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Giovanni Paolo II, udienza del 24 ottobre 2001: Salmo 50 – Pietà di me, o Signore -

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/2001/documents/hf_jp-ii_aud_20011024_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì 24 ottobre 2001

« Salmo 50 – Pietà di me, o Signore -
Lodi Venerdì 1a Settimana (Lettura: Sal 50,3-5.11-12.19)

1. Abbiamo ascoltato il Miserere, una delle preghiere più celebri del Salterio, il più intenso e ripetuto Salmo penitenziale, il canto del peccato e del perdono, la più profonda meditazione sulla colpa e sulla grazia. La Liturgia delle Ore ce lo fa ripetere alle Lodi di ogni venerdì. Da secoli e secoli sale al cielo da tanti cuori di fedeli ebrei e cristiani come un sospiro di pentimento e di speranza rivolto a Dio misericordioso.

La tradizione giudaica ha posto il Salmo sulle labbra di Davide sollecitato alla penitenza dalle parole severe del profeta Natan (cfr vv. 1-2; 2Sam 11-12), che gli rimproverava l’adulterio compiuto con Betsabea e l’uccisione del marito di lei Uria. Il Salmo, tuttavia, si arricchisce nei secoli successivi, con la preghiera di tanti altri peccatori, che recuperano i temi del « cuore nuovo » e dello « Spirito » di Dio infuso nell’uomo redento, secondo l’insegnamento dei profeti Geremia ed Ezechiele (cfr v. 12; Ger 31,31-34; Ez 11,19; 36, 24-28).

2. Due sono gli orizzonti che il Salmo 50 delinea. C’è innanzitutto la regione tenebrosa del peccato (cfr vv. 3-11), in cui è situato l’uomo fin dall’inizio della sua esistenza: « Ecco, nella colpa sono stato generato, peccatore mi ha concepito mia madre » (v. 7). Anche se questa dichiarazione non può essere assunta come una formulazione esplicita della dottrina del peccato originale quale è stata delineata dalla teologia cristiana, è indubbio che essa vi corrisponde: esprime infatti la dimensione profonda dell’innata debolezza morale dell’uomo. Il Salmo appare in questa prima parte come un’analisi del peccato, condotta davanti a Dio. Tre sono i termini ebraici usati per definire questa triste realtà, che proviene dalla libertà umana male impiegata.

3. Il primo vocabolo, hattá, significa letteralmente un « mancare il bersaglio »: il peccato è un’aberrazione che ci conduce lontano da Dio, meta fondamentale delle nostre relazioni, e per conseguenza anche dal prossimo.

Il secondo termine ebraico è ‘awôn, che rinvia all’immagine del « torcere », del « curvare ». Il peccato è, quindi, una deviazione tortuosa dalla retta via; è l’inversione, la distorsione, la deformazione del bene e del male, nel senso dichiarato da Isaia: « Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre » (Is 5,20). Proprio per questo motivo nella Bibbia la conversione è indicata come un « ritornare » (in ebraico shûb) sulla retta via, compiendo una correzione di rotta.

La terza parola con cui il Salmista parla del peccato è peshá. Essa esprime la ribellione del suddito nei confronti del sovrano, e quindi un’aperta sfida rivolta a Dio e al suo progetto per la storia umana.

4. Se l’uomo, però, confessa il suo peccato, la giustizia salvifica di Dio è pronta a purificarlo radicalmente. È così che si passa nella seconda regione spirituale del Salmo, quella luminosa della grazia (cfr vv. 12-19). Attraverso la confessione delle colpe si apre, infatti, per l’orante un orizzonte di luce in cui Dio è all’opera. Il Signore non agisce solo negativamente, eliminando il peccato, ma ricrea l’umanità peccatrice attraverso il suo Spirito vivificante: infonde nell’uomo un « cuore » nuovo e puro, cioè una coscienza rinnovata, e gli apre la possibilità di una fede limpida e di un culto gradito a Dio.

Origene parla a tal proposito di una terapia divina, che il Signore compie attraverso la sua parola e mediante l’opera guaritrice di Cristo: « Come per il corpo Dio predispose i rimedi dalle erbe terapeutiche sapientemente mescolate, così anche per l’anima preparò medicine con le parole che infuse, spargendole nelle divine Scritture… Dio diede anche un’altra attività medica di cui è archiatra il Salvatore il quale dice di sé: ‘Non sono i sani ad aver bisogno del medico, ma i malati’. Lui era il medico per eccellenza capace di curare ogni debolezza, ogni infermità » (Omelie sui Salmi, Firenze 1991, pp. 247-249).

5. La ricchezza del Salmo 50 meriterebbe un’esegesi accurata di ogni sua parte. È ciò che faremo quando tornerà a risuonare nei vari venerdì delle Lodi. Lo sguardo d’insieme, che ora abbiamo rivolto a questa grande supplica biblica, ci rivela già alcune componenti fondamentali di una spiritualità che deve riverberarsi nell’esistenza quotidiana dei fedeli. C’è innanzitutto un senso vivissimo del peccato, percepito come una scelta libera, connotata negativamente a livello morale e teologale: « Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto » (v. 6).

C’è poi nel Salmo un senso altrettanto vivo della possibilità di conversione: il peccatore, sinceramente pentito, (cfr v. 5), si presenta in tutta la sua miseria e nudità a Dio, supplicandolo di non respingerlo dalla sua presenza (cfr v. 13).

C’è, infine, nel Miserere, una radicata convinzione del perdono divino che « cancella, lava, monda » il peccatore (cfr vv. 3-4) e giunge perfino a trasformarlo in una nuova creatura che ha spirito, lingua, labbra, cuore trasfigurati (cfr vv. 14-19). « Anche se i nostri peccati – affermava santa Faustina Kowalska – fossero neri come la notte, la misericordia divina è più forte della nostra miseria. Occorre una cosa sola: che il peccatore socchiuda almeno un poco la porta del proprio cuore… il resto lo farà Dio… Ogni cosa ha inizio nella tua misericordia e nella tua misericordia finisce » (M. Winowska, L’icona dell’Amore misericordioso. Il messaggio di suor Faustina, Roma 1981, p. 271).

2a dopo Natale: Il canto della divina Sapienza (prima lettura)

dal sito:

http://www.pddm.it/vita/vita_05/n_01/2gennaio.htm

2a dopo Natale – 2 Gennaio 2005

• Prima lettura: Sir 24,1-4.8-12 • Salmo responsoriale: Sal 146,12-15.19-20
• Seconda lettura: Ef 1,3-6.15-18 • Vangelo: Gv 1,1-18

    
«È venuto a piantare la sua tenda in mezzo a noi» (cf Gv 1,14).

Il canto della divina Sapienza

Il testo della prima lettura vuole renderci attenti, soprattutto, alla presenza della sapienza sulla terra e, più precisamente, in mezzo al popolo d’Israele. Il capitolo 24 del libro del Siracide, qui offerto in versione abbreviata, antologica, appartiene ad un gruppo ristretto, ma importante di brani dell’Antico Testamento in cui la sapienza non viene descritta come un’abilità tecnica o artigianale, ma come una sorta di figura poetica che parla di sè. In questo inno, la sapienza «apre la bocca» e si autopresenta: «Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo e ho ricoperto come nube la terra». Da subito la sapienza si definisce come intima di Dio, e nello stesso tempo come colei che è in relazione con gli uomini. Viene richiamato un simbolo importante dell’Antico Testamento: la nube che ha guidato il popolo di Dio nel deserto, ha riempito il tempio di Gerusalemme costruito da Salomone, ha sempre evocato la presenza di Dio nella storia del popolo, e nei suoi momenti più salienti. La nube segnala che Dio è presente, ma nello stesso tempo lo nasconde, è luminosa e insieme oscura, secondo il racconto dell’Esodo. È dunque un simbolo importante per esprimere la vicinanza di Dio che però non si consegna nelle mani dell’uomo, ma resta, in qualche modo, avvolto nel suo mistero. Nel racconto dell’Esodo si dice che il popolo seguiva la nube, ma, se la nube non si alzava, il popolo non poteva partire. Israele non aveva la possibilità di far muovere la nube quando lui voleva, e nemmeno di farla andare dove lui voleva. Quindi, fin dall’inizio di questa pericope, si richiama il momento fondatore della storia d’Israele. La nube, poi, è un simbolo di fecondità perché porta la pioggia, il bene per eccellenza in un paese caldo e arido come Israele. Dio si presenta non solo come colui che guida il cammino del popolo, ma anche come colui che dà la vita al popolo. Tutto questo è collegato alla sapienza, nella prima lettura odierna. Uscita da Dio, sempre presente davanti a lui, la sapienza, che ha assistito all’opera della creazione e ha partecipato alle vicende dell’Esodo, adesso pone la sua tenda in mezzo al popolo dell’alleanza, Israele. È sotto la forma concreta della legge che la sapienza divina si è manifestata ad Israele, ed è la pratica di questa legge donata da Dio che fa di Israele un popolo saggio fra tutti i popoli. L’osservanza della legge permette a Israele di vivere come un popolo libero, attualizzando ogni giorno la relazione di alleanza stipulata presso il monte Sion. L’osservanza della legge permette a Israele di costruire una società armoniosa in cui si riproduce l’ordine voluto da Dio al momento della creazione. Dieci volte Dio parla nella creazione, e il caos primordiale si organizza in mondo ordinato. Dieci volte Dio parla nella legge, e chi aderisce a queste parole mette ordine nel suo mondo personale e sociale, realizzando così l’utopia descritta in Gen 1: un mondo non violento e armonioso, bello e buono in tutte le sue parti e nel suo complesso.

Ha posto la sua tenda in mezzo a noi

La sapienza, secondo il testo del Siracide, ha presieduto sia alla creazione del mondo che alla storia dell’Esodo, centrata sul dono dell’alleanza e della legge, e oggi diventa il principio a partire dal quale ogni israelita può aderire a quel progetto originario. Questa adesione non è più riservata esclusivamente ad Israele, dal momento che il Signore Gesù, nella sua predicazione, ha ripreso gli inviti della sapienza e li ha resi universali, accessibili ad ogni persona. Egli ha detto: «Venite a me», e si è presentato come la Sapienza e la Parola del Padre. Rivela il Padre a coloro che si mettono alla sua scuola. Infatti il Verbo incarnato è l’Emmanuele, Dio in persona, con noi. Giovanni, nel Vangelo, presenta Gesù come la tenda dell’Esodo o come il tempio di Gerusalemme, cioè come la dimora di Dio in mezzo agli uomini. Il prologo del quarto Vangelo evoca anche la nube che nascondeva e rivelava la presenza di Dio (v 14). Alla tenda dell’Esodo e al tempio di Gerusalemme, succede ora il Verbo incarnato: nella sua persona Dio è ormai presente definitivamente. La sapienza, che ha svolto un ruolo di mediazione nell’Antico Testamento, è essenziale anche per noi. Il suo compito è di aiutarci a discernere la presenza definitiva di Dio in Gesù di Nazaret, vincendo quelle resistenze interiori che ognuno di noi avverte nei confronti di un’adesione totale al Signore. Il prologo stesso evoca il mistero del rifiuto di Gesù: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo … eppure il mondo non lo riconobbe». La presenza di Dio non s’impone, si propone come luce, ma è sempre possibile chiudere gli occhi di fronte ad essa. È possibile, eppure è inspiegabile che gli uomini preferiscano le tenebre alla luce, simbolo di vita, con tutto ciò che ad essa è collegato. È come se nel mondo esistessero forme di rifiuto della vita, che assumono vari aspetti. A volte si tratta di autolesionismo, a volte, di un desiderio di vita orientato male. Non stiamo parlando di situazioni lontane da noi, perché anche noi, forse, aderiamo al Vangelo, ma facciamo pure l’esperienza di chiusure, rifiuti, peccati, che non ci spieghiamo sempre in modo razionale. Perché facciamo tanta fatica ad aderire a ciò che il nostro cuore desidera? Qui entra in gioco la sapienza che può aiutarci a fare discernimento e a sostenere le scelte di bene, che ogni giorno vanno riconfermate. La liturgia odierna non si pone su un versante immediatamente operativo, non riflette cioè sulla risposta umana e sulle sue dinamiche, ma in vari modi canta l’intervento di Dio nella storia. Anche la seconda lettura s’inserisce nello stesso contesto del cammino tracciato dal Vangelo e dalla prima lettura, proponendo alla nostra riflessione una parte dell’inno cristologico della lettera agli Efesini. Questo inno canta l’intervento di Dio nella nostra storia, nella persona di Gesù: egli è la sapienza di Dio, annunciata e attesa dall’Antico Testamento, è la Parola di Dio, il Verbo incarnato. È in lui e per mezzo di lui che Dio ha realizzato il suo progetto di salvezza nei confronti degli uomini. L’inno di san Paolo rilegge tutta la nostra storia ponendola sotto il segno della benevolenza di Dio, che ci ha predestinati, cioè ci ha reso oggetto di una preferenza. «Benedetto sia Dio che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo»: il momento iniziale di questa benedizione si trova nei cieli, nel Cristo pre-esistente, che ha dei legami con la sapienza di cui parla la prima lettura e con la teologia del quarto Vangelo. Noi siamo stati benedetti e la nostra risposta consiste essenzialmente nel benedire a nostra volta. Non si tratta prima di tutto di fare gesti morali, ma di benedire, cioè di dire bene di Dio che ha elaborato, fin dal principio questo progetto di salvezza. Noi siamo chiamati a vivere nella perfezione e nella santità di questo amore. È interessante, a nostro avviso, che la liturgia odierna adotti la forma dell’inno. Le tre letture sono inni e testi di tipo liturgico e di andamento contemplativo. La teologia successiva avrà il compito di esprimere questi concetti in termini formali, ma intanto la liturgia educa e forma il popolo di Dio, affinché comprenda se stesso e la sua vocazione sullo sfondo di questo quadro così ampio. In primo luogo si tratta di contemplare il mistero, cogliendo la sua dinamica di rivelazione. Verrà poi il momento di rispondere e insistere sulla ricaduta umana e sulle sue contraddizioni. Ma adesso, in questa seconda domenica dopo Natale, il clima è ancora meditativo, contemplativo, silenzioso. Solo la parola della benedizione risuona, e si delinea un accordo tra la benedizione che Dio pronuncia fin dal principio e quella che l’uomo si sforza di rendere attuale nella sua vita. Il contenuto di tale parola di bene è Gesù, Verbo incarnato, esistente prima della creazione del mondo. Di fronte a tali realtà, possiamo solo far nostre le parole della colletta: «Padre di eterna gloria, che nel tuo unico Figlio ci hai scelti e amati prima della creazione del mondo e in lui, sapienza incarnata, sei venuto a piantare in mezzo a noi la tua tenda, illuminaci con il tuo Spirito, perché accogliendo il mistero del tuo amore, pregustiamo la gioia che ci attende, come figli ed eredi del tuo regno».

Lc 1,35 : In Maria lo Spirito Santo viene a creare un mondo nuovo.

dal sito:

http://www.mariedenazareth.com/527.0.html?&L=4

Lc 1,35 : In Maria lo Spirito Santo viene a creare un mondo nuovo.

Nell’Antico Testamento, la nube è segno della presenza divina la quale dimora sulla tenda del convegno (Es 40,35 ; Nm 9,18.22) o guida Israele in marcia nel deserto (Nm 10,36).  

La nube-Spirito, la Shekinah

Quando Isaia rilegge questi passi dell’Esodo e dei Numeri, trasferisce l’immagine della nube nello Spirito del Signore : « Lo spirito del Signore li guidava al riposo » (Is 63,14)

Questa identificazione dello Spirito di Dio e la nube sembra potersi dedurre anche da questo : « Lo spirito che aleggiava sulle acque » (Gen 1,2) che divenne in Gb 38,9 « la nube » sulla creazione.

Luca utilizza il simbolismo « nube / Spirito », sia nel racconto della trasfigurazione (Lc 9,34) sia nel racconto dell’annunciazione (Lc 1,35)

Ora, quando la nube coprì la tenda del convegno, la gloria del Signore, la sua Shekinah, riempiva la Dimora (Es 40,35). Maria, sulla quale scende lo Spirito, è luogo della presenza divina. I titoli di Gesù, « santo », « figlio di Dio », s’intendono nel senso forte.  

Spirito creatore

Lo Spirito ricrea un popolo

Nell’Antico Testamento, lo Spirito è all’opera nel ricreare il suo popolo reduce dall’esilio :

Is 32,15 ; Is 44,3 ; Ez 37,5-6. 9-10.14. Il ritorno degli esuli sarà una rinascita alla vita, quasi una risurrezione operata dallo Spirito del Signore, un ritorno materiale e spirituale, una conversione. E questo cambiamento è paragonato all’esodo dall’Egitto e alla stessa creazione del mondo, quella primordiale (Is 51,9-10)  

Lo Spirito creatore allegiava sulle acque

La genealogia di Gesù nel vangelo di Luca comincia con Adamo : Luca vuole presentare Gesù come il nuovo Adamo. In base a quel parallelismo, l’alto medio Evo ha visto in Maria la nuova creazione vergine, contrapposta a Gn 1,2 : come all’origine lo spirito di Yahwéh si posava sulla massa informe delle acque, per destare la varietà degli esseri che adornano il cosmo, così ora avvolge Maria per far germinare in lei l’umanità del Figlio di Dio.

La conseguenza della discesa dello Spirito su Maria è la germinazione di un Essere divino, la quale fu interpretata fin dall’antichità cristiana come una nuova creazione. E comunque Maria, lungi dall’essere una creatura inerte, è una persona libera, consapevole, aperta al dialogo col suo Dio, il Dio dell’Alleanza.  

L’umanità di Gesù

In questa nuova creazione Gesù Cristo è costituito Re (Lc 1, 32-33), e capostipite del popolo. Porta la salvezza, la liberazione dal peccato e dalla morte per mezzo di quel battessimo nello Spirito (Lc 3,16 cf. At 1,5). La casa di Giacobbe sulla quale Cristo è costituito Re comprende il popolo della nuova alleanza, è replica delle dodici tribù dell’antico Israele (Lc 22,20.30) ed abbraccia tutti i popoli (Lc 2,31 ; 3,6), Ebrei e Gentili (Lc 2,32).
 

Lo Spirito che scende sulla Vergine è lo Spirito creatore, Colui che fu all’opera nella creazione del mondo e nella rinascita dell’antico popolo di Dio. Adesso crea l’umanità di Cristo ; e Cristo, in virtù del medesimo Spirito, compirà la seconda creazione, che consiste nel rinnovamento escatologico del popolo di Dio, di cui egli è principio, Re e Signore.

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Bibliografia :

A. SERRA, E C’era la madre di Gesù, saggi di esegesi biblico-mariana (1978-1988), ed. Cens-Marianum.

Sintesi F. Breynaert. 

A.SERRA
Lc 1,26-38 : l’annunciazione a Maria
,

Il Sì di Maria ed il Sì di Israele

dal sito:

http://www.mariedenazareth.com/8443.0.html?&L=4

Il Sì di Maria ed il Sì di Israele

Nella tradizione, il Sì di Maria ed il Sì d’Israele sono stati commentati col Cantico dei Cantici, in particolare con alcuni versetti:

 » Mi baci (egli) con i baci della sua bocca ! » (Ct 1,2);

« Mentre il re è nel suo recinto, il mio nardo spande il suo profumo » (Ct 1,12);

 » O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia … mostrami il tuo viso, perché la tua voce è soave e il tuo viso è leggiadro ». (Ct 2,14). 

« Mi baci egli con i baci della sua bocca ! » (Ct 1,2) 

La tradizione ebraica è costante nel riferire questo versetto in maniera privilegiata alla rivelazione di Dio sul monte Sinai. Là il Signore-sposo baciò Israele-sposa con i baci della sua bocca. Difatti parlò con lei faccia a faccia donandole la Torah. (Targum Ct 1,2)  

La tradizione cristiana (parlando di Maria) : fra i padri della Chiesa, alcuni applicano questo versetto alla Chiesa ed a Maria. Lo sposo-Cristo (dicono), baciò la Chiesa-sposa al momento dell’Annunciazione, quando il Verbo scese nel seno verginale di Maria. (cfr. San Giralomo)

In epoca medievale, si dirà che Dio baciò Maria con il bacio della sua bocca, quando lo Spirito scese su di lei a Nazaret. (cfr. San Ruperto di Deutz).  

« Mentre il Re è nel suo recinto, il mio nardo spande il suo profumo » (Ct 1,12)

La tradizione ebraica (parlando di Israele)

Il famoso Rabbi Juda ben Ilai, verso il 150, dava la seguente esegesi del versetto citato :

« Mentre il Re dei re, il Santo – benedetto egli sia ! – sedeva alla sua mensa nel firmamento, Israele emise la sua fragranza davanti al monte Sinai e disse : Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo e lo ascolteremo (Es 24,3.7)»

Cantica Rabah 1,12.1 

La tradizione cristiana (parlando di Maria)

Ascoltiamo, ora, Ruperto di Deutz, (XII secolo) che coltivava rapporti intensi con i rabbini del suo tempo :

« Mentre [il Verbo] era nel seno, cioè nel cuore del Padre, da queste sue altissime sedi posò lo sguardo sulla mia umiltà. Questo è ciò che voglio dire : « Mentre il Re era nel suo recinto, il mio nardo emise il suo profumo » (Ct 1,12). Qual è, o quale poteva essere il recinto del Re, se non il cuore o il seno del Padre ? Infatti « In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio… » (Gv 1,1). Tale era la sua sede, quando « il mio nardo diffuse il suo profumo » (Ct 1,12). Ed egli, deliziato da questo profumo, discese nel mio grembo.»

In Canticum Canticorum I, a1,12 

Ruperto, evidentemente, si muove entro l’area dell’ Annunciazione. L’umiltà di Maria è il nardo che fece salire il suo profumo fino al cospetto dell’ Altissimo.  

« O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia… mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, poiché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro » (Ct 2,14).

La tradizione ebraica (parlando di Israele)

Il celebre Rabbi Aqiba ( + 135) interpretava questo passo in funzione di Israele al Sinai, quando il popolo si radunò alle pendici della montagna rocciosa per ricevere la Legge. L’Eterno esclama:

« O mia colomba. ..fammi sentire la tua voce ». Questo si riferisce a ciò che loro dissero prima che fossero dati i comandamenti, come è scritto: « Tutto ciò che il Signore ha detto, noi lo faremo e lo ascolteremo ».(Es 24,27) « Poiché la tua voce è soave ». Questo invece, riguarda ciò che [...] è detto: « Il Signore udì le vostre parole…e disse a me [a Mosé]: Quanto hanno detto va bene » (Dt 5,28)»

Cantica Rabah 2,14.4

La tradizione cristiana (parlando di Maria)

Veniamo ora, a questo notissimo brano di san Bernardo, (morto nel 1153), dettato come commento all’Annunciazione:

« O Signora, pronuncia la risposta che la terra, gli inferi ed i cieli stanno aspettando. Lo stesso Re universale e Signore, come ha desiderato vedere il tuo volto, così ora brama il tuo consenso… Dal cielo ti dice: « O bella fra le donne, fammi sentire la tua voce! » Poiché, se tu le farai sentire la tua voce [il fiat], egli ti farà vedere la nostra Salvezza. »»

(Sermones in laudibus Virginis Matris Hom IV,8)

Conosceva Santo Bernardo l’esegesi giudaica ?

Non abbiamo informazioni esaurienti atte a dissipare le incertezze a questo riguardo. Potremmo comunque ricordare che il santo dottore redarguiva severamente coloro che muovevano persecuzione contro gli ebrei o, peggio ancora, commettevano violenza fisica nei loro confronti, fino ad ucciderli. Inoltre, l’abbazia di Chiaravalle, dove risiedeva Bernardo, era situata circa settanta chilometri in direzione sud-est da Troyes, sede di una fiorente e celebre comunità ebraica, ove insegnava il famoso Rabbi Salomone Ben Isacco, detto Rashî (morto nel 1105).

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A Serra

Cf. A. Serra, E c’era la Madre di Gesù, Marianum, Roma, 1989, Sintesi F. Breynaert.

Introduzione ai Libri Profetici

 dal sito:

http://www.lasacrabibbia.com/LIBRI%20PROFETICI.htm

 

Introduzione ai Libri Profetici 

[ di P. Gironi ] 

Libri Profetici (maggiori)

 Il termine profeta deriva dal greco profêtês e significa «colui che annuncia, che proclama». L’accento, quindi, è posto più sull’attività dell’uomo che è chiamato a parlare che sulla capacità di predire il futuro, pur senza escluderla. Nella lingua ebraica il termine corrispondente è nabî’. Esso ha, però, un significato più vasto, in quanto racchiude anche quello di «essere chiamato». Questa precisazione è confermata anche dal fatto che presso i profeti biblici è quasi sempre presentata la chiamata al loro ministero profetico. 

Con l’espressione figli dei profeti s’intende il gruppo di discepoli che si forma accanto alla persona carismatica del profeta e che molto contribuirà alla conoscenza e alla trasmissione del messaggio che lo caratterizza. 

  

Natura del profetismo

 

 Il profetismo non è un fenomeno esclusivo d’Israele, anche se presso questo popolo ha raggiunto l’espressione più alta. Anche il mondo antico ha conosciuto questo fenomeno che, nelle componenti fondamentali, si può ricondurre a una matrice d’ispirazione religiosa. 

La parola del profeta, infatti, suppone sempre un contatto con la divinità, la formulazione di un messaggio od oracolo, ricevuto attraverso l’ispirazione o la visione o la percezione del dio presso un luogo di culto o santuario. 

L’Egitto, la Mesopotamia, Canaan e in genere i paesi dell’antico Oriente possedevano un’«organizzazione profetica». Lo stesso si può affermare dei Greci e dei Romani. Di tale organizzazione sono noti i nomi (profeti di Baal in Canaan, il barù o veggente a Babilonia, il muhhu, sacerdote indovino, e gli apilu, coloro che rispondono, a Mari) e anche i santuari (ad esempio Dodona e Delfi presso i Greci). 

Per lo stretto rapporto con la divinità, si può affermare che il profetismo è sempre alle origini di una religione o legato alle pratiche di questa. Alle volte, come nel caso delle città-stato mesopotamiche (il caso più interessante è quello della città di Mari), si può notare uno stretto parallelismo tra la forma della proclamazione profetica extrabiblica e quella della proclamazione biblica. E questo non solo a livello letterario, ma soprattutto nella coscienza che il profeta ha di dipendere e parlare in nome della divinità. 

Tuttavia il profetismo extrabiblico molto si basava sulle capacità delle persone o dei gruppi a ciò deputati e sull’appoggio dell’ideologia politica e religiosa che tra tutte si imponeva. Il suo ruolo era, perciò, quello di legittimatore e difensore della corte e del culto. Appariva, così, l’intrinseca sua debolezza, dovuta all’instabilità politica e religiosa tanto frequente nella storia dei paesi del Medio Oriente e di quelli antichi in genere. 

La missione del profeta in Israele ha invece caratteristiche inconfondibili che riflettono tutta la storia del popolo a cui viene indirizzata la parola profetica. Non esiste profeta in Israele che non si richiami agli elementi fondamentali della storia del popolo «che Dio pasce». La promessa, l’alleanza, l’elezione, la liberazione, il dono della terra, il dono della discendenza, la speranza nel messia, sono realtà che Israele ha sperimentato e vive, ma sono anche condizionate a un suo atteggiamento storico: la fedeltà. Quando il popolo non avverte più questo legame con il suo Dio viene minata la sua stessa esistenza: tutto ciò che costituiva il rapporto con Dio diviene incomunicabilità con Dio e aderenza a tutto ciò che, nel linguaggio biblico, è l’anti-Dio. E’ allora che sorge il profeta biblico con la parola di richiamo e di condanna. In questo il profeta non è sorretto da alcuna ideologia, nessun beneficio o privilegio che lo leghi a correnti o a persone, ma è caratterizzato dalla totale libertà. Soprattutto egli ha coscienza di essere chiamato a parlare unicamente in nome del Dio unico. 

Più in particolare queste sono le caratteristiche del profetismo biblico: l’iniziativa e l’investitura profetica sono atti esclusivi di Dio; Israele riceve la rivelazione dal suo Dio attraverso la parola, la cui comunicazione è garantita dal profeta; la rivelazione e la sua comunicazione avvengono sempre nella storia. Nessun profeta si isola dal mondo dei contemporanei o si sradica dal legame generazionale del suo popolo, della sua città, dei suoi re; l’uomo non può sottrarsi alla chiamata profetica. 

  

Parola, visione, gesto

 

 I profeti non si esprimono solo attraverso la parola, ma anche attraverso la visione e il gesto simbolico. Queste diverse forme di comunicare il messaggio dipendono dal temperamento e dalla personalità del singolo profeta. 

Un testo biblico antico parla del profeta «che vede» (o «veggente», in ebraico ro’eh o h+ozeh in questo modo: «Una volta in Israele, quando uno andava a consultare Dio, diceva: « Su, andiamo dal veggente », perché il profeta di oggi era chiamato in antico il veggente» (1Sam 9,9). Quasi tutti i libri profetici contengono testi ispirati alla visione. Possiamo cominciare da Mosè («modello» di ogni profeta) di fronte alla visione del roveto, Es 3, che è all’inizio del suo carisma profetico, ed estendere la ricerca in Isaia c. 6, Geremia cc. 1 e 46, Ezechiele cc. 37 e 40-48, fino a cogliere nel libro di Daniele l’orientamento della visione al genere letterario dell’apocalittica. 

Oltre alla visione fa parte della proclamazione profetica anche il gesto simbolico. Questo gesto è in funzione dei recettori che in esso leggono il messaggio del profeta, non esplicitato subito dalla parola, ma racchiuso nella ricchezza espressiva del simbolo (per qualche esempio cfr. 1Re 11,29ss; Is 8,1-4; Ger 19,10-11; 27-28; Ez 12,1-16). 

Dallo studio dell’antico mondo orientale si ha notizia di un profetismo diversamente caratterizzato secondo l’ambiente socioculturale che lo esprime: da primitivi fenomeni di frenesia orgiastica si passa a forme estatiche e divinatorie più evolute e composte. In Israele, invece, il fenomeno del profetismo si svolge in modi sempre più contenuti e soprattutto esso va compreso come espressione esteriore di un fatto interiore unico: il contatto con il Dio che si rivela. 

  

I libri profetici nella Bibbia

  

La Bibbia, oltre ai libri storici e ai libri sapienziali, comprende anche i libri profetici. La proclamazione profetica, perciò, è un elemento essenziale sia per la comprensione della storia della salvezza sia per la conoscenza di una terminologia che aiuti il credente nella formulazione della realtà di Dio e della fede biblica e dei grandi temi biblici dell’alleanza, della promessa, dell’appartenenza al popolo di Dio, del messianismo. 

La Bibbia ebraica distingue due gruppi di libri profetici: quello dei profeti anteriori, comprendente i libri di Giosuè, Giudici, 1-2 Samuele, 1-2 Re, e quello dei profeti posteriori, che corrisponde ai veri e propri libri profetici a esclusione (e giustamente) di Daniele. 

Tra i libri profetici, inoltre, si è soliti distinguere quelli dei profeti maggiori e quelli dei profeti minori o dodici profeti. 

Profeti maggiori sono: Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele. 

Profeti minori sono: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia. 

Oltre a questa distinzione, si può anche seguire la successione cronologica più verosimile dei fatti compresi nei libri profetici. Si abbraccia, così, un arco di tempo che dall’VIII secolo a.C. si estende fino al V-IV secolo a.C. Storicamente questo periodo è contrassegnato da avvenimenti che incideranno moltissimo sulla personalità e sulla predicazione dei singoli profeti. Un avvenimento, in particolare, evidenzierà più di ogni altro la caratteristica propria di ciascun profeta: l’esilio. Tra i profeti possiamo, così, attuare una distinzione storico-cronologica molto importante: da una parte i profeti precedenti l’esilio babilonese, dall’altra i profeti che hanno sperimentato l’esilio e il ritorno. 

Profeti precedenti l’esilio, VIII secolo – 586 a.C.: Amos, Osea, Naum, Abacuc, Isaia, Michea, Sofonia, Geremia. 

Profeti del periodo dell’esilio, 586-538 a.C.: Ezechiele, Secondo Isaia, Daniele. 

Profeti postesilici, 538-450 a.C. circa: Aggeo, Zaccaria, Terzo Isaia, Abdia, Malachia, Gioele, Giona. 

Addentrarsi in una cronologia più dettagliata sarebbe forse impossibile. Ci si limita a queste suddivisioni non per semplificare, ma perché esse già possono orientare a una migliore comprensione del messaggio profetico. 

Un’ultima osservazione riguarda la collocazione geografico-politica dei profeti, secondo la loro appartenenza al regno del nord (o Samaria), al regno del sud (o Giuda) o alla provincia persiana della Giudea dopo l’esilio. 

Profeti del regno del nord, 930-721 a.C.: Amos, Osea. Agirono come profeti, ma non sono annoverati tra gli scrittori, anche Elia ed Eliseo. 

Profeti del regno del sud, 930-586 a.C.: Isaia, Michea, Sofonia, Naum, Abacuc, Geremia, Ezechiele, Secondo Isaia, Abdia, Daniele. 

Profeti nella Giudea, provincia persiana, 538-450 a.C. circa: Aggeo, Zaccaria, Terzo Isaia, Malachia, Gioele, Giona. 

L’utilità di queste divisioni non va sottovalutata: esse sono come guide per muoversi con sicurezza e competenza nel complesso mondo culturale-storico-religioso dei profeti e soprattutto per evidenziare subito le tematiche portanti del loro messaggio. 

E’ importante per la comprensione del messaggio saper collocare un profeta prima, durante o dopo l’esilio, come è importante comprendere la terminologia e il vocabolario che caratterizzano questi tre periodi: 

1. I profeti preesilici: Amos, Osea, Isaia, Michea, Sofonia, Naum, Abacuc, Geremia. Sono i profeti che animano la vita del popolo ebraico nel periodo in cui, dopo la conquista della Palestina e l’istituzione della monarchia unitaria, la sua storia si articolò nella storia dei due regni divisi: il regno del sud e il regno del nord. 

La divisione avvenne dopo la morte di Salomone, nel 930 a.C. Il regno del nord crollò nel 721 a.C. sotto gli Assiri. Il regno del sud invece crollò nel 586 a.C. sotto i colpi dell’esercito babilonese di Nabucodònosor II. 

Caratteristica di questi profeti è il costante richiamo alle linee portanti della «vera» storia di Israele: la fedeltà al Dio liberatore dell’esodo, la totale dedizione al Dio donatore della terra, il ricordo dell’elezione in Abramo, la certezza che dalla discendenza di Davide le promesse si sarebbero attuate in Israele e per Israele. 

Queste linee portanti non erano, però, un’astrazione. Esse erano visualizzate e celebrate nella liturgia e nel culto del tempio, apparivano nella loro concretizzazione nella persona del re e nella coscienza liturgico-storica d’Israele che si sentiva figlio e primogenito del suo Dio. 

Ma quando la monarchia, il culto, la vita stessa del popolo non erano più segno di questa profonda storia d’Israele e soprattutto quando il significato di queste linee portanti veniva svuotato dei suoi autentici contenuti e strumentalizzato a favore dell’interesse immediato e del permissivismo, allora sorgeva il profeta. 

Le alleanze con i popoli vicini, la strumentalizzazione della pratica religiosa, l’accondiscendenza all’idolatria, la sperequazione tra le classi sociali vengono poste sotto accusa dalla parola del profeta. 

I profeti preesilici cercarono di riportare il popolo d’Israele all’autenticità della fede biblica e alla fedeltà al Dio biblico inchiodando il suo orientamento religioso, politico, sociale, giuridico a responsabilità ben precise nei confronti della sua storia e di quella dell’umanità futura, con una parola introduttiva e conclusiva che non permette appello: «Oracolo del Signore… Parola del Signore Dio». 

In prospettiva a questa parola viene gradualmente configurandosi l’intervento punitivo del Dio biblico: l’esilio. A Israele che non «ascolta» (cfr. Dt 5-11), «non produce frutto», ma si perde e si confonde nell’idolatria, questi profeti preannunciano l’esilio. 

2. I profeti del periodo dell’esilio: Ezechiele, Secondo Isaia, (Daniele). 

La catastrofe nazionale del 586 a.C. non viene letta solo come fatto storico-politico, ma riletta alla luce della fede nel Dio donatore della libertà, della terra e della promessa. Questi profeti si immedesimano nella realtà storica del loro popolo, prostrato dalla potenza egemone del momento. Il loro messaggio riproduce lo sgomento provato di fronte all’esilio, compreso come intervento punitivo del Dio dei padri. Ma poi si dilata e spazia riprendendo l’antico, ma sempre vero, vocabolario del Dio biblico. Questo Dio rifarà le meraviglie dell’esodo, ri-darà la terra come dono, ri-unirà il suo popolo sul suo monte e nella sua città, ri-darà vita, pace, storia, discendenza… 

Una lettura di Isaia e di Ezechiele che non si basasse e non assorbisse questa tematica di ri-attualizzazione e ri-creazione da parte di Dio, sarebbe un imperdonabile impoverimento e una radicale incomprensione del «fatto biblico». 

3. I profeti postesilici:

Aggeo, Zaccaria, Terzo Isaia, Abdia, Malachia, Gioele, Giona. Il contesto storico in cui operano questi profeti è quello descritto nei libri di Esdra e Neemia quando, nel 538 a.C., il re Ciro con un editto rimise in libertà gli esuli ebrei permettendo il loro ritorno in patria. 

E’ un periodo soprattutto di ricostruzione: edilizia, politica, religiosa, economica… Ma il profeta non intende la ricostruzione solo in queste dimensioni. Ricostruzione dopo l’esilio per il profeta è ritorno e immersione nell’autentica tradizione biblica d’Israele, è risentire l’eco delle promesse, dell’alleanza, della liberazione, del dono della terra, della liturgia del tempio. Ricostruzione significa per ogni uomo diventare fratello dell’altro, per ogni nazione diventare complementare all’altra e per Israele diventare per i popoli ciò che Dio è per lui. 

La storia, dicono questi profeti, è offerta a Israele per questa ricostruzione e il ritorno dall’esilio è un’occasione per dimostrare tale finalità. La loro opera consiste nel richiamare Israele a questo impegno fondamentale, nel credere che il «secondo esodo», cioè il ritorno dall’esilio di Babilonia, non è fine a se stesso, ma orienta all’attesa del «giorno del Signore» e all’esodo definitivo, quello del messia. 

In attesa di questo esodo definitivo e della «parola» definitiva, la profezia gradualmente si estingue in Israele per risorgere nella persona e nell’opera di Gesù, «profeta potente in opere e in parole» (Lc 24,19). 

  

Per la fruttuosa lettura dei profeti

 

 Un’ultima annotazione ci pare importante. 

I profeti ordinariamente non scrissero i loro oracoli o scrissero assai poco: essi erano i porta-parola del Dio che li aveva scelti e inviati, e la loro preoccupazione si concentrava nel trasmettere fedelmente il messaggio ricevuto. La composizione scritta della loro predicazione è opera dei loro discepoli, a volte anche diluita nel tempo. Essa comprende la loro predicazione, che fu varia nelle diverse circostanze di tempo, di argomento e di uditori, e fu registrata a ricordo e testimonianza di chi la venerava e meditava. Ma fu registrata in modo, diciamo, estemporaneo, e cioè senza logica connessione tra un oracolo e l’altro, tra un episodio e l’altro, tra l’uno e l’altro intervento profetico, con la sola preoccupazione di conservare quanto l’uomo di Dio aveva comunicato. Ciò comporta più una giustapposizione che una successione di argomenti, uniti da un filo di ragionamento logico. D’altra parte la predicazione stessa del profeta non era stata unica, ma varia e staccata, a volte con distanze notevoli di tempo e riguardante circostanze e argomenti assai diversi tra di loro. E’ molto importante tener presente tutto ciò nella lettura dei profeti, lettura che non può essere discorsiva, alla ricerca di logicità nell’intera opera, ma, se si può dir così, pedagogica, staccando un episodio dall’altro e attribuendo a ciascuno di essi la sua peculiarità. La parola profetica, cioè, non è da leggersi come un racconto unico, ma come brani staccati con un valore proprio e molte volte diverso. 

Le brevi note di commento mirano a rendere più facile tale distinzione. 

  

Libri Profetici (minori)

 Sono così chiamati dodici libretti di diversa estensione attribuiti a vari profeti, che abbracciano un arco di tempo che si estende dall’VIII fino al IV secolo a.C., quasi alle soglie dell’epoca ellenistica. 

L’attributo «minore» non si riferisce tanto al contenuto della predicazione di questi profeti, quanto alla brevità che li caratterizza rispetto ai quattro (Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele) detti «maggiori». 

La loro successione è diversa nella Bibbia ebraica (che anche la Volgata segue) e nella Bibbia greca. L’ordine storico-cronologico nel quale più verosimilmente si sono succeduti i singoli profeti sembra essere questo: Amos, Osea, Michea, Sofonia, Naum, Abacuc, Aggeo, Zaccaria, Malachia, Abdia, Gioele, Giona. 

Nel testo della presente edizione si adotta l’ordine di successione della Bibbia ebraica (e della Volgata): Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia. 

 

Publié dans:Bibbia - Antico Testamento |on 11 décembre, 2007 |Pas de commentaires »
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