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DIO GREMBO DI VITA*

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DIO GREMBO DI VITA*

di Alberto Neglia

All’inizio del cammino di fede di ogni credente c’è l’iniziativa di Dio. È lui che raggiunge ogni uomo, lo chiama e lo coinvolge a respirare con il suo respiro, a diventare, in Cristo Gesù, figlio e ad esprimere nel frammento della propria carne la bellezza del suo volto e dei suoi gesti. Questa è la vocazione dell’uomo. Ma ogni uomo, seppure chiamato, fa l’esperienza del peccato. Si nega, cioè, a questa prospettiva e cede, o per debolezza o per ignoranza o per consapevole scelta, a un progetto alternativo e contrastante il progetto di Dio. Questa è l’esperienza dei mortali, Giovanni nella sua prima lettera (1,8-9) ci ricorda: «Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa».

“Il mio peccato mi sta sempre dinanzi” E il racconto biblico, sia dell’AT che del NT, non getta un velo, su questo aspetto fallimentare, della vita del popolo eletto nella sua identità comunitaria, e dei singoli personaggi biblici che ci presenta, come scelti da Dio per una missione particolare. Davide, per esempio, ne fa amara esperienza. Egli si avverte un tutt’uno col peccato: «il mio peccato mi sta sempre dinanzi – confessa – […] Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre» (Sal 51, 5. 7). Il salmista constata che il peccato, dilagando anche nel corpo di chi lo commette, lo devasta. Il peccato è una presenza sotterranea che decompone, come un cadavere, la persona che l’ha commesso. Nel Sal 32,3-4 il peccatore grida: «Tacevo e si logoravano le mie ossa… come per arsura d’estate inaridiva il mio vigore». Le ossa sono la sintesi dell’intero organismo umano. Esse si sfaldano, si logorano, si consumano. » la devastazione del peccato che dilaga nella persona e intacca tutto l’organismo, anche la parte più solida, le ossa, e provoca anche l’inaridimento interiore. Il peccato è sindrome di morte. Anche Pietro, quasi a sintesi di tutta la sua esperienza fallimentare, grida a Gesù: «allontanati da me che sono peccatore» (Lc 5,8).

La “misericordia” forza rigeneratrice L’uomo sa e sperimenta che da questa situazione di decomposizione non si può tornare indietro ed uscire da solo. Lo stesso Davide si sente prigioniero e soggiogato dalla signoria del peccato. Egli è consapevole che solo l’azione creatrice di Dio può ridare vitalità e movimento alle sue ossa aride (cf Ez 37,1-14), per questo fa appello alla misericordia di Dio, invocando: «Sii benigno con me, o Dio, secondo la tua fedeltà/tenerezza (chesed); nella tua grande misericordia (rachamim) cancella il mio peccato». (Sal 51,1) Dall’oscurità del suo peccato, Davide intravede nella misericordia di Dio un raggio di luce che lo può tirare fuori da una situazione di morte e lo può far rinascere e riconsegnare alla vita come creatura nuova, perché la misericordia di Dio è più forte della potenza del peccato.

Cosa è questa misericordia di Dio? La misericordia di Dio non è melensa, quella che cerca di tirar fuori dai problemi della vita, è una misericordia viva e attiva. È la misericordia di colui che prende sul serio la nostra situazione. Misericordia traduce le parole ebraiche: chesed e rachamim, che abbiamo incontrato nell’invocazione del salmo 51. Rachamim è il plurale di rechem che designa il grembo materno in cui il bambino viene formato e portato, prima della nascita. Indica, quindi lo spazio fatto in sè alla vita dell’altro, spazio di comunione profonda di con-sentire, di com-patire, di con-gioire. Ma indica anche l’amore paterno verso il figlio, il legame tra fratelli, designa, dunque sempre un rapporto che non può venir meno, forte come il legame viscerale e di sangue. La misericordia è dunque la più radicale protesta contro l’indifferenza, il solipsismo, il rifiuto dell’altro. La misericordia è mistero di comunione, dinamica di condivisione e forza di generazione. E di ri-generazione, di re-immissione nella vita, nella relazione di alterità, nei confronti di chi da tale relazione si era allontanato. [Cf E. Bianchi , Editoriale, in Parole spirito e vita 29  (1994/1) pp. 3-5]  Il Dio misericordioso è un Dio materno che ti pone nel suo utero e ti fa uomo nuovo, ti cambia. Dio distrugge e ricrea. Non ci lascia come siamo, brandelli di umanità. Ci converte, questa è la sua forza. Chesed è un termine che si può tradurre: grazia, amore, benevolenza, misericordia. Ha una pregnanza di significati indescrivibile. Nella tradizione rabbinica, un midrash paragona il trono della gloria a una sedia zoppicante perché aveva una gamba più corta delle altre. Con che cosa la si rialza? Con un sassolino! Tale Ë lo chesed la grazia, la misericordia, la compassione: sassolino, realtà piccolissima, che però fa stare in equilibrio il mondo. Lo hesed indica l’atteggiamento tipico di Dio verso il suo popolo, che comporta lealtà, affidabilità, fedeltà, bontà, tenerezza, costanza nell’attenzione e nell’amore. L’esegesi rabbinica tradizionale collega il nome Elohim con l’aspetto della giustizia di Dio, e JHWH con la sua misericordia. Nella teofania di Es 34,6, Dio passa davanti a Mosè proclamando: «JHWH, JHWH, Dio di misericordia e di grazia, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà». Alla teofania fa eco, nella preghiera, il pio israelita che della misericordia di Dio fa quotidianamente esperienza: «Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore», (salmo 103, 8). Proprio per questo il salmista rassicura colui che prega: «Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie; salva dalla fossa la tua vita, ti corona di grazia e di misericordia; egli sazia di beni i tuoi giorni e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza» (Salmo 103, 3-5) Questa divina prodigalità-benvolenza si riflette su tutto il creato e su tutta la storia. Questa misericordia, amore, compassione, grazia è il grembo che ricrea l’uomo e lo rende nuovo. Dio è un bacio: ti risucchia nel suo grembo, ti introduce nella terra promessa e ti dà un respiro nuovo.   Siate misericordiosi Gesù con il suo vissuto rende umano e palpabile il volto misericordioso del Padre. Più volte gli evangelisti registrano che Gesù “si commuove”. Non si tratta di un riflesso emozionale che essi ci vogliono descrivere, ma il termine sta ad indicare l’atteggiamento di misericordia cosÏ come l’abbiamo appena descritto. Nel vangelo di Luca (cap. 15), poi, Gesù soprattutto attraverso la parabola del padre misericordioso vuole consegnarci il volto di Dio che “commosso” corre incontro al figlio, lo abbraccia, lo bacia (gli dona il suo respiro) e gli ridona il “vestito bello”, la dignità di figlio amato che aveva prima di abbandonare la casa. (cf Lc 15,20-22). Proprio perché il Padre è cosÏ, Gesù si sente autorizzato ad accogliere tutti i pubblicani e i peccatori e di mangiare con loro (cf Lc 15,1-2), purché desidera, come il Padre, che nessuno si perda. (cf Mt 18,14). Nella stessa parabola Gesù evidenzia il desiderio del Padre che anche il figlio maggiore, se è stato in casa ed ha conosciuto il suo cuore, faccia sua la misericordia del padre accogliendo il fratello e facendo festa «perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita» (cf Lc 15, 25-32). L’invito ad essere creativi nell’amore, questo è il senso della misericordia, Gesù lo fa in modo esplicito sempre nel vangelo di Luca (6,36).

Siamo nel contesto delle beatitudini. In Lc 6,12 ci troviamo di fronte a una specie di veglia di preghiera. I giorni di Gesù sono segnati dalla notte, e Gesù buca le tenebre vegliando nella preghiera. La chiesa nasce da questa preghiera, nella notte, di Gesù. A conclusione della veglia nella notte, Gesù designa i Dodici come apostoli del regno e, sceso assieme ad essi dal monte, consegna ad essi e ai discepoli il volto del Padre, la nuova Torah. Dopo aver proclamato (Lc 6,20-26) le quattro beatitudini e le quattro “lamentazioni”, che aprono un grande spazio di libertà, Gesù invita “quelli che lo ascoltano”(Lc 6,27), a lasciare che nei loro gesti umani si esprima la stessa misericordia di Dio, cosÏ come si manifesta nel volto di Gesù stesso. Tutta la proposta di relazioni nuove, creative, qui espressa, certamente scaturisce, trova la sua radice nell’invito di Gesù: «Siate misericordiosi, come Ë misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36) Tale misericordia diventa presenza che rende nuova la vita, a chi ad essa si fa docile. Il discorso non è moralistico. Ci dice come è Dio, come si fa presente e agisce nella storia, e come vuole ancora farsi presente nel frammento della nostra carne. L’invito di Gesù è esplicito e chiaro: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (6,36). Il testo dice (ginesthe) diventate, mettendo in evidenza che si tratta di un cammino, c’è un dinamismo in cui l’uomo si lascia conformare al Padre misericordioso. Il credente che fa quotidianamente, malgrado il suo peccato, l’esperienza di essere fatto nuovo nel grembo di Dio, è coinvolto a diventare anche lui grembo portatore di per-dono, di relazioni che riflettono la gratuità di Dio, di vita nuova. Egli è coinvolto in Gesù a vivere la stessa passione e fedeltà/tenerezza di Dio. Da qui l’invito esplicito, ripetuto due volte a forma di inclusione tematica: «Ma a voi che mi ascoltate io dico: amate i vostri nemici» (Lc 6,27. 35). Qui Luca usa il verbo agapaÔ, è il verbo che esprime il vissuto di Dio che è agape. Essere coinvolti nell’amore di Dio, essere riportati nel suo grembo per rinascere come uomini che riflettono la sua misericordia non è facile. È un lungo travaglio di sofferenza e di pazienza: è come un parto che ci fa urlare (come il bambino quando esce dal grembo materno), ma che ci fa respirare un’aria nuova. Si tratta di un mistero, di una realtà che va al di là di tutto ciò che ha a che fare con le nostre doti naturali. Nell’amore per i nemici ci è chiesto di proporre instancabilmente, anzi di vivere già la reciprocità con coloro che rifiutano ogni relazione. Siamo posti di fronte al paradosso, allo “scandalo”, alla “follia”, come dice Paolo (1Cor 1,23), e solo chi si lascia guarire nel cuore, chi, nel grembo di Dio, muore all’ossatura adamitica e si lascia abitare dall’ossatura cristica è in grado di accogliere questo linguaggio e di dargli concreta visibilità con la sua stessa vita. Perchè questa è la proposta Gesù, espressa nella stessa pagina evangelica, anche se la traduzione oscura un po’ questo profondo significato. Il brano evangelico (Lc 6,27-31), infatti, dopo averci ricordato che l’amore ai nemici non è un sentimento platonico, ma si esplicita attraverso le mani (fate del bene), la bocca (benedite), e raggiunge il cuore, luogo delle decisioni e delle scelte (pregate), insomma, dopo averci ricordato che l’amore ai nemici coinvolge tutto l’uomo, evidenzia che questo amore è trasparenza della misericordia di Dio che ci abita e che ci rende capaci di gesti nuovi. Segue, infatti, in Lc 6,32-34, una serie di: «se amate /se fate… che merito ne avrete!». Ripeto, va rivista la traduzione perché, come suona, risente di una certa ideologia meritocratica che il testo originale non ha. La traduzione dovrebbe essere: «Se amate quelli che vi amano, quale in voi grazia è?». È come se dicesse: quale grazia (bellezza, amabilità, fascino, gioia, diletto), misericordia, amore, traspare, si manifesta nella vostra vita? Da chi siete abitati e quale presenza affiora dai vostri gesti? E subito, in Lc 6,35, viene ribadito: amate i vostri nemici… «e la vostra ricompensa sarà grande, e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi». La nostra grazia / ricompensa, allora, non è la coscienza orgogliosa, soddisfatta, ma diventare “figlio” che riflette il volto del Padre, diventa trasparenza del Padre. Lasciando emergere l’immagine del Figlio nel nostro volto, veniamo immersi nella carne crocifissa di Gesù, misericordia del Padre, ove è assorbita e scaricata ogni ostilità, e inimicizia che contrappone le potenze del cosmo, che separa popolo da popolo e creatura da creatura, fino a spaccare spesso il singolo uomo nella sua identità interiore. Se diamo spessore alla misericordia del Padre nella nostra vita, essa scardina la corazza, che ci diamo nel confronto con la vita, e ci dà un respiro nuovo. Scardina l’inimicizia e ci pone di fronte all’altro non in una logica di morte, ma con atteggiamento creativo, grembo di vita per l’altro.

Dalla “misericordia” il futuro del mondo Questo comando di Gesù: Siate misericordiosi…, non può essere eluso da parte della comunità credente e del singolo cristiano. Di fronte ai tanti esempi, che abbiamo davanti agli occhi, del peccato di empietà, cioè di assenza di pietas, di assenza di compassione, anzi di vero e proprio odio nei confronti dell’altro, del diverso, per noi cristiani, l’annuncio del Dio misericordioso, che ci coinvolge ad essere misericordiosi nel Figlio suo Gesù Cristo, è determinante ai fini del futuro del nostro mondo. In radice, La misericordia di Dio Ë l’unica cosa di cui abbiamo veramente bisogno. La Chiesa ha la responsabilità di narrare agli uomini nei suoi gesti e nelle sue parole, la misericordia di Dio. Sono profondamente convinto che essa si gioca la sua fedeltà al Signore e misura la capacità di testimoniare il Vangelo e di rispondere ai drammi della storia nella compagnia degli uomini in una radicale prassi di accoglienza nella misericordia. È determinante che questa testimonianza venga declinata non solo a livello individuale ma anche comunitario e nei rapporti tra i popoli. In un contesto in cui l’unico sistema di governabilità del pianeta è l’economia di mercato globalizzata, un neoliberismo “senza se e senza ma”, dove tutto è merce e dove le grandi decisioni vengono prese dai Paesi che “contano”, è urgente globalizzare la misericordia e la solidarietà. È urgente che il Nord ricco del mondo non continui a soffocare i popoli poveri del Sud del mondo, ma si educhi a diventare grembo che si dilata non per continuare a invadere e rapinare, ma per consentire all’altro (al resto del mondo) di essere presente e di venire alla luce del sole per sedere, con pari dignità, al banchetto della vita. Il grembo di misericordia, ha la vitalità di guarire noi dall’alienazione, provocata bisogni indotti e dal consumismo selvaggio, e di guarire il fratello che viene dal Sud del mondo, che spesso guardiamo come un intruso e un nemico, dall’alienazione drammatica, provocata dalla miseria. Il salmo 136, il grande Hallel,  è una litania, l’unità è data dal ripetersi del ritornello: perché eterna è la sua misericordia / grazia. Il termine eterno (‘olam) ha sia il valore temporale di « eternità », sia quello spaziale, abbraccia, cioè, tutto il mondo. Quindi il ritornello del salmo 136 può esser reso con “rendete grazie al Signore perché è buono, perché eterna è la sua misericordia”; ma anche “perchè la sua grazia/misericordia è per il mondo”. Si tratta davvero, dunque, di costruire « un mondo di grazia/misericordia », vale a dire un mondo edificato sulla grazia, un mondo che ha la sua pietra di fondazione sulla grazia/misericordia: tale almeno è il progetto divino. Dicevo prima che un midrash paragona il trono della gloria di Dio a una sedia zoppicante perché aveva una gamba più corta delle altre. Con che cosa la si rialza? Con un sassolino (lo chesed)! Tale è la grazia/misericordia: sassolino, realtà piccolissima, che però fa stare in equilibrio il mondo. Ebbene, generati da un grembo di grazia/misericordia, siamo tutti coinvolti ad apportare il nostro sassolino, il nostro chesed in modo che, sassolino dopo sassolino, ognuno apportando il suo, si costruirà finalmente un mondo fondato sulla grazia/misericordia, un mondo che rispecchi “l’equilibrio” di Dio.

Alberto Neglia

Fraternità Carmelitana 98051 Pozzo di Gotto (ME)

 

LA PAROLA COMUNICA MA L’IMMAGINE CORRE

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/114q04a1.html

LA PAROLA COMUNICA MA L’IMMAGINE CORRE

Si è concluso a Padova il convegno « Bibbia e immagini: tradizioni, letture o tradimenti? » organizzato dalle associazioni Biblia e Bibbia aperta. Pubblichiamo stralci della lectio magistralis.

di Timothy Verdon

Intorno alla questione della liceità o meno dell’uso di immagini plastiche o pittoriche per comunicare i contenuti dei testi sacri giudeo-cristiani si sono combattute lunghe e sanguinose guerre. Nel corso dei secoli ci si è chiesto se l’immagine non sia per definizione già « infedele » alla Bibbia, un tradimento del Dio che nella Torah proibì la fabbricazione di idoli e che perfino all’amico Mosè rifiutò di mostrarsi visivamente, spiegando che « l’uomo non può vedermi e vivere ».
Prima di incamminarsi su un terreno così scosceso, è bene però ricordare un fatto ovvio: la stessa comunità di fede che negli ultimi due millenni ha provveduto a diffondere la cultura biblica, la Chiesa cristiana nelle sue molteplici ramificazioni, per la maggior parte di questo tempo ha accettato la liceità delle immagini, considerandole importanti nell’esperienza dei credenti.
Soprattutto nel cristianesimo bizantino, lacerato dalla disputa iconoclasta del primo millennio, rimane profonda la convinzione dell’importanza dell’icona sacra, come suggeriscono le numerose raffigurazioni del trionfo dell’iconodulia nella vita della Chiesa in cui regnanti, prelati e monaci venerano l’icona di Maria odegìtria. Maria odegìtria: colei che, indicando Cristo fisicamente presente nel mondo come « la via », in qualche modo riassume la funzione dell’arte, che indica in termini analogamente fisici Colui che, incarnandosi, è diventato « icona del Dio invisibile », come la lettera ai Colossesi chiama Cristo (Colossesi, 1, 15).
Dall’accettazione delle immagini da parte di molte famiglie di fede cristiana e dalla committenza ufficiale dei grandi progetti nascono poi due conseguenze ermeneutiche: i soggetti biblici, anche se veterotestamentari, vengono normalmente letti prima nell’ottica cristiana e poi specificamente nell’ottica ecclesiale. La preoccupazione di rappresentare il « senso originario » del testo biblico è infatti moderna, non antica.
Certo, il solo fatto di una bimillenaria tradizione iconografica non risolve la questione teologica, riaperta all’interno dello stesso cristianesimo alla Riforma. Tuttavia la tradizione si offre come una componente del dibattito, e conduce a un distinguo essenziale per ogni riflessione sul rapporto tra Bibbia e immagini cristiane: il cristianesimo non è in primo luogo una « religione del libro ». Nel tempo del loro pellegrinaggio terreno, i cristiani si servono di testi sacri ispirati, ma il cristianesimo in realtà crede nel Verbo divino che in Gesù Cristo « si fece carne » (Giovanni, 1, 1.14), e insegna che la carne di Cristo costituisce una via privilegiata verso la salvezza (Ebrei, 10, 20).
« Carnali » e « corporei » sono anche l’immaginario, il linguaggio e la ritualità dei cristiani, i quali concepiscono la comunità come un corpo che « pur essendo uno, ha molte membra (…) tutte le membra, pur essendo molte, sono un solo corpo » (1 Corinzi, 12, 12; cfr. Romani, 12, 4-5), e associano i templi col corpo del salvatore risuscitato dai morti, secondo il suo insegnamento (cfr. Giovanni, 2, 21). Uno scrittore cristiano dei primi secoli, Vincenzo di Lerins, spiega perfino l’elaborazione teologica della fede con la metafora del corpo umano che, pur rimanendo se stesso, cresce dall’infanzia all’età matura.
Data quest’enfasi corporea, non stupisce che il cristianesimo abbia fatto ampio uso delle arti, servendosi di riti, canti, poesia, pittura e architettura come di un « catechismo ».
Si tratta di strumenti che, da una parte – nell’appello sensorio – sono connaturati all’annuncio di un Verbo incarnato, mentre dall’altra – nella loro trasfigurazione del dato materico – esaltano la vocazione spirituale della materia. Soprattutto l’arte visiva è servita a questi scopi: i mosaici e dipinti murali o su tavola o tela, le sculture in bronzo, pietra o legno che popolano le chiese cristiane anche quando i riti finiscono e cessano i canti.
Tale preminenza del visivo chiosa una precisa lettura degli scritti sacri giudeo-cristiani, che similmente caratterizzano l’anelito verso Dio in termini di visio. Sia l’Antico che il Nuovo Testamento sottolineano, voglio dire, l’umana brama di vedere Dio senza mediazioni: « Mostrami la tua gloria! », Mosé gli chiese, rimanendo tuttavia deluso quando l’Altissimo rispose: « Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restar vivo » (Esodo, 33, 18.20).
Nel sistema di fede cristiano, questa brama di vedere Dio viene finalmente soddisfatta nella persona di Cristo stesso, e all’affermazione « il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi »; « chi vede me vede Colui che mi ha mandato » e « chi ha visto me ha visto il Padre » (Giovanni, 12, 45 e 14, 9), e un altro scritto giovanneo afferma che in lui, Cristo, « la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi » (1 Giovanni, 1, 2) – visibilità, questa, sintetizzata nel già citato testo paolino che asserisce che Cristo « è l’icona (l’immagine) del Dio invisibile » (Colossesi, 1, 15).
Riassumendo questi passi scritturistici, un padre della Chiesa, san Giovanni Damasceno, spiegherà l’uso cristiano delle immagini dicendo che « un tempo, non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico (…), ma ora Dio è stato visto nella carne e si è mescolato alla vita degli uomini, così che è lecito fare un’immagine di quanto è stato visto di Dio ».
Scrivendo nel contesto dell’interdizione delle immagini da parte dell’imperatore di Bisanzio, l’iconoclasta Leone iii nel 730, questo autore – nato cristiano in una Damasco già allora sotto controllo musulmano – riafferma il nesso tra l’Incarnazione del Verbo e l’uso delle immagini, soprattutto quelle che raffigurano Cristo stesso.
L’affermazione teologica che in Gesù Cristo « il Verbo si fece carne » appartiene a uno solo dei vangeli, quello di Giovanni, considerato l’ultimo nell’ordine di stesura (cfr. Giovanni, 1, 14). Ma la realtà percepibile, quasi palpabile, in tutti e quattro i testi evangelici è di un messaggio verbale così concreto e incisivo da diventare, nella vita dell’ascoltatore o lettore, presenza personale. Soprattutto la figura dello stesso Gesù emerge dalle pagine del Nuovo Testamento con forza, toccando l’immaginario umano in un modo nuovo, vitale e illuminante, come precisa ancora il vangelo giovanneo, affermando che « in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini » (Giovanni, 1, 4). Un altro testo giovanneo aggiunge che nell’incarnazione del Verbo « la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza » (1 Giovanni, 1, 2), lasciando capire che questa presenza di Cristo nei vangeli non è solo un fatto intellettuale – un’intuizione etica o morale – bensì l’esperienza visiva di una persona che vuole essere vista.
Ecco perché, trattando del compito di testimoniare oggi Colui che è visibile nei vangeli, Giovanni Paolo II parlava della « immagine del Cristo docente, maestosa insieme e familiare, impressionante e rassicurante (…) disegnata dalla penna degli evangelisti e spesso evocata in seguito dall’iconografia sin dall’età paleocristiana, tanto è seducente » (Catechesi tradendae, 1).
Come suggeriscono le parole « in seguito » nel testo di Giovani Paolo II, il passaggio da un’immagine letteraria « disegnata dagli evangelisti » a immagini pittoriche e plastiche ha richiesto molto tempo: infatti fu solo nel iv-v secolo che l’arte cristiana riuscì a definire un linguaggio tutto suo, svincolato dal sistema formale dell’arte classica. Per la tradizione popolare, invece, le due realtà – l’immagine letteraria e quella artistica – sarebbero nate insieme, almeno nel caso di uno degli evangelisti, Luca, il quale (secondo la tradizione) era pittore.
È questo il senso della tela del maestro cretese emigrato in Spagna nel 1576, Domenico Theotocopoulos noto come El Greco, in cui il libro che l’evangelista ci mostra è adorno di un’immagine a tutta pagina della Madonna col Bambino. Il santo ha in mano un pennello, non una penna da scrivano, e l’immagine, posta a destra dell’apertura, in effetti attira l’attenzione più della pagina scritta, a sinistra: leggiamo da sinistra a destra, e così qui l’immagine diventa in qualche modo la « meta » della nostra lettura, come se, leggendo, le parole si fossero « incarnate » davanti ai nostri occhi!
All’epoca dell’esecuzione della tela poi – come del resto oggi – la consuetudine editoriale era di situare eventuali illustrazioni a sinistra, non a destra del testo, così che l’inversione di questa prassi sottolinea l’importanza dell’immagine, in qualche modo maggiore dello stesso testo. Nel suo Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica pubblicato nel 2005, il cardinale Joseph Ratzinger, considerando il potenziale pastorale delle immagini, ipotizzava che « oggi più che mai, nella civiltà dell’immagine, l’immagine sacra possa esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico ».
L’idea che in ultima analisi l’immagine sia più pregnante che il testo scritto è antica nel cristianesimo, che considera la Bibbia un’espressione temporanea e parziale di qualcosa che in cielo si conoscerà meglio mediante la contemplazione diretta di Dio, la visio beatifica.
La parola elabora un pensiero complesso per una serie di passaggi logici che richiedono tempo e spazio, in cui facilmente s’indeboliscono l’attenzione e la capacità analitica dell’ascoltatore o lettore; l’immagine invece comunica con immediatezza e drammaticità. Per far capire che « l’unico scopo del Figlio di Dio nel nascere era di rendere possibile la crocifissione », l’anonimo autore della cosiddetta « Croce di Pasquale I » ha sistemato una serie d’immagini relative all’incarnazione, nascita e infanzia di Gesù su un supporto cruciforme.
Questo spettacolare oggetto conservato nel Museo Sacro della Biblioteca Vaticana è un capolavoro di smalto cloisonné su lamina d’oro realizzato forse da un maestro siriaco attivo a Costantinopoli nei primi decenni del ix secolo. Il programma iconografico è focalizzato sul mistero natalizio, organizzandone i sette episodi maggiori nei bracci e al centro della croce, così che l’Annunciazione, la Visitazione, la Natività, l’Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio, la Fuga in Egitto e il Battesimo di Cristo sono messe in rapporto alla futura morte del Salvatore!
Ma c’è di più, perché ciò che abbiamo chiamato « croce » è in verità una stauroteca – un contenitore per frammenti della vera croce – e così l’impatto dell’oggetto non era solo intellettuale ma anche viscerale: sapendo che l’oggetto cruciforme conteneva il legno su cui Cristo era morto, il credente contemplava queste scene della sua nascita con profonda commozione; non a caso il centro, corrispondente alla testa di Cristo in un crocifisso, è occupato dalla Natività stessa, col bambino in una mangiatoia allusiva alla futura offerta del piccolo corpo come alimento.
L’allusione scritturistica è facilmente decifrabile: la Croce di Pasquale i è infatti una sintesi visiva del passo della Lettera agli Ebrei (10, 5-10), dove l’autore afferma che « entrando nel mondo, Cristo dice (al Padre): Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato… allora ho detto: « Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà »"; l’autore precisa infine che « mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo ».
L’immagine comunica tutto questo con la sola giustapposizione della croce e la natività.

(L’Osservatore Romano 18-19 maggio 2009 2009)

MARIA MADDALENA, COLEI CHE HA COMPRESO L’AMORE

http://www.gliscritti.it/approf/2008/papers/lonardo250308.htm

MARIA MADDALENA, COLEI CHE HA COMPRESO L’AMORE

di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito l’articolo che don Andrea Lonardo ha scritto il 18/3/2008 per la rubrica In cammino verso Gesù (la rubrica pubblica ogni due settimane un breve articolo di approfondimento sul Gesù storico e la rilevanza del suo vangelo) del sito Romasette di Avvenire

Il Centro culturale Gli scritti (19/3/2008)

“Tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento” (Gv 12,3). Maria, a Betania, non utilizza il prezioso olio profumato di vero nardo assai prezioso per se stessa, come avrebbe fatto ogni altra donna. In ogni cultura il profumarsi è strumento per piacersi e per piacere, per attirare l’attenzione sulla propria persona, per sedurre (nel senso etimologico della parola “se-ducere” cioè “condurre a sé”), per catturare l’olfatto. Maria vuole che sia il Signore a risplendere nella sua bellezza e vuole che il suo profumo avvolga tutti coloro che sono nella casa. Non solo mai il Cristo è stato innamorato della Maddalena, ma neanche lei mai lo è stata di lui! Questa illazione, che non trova alcun fondamento nei testi evangelici e nemmeno negli apocrifi, è piuttosto segno di una delle povertà del nostro tempo che non conoscendo altra forma di amore che quella dell’innamoramento –ed evidentemente neanche questa troppo bene!- non può che proiettare questo cliché su Gesù. La banalità di un recente romanzetto che viene incontro all’esigenza contemporanea di gossip rinchiude, ad esempio, tutta la vicenda all’interno di una storia di sesso e potere, mettendo in scena un Cristo che non muore in croce per amore, ma che anzi è preoccupato di dar vita ad una stirpe regale, fondatore di una monarchia che lotterà contro altre stirpi di potenti. La pretesa di coinvolgere in questa mistificazione Leonardo da Vinci ed una delle sue più grandi opere –il Cenacolo è, in realtà, un’altissima meditazione sul tradimento di Giuda e sul mistero dell’amore del Cristo che coscientemente si offre alla morte per la salvezza- la dice lunga sul livello culturale di questa operazione di cassetta. L’unzione di Betania rende evidente, invece, che Maria non vuole il Cristo per sé, ma vuole che risplenda per tutti. Ella, nel perdono ricevuto, aveva compreso che in quell’uomo era Dio stesso che l’aveva visitata ed aveva intuito che per il perdono di tutti egli era venuto. Maria ha così accolto l’amore, divenendo una discepola, una credente, una cristiana. Il suo gesto diviene presagio di quell’offerta che si sta per compiere sul Golgota, perché il mondo riceva la misericordia di Dio: “Essa ha fatto ciò che era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura” (Mc 14,8). La grande questione è qui evidentemente la morte in croce: su quel legno avverrà la realizzazione dell’amore “fino alla fine” che cambierà la storia del mondo. Maria intuisce che lì sarà glorificato il Figlio di Dio ed il suo amore e si pone a servizio di questo dono di sé per tutti che Gesù sta per portare a compimento. Lei comprende, mentre Giuda si rifiuta di vedere, che i poveri avranno bisogno della Pasqua ben più che dei denari che si sarebbero potuti ottenere con la vendita di quell’unguento. L’evangelista Marco ci riporta un’espressione straordinaria del Cristo che spinge lo sguardo ancora più in là: “In verità, vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto” (Mc 14,9). La morte in croce e la resurrezione sono vangelo e diverranno annunzio che sarà portato a tutte le nazioni, perché chiunque trovi in esso la speranza. Il profumo del Cristo non inebrierà solo quella piccola casa di Betania, ma la sua fragranza e la sua bellezza riempiranno il mondo intero. Ed espressione della verità, della realtà di questo annuncio di gioia, sarà anche il racconto di questa donna che ha creduto ed ha ricevuto la vita nuova -una nuova vita che sembrava a lei impossibile come la resurrezione di Lazzaro- nell’incontro con il Signore Gesù. La tradizione medioevale vuole che la Maddalena sia stata la prima evangelizzatrice della Francia, insieme a Marta ed a Lazzaro, e che quest’ultimo sia stato il primo vescovo di Marsiglia, già allora porto fiorente sul Mediterraneo. Lazzaro, colui al quale il Signore aveva ridato la vita, morirà martire, decapitato per rendere l’estrema testimonianza della fede nella resurrezione del suo Signore (la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine sintetizza tutta la tradizione medioevale a proposito). La Maddalena avrebbe così speso i suoi anni nella penitenza, vivendo come eremita, come consacrata, in una grotta ancora oggi meta di pellegrinaggi nota come la Sainte Baume, portata in cielo ogni giorno dagli angeli a pregare i salmi con i santi e con il suo Signore. San Francesco ebbe una particolare venerazione per la Maddalena, che era ormai divenuta la patrona degli eremiti; per questo motivo si trovano spesso, negli eremi francescani, delle cappelle a lei dedicate. Per questo stesso motivo Giotto fu incaricato di affrescare una intera cappella, nella basilica inferiore di Assisi, con le storie della Maddalena ed è un peccato che molti dei pellegrini e dei visitatori della città umbra nemmeno sappiano che il pittore non si è limitato a dipingere le storie del poverello, ma ha, al contempo, rappresentato per noi le storie della donna che ha compreso l’amore, contemplando la Pasqua del suo Signore. N.B. Per chi desiderasse approfondire il significato iconografico del Cenacolo di Leonardo in Santa Maria delle Grazie a Milano è possibile consultare on-line l’articolo di Andrea Lonardo, Dal Codice da Vinci di Dan Brown ad una più rispettosa lettura iconografica del Cenacolo di Leonardo. Per la difficile questione esegetica delle diverse Marie presenti nei vangeli, vedi una scheda di Gianfranco Ravasi, disponibile on-line con il titolo Maddalena, gli equivoci da sfatare Per altri articoli e studi di d.Andrea Lonardo presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici

 

Publié dans:biblica, BIBLICA APPROFONDIMENTI |on 25 février, 2016 |Pas de commentaires »
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