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GIOVANNI C. 16,5-33 – GESU’ RITORNA AL PADRE

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/08-09/05-Gesu_ritorna_al_Padre.html

GIOVANNI C. 16,5-33 – GESU’ RITORNA AL PADRE

Dopo il monologo sull’esistenza cristiana, ecco ora le ultime parole di Gesù ai suoi discepoli. Sono forse le più commoventi. Gesù capisce che i suoi discepoli sanno che egli sta per lasciarli e che essi rimarranno senza di lui. Come consolarli e prepararli agli eventi della sua passione?
La struttura del suo discorso si può presentare così: Si annuncia il distacco (16,5-7); Si annuncia la venuta dello Spirito (16,8-15); Presto rivedranno Gesù (16,16-23); Il Padre vi ama (16,23-27); Epilogo (16,28-33). È un capitolo assai corto e questo ci dà la possibilità di leggere insieme tutto il testo.

L’annuncio del distacco (16,5-7)
Ora vado da Colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: Dove vai? Anzi perché vi ho detto questo la tristezza ha riempito il vostro cuore. Ma io vi dico la Verità: è bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado non verrà a voi il Consolatore; se invece me ne vado lo manderò a voi.
Gesù cerca di consolarli di fronte all’inevitabilità degli e­venti e parla ai suoi discepoli che neppure osano dirgli: Dove vai? Sanno bene che va da Colui che lo ha mandato, ma la realtà è che non sanno cosa faranno senza di lui. Cerchiamo di entrare meglio nel testo.
Designando il Padre come Colui che lo ha mandato dice che il Figlio ha fedelmente portato a termine la missione ricevuta. Di questa, il dono dello Spirito ai credenti, si dimostra il fine ultimo. Tra i due eventi c’è la passione, morte e sepoltura, Risurrezione e glorificazione di Gesù.
Osserviamo ancora il testo: il mutismo dei discepoli significa che sono già separati da Gesù. E forse c’è qui qualche analogia con la scena del Getsemani, quando, interpellati da Gesù, non sapevano cosa rispondergli e poi tutti lo abbandonarono.
Sulla tragica situazione dei discepoli nel periodo tra la crocifissione e la Risurrezione, sembra che l’evangelista proietti la situazione della comunità cristiana che, dopo aver creduto alla vittoria di Cristo sulla morte e nell’imminenza del suo ritorno glorioso, si trova isolata in un ambiente che continua a rifiutare la fede. Il rigetto della Sinagoga l’ha ferita e marginalizzata e poi c’è lo scarto tra il messaggio della vittoria di Gesù e l’esperienza della prova cristiana.

La venuta dello Spirito (16,8-15)
Quando lo Spirito sarà venuto proverà la colpa del mondo riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio. Riguardo al peccato perché non credono in me. Riguardo alla giustizia perché vado al Padre e non mi vedrete più. Riguardo al giudizio perché il principe di questo mondo è già stato condannato.
Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non potete portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito di Verità vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che ha udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà perché prenderà da quel che è mio e ve lo annunzierà. Tutto quello che il Padre possiede è mio, per questo vi ho detto che prenderà del mio e ve lo annunzierà.
Con la venuta dello Spirito (a Pentecoste) finisce la tristezza dei discepoli e tutti i dubbi che fino allora li ha tormentati. Nel testo abbiamo dato allo Spirito l’appellativo di “Consolatore”, necessario in quel contesto, ma ora lo dobbiamo chiamare “Difensore” perché dando inizio al giudizio sul mondo rafforza i discepoli donando loro una fede indistruttibile. Infatti li convincerà che il mondo è nel peccato, nell’ingiustizia e soggetto alla definitiva condanna. Tutto ciò perché non hanno creduto che Gesù era l’inviato di Dio, non hanno accolto la sua parola e tantomeno creduto alla sue opere: non le hanno viste come un segno di Dio. Perciò meritano la definitiva condanna.
I discepoli invece accoglieranno lo Spirito di Verità che li guiderà alla Verità tutta intera. Saranno avvolti dalla Luce che è Gesù il quale dona loro quanto possiede e diventeranno veri apostoli.

Rivedranno Gesù (16,16-23a)
Un poco e non mi vedrete più, ma poco ancora e mi vedrete. Allora alcuni dei suoi discepoli dissero tra loro: Che cos’è questo che dice: Un poco e non mi vedrete e un poco ancora e mi vedrete, e io vado al Padre?
Dicevano perciò: Che cos’è questo un poco di cui parla? Non comprendiamo quello che vuol dire. Gesù capì che volevano interrogarlo e disse loro: “State indagando tra voi perché ho detto; Un poco e non mi vedrete e un poco ancora e mi vedrete? In verità, in verità vi dico: voi piangerete e gemerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia.
La donna quando partorisce è nel dolore, perché è venuta la sua ora, ma quando ha dato alla luce un bambino non si ricorda più della sofferenza perché è venuta al mondo una creatura umana. Così anche voi; ora siete nella tristezza, ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia. Quel giorno non mi domanderete più nulla.
I discepoli sono lì che ascoltano Gesù e capiscono che sta parlando del futuro e fa uso di un’immagine: un poco e non mi vedrete e un poco ancora e mi rivedrete, un’immagine non pienamente colta da loro che però ha il vantaggio di suscitare domande tra loro. Gesù se ne accorge e cerca di spiegare il “non mi vedrete, e io vado al Padre”. Poi si spiega meglio parlando della loro situazione e dice chiaramente che durante il “non mi vedrete, piangeranno e si lamenteranno”.
Però quando lo vedranno ancora la loro tristezza si cambierà in gioia. Con ciò è chiaro che non c’è da discutere molto (come si è fatto nella storia) sulle parole “un poco e poi ancora un poco. Si parla infatti dell’intero mistero pasquale che alla fine descrive servendosi dell’immagine di una partoriente. È nel dolore all’inizio del parto, ma poi scoppia di gioia quando ha dato al mondo un bambino.
È fantastico: la passione è fonte di vita, è un dolore aperto alla vita. I discepoli quando rivedranno Gesù scoppieranno di una gioia che nessuno potrà loro togliere e, non dimentichiamolo: una gioia che scopriranno in pienezza nel dono dello Spirito; allora il dialogo con Gesù e il Padre sarà un momento di esultanza.

Il Padre vi ama (16,23b-27)
Quel giorno non mi domanderete più nulla. In verità, in verità vi dico: Se chiederete qualcosa al Padre nel mio nome egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete perché la vostra gioia sia piena.
Queste cose vi ho detto per mezzo di esempi; ma viene l’ora in cui non vi parlerò più per mezzo di esempi, ma apertamente vi parlerò del Padre. In quel giorno chiederete nel mio nome e non vi dico che pregherò il Padre per voi. Il Padre stesso vi ama. Perché voi amate me e avete creduto che io sono uscito da Dio.
Anche se Gesù è ancora nel Cenacolo, ora parla del “dopo Pasqua”. Finora infatti, non si erano mai rivolti al Padre nel nome di Gesù. Ma quando Gesù sarà risorto e avrà ricevuto quel nome che è al di sopra di ogni altro nome (Fil 2,9) e sarà rivestito di ogni potenza e gloria accanto al Padre (At 1,12s), allora sì che potranno chiedere ogni cosa nel suo nome e il Padre la concederà. Ciò è tanto vero che aggiunge: “E non vi dico che io pregherò per voi”, ma è certo che lo farà anche se non è necessario, perché dice: “il Padre vi ama”. Sono parole di una delicatezza estrema per sottolineare in modo incisivo l’amore del Padre. È l’ultima volta che Gesù lo fa. Poi donerà loro la sua vita.
Per Gesù il Padre è in relazione agli uomini: “Colui che ama” (3,16). Questo amore però si concretizza dove c’è una persona che ama e crede in Gesù; lo vede come il Figlio inviato dal Padre e lo accoglie. Allora si crea un’intimità così grande tra il Padre, Gesù e i discepoli che ogni preghiera non è altro che espressione d’amore.

Epilogo (16,28-33)
Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo, ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre. Gli dicono i suoi discepoli: “Ecco adesso parli apertamente e non fai più uso di esempi. Ora sappiamo che tu sai tutto e non hai bisogno che alcuno ti interroghi. Per questo crediamo che sei uscito da Dio”. Rispose loro Gesù: “Adesso credete? Ecco viene l’ora ed è già venuta in cui vi disperderete ciascuno per conto suo e mi lascerete solo, ma io non sono solo, perché il Padre è con me”.
Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avrete da soffrire, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo.
Iniziando il racconto della Cena, l’Evangelista per due volte ha annotato la coscienza di Gesù: “sapendo che veniva da Dio e a Dio ritornava” (13,1-3), ora ripete questo in modo più completo: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo, ora lascio il mondo e torno al Padre”. E i discepoli esclamano: “Finalmente parli chiaramente. Per questo crediamo che vieni da Dio”. Gesù dice: “Adesso credete?”. La domanda non nega la fede ma tende a scoprirne la debolezza, come quando Pietro gli disse: “Io sono disposto a dare la mia vita per te”. E Gesù ribatte: “Non canterà il gallo prima che tu mi abbia rinnegato” (13,37) e ai discepoli ora dice: “Viene l’ora, anzi è già venuta in cui mi lascerete solo”. È quello che avviene in quella stessa notte.
Nel Getsemani tutti lo abbandonarono. Se egli quella sera si è trattenuto a lungo con loro, lo ha fatto per premunirli e aiutarli a superare la prova ricordando quello che per la sesta volta ha ripetuto loro: “Questo vi ho detto”. Egli sa che il ricordo di quello che ha detto li aiuterà ad avere la pace, ad affrontare le tribolazioni che avranno nel mondo.
Ma qui dice una cosa che lo riguarda: Egli sa che nella passione il Padre non lo lascerà solo. Ed è logico: Gesù ha sempre fatto quello che ha udito dal Padre e agito insieme. Quindi è insieme il fatto che chi rifiuta Gesù, rifiuta il Padre. Leggendo i racconti della passione noi sappiamo che c’è anche la “Passione del Nome”. Insieme, il Figlio e il Padre cercano una via che realizzerà la salvezza di tutti. L’amore di Dio non conosce limiti. La morte sfocerà nella vita, nella glorificazione del Figlio con il Padre.

Preghiamo
Sei un vero Maestro, Signore Gesù. Sai che la Passione sarà per i tuoi discepoli fonte di tristezza e che ti lasceranno solo. E tu cerchi di consolarli per premunirli e aiutarli a superare la prova e infondi in loro speranza nel futuro. Gesù, che i sacerdoti e tutti gli apostoli sappiano di fronte ai sofferenti fare come te. Per questo effondi su di noi come hai promesso allora ai discepoli il dono del tuo Spirito. Che Egli sia la vera forza nel nostro ministero, ma soprattutto fa’ che ci convinca che tu sei l’unico che dà senso alla nostra vita e alla nostra testimonianza. Per questo effondilo con abbondanza su di noi. Amen!

D. Mario Galizzi sdb +
La mattina del 27 febbraio 2007, il Signore ha chiamato a sé Don Mario Galizzi nostro valente collaboratore.
Don Mario aveva 81 anni, da 57 era Salesiano e da 50 Sacerdote.
La sua competenza in campo biblico, la sua spiritualità semplice, familiare, profondamente ottimista e gioiosamente salesiana ne facevano un uomo di Dio apprezzato e ricercato. La sua visione fraterna della comunità credente, la sua fedeltà alla Tradizione e il suo spirito gioviale si riversavano nei suoi scritti, apprezzati e diffusi in molti Paesi.
Studioso, predicatore, missionario e innamorato della Scrittura, ora Don Mario ascolta la Parola che ha annunziato e continua ad essere presente in mezzo a noi anche con il suo prezioso lavoro preparato già da tempo per i lettori della nostra Rivista. Mentre continueremo a nutrirci delle sue impareggiabili riflessioni, ricordiamolo nelle nostre preghiere.

1 Con la venuta dello Spirito termina l’incertezza dei discepoli, perché lo Spirito è il Consolatore che sostiene dalla tristezza causata dal ritorno di Gesù
al Padre.
2 Il discorso di Gesù ai discepoli, la sera del tradimento, è un discorso rivolto al futuro, quando ritornerà da loro dopo la sua Risurrezione, prova definitiva della sua divinità.
3 Il dono dello Spirito è segno dell’amore del Padre che per mezzo del Consolatore continua l’opera del Figlio nel mondo.
4 Le parole di Gesù rivolte ai discepoli la sera prima di morire manifestano chiaramente la sua origine divina. Ma proprio in questa occasione in cui gli Apostoli finalmente comprendono la vera identità di Gesù, lui viene lasciato da solo, abbandonato da tutti.
5 Con la sua Risurrezione dai morti, Gesù è rivestito di ogni potenza e gloria e siede alla destra del Padre. Con la sua morte ha giudicato tutte le realtà del mondo e si è costituito giudice della storia umana.

Publié dans:BIBLICA: ATTI DEGLI APOSTOLI |on 22 avril, 2017 |Pas de commentaires »

“AD ANTIOCHIA PER LA PRIMA VOLTA I DISCEPOLI FURONO CHIAMATI CRISTIANI”

http://www.gliscritti.it/approf/2007/papers/biguzzi130707.htm

ANTIOCHIA DI SIRIA, OGGI ANTAKYA: “AD ANTIOCHIA PER LA PRIMA VOLTA I DISCEPOLI FURONO CHIAMATI CRISTIANI”

del prof.Giancarlo Biguzzi

Presentiamo on-line un testo del prof.Giancarlo Biguzzi, docente di Nuovo Testamento presso la Pontificia Università Urbaniana, già apparso sulla rivista Eteria, appartenente ad una serie di articoli che avevano lo scopo di introdurre, come in agili reportage giornalistici, ad una prima conoscenza dei luoghi e delle figure del Nuovo Testamento. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di rendere più facile la lettura on-line. Il Centro culturale Gli scritti (29/6/2007)

Venendo da Adana, passavamo per Isso della battaglia (333 a.C.), e poi per Iskenderun, e non sapevo che tono dare al mio discorso quando presi il microfono per presentare Antiochia di Siria ai pellegrini che, Bibbia alla mano, erano sulle orme di Paolo di Tarso. Da un lato infatti Antiochia, oggi Antakya, merita un discorso lungo in ordine al cristianesimo primitivo, ma dall’altro, dal punto di vista turistico, non ha molto da offrire. Il pullman costeggiava spiagge talvolta addirittura squallide, e comunque ben diverse da quelle della costa turchese. Dato il presente poco turistico della regione, cominciai allora a celebrarne il passato, e soprattutto il passato appunto di Antiochia. Al tempo delle origini cristiane, Antiochia era la terza città dell’impero romano (mezzo milione di abitanti), evidentemente dopo Roma (un milione), e dopo Alessandria di Egitto, grande centro di commercio e di cultura. Da Antiochia, coi mercanti, coi soldati, con gli avventurieri ecc., giungevano a Roma i culti, i costumi e le esotiche dissolutezze orientali, tanto che in nome delle antiche virtù romane il poeta Giovenale (60-135 d.C.), come è noto, scriveva astiosamente: “E’ da un pezzo che l’Oronte (e cioè il fiume di Antiochia) si getta nel Tevere!” Più che dei fasti romano-imperiali i pellegrini che vengono qui, vogliono però sentir parlare appunto delle origini cristiane. E allora non si può non dire che Antiochia nel Nuovo Testamento è seconda soltanto a Gerusalemme. Nel vulcanico cristianesimo delle origini, quello di Antiochia fu il più importante cratere laterale tra quelli sorti attorno al cratere centrale della chiesa gerosolimitana. E’ comunque da Gerusalemme che il discorso su Antiochia deve partire. Tra i discepoli di Gesù alcuni avevano nomi prettamente giudaici (Matteo, Giovanni, Natanaele, Giuda…), ma altri portavano nomi greci (Filippo, Andrea). Per questo è del tutto comprensibile che la comunità postpasquale di Gerusalemme fosse composta oltre che di ebrei di lingua aramaica, anche di ebrei ‘ellenisti’, che invece parlavano greco (Atti 6,1). Questi Ellenisti, per il fatto di essere in gran parte rimpatriati dalla diaspora, molto più che quelli palestinesi erano aperti al mondo non-giudaico e, a partire dalla fede in Gesù, sottoponevano a critica le istituzioni del giudaismo: il tempio, la legge, o la circoncisione ecc. La loro apertura universalistica provocò l’immediata, dura reazione degli ebrei gerosolimitani, i quali riuscirono ad eliminare completamente la loro presenza dalla città. Stefano, il personaggio di maggior spicco, fu ucciso; altri si dispersero in Samaria (cf quello che è detto di Filippo in Atti 8); altri forse ripararono a Damasco (cf Anania e Giuda in Atti 9), e altri, infine, in Fenicia, a Cipro e appunto ad Antiochia (Atti 11,19). Ad Antiochia questi fuggiaschi furono protagonisti di almeno tre grandi cose. La prima fu il nome cristiano. Come a Gerusalemme, anche qui essi si differenziarono dai frequentatori delle sinagoghe locali, presentandosi come ebrei-messianici: come ebrei cioè per i quali in Gesù di Nazaret si erano compiute le parole dei profeti e tutte le Scritture. Come già precedentemente a Gerusalemme e come a Roma nell’anno 41 (cf Svetonio, Vita di Claudio 25,4; e Atti 18,2) anche ad Antiochia, intorno agli anni 39-40 d.C., ci furono contrasti tra giudei-messianici e giudei non-messianici. I contrasti sfociarono probabilmente in tumulti e disordini. E furono probabilmente le autorità romane allora che, intervenendo a ristabilire l’ordine pubblico, coniarono il neologismo ‘cristiani’ per designare gli ebrei-messianici. ‘Messia, messianico’ in ebraico infatti è la stessa cosa che ‘Cristo, cristiano’ in greco. La nascita del nome che nella storia avrebbe avuto l’importanza che sappiamo, è segnalata in Atti 11,26 in cui è scritto: “…ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani”. Dal punto di vista del vocabolario storico-religioso, Antiochia ha dunque dato al mondo un contributo che non ha il pari. La seconda impresa dei cristiani antiocheni fu la missione. Gerusalemme era stata missionaria soltanto suo malgrado, quando da essa furono allontanati i cristiani ellenisti. Antiochia invece divenne il più grande centro di irradiazione missionaria delle origini per congenialità e per scelta: “… alcuni fra loro cominciarono a parlare anche ai greci ” (Atti 11,20), e poi per una vera e propria strategia che contava su missionari itineranti e fondatori di chiese in altre regioni, i quali da Antiochia partivano (Atti 13,2ss), e ad Antiochia facevano ritorno (Atti 14,26), per poi ripartire in nuove ondate missionarie (Atti 15,36 ecc.). I nomi a noi noti dei grandi missionari di Antiochia sono: Pietro (Gal 2,11), Barnaba e Paolo (Atti 13,2ss), Giovanni Marco (Atti 13,5), Tito (Gal 2,1.3), Agabo (Atti 11,28), e quasi certamente anche Luca, l’autore degli Atti degli Apostoli. Il terzo, incalcolabile merito della comunità cristiana di Antiochia fu quello di mettere al servizio del Vangelo e della missione quelli che noi chiameremmo i mezzi della comunicazione sociale. E’ infatti ad Antiochia di Siria che con ogni probabilità furono scritti il vangelo di Matteo e la Didachè, mentre è certo che il vescovo antiocheno degli inizi del secondo secolo, e cioè Ignazio martire, ha scritto sette famose lettere a diverse comunità (Efeso, Filippi, Roma…) o persone (Policarpo, vescovo di Smirne). Quanto all’importanza del vangelo di Matteo, basti dire che ci ha dato la preghiera del Pater nella formulazione in cui noi la recitiamo, e poi fra l’altro il racconto dei Magi e della stella, il discorso della montagna con le otto beatitudini e, infine, la formula trinitaria del battesimo, con la quale accompagniamo anche il segno di croce. Dicendo tutte queste cose il pullman arriva ad Antakya senza che ce se ne accorga. E’ una città di centomila abitanti, di un qualche colore orientale nonostante alcuni alberghi e condomìni all’europea. Arrivando, si costeggia e si attraversa il fiume Oronte, davvero inquinato come diceva Giovenale, e tutto quello che ad Antakya il turista può visitare è un museo, proprio sulla riva dell’Oronte. Nulla più rimane dei quattro lussuosi quartieri dell’antichità, nulla della grande via colonnata lunga 4 Km, larga 10 metri, con portici profondi 10 metri e ornati di circa 3.000 statue. Al museo, sono in esposizione tanti, meravigliosi mosaici pavimentali, provenienti dalle lussuose ville della vicina Dafne (8 km), sacra al tempio e al mito di Apollo e della bella ninfa, Dafne appunto, che inseguita dal dio sfuggì alla sua insidia tramutandosi in alloro. Le iscrizioni musive parlano tra l’altro di ‘amerìmnia’, di ‘chresis’, di ‘soterìa’. Parlano cioè di serenità, di sano uso delle cose, di salvezza: aspirazioni cui il cristianesimo delle origini diede la risposta che sappiamo, con il consistente contributo della comunità antiochena. E’ per questo e per tutto quanto si diceva, che ad Antiochia sull’Oronte, o Antakya, vanno più pellegrini che turisti

ATTI DEGLI APOSTOLI: LA PAROLA CRESCEVA… (stralcio)

http://ora-et-labora.net/bibbia/attinger.html

ATTI DEGLI APOSTOLI: LA PAROLA CRESCEVA…  (stralcio)

DANIEL ATTINGER

EDIZIONI QIQAJON – COMUNITÀ DI BOSE 

INTRODUZIONE

L’originalità degli Atti degli apostoli

Mentre vi sono nel NT quattro evangeli e molte lettere, solo gli Atti degli apostoli costituiscono una narrazione degli inizi della chiesa. Se si capisce facilmente il fascino che poteva suscitare il progetto di scrivere una “vita di Gesù” — non era forse l’evento di Dio nella nostra storia? — e se si comprendono anche senza difficoltà i motivi pastorali che hanno condotto alla redazione di lettere, meno evidenti appaiono le ragioni che hanno spinto Luca a scrivere gli Atti. Perché interessarsi alla storia della chiesa, senz’altro meno affascinante della vita del Figlio di Dio in mezzo agli uomini? Prima di rispondere a questa domanda va notato che gli Atti si presentano come un secondo libro, o meglio, come una seconda parola, rispetto a una “prima” che è l’Evangelo di Luca. Ambedue gli scritti hanno lo stesso destinatario, Teofilo, lo stesso linguaggio, la stessa teologia, Gli studiosi sono oggi unanimi nel dire che l’Evangelo di Luca e gli Atti degli apostoli formavano in origine un’opera sola in due volumi. Solo con la costituzione del canone e quando si cominciarono a leggere gli evangeli nelle assemblee cultuali (verso la meta del II secolo) Luca fu associato a Marco e Matteo, poi a Giovanni, e staccato dagli Atti, che diventarono una sorta di introduzione  generale alle epistole. Ciò significa che occorre ragionare sugli Atti come su di un libro che appartiene a un insieme più vasto del quale forma la seconda parte. Di conseguenza, la demanda da porre non è perché Luca si sia interessato alla storia della chiesa nascente, ma piuttosto perché abbia sentito la necessità di narrare l’evento della salvezza fine all’arrivo di Paolo a Roma, e non fino all’Ascensione soltanto. Un’osservazione sul prologo degli Atti degli apostoli ci permette forse di intravedere una risposta. Atti 1, 3 dichiara che Gesù risorto apparve ai suoi discepoli per quaranta giorni parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Sappiamo che fin dall’inizio del sue ministero pubblico Gesù ha posto l’annuncio del regno di Dio al centro della sua predicazione: Gesù disse [alle folle]: “E necessario che io annunci anche alle altre città la gioiosa notizia del regno di Dio; per questo sono state mandato” (Lc 4,43; cf. 8,1.10; 9,2.11,60; 10,9; eccetera). Gesù parla quindi del Regno dall’inizio alla fine del suo ministero e anche dope la sua resurrezione, come ricorda l’inizio degli Atti: Egli si mostrò [ai discepoli] vivo, dope la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio (At 1,3). Ma ora, dopo che Gesù é tornato al Padre, come avviene questo annuncio? Alla fine degli Atti, Luca presenta Paolo a Roma, sotte sorveglianza, e scrive: Dal mattino alla sera [Paolo] esponeva [agli ebrei] il Regno di Dio, dando testimonianza, e cercava di convincerli riguardo a Gesù, partendo dalla Legge di Mosé e dai profeti…Trascorse due anni interi… annunciando il Regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento (At 28,23.30-31). Così si spiega il prolungamento dell’opera lucana. L’autore non intende raccontare la “vita di Gesù”, né la storia della chiesa o la vita di santi come Pietro, Stefano o Paolo, la sua preoccupazione è invece quella di spiegare come l’annuncio del Regno, iniziato da Gesù, continua dopo l’Ascensione fino a raggiungere noi: questo annuncio ci perviene tramite la chiesa che il Cristo ha istituito come testimone perché annunci dovunque e in tutti i tempi la gioiosa notizia del Regno. Luca-Atti appare così come un grande commento al detto di Gesù: Il regno di Dio non viene in mode da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: “Eccolo qui”, oppure: “Eccolo là ». Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi (o forse: a vostra portata)!” (Lc 17,20-21).

I destinatari e il testo Fin dal primo versetto sappiamo che il destinatario degli Atti (come dell’Evangelo di Luca) è Teofilo, ma di lui non sappiamo nulla. Più che di un nome fittizio — come alcuni hanno pensato — si tratta probabilmente del mecenate che ha finanziato l’edizione e la diffusione del libro, operazione che era molto costosa all’epoca. In questo l’opera lucana appare molto diversa dagli altri evangeli. Soltanto essa si presenta come l`opera di un “io” che ha scritto il testo dopo accurate ricerche (cf. Lc 1,1-4; At 1,1). Ciò non significa che è solo Luca-Atti ad avere un “autore », mentre gli altri evangelisti sono dei compilatori. Vuol dire invece che, mentre gli evangeli di Matteo, Marco e Giovanni sono nati dalla preoccupazione di edificare la comunità nella quale viveva il loro autore e sono quindi delle opere “pastorali », Luca-Atti invece è nato come “opera letteraria » a scopo storico-teologico su richiesta di un individuo, Teofilo. Non è però indifferente per noi il fatto che questo individuo si chiami Teofilo, cioè “amico di Dio ». Anche noi, se ci consideriamo amanti di Dio e quindi amati da lui, possiamo diventare i destinatari dell’opera lucana, incaricati, nel contempo, di diffondere quest’opera attraverso la nostra testimonianza. Il manoscritto di Luca non ci è rimasto e nemmeno le copie fatte dai copisti pagati da Teofilo. I più antichi manoscritti che contengono parti degli Atti risalgono al III secolo e i più antichi testi completi sono del IV secolo. Si possono raggruppare essenzialmente in due famiglie: la prima, chiamata « alessandrina », é rappresentata da grandi manoscritti del IV-V secolo (come il Sinaiticus, il Vaticanus o l’Alexandrinus) ed é il testo che seguono le nostre attuali traduzioni; la seconda, detta “occidentale” (ma che di occidentale ha solo il nome), si trova soprattutto nel codex Bezae, anch’esso del IV-V secolo; è un po’ più lunga dell’altra, maggiormente segnata da preoccupazioni etiche e anche più antigiudaica. Non sembra che una famiglia dipenda direttamente dall’altra; probabilmente le due famiglie sono coesistite fin dal II-III secolo. Sorge quindi un problema: perché gli Atti esistono sotto due forme abbastanza diverse, mentre in Luca — che conosce pure le due famiglie — le differenze sono minime? Questa diversità può trovare una spiegazione nello statuto dei testi: molto presto l’Evangelo di Luca ha assunto un aspetto “canonico », perché era diventato testo liturgico e la sua forma si è quindi presto stabilizzata; gli Atti invece furono considerati come un’opera “diversa » che solo più tardivamente entrò a far parte delle letture liturgiche. Non avendo un carattere “canonico” (forse fino al IV secolo), nulla impediva di fare qua e là dei ritocchi e dei miglioramenti, o di aggiungere qualche spiegazione là dove il testo mancava di chiarezza. In ogni caso, queste due famiglie — cui occorre forse aggiungerne una terza, “antiochena », rielaborazione di quella « alessandrina », che è la più diffusa nel mondo greco a partire dal IV secolo — attestano la popolarità di cui ha goduto il libro degli Atti nella chiesa antica, nonostante non appartenesse ancora al canone ufficiale delle Scritture.

Autore e data Fin dall’antichità gli Atti (e l’Evangelo di Luca) furono attribuiti a Luca, compagno di Paolo che l’Apostolo chiama il “caro medico” (Col 4,14; cf. Fm 24); a lui Paolo farebbe allusione quando parla del “fratello che ha lode in tutte le chiese a motivo dell’evangelo » (2Cor 8,18). Le sezioni in “noi” (cf. At 16,10-17; 20,5-15; 21,1-18; 27,1-28,16; il testo occidentale aggiunge 11,28) potrebbero corroborare questa attribuzione perché sembrano indicare che l’autore abbia accompagnato Paolo a partire da Troade. Questa attribuzione pone tuttavia molti problemi: se davvero Luca è compagno di Paolo, perché non si ritrovano, nella presentazione che Luca fa dell’Apostolo, alcuni temi centrali della teologia paolina, come la giustificazione per fede o la morte di Cristo “per noi » (a eccezione di At 20,28)? O perché non lo chiama mai « apostolo », titolo che invece Paolo ha rivendicato con forza(cf, 1Cor 1,1; 9,2; 15,8-10; 2Cor 1,1; 11,13-33; Gal 1,1; eccetera)? Anche la cronologia fa difficoltà perché è arduo far coincidere i dati delle lettere paoline con quelli degli Atti. Inoltre diversi tratti degli Atti (e particolarmente il discorso di Paolo a Mileto, cf. At 20,17-3 5) sembrano alludere a situazioni che meglio si capiscono alla luce del cristianesimo della terza generazione, dopo l’anno 80, Si possono evidentemente sempre trovare delle spiegazioni; ma credo che dobbiamo riconoscere, con la maggior parte degli studiosi, che ignoriamo chi sia l’autore di Luca-Atti, che continuerò, per convenzione, a chiamare Luca. Le sezioni in « noi” sembrano presupporre che egli provenisse dall’Asia Minore o da Filippi o forse che sia stato, ma solo temporaneamente, compagno di viaggio di Paolo. Quanto alla data di composizione, gli esegeti sono abbastanza concordi nel fissarla attorno all’anno 80. Una tale datazione pone nuovamente due problemi non trascurabili. Innanzitutto perché, in un’epoca in cui le lettere paoline circolano già in tutte le chiese, gli Atti non dicono nulla dell’attività epistolare di Paolo? Si può forse rispondere che, raccontando l’attività missionaria di Paolo, Luca non ha menzionato le lettere di Paolo perché esse rientrano piuttosto nel quadro della sua attività pastorale e teologica. La seconda domanda é più seria: perché gli Atti non dicono nulla del martirio subito, circa vent’anni prima, da Pietro e da Paolo? Tornerò su questa domanda, per ora dico solo che questa « lacuna » sembra indicare che Luca non intendesse scrivere un “vita degli apostoli”. Il suo progetto infatti non si compie quando Pietro e Paolo (i suoi “eroi”, insieme a Stefano) muoiono, bensì quando l’evangelo è predicato a Roma “con tutta franchezza e senza impedimento » (At 28, 3 1).

Publié dans:BIBLICA: ATTI DEGLI APOSTOLI |on 18 avril, 2016 |Pas de commentaires »

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