottimo esempio del fariseo e ci dà l’opportunità di fare giustizia per la maggior parte di loro erano uomini di fede e di buona volontà. Attraverso questo episodio, ci stiamo avvicinando alla realtà storica del dibattito all’interno del giudaismo per la giovane comunità cristiana.

TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE (ENZO BIANCHI)

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TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE (ENZO BIANCHI)

La sequela di Cristo se ben vissuta diventa un’esperienza di bellezza, salvezza, trasfigurazione

Poco prima del brano che è stato proclamato nel vangelo secondo Luca, Gesù ha detto ai discepoli alcune parole importanti, di preparazione a questo evento della trasfigurazione: “In verità io dico a voi: ci sono alcuni qui presenti che non gusteranno la morte prima di aver visto il regno di Dio” (Lc 9,27). Dopo la confessione di Pietro, l’annuncio della sua passione, il richiamo alla sua sequela (cf. Lc 9,18-26), Gesù fa questo annuncio enigmatico: alcuni di quei discepoli stretti attorno a lui, i Dodici, vedranno il regno di Dio prima di morire. Gesù non solo aveva annunciato il regno di Dio come veniente, ma aveva fatto del regno di Dio il centro della sua predicazione. Gesù non ha parlato molto di Dio ma piuttosto ha annunciato il suo regno. Conosciamo bene la promessa che Gesù: “Il regno di Dio è vicino” (Mc 1,14; Mt 4,17), e questa era l’attesa che lui viveva e chiedeva ai discepoli di vivere. Il Dio di Gesù, il Padre suo, aspetta gli uomini non solo perché lo incontrino, ma per dare loro una terra nuova in cui sarà Signore e regnerà, ma una terra nuova dove gli uomini troveranno in pienezza e non più segnato dal male ciò che hanno trovato su questa terra. Gesù non a caso ha parlato molto del regno di Dio, o meglio lo ha evocato come terra nuova, come beatitudine, come banchetto e soprattutto come comunione tra uomini che hanno vissuto su questa terra. Come cristiani noi dovremmo essere più attenti: Gesù si è interessato più del regno di Dio che di Dio stesso, perché il regno di Dio è Dio con gli uomini, non senza gli uomini, non senza questo mondo.

Ed ecco, “otto giorni dopo” – precisa Luca – il compimento di questa promessa. Nell’ottavo giorno, il giorno della restaurazione di tutte le cose, il giorno del rinnovamento di tutta la creazione, dopo il settimo giorno del compimento, i discepoli vedono il regno di Dio promesso da Gesù e vedono come Dio regna. Ecco, nell’ottavo giorno dopo queste parole – e Luca insiste: “otto giorni dopo queste parole” – Gesù prende con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e sale sul monte a pregare. Ma mentre pregava “avvenne”, avvenne qualcosa, c’è stata un’azione che soltanto Dio poteva operare: il volto di Gesù diventò altro, le sue vesti di un bianco sfolgorante; non solo, accanto a Gesù così mutato nel suo aspetto, appaiono nella forma gloriosa Mosè ed Elia, viventi dunque nel regno di Dio. Non solo Gesù è nella luce, ma anche Mosè ed Elia sono nella luce, e la luce indica la gloria di Dio. Potremmo dire che questa è stata una manifestazione della gloria di Dio, del regno di Dio attraverso Gesù, Mosè ed Elia; ed è questo, per quanto è possibile, che i discepoli hanno visto. Avevano seguito Gesù coinvolti nella sua vita, avevano condiviso con lui per anni la quotidianità, avevano anche conosciuto Gesù nella sua fragilità, nella sua debolezza, ma ora lo vedono nella sua bellezza. Potremmo dire che la sequela dei discepoli diventa nella trasfigurazione anche un’esperienza estetica, un’esperienza di bellezza, contemplazione che provoca un rapimento, un ékstasis, un’uscita da se stessi, veramente rapiti dalla forza di ciò che è bello. I tre discepoli sono stati strappati agli altri nove, sono stati presi, portati dove con le loro forze non sarebbero mai giunti e sono rapiti dalla bellezza del regno di Dio. È il regno ciò che vedono, in cui c’è la vita eterna, in cui c’è l’Adam trasfigurato, che è Gesù Cristo con la sua carne gloriosa; è il regno nel quale vivono Mose ed Elia; è il regno in cui c’è comunicazione, grazie alla quale Mosè ed Elia parlano con Gesù. Mosè ed Elia hanno vissuto in questo mondo, ormai da secoli sono morti, ma nel regno continuano a vivere, e la loro comunicazione continua: come avevano comunicato quando erano sulla terra, comunicatori tra Dio e gli uomini, adesso sono in comunicazione con Cristo. Ma in questo evento glorioso Luca precisa che Mosè ed Elia “parlano con Gesù dell’esodo (éxodos), l’esodo che Gesù stava per compiere a Gerusalemme”; parlano della Pasqua prossima di Gesù; parlano – unico caso in tutto il Nuovo Testamento – dell’uscita di Gesù da questa vita, da questo mondo. Proprio Luca è il solo a parlare di “entrata” (eísodos: At 13,24) per l’incarnazione, parla di entrata nel regno per l’ascensione di Cristo (cf. Lc 24,51; At 1,9-11), e qui parla di éxodos, di uscita, dunque di quella che sarà la passione che si completerà nella morte di Gesù, la fine della sua vita. Gesù deve “compiere” – il verbo qui usato da Luca è molto significativo –, deve compiere il disegno di Dio assunto fin dalla sua vocazione, deve compiere questo passaggio in vista della gloria: di questo parla con la Legge e i Profeti. È una necessitas, è una necessità, una necessità dovuta a questo mondo, dovuta a questa umanità che siamo noi, segnata dal peccato. Proprio prima della trasfigurazione aveva annunciato: “È necessario (deî) che il Figlio dell’uomo soffra molte cose, sia respinto, sia ucciso e il terzo giorno risorga” (cf. Lc 9,22). È una necessità perché non può essere diversamente. Non che ci sia un fato, non che ci sia un destino e neppure un decreto dall’alto. Non è il Padre di Gesù che lo vuole, ma questo è l’assetto di questo mondo e di questa umanità, perché gli uomini e le donne di questo mondo non sono capaci di giustizia, ma operano l’ingiustizia, quella che fa soffrire molte cose (pollà), quella che porta a respingere colui che è giusto.Siamo noi, il nostro mondo, la nostra umanità che non sopporta l’apparire della giustizia: quando appare la giustizia accade in noi una dinamica di odio, di inimicizia, di rigetto, non sopportiamo di vedere la giustizia. Così è avvenuto a Gesù e così avviene a ogni cristiano che vuole restare nel regime della giustizia, che non vuole sedurre, che non vuole compiacere, che non vuole essere lui l’idolo acclamato dagli altri. Le sante Scritture dell’antica economia, insieme concordi, confermano a Gesù la necessitas della passione, del soffrire molte cose. Ora, per tutti la morte è un evento doloroso, perché avviene nella sofferenza psichica e fisica, ma nel caso dell’esodo di Gesù c’è un aggravamento, c’è un accrescimento di sofferenza, perché la sua è anche una sofferenza spirituale, una sofferenza nello spirito, quello spirito che ha animato e ispirato la sua vita e che vive la più grande contraddizione proprio in occasione del suo esodo da questo mondo. Non si può ridurre la passione di Gesù soltanto alle sofferenze della tortura e della crocifissione, alle sofferenze fisiche. Io credo che è solo per questo che gli evangelisti, e Luca in particolare (cf. Lc 22,39-46), testimoniano la sofferenza di Gesù più nell’orto degli ulivi, dove c’è stata la sua sofferenza nello spirito, che non nel momento delle angherie dei soldati o nell’ora della croce. È stata una sofferenza soprattutto interiore quella di Gesù, la sofferenza faticosa di chi legge l’esito della propria vocazione e della propria missione, di chi conosce e misura la viltà, la tiepidezza, l’inconcludenza e soprattutto la menzogna che gli regnavano attorno. È una necessità per Gesù affrontare quell’ora dell’esodo, dell’uscita da questa vita nella forma che il profeta deve vivere – morire a Gerusalemme (cf. Lc 13,33) –, o meglio, nel linguaggio di Gesù, compiere ciò che è giustizia (cf. Mt 3,15) a Gerusalemme.

Di questo evento della trasfigurazione i discepoli vedono solo la luce la gloria, lo splendore; solo Gesù, Mosè ed Elia vivono questo evento conoscendo anche la necessità della passione. Non è un caso che i discepoli Pietro, Giovanni e Giacomo, qui testimoni della gloria, erano pure oppressi dal sonno, ma restarono in veglia per contemplare la bellezza del loro rabbi e profeta; ma proprio questi tre, i più vicini a Gesù, nell’ora dell’esodo di Gesù saranno “addormentati a causa della tristezza” (apò tês lýpes: Lc 22,45), nonostante il triplice invito di Gesù a vegliare e pregare per non entrare in tentazione. Là dormiranno, cioè non saranno presenti, non saranno svegli, sicché poi nell’esodo Gesù sarà completamente solo, con la sola certezza che doveva compiere (pleroûn) ciò che doveva essere fatto, senza arretrare, perché altrimenti avrebbe smentito il suo passato, la sua vita. Ma ecco l’altro evento, introdotto da Luca di nuovo con il kaì eghéneto: “E avvenne, una voce dal cielo dicente: “Questi è il mio Figlio, l’eletto; ascoltate lui!”. Al cuore della trasfigurazione, di quella conversazione sull’esodo pasquale di Gesù, c’è la voce del Padre che conferma che Gesù è suo Figlio, che Gesù è proprio l’uomo che lui ha scelto. Ormai occorre ascoltare soltanto lui, Parola del Padre, Parola in cui sono eloquenti Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti, Parola sola, che resta sola. Questo l’essenziale messaggio della trasfigurazione, messaggio rivolto a tutti noi, ma in modo particolare questa sera a Fabio, nostro fratello. La vita monastica è una chiamata a vivere con particolare consapevolezza la ricerca, la visione del volto di Dio che è Gesù Cristo. La vita monastica è una vocazione alla contemplazione della bellezza; anzi, la bellezza deve riverberarsi nella vita di un monaco. Gregorio di Nazianzo dice che Gesù per un monaco è la bellezza oltre ogni speranza, e proprio questa bellezza di Gesù deve compiere un’azione di trasformazione nella vita del monaco. Agostino nella sua Regola afferma che i monaci devono essere degli innamorati della bellezza, “spiritalis pulchritudinis amatores” (VIII,48), uomini ardenti di amore, innamorati della bellezza, capaci di diffondere il profumo di Cristo: questa è la loro vocazione! E Fabio non deve dimenticare mai che questo è un compito, un esercizio da rinnovarsi ogni giorno contro la bruttezza che magari altri scaglieranno, contro la banalità, contro la mancanza di stile, contro il lasciarsi trascinare, tutte cose che possono accadere anche nella comunità monastica. Ma un monaco che adempie la sua vocazione non permette alla bruttezza che lo attornia di offendere o attutire quella bellezza che gli può dare Cristo.

«MARIA SI MISE IN VIAGGIO VERSO LA MONTAGNA E RAGGIUNSE IN FRETTA UNA CITTÀ DI GIUDA» (LC 39-40).

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LA GRAZIA DI DIO NON CONOSCE RITARDI   «MARIA SI MISE IN VIAGGIO VERSO LA MONTAGNA E RAGGIUNSE IN FRETTA UNA CITTÀ DI GIUDA» (LC 39-40).

È una bella immagine questa di Maria, giovane ragazza coraggiosa e determinata, che, aggregandosi a qualche carovana in marcia verso Gerusalemme, “in fretta” vuole raggiungere l’anziana cugina ad Ain Karen, quasi 150 km a sud di Nazaret. Questo aspetto dinamico della Visitazione è sempre stata fonte di ispirazione e di riflessione per la Chiesa. La mariologia conciliare e quella contemporanea hanno continuato a mettere in rilievo questa “itineranza” di Maria, vedendovi in essa un modello per l’intera Chiesa vista come popolo in cammino verso Dio. Non solo ma anche per ogni singolo discepolo di Cristo alla sequela del Maestro (si veda anche il concetto di “peregrinatio fidei” di Maria in Lumen Gentium n. 58 e Redemptoris Mater n. 2). Come Gesù è la Via al Padre (Gv 14,6), la Chiesa ha sempre indicato Maria come la più perfetta discepola di Cristo (la prima vera “cristiana”), e quindi la via più sicura per andare a Lui e con Lui al Padre. Maria è la “Odighitria” cioè colei che indica la strada per andare a Cristo. L’evangelista Luca aggiunge che Maria aveva “fretta” di raggiungere Elisabetta e di mettersi al suo servizio. Una fretta divina (non quella nostra spesso di natura nevrotica), una fretta posta in lei dallo Spirito. Sant’Anbrogio scriverà: “La grazia dello Spirito Santo non conosce ritardi”. Chi è guidato dallo Spirito non indugia in calcoli umani, spesso solo umani e quindi egocentrici. “Intuiamo che è lo Spirito a muovere Maria e a donarle tale libertà, tale creatività nell’uscire dalle abitudini” (Carlo M. Martini). Maria dopo l’Annunciazione è ormai la “kekaritomene” cioè “colei che è la ricolma di grazia” cioè ricolma di Dio e del suo Dono, lo Spirito. Lei non solo è la “cristofora” perché porta Cristo nel suo grembo, ma è anche la “pneumatofora” cioè “portatrice dello Spirito”. Ma nello stesso tempo è lei stessa portata dal Figlio e dallo Spirito. Quello stesso Spirito presente e determinante per lei non solo nell’Annunciazione, ma anche in seguito: sarà infatti lui che la sosterrà, la consolerà, e la guiderà gradualmente alla verità su Gesù.

Maria è portatrice di pace «Entrata nella casa di Zaccaria salutò Elisabetta». Un saluto alla maniera ebraica, in cui ci si augura la “pace” (Shalom), la vera pace che può essere data solo dal Signore perché “la visita del Signore è la pace per la casa dell’uomo”. Un saluto speciale tra due donne, una era madre ancora vergine, l’altra madre dopo che era stata sterile, l’una giovanissima e l’altra anziana, parenti tra di loro, tutte e due incinte e rese protagoniste dalla bontà divina, sorrette e guidate dallo Spirito. Maria, segno del Nuovo che realizza l’Antico Testamento porta in sé la beatitudine di quel dono che è Dio stesso, principio e principe della pace, compimento di ogni desiderio umano. Il racconto della Visitazione, unico del genere in tutto il Nuovo Testamento, è pieno di bellezza e di delicatezza femminili. Una pagina biblica di vero protagonismo femminile. Ha scritto suor Maria Ko Ha Fong: “Maria ed Elisabetta: due donne protese verso il futuro del loro grembo, due donne che custodiscono dentro di sé un mistero ineffabile, un miracolo stupendo. La coscienza di essere rese oggetto di particolare predilezione di Dio le unisce, la missione comune di collaborare con Dio per un progetto grandioso le entusiasma e le fa esplodere in benedizione ed in canto di lode, l’esperienza della maternità prodigiosa le rende solidali. Il prodigio di Dio in Elisabetta è stato per Maria un segno che l’ha aiutata a pronunciare il suo fiat; ora il prodigio di Dio in Maria è segno per Elisabetta, un segno che suscita in lei una confessione di fede. Così le due donne, sono, l’una per l’altra, luogo di scoperta di Dio, epifania della sua grandezza e motivo per cui lodarlo e ringraziarlo” (Lectio Divina, in Theotokos 1997, p. 177-195). Per questo motivo Elisabetta, guidata dallo Spirito, esulta lei stessa e sente sussultare di gioia il suo bambino. Lei infatti riconosce in Maria il compimento delle promesse fatte ad Israele. In Maria, Elisabetta vede l’Arca della nuova Alleanza, e come l’Arca di Dio portava gioia e benedizione solo con la sua stessa presenza (2 Sam 6,2-11), così Maria. E così, mossa dallo Spirito, Elisabetta la chiama la “Madre del mio Signore”, cioè la Madre del Figlio di Dio, del Messia, invocato e sospirato per tanti secoli. Proprio quella sua giovane cugina portava in grembo l’Atteso delle genti, il Salvatore promesso.

È propriamente la Visitazione di Cristo a Giovanni C’è un bel commento di Sant’Ambrogio su questo incontro di Maria ed Elisabetta: “Elisabetta udì per prima la voce, ma Giovanni percepì per primo la grazia; essa udì secondo l’ordine della natura, egli esultò in virtù del mistero; essa sentì l’arrivo di Maria, egli del Signore; la donna l’arrivo della donna, il bambino l’arrivo del bambino. Esse parlano delle grazie ricevute, essi nel seno delle loro madri realizzano la grazia ed il mistero della misericordia a profitto delle madri stesse: e questo per un duplice miracolo profetizzano sotto l’ispirazione dei figli che portano. Del figlio si dice che esultò, della madre che fu ricolma dello Spirito, ma fu il figlio, ripieno dello Spirito Santo a ricolmare anche la madre. Esultò Giovanni, esultò anche lo Spirito di Maria. Ma mentre di Elisabetta si dice che fu ricolma di Spirito Santo allorché Giovanni esultò, di Maria, che era già ricolma di Spirito Santo, si dice che allora il suo spirito esultò. Colui che è incomprensibile operava in modo incomprensibile nella madre. L’una, Elisabetta, fu ripiena di Spirito Santo dopo la concezione, Maria invece prima della concezione” (Lc 2,19-22). E Adrienne von Speyr precisa: “La visita, nel suo più profondo significato, non è una visita di Maria ad Elisabetta, ma una visita di Cristo a Giovanni. Entrambe le madri fungono ora solo da mediazione per i figli”. Come si vede anche nella Visitazione il protagonista dell’incontro è lo Spirito Santo, lo Spirito di quel Gesù che deve ancora nascere, ma al quale sta preparando il terreno ispirando parole profetiche ad Elisabetta e santificando il figlio. Questi diventerà il “profeta dell’Altissimo, camminerà davanti al Signore” (Lc 1,76), sarà come la sintesi di tutti i profeti perché il precursore di Cristo, il Messia. Due Bambini, ma che differenza tra loro. Commenta San Gregorio di Nazianzio: “Dopo la prima incerta luce del precursore, viene la Luce stessa, che è tutto fulgore. Dopo la voce, viene la Parola, dopo l’amico dello Sposo, viene lo Sposo stesso” (Discorso 45,28).

Maria è la prima missionaria di Cristo Gesù Cristo è stato definito il primo Missionario, cioè il primo inviato ad annunciare il Regno di Dio; per questo egli stesso si autodefinì spesso “Colui che il Padre ha mandato”. Anche Maria è Missionaria, perché, come afferma Giovanni Paolo II nella RM n. 20, essendo Madre di Gesù, è diventata “in un certo senso, la prima discepola di suo Figlio”. Nella stessa enciclica (n. 21) viene messa in risalto la sua sollecitudine materna per gli uomini, “il suo andare incontro ad essi nella vasta gamma dei loro bisogni”. Il suo stile è attivo, solidale, interessato, intraprendente e anche creativo (ricordiamo le nozze di Cana e anche la Visitazione). Anche il Papa Paolo VI così si esprime: “La donna contemporanea, con lieta sorpresa, constaterà che Maria di Nazaret, pur completamente abbandonata alla volontà del Signore, fu tutt’altro che donna passivamente remissiva o di una religiosità alienante… e riconoscerà in lei una donna forte, che conobbe povertà e sofferenza, fuga ed esilio…” (Marialis Cultus, n. 37). Il viaggio di Maria quindi è un viaggio di natura missionaria. Dopo l’Annunciazione lei stessa si percepisce come “Colei che è stata ricolmata di grazia” da parte del Signore Altissimo, che è stata amata totalmente ed “evangelizzata per prima” avendo ricevuto la lieta notizia dell’Incarnazione, prima di tutti gli altri. Nella Visitazione abbiamo insieme la prima evangelizzata che diventa la prima evangelizzatrice diventando così come il prototipo di tutti i missionari proprio perché sospinta solo dall’amore di e per Cristo (2 Cor 5,14). Origene, un Padre della Chiesa, ha scritto: “Gesù, che era nel seno di lei, aveva fretta di santificare Giovanni che si trovava nel grembo della madre” (Omelie su Luca VII, 1). Ecco che Maria diventa lo strumento per attuare questa “fretta evangelizzatrice” di Gesù verso il cugino. Vangelo significa “buona o bella notizia” ed è quella che ha annunciato Gesù Cristo portando nel mondo la salvezza, la riconciliazione con Dio e la gioia. Sono infatti le belle notizie che ridanno la gioia persa ed il coraggio di andare avanti. Il Vangelo è Gesù Cristo stesso (Origene parla di “Autobasileia”), la vera bella notizia che ha riportato nel mondo la gioia, cominciando dalla Madre Maria, da Elisabetta e da Giovanni.

Maria è portatrice di gioia, segno della Nuova Alleanza Ogni nuova vita nel mondo non è che un piccolo riflesso di Dio Creatore ed un invito da parte sua a sperare nel futuro. Lui stesso, Dio della vita e di ogni vita, non può non sorridere davanti ad ogni forma di vita. Ma lo fa specialmente davanti ad un bambino. Dio Padre, anche lui, avrà sorriso di gioia davanti a quelle sue due figlie, ambedue donne incinte e future madri, felici e festanti, perché si sentivano benedette dall’Alto.

Commenta ancora Maria Ko Ha Fong: “La gioia di Maria è ben più grande di quella di qualsiasi madre. Il Figlio nascosto nel suo grembo non è solo un sorriso di Dio, ma è il Dio del sorriso, il Dio della gioia, di una letizia contagiosa, coinvolgente… Intorno a Maria la gioia si espande. Alla sua presenza, anche Zaccaria, chiuso nel suo mutismo incredulo, sente avvicinarsi l’adempimento della promessa fattagli dall’angelo «Avrai gioia ed esultanza» (Lc 1,149)”.

Ed il teologo Bruno Forte precisa ancora: “La gioia nasce dal sentirsi amati: perciò il cristiano, che sa nella fede di essere infinitamente amato da Dio, avvolto e custodito dalla tenerezza del suo amore fedele, è fatto per la gioia… La gioia scaturisce dall’umile riconoscimento dei tanti doni che riempiono l’esistenza, dal cielo sopra di noi, al cuore che batte in noi, all’amore che ci dona coraggio e vita… La gioia è proclamata in maniera nuova e definitiva dalla buona novella dell’Avvento del Dio con noi: «Non temete, ecco vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2,10)”.

La Visitazione sembra proprio costituire il primo lampo di gioia messianica portata dalla presenza di Gesù in sua Madre Maria. Quella stessa gioia che sarà portata dal Vangelo predicato e testimoniato da tanti altri missionari e missionarie nel nome di Gesù e sull’esempio di Maria.

Mario Scudu                                                                                                    

UN PADRE FEDELE – GEREMIA CAP 30-33

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16441.html

UN PADRE FEDELE – GEREMIA CAP 30-33

don Marco Pratesi

Nel libro di Geremia i cc. 30-33 costituiscono un « libretto della consolazione », nel quale oracoli pronunziati in situazioni diverse sono raccolti e letti in prospettiva unitaria come annunzio di una restaurazione di tutto Israele (regni del nord e del sud), che non è semplice ritorno al passato ma creazione di qualcosa di nuovo. Il presente breve testo invita alla gioia, perché il Signore sta comunque portando avanti il proprio disegno di salvezza. Per noi non ha molta importanza se il profeta, all’inizio del suo ministero (al tempo del re Giosia e della sua riforma religiosa), si stia rivolgendo al regno del nord (Efraim, Israele), come sembra più probabile, oppure abbia presente Giuda, come di solito avviene. L’essenziale è che egli vede avanzare la salvezza di Dio, nella forma di un ritorno in massa degli Israeliti dispersi. Nonostante le intricate e dolorose vicende storiche, nelle quali Israele sembra oramai sul punto di dissolversi, Dio intende rimanere fedele al suo popolo, mantenendogli il suo speciale status di primogenito fra le nazioni. E’ noto che il primogenito godeva di una posizione del tutto speciale tra i figli (cf. Gn 27; Es 4,22-23; 13,11-16). Israele è ancora « la prima tra le nazioni », il capo tra i popoli (v. 7). Nonostante le apparenze contrarie, la dispersione e la decimazione, tutto ciò rimane. Certo, l’attuazione del proposito di Dio passa attraverso una purificazione dolorosa: ciò che torna in patria è pur sempre un resto (ibidem). Una simile esperienza, un simile passaggio nel crogiolo (cf. 9,7), significa la caduta di ogni presunzione di sé e l’ingresso in una nuova dimensione di fede. Ma proprio per questo il legame tra Dio e il suo popolo non solo non è abolito, ma risulta addirittura approfondito: è il tema della nuova alleanza (cf. 31,31-34). Israele non dirà più a un pezzo di legno « Tu sei mio padre », e alla alla pietra: « Tu ci hai dato la vita » (2,27); all’invocazione « Padre mio, tu sei l’amico della mia giovinezza » non si accompagnerà più l’ostinazione nella pratica infedeltà idolatrica (3,4; cf. 3,19). Finalmente Dio potrà dire in verità: « io sono un padre per Israele » (v. 9). A questa più consapevole e umile fiducia Dio risponde donando un ritorno piano, tranquillo, senza ostacoli, agevole anche per i più impediti: lo zoppo, il cieco, l’incinta, la partoriente. Il piano di Dio non si arresta, mai; procede e si approfondisce nonostante, anzi proprio attraverso, gli ostacoli. Siamo chiamati a vivere sempre più e meglio l’esperienza della paternità di Dio, che ci libera dalle dipendenze idolatriche e ci fa scoprire la nostra identità vera nell’essere suoi figli amati. Tutto ciò si realizza attraverso la spoliazione da ogni preteso diritto alla cura paterna di Dio: più profondamente accogliamo questa « umiliazione », più l’intervento di Dio si fa forte, spianando davanti a noi ogni ostacolo. Sarà l’esperienza di Gesù di Nazaret, colui che, definitivamente, è il capo di quel corpo che è la nuova umanità, e il primogenito dei risorti (cf. Col 1,18).

 

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