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GENESI 12,1-4A – COMMENTO BIBLICO

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GENESI 12,1-4A – COMMENTO BIBLICO

In quei giorni, 1 il Signore disse ad Abràm: « Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. 2 Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione.
3 Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra ».
4 Allora Abràm partì, come gli aveva ordinato il Signore.

COMMENTO
Genesi 12,1-4a

La chiamata di Abramo
Nella seconda parte della Genesi (Gn 12-50) si narrano le vicende dei Patriarchi, i quali sono presentati non solo come i progenitori, ma anche come i modelli di Israele nel suo rapporto con Dio. Il primo di essi è Abram, al quale verrà poi cambiato il nome in Abraham (Abramo: cfr. Gn 17,5). Abramo non è soltanto il primo dei patriarchi ma è anche quello che ha suscitato maggiore interesse nella riflessione religiosa di Israele. Nel ciclo a lui dedicato (Gn 12,1 – 25,18) si nota però una sproporzione tra la lunghezza del racconto e la povertà del materiale narrativo in esso contenuto. In realtà la storia di Abramo è costruita mediante un accavallarsi di racconti che spesso non sono altro che narrazioni dello stesso fatto desunte da diverse tradizioni. Molti racconti sono eziologie riguardanti l’origine di un luogo di culto. Dio è presentato come colui che dirige gli avvenimenti, entrando personalmente in scena e manifestando direttamente il suo volere.
Nelle vicende di Abramo si intrecciano due temi di grandissima importanza, quello relativo alle promesse divine e quello della fede con cui l’uomo si apre a Dio e alla sua iniziativa salvifica. La fede di Abramo è presentata non come qualcosa di perfetto fin dall’inizio ma piuttosto come un atteggiamento interiore che si sviluppa e giunge a maturazione attraverso difficoltà e prove, cadute e riprese coraggiose.
La vicenda di Abramo si apre con la sua chiamata da parte di Dio. Questa è presentata in un testo probabilmente di origine piuttosto tardiva (Gn 12,1-9) come l’atto di nascita di Israele. La liturgia ne riprende solo i primi versetti. Dio si rivolge ad Abramo con queste parole: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre verso la terra che io ti indicherò» (v. 1). Praticamente Dio gli chiede di abbandonare tutti i suoi legami naturali: patria, clan, famiglia. A quel tempo ciò significava trovarsi soli di fronte a un mondo ostile e pieno di pericoli (cfr. Gn 4,14). Dio inoltre chiede ad Abram di avviarsi verso un paese di cui non gli indica il nome e l’ubicazione. Il lettore può supporre che si tratti della terra di Canaan, verso la quale si era diretto Terach con la sua famiglia (cfr. 11,31), ma Dio non lo dice, e neppure spiega quale sarà il suo rapporto con tale paese. Ad Abramo non resta altro che andare verso l’ignoto, lasciandosi guidare ciecamente da Dio.
Alle richieste divine corrispondono due promesse. Anzitutto Abramo sarà il progenitore di un grande popolo. Umanamente parlando questa promessa non è realizzabile, perché, come il narratore ha annotato poco prima (Gn 11,30), la moglie di Abramo, Sarai, è sterile. Inoltre Dio benedirà Abramo, cioè, secondo la mentalità biblica, lo riempirà di favori e di benessere sia in campo materiale che spirituale. Inoltre renderà grande il suo nome, cioè lo renderà celebre: la grandezza del nome va di pari passo con il possesso di un grande potere. Questa promessa si aggancia al racconto della torre di Babele, dove si dice che l’umanità, ancora indivisa, aveva voluto farsi un nome, e con esso una potenza, mediante la costruzione della torre (cfr. Gn 11,4), e proprio per questo era stata dispersa: per volontà di Dio Abramo diventerà strumento di quell’unità che gli uomini avevano invano cercato di ottenere. Ciò non avrà però lo scopo di aumentare il suo potere, ma di realizzare un bene che viene da Dio e riguarda tutti.
Inoltre Dio farà di Abramo una benedizione. Questa promessa viene specificata in due affermazioni. Anzitutto Dio benedirà quelli che lo benediranno, e maledirà quelli che lo malediranno. Ciò significa che Abramo troverà in Dio la sua costante protezione, in quanto coloro che vorranno fargli del male saranno immediatamente puniti da Dio. Inoltre in lui tutte le famiglie della terra «si diranno benedette», cioè si augureranno l’una all’altra di essere benedette come Abramo (cfr. Gn 48,20); questa promessa ha un’apertura universalistica, che è resa esplicita nella traduzione greca dei LXX e nelle citazioni del NT, dove l’espressione «In te si diranno benedette» è tradotta «In te saranno benedette». Il nome di Abramo viene dunque usato per benedire e, di conseguenza, la benedizione di Abramo passerà a una moltitudine sterminata di gente. È chiaro che ciò avverrà mediante la sua discendenza. Questa promessa è in stridente contrasto con l’insicurezza a cui Abramo deve andare incontro lasciando la propria famiglia e con il fatto che egli non può avere un figlio.
Di fronte alla richiesta e alle promesse divine, Abramo non parla ma si mette in viaggio portando con sé il nipote Lot (v. 4a). In tal modo Abramo è presentato come il modello di una fede radicale nella parola di Dio.
A queste informazioni la tradizione sacerdotale ne aggiunge altre che non sono riprese dalla liturgia: Abramo aveva allora settantacinque anni e, lasciata Carran con la moglie, il nipote e tutti i suoi beni, giunse nella terra di Canaan (vv. 4b-5): in base ai dati riportati precedentemente (cfr. Gn 11,26.32) risulta che Abramo ha dovuto effettivamente separarsi da suo padre Terach che, al momento della sua partenza, era ancora vivo. La migrazione di Abramo richiama da vicino quella dei giudei ritornati nella loro terra al termine dell’esilio.
Il racconto continua con l’arrivo di Abramo a Sichem, presso la Quercia di More; il narratore annota che «nel paese si trovavano allora i cananei» (v. 6b). È solo in questo momento che Dio fa ad Abramo la terza promessa, quella cioè di dare proprio quella terra alla sua discendenza (v. 7). Anche qui si nota un evidente contrasto tra la promessa divina e l’impossibilità, umanamente parlando, che essa si attui. Per gli esuli, che vedevano tutte le difficoltà di un ritorno in quella che consideravano come la loro patria, doveva essere di grande incoraggiamento il potersi rifare a questa promessa totalmente gratuita di cui era portatore il loro lontano antenato. Ancora una volta Abramo tace. Ma proprio in quel luogo costruisce un altare al Signore. Poi si sposta verso sud e si accampa vicino a Betel, dove costruisce un altro altare e invoca il nome di JHWH; infine scende nel deserto del Negev e vi si stabilisce. Questi altari, eretti in una terra abitata da popolazioni straniere, sono piccoli segni di una fede che resiste alla prova e sa attendere che Dio attui le promesse.

Linee interpretative
La chiamata di Abramo ha tutte le caratteristiche dei numerosi racconti di vocazione che si trovano nella Bibbia. Essa mette in luce un progetto divino in base al quale verrà ridata a tutta l’umanità la salvezza (benedizione) persa col peccato. Dio conferisce dunque ad Abramo e, per mezzo suo, al popolo che nascerà da lui non un privilegio, ma un servizio di ampiezza universale. La benedizione che gli è promessa consiste in un grande benessere materiale, che viene visto come conseguenza di una vita giusta. È proprio questo benessere materiale che fa di lui il modello del giusto che attua nella sua vita una totale sottomissione a Dio e per questo viene riempito di doni da parte sua.
Nella risposta silenziosa del patriarca appaiono i connotati essenziali di una autentica esperienza di fede: ascolto, abbandono delle proprie sicurezze, fiducia, disponibilità a mettersi in cammino. Il suo atteggiamento non ha nulla però di una sottomissione cieca e meccanica. L’obbedienza a un comando preciso è una metafora per indicare la sua piena partecipazione a un progetto divino che lo supera, che forse non capisce fino in fondo, ma che dà un senso alle sue scelte di vita. Questo progetto consiste nella nascita di una nuova umanità il cui collante non sarà il potere ma l’amore. L’obbedienza incondizionata a questo progetto dovrà essere la caratteristica fondamentale del popolo che da lui nascerà. In questa prospettiva appare chiaro che non solo per Abramo, ma anche per tutti gli israeliti l’elezione ha senso unicamente se comporta la ricerca di un modo di essere che diventi esempio e modello per tutta l’umanità.

« PRINCIPIO DELLA SAPIENZA E’ TEMERE IL SIGNORE » Proverbi 9,10; Siracide 1,14

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FIDARSI SEMPRE DI DIO NOSTRA ASSOLUTA SICUREZZA
« PRINCIPIO DELLA SAPIENZA E’ TEMERE IL SIGNORE »
Proverbi 9,10; Siracide 1,14

Dal libro biblico dei Numeri 11,4-6.10-14.18-23 4. In quei giorni: La gente raccogliticcia, che era tra il popolo, fu presa da bramosia di cibo; anche gli Israeliti ripresero a lamentarsi e a dire: «Chi ci potrà dare carne da mangiare? 5. Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cocomeri, dei meloni, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. 6. Ora la nostra gola inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna».
10. Mosè udì il popolo che si lamentava in tutte le famiglie, ognuno all’ingresso della propria tenda; lo sdegno del Signore divampò e la cosa dispiacque anche a Mosè. 11. Mosè disse al Signore: «Perché hai trattato così male il tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, tanto che tu mi hai messo addosso il carico di tutto questo popolo? 12. L’ho forse concepito io tutto questo popolo? O l’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: Portatelo in grembo, come la balia porta il bambino lattante, fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? 13. Da dove prenderei la carne da dare a tutto questo popolo? Perché si lamenta dietro a me, dicendo: Dacci da mangiare carne! 14. Io non posso da solo portare il peso di tutto questo popolo; è un peso troppo grave per me. Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto, fammi morire, se ho trovato grazia ai tuoi occhi; io non veda più la mia sventura!».
18. Dirai al popolo: Santificatevi per domani e mangerete carne, perché avete pianto agli orecchi del Signore, dicendo: Chi ci farà mangiare carne? Stavamo così bene in Egitto! Ebbene il Signore vi darà carne e voi ne mangerete. 19. Ne mangerete non per un giorno, non per due giorni, non per cinque giorni, non per dieci giorni, non per venti giorni, 20. ma per un mese intero, finché vi esca dalle narici e vi venga a noia, perché avete respinto il Signore che è in mezzo a voi e avete pianto davanti a lui, dicendo: Perché siamo usciti dall’Egitto?». 21. Mosè disse: «Questo popolo, in mezzo al quale mi trovo, conta seicentomila adulti * e tu dici: Io darò loro la carne e ne mangeranno per un mese intero! 22. Si possono uccidere per loro greggi e armenti in modo che ne abbiano abbastanza? O si radunerà per loro tutto il pesce del mare in modo che ne abbiano abbastanza?».
23. Il Signore rispose a Mosè: «Il braccio del Signore è forse raccorciato? Ora vedrai se la parola che ti ho detta si realizzerà o no».
Nota: * In Esodo 1,5 è scritto che prima di entrare in Egitto i figli gi Giacobbe-Israele erano 70. In Esodo 12,37 il numero di quanti uscirono dall’Egitto è di circa 600.000 uomini adulti a piedi, oltre le donne e i fanciulli. Nel censimento riportato da Numeri 1,1-45 risultano precisamente 603.550 adulti adatti per la guerra, esclusi i Leviti (v. 49); il numero è comprensibile dopo 430 anni di presenza in Egitto (Esodo 12,40). La tribù più numerosa è quella di Giuda (74.600 adulti, v. 27), legata al futuro Messia, Gesù di Nazareth, e alla capitale del Regno omonimo, Gerusalemme. Quando i discendenti di Giacobbe arrivarono in Egitto erano dunque 70; e le 12 tribù di allora, secondo Numeri 1,21-41, erano: Ruben, Simeone, Gad, Giuda, I’ssacar, Zabulon, Efraim, Manasse, Beniamino, Dan, Aser, Neftali. Quelle riportate in Apocalisse 7,5-8 sono: [5]Giuda; Ruben; Gad; [6]Aser; Nèftali; Manàsse; [7]Simeone; Levi; I’ssacar; [8]Zàbulon; Giuseppe; Beniamino. Dan – perché si credeva venisse da questa l’anticristo – è sostituita da Levi. Ed Efraim, la più guerriera, da Giuseppe.
Numeri 14,11.13.19 Il Signore disse a Mosè: «Fino a quando mi disprezzerà questo popolo? E fino a quando non avranno fede in me, dopo tutti i miracoli che ho fatti in mezzo a loro»? 13. Mosè disse al Signore: 19. «Perdona l’iniquità di questo popolo, secondo la grandezza della tua bontà, così come hai perdonato a questo popolo dall’Egitto fin qui».
20. Il Signore disse: «Io perdono come tu hai chiesto; 21. ma, per la mia vita, com’è vero che tutta la terra sarà piena della gloria del Signore, 22. tutti quegli uomini che hanno visto la mia gloria e i prodigi compiuti da me in Egitto e nel deserto e tuttavia mi hanno messo alla prova già dieci volte e non hanno obbedito alla mia voce, 23. certo non vedranno il paese che ho giurato di dare ai loro padri. Nessuno di quelli che mi hanno disprezzato lo vedrà».

SALMO 78(77), 40-51 Infedeltà del popolo e fedeltà di Dio
Ciò avvenne come esempio per noi (1 Cor 10, 6).
40 Quante volte si ribellarono a lui nel deserto, *
lo contristarono in quelle solitudini!
41 Sempre di nuovo tentavano Dio, *
esasperavano il Santo di Israele.
42 Non si ricordavano più della sua mano, *
del giorno che li aveva liberati dall’oppressore,
43 quando operò in Egitto i suoi prodigi, *
i suoi portenti nei campi di Tanis.

52 Fece partire come gregge il suo popolo *
e li guidò come branchi nel deserto.
53 Li condusse sicuri e senza paura *
e i loro nemici li sommerse il mare.
54 Li fece salire al suo luogo santo, *
al monte conquistato dalla sua destra.

Dalla lettera agli Ebrei 3,7-19
7 Per questo, come dice lo Spirito Santo:
“Oggi, se udite la sua voce,
non indurite i vostri cuori
come nel giorno della ribellione,
il giorno della tentazione nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri
mettendomi alla prova,
pur avendo visto per quarant’anni le mie opere.
Perciò mi disgustai di quella generazione
e dissi: Hanno sempre il cuore sviato.
Non hanno conosciuto le mie vie.
Così ho giurato nella mia ira:
Non entreranno nel mio riposo” (Sal 95(94),7-11).
12 Guardate perciò, fratelli, che non si trovi in nessuno di voi un cuore perverso e senza fede che si allontani dal Dio vivente. 13 Esortatevi piuttosto a vicenda ogni giorno, finché dura quest’oggi, perché nessuno di voi si indurisca sedotto dal peccato…16 chi furono quelli che, dopo aver udita la sua voce, si ribellarono? Non furono tutti quelli che erano usciti dall’Egitto sotto la guida di Mosè? E chi furono coloro di cui si è disgustato per quarant’anni? Non furono quelli che avevano peccato e poi caddero cadaveri nel deserto? (cfr. Nm 14, 29). E a chi giurò che non sarebbero entrati nel suo riposo (cfr. Nm 14, 22 ss.), se non a quelli che non avevano creduto? 19 In realtà vediamo che non vi poterono entrare a causa della loro mancanza di fede.
Ebrei 2,15-18
Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita. Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.
«Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori» (1 Tm 1, 15). “La misericordia di Dio verso di noi è davvero meravigliosa proprio perché Cristo non è morto solo per i giusti e i santi, ma anche per i cattivi e per gli empi. E, poiché la sua natura divina non poteva essere soggetta al pungolo della morte, egli, nascendo da noi, ha assunto quanto potesse poi offrire per noi” (San Leone Magno dal Discorso 8 sulla Passione del Signore). «Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1 Gv 2,1).
Nel Vangelo di Giovanni 10,27-30: [27]Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. [28]Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. [29]Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. [30]Io e il Padre siamo una cosa sola>> (Vedi >Michea 2,12; >Gv 10,9).
In Giovanni 16,21-22: [21]La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. [22]Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e [23]nessuno vi potrà togliere la vostra gioia.
In Apocalisse 21,10-27 La Gerusalemme celeste è assolutamente sicura e protetta, da Dio stesso: dimora definitiva degli angeli e dei Santi! « Non entrerà in essa nulla d’impuro (Isaia 60,11; 52,1), né chi commette abominio o falsità, ma soltanto quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello » (v. 27).

GIOVANNI PAOLO II – SALMO 41: DESIDERIO DEL SIGNORE E DEL SUO TEMPIO

http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/2002/documents/hf_jp-ii_aud_20020116.html

GIOVANNI PAOLO II – SALMO 41: DESIDERIO DEL SIGNORE E DEL SUO TEMPIO

UDIENZA GENERALE

Mercoledì 16 gennaio 2002

Lodi Lunedì 2a Settimana (Lettura: Sal 41, 2-3.11-12)

1. Una cerva assetata, con la gola riarsa, lancia il suo lamento davanti al deserto arido, anelando alle fresche acque di un ruscello. Questa celebre immagine apre il Salmo 41, che è stato poc’anzi cantato. Vi possiamo vedere quasi il simbolo della profonda spiritualità di questa composizione, vero gioiello di fede e di poesia. In realtà, secondo gli studiosi del Salterio, il nostro Salmo è da unire strettamente al successivo, il 42, dal quale fu diviso quando i Salmi furono messi in ordine per formare il libro di preghiera del Popolo di Dio. Infatti entrambi i Salmi – oltre ad essere uniti per tema e per sviluppo – sono scanditi dalla stessa antifona: « Perché ti rattristi, anima mia, perché su di me gemi? Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui, salvezza del mio volto e mio Dio » (Sal 41, 6.12; 42, 5). Questo appello, ripetuto due volte nel nostro Salmo, e una terza volta nel Salmo successivo, è un invito rivolto dall’orante a se stesso in vista di respingere la malinconia per mezzo della fiducia in Dio, che certamente si manifesterà di nuovo come Salvatore.
2. Ma ritorniamo all’immagine di partenza del Salmo, che piacerebbe meditare col sottofondo musicale del canto gregoriano o di quel capolavoro polifonico che è il Sicut cervus di Pierluigi da Palestrina. La cerva assetata è, infatti, il simbolo dell’orante che tende con tutto se stesso, corpo e spirito, verso il Signore sentito come lontano e insieme necessario: « La mia anima ha sete di Dio, del Dio vivente »(Sal 41, 3). In ebraico una sola parola, nefesh, indica contemporaneamente l’ »anima » e la « gola ». Quindi possiamo dire che anima e corpo dell’orante sono coinvolti nel desiderio primario, spontaneo, sostanziale di Dio (cfr Sal 62, 2). Non per nulla, c’è una lunga tradizione che descrive la preghiera come « respiro »: essa è originaria, necessaria, fondamentale come l’alito vitale.
Origene, grande autore cristiano del terzo secolo, mostrava che la ricerca di Dio da parte dell’uomo è un’impresa mai terminata, perché nuovi progressi sono sempre possibili e necessari. In una delle sue Omelie sui Numeri egli scrive: « Coloro che percorrono la strada della ricerca della sapienza di Dio non costruiscono case stabili, ma tende mobili, perché vivono di viaggi continui progredendo sempre in avanti, e quanto più progrediscono, tanto più si apre il cammino davanti a loro, prospettando un orizzonte che si perde nell’immensità » (Omelia XVII, In Numeros, GCS VII, 159-160).
3. Cerchiamo ora di intuire la trama di questa supplica, che potremmo immaginare affidata a tre atti, due dei quali sono all’interno del nostro Salmo, mentre l’ultimo si aprirà nel Salmo successivo, il 42, che in seguito considereremo. La prima scena (cfr Sal 41, 2-6) esprime la profonda nostalgia suscitata dal ricordo di un passato reso felice da belle celebrazioni liturgiche ormai inaccessibili: « Questo io ricordo, e il mio cuore si strugge: attraverso la folla avanzavo tra i primi fino alla casa di Dio, in mezzo ai canti di gioia di una moltitudine in festa » (v. 5).
« La casa di Dio » con la sua liturgia è quel tempio di Gerusalemme che il fedele un tempo frequentava, ma è anche la sede dell’intimità con Dio, « sorgente d’acqua viva », come canta Geremia (2, 13). Ora l’unica acqua che affiora alle sue pupille è quella delle lacrime (Sal 41, 4) per la lontananza dalla fonte della vita. La preghiera festosa di allora, elevata al Signore durante il culto nel tempio, è sostituita adesso dal pianto, dal lamento, dall’implorazione.
4. Purtroppo, un presente triste si oppone a quel passato gioioso e sereno. Il Salmista si trova ora lontano da Sion: l’orizzonte che lo circonda è quello della Galilea, la regione settentrionale della Terra Santa, come suggerisce la menzione delle sorgenti del Giordano, della vetta dell’Ermon da cui sgorga questo fiume, e di un’altra montagna a noi ignota, il Mizar (cfr v. 7). Siamo, quindi, più o meno nell’area in cui si trovano le cateratte del Giordano, le cascatelle con le quali si avvia il percorso di questo fiume che attraversa tutta la Terra promessa. Queste acque, però, non sono dissetanti come quelle di Sion. Agli occhi del Salmista sono piuttosto simili alle acque caotiche del diluvio che tutto distruggono. Egli le sente piombare addosso come un torrente impetuoso che annienta la vita: « Tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati » (v. 8). Nella Bibbia, infatti, il caos e il male o lo stesso giudizio divino sono raffigurati come un diluvio che genera distruzione e morte (Gen 6, 5-8; Sal 68, 2-3).
5. Questa irruzione è definita successivamente nella sua valenza simbolica: sono i perversi, gli avversari dell’orante, forse anche i pagani che abitano in questa regione remota dove il fedele è relegato. Essi disprezzano il giusto e deridono la sua fede chiedendogli ironicamente: « Dov’è il tuo Dio? » (v. 11; cfr v. 4). Ed egli lancia a Dio la sua angosciosa domanda: « Perché mi hai dimenticato? » (v. 10). Il « perché? » rivolto al Signore, che sembra assente nel giorno della prova, è tipico delle suppliche bibliche.
Di fronte a queste labbra secche che urlano, di fronte a quest’anima tormentata, a questo volto che sta per essere sommerso da un mare di fango, Dio potrà restare muto? Certamente no! L’orante si anima quindi di nuovo alla speranza (cfr vv. 6.12). Il Terzo atto, racchiuso nel Salmo successivo, il 42, sarà una fiduciosa invocazione rivolta a Dio (Sal 42, 1.2a.3a.4b) e userà espressioni liete e riconoscenti: « Verrò all’altare di Dio, al Dio della mia gioia, del mio giubilo ».

 

BRANO BIBLICO SCELTO – 2 MACCABEI 7,1-2.9-14

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BRANO BIBLICO SCELTO – 2 MACCABEI 7,1-2.9-14

In quei giorni, 1 ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re a forza di flagelli e nerbate a cibarsi di carni suine proibite.
2 Il primo di essi, facendosi interprete di tutti, disse al re: « Che cosa cerchi di indagare o sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le patrie leggi ». 9 E il secondo, giunto all’ultimo respiro, disse: « Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re del mondo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna ».
10 Dopo torturarono il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani 11 e disse dignitosamente: « Da Dio ho queste membra e, per le sue leggi, le disprezzo, ma da lui spero di riaverle di nuovo »; 12 così lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza del giovinetto, che non teneva in nessun conto le torture.
13 Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti. 14 Ridotto in fin di vita, egli diceva: « È bello morire a causa degli uomini, per attendere da Dio l’adempimento delle speranze di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te la risurrezione non sarà per la vita »

COMMENTO
2 Maccabei 7,1-2.9-14

Martirio e risurrezione
Il secondo libro dei Maccabei si presenta come il riassunto dell’opera in cinque libri di Giasone di Cirene, andata persa. In esso viene preso in considerazione il periodo che va dal 180 al 160 a.C., cioè dal tempo del sommo sacerdote Onia III fino alla morte di Nicanore, generale di Demetrio I re di Siria. In pratica vengono narrate, sotto un’altra angolatura, solo le gesta di Giuda Maccabeo, già raccontate da 1Mac 1-9. L’autore mette in evidenza i compromessi della classe dirigente giudaica e la costanza dei martiri che si oppongono all’imposizione dei governanti con coraggio e costanza, nella speranza di ottenere un giorno da Dio la resurrezione dei loro corpi.
All’inizio sono narrati alcuni episodi riguardanti i rapporti con la Siria e l’introduzione degli usi greci da parte di Antioco IV Epifane (2Mac 3,1-6,17). Sono poi presentati due episodi di fedeltà alla fede: il primo narra del vecchio Eleazaro, uno scriba novantenne, che accetta di morire soffrendo atroci dolori pur di non mangiare carni suine (2Mac 6,18-31); il secondo è la storia di sette fratelli che hanno preferito morire piuttosto che tradire la loro fede (2Mac 7). Il brano liturgico riporta una parte di questo capitolo. Esso comincia prospettando il caso di questi giovinetti che sono portati con la mamma davanti al re in persona, il quale vuole costringerli a mangiare carne di maiale. A nome di tutti uno di loro dice: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri» (vv. 1-2).
Nel brano successivo (vv. 3-8), omesso dalla liturgia, si racconta che il re comanda subito di tagliare la lingua a quello che si era fatto loro portavoce, di scorticarlo e tagliargli le estremità, sotto gli occhi degli altri fratelli e della madre e poi di accostarlo al fuoco e di arrostirlo. Nel frattempo gli altri si esortavano a vicenda e con la loro madre a morire da forti.
Viene poi la volta del secondo il quale subisce gli stessi tormenti del primo. Interrogato se è disposto a mangiare la carne suina, dice al re: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna» (v. 9). Viene poi portato al re il terzo che, alla sua richiesta, mette fuori la lingua e stende con coraggio le mani dicendo: «Dal Cielo ho queste membra e per le sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo» (vv. 10-11). Lo stesso re e i suoi dignitari rimangono colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture (v. 12). Anche il quarto, straziato con gli stessi tormenti, in punto di morte dice: «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita» (v. 14).

Linee interpretative
Il martirio dei sette fratelli viene presentato come l’unico mezzo che consente di essere fedeli a Dio, rifiutando le lusinghe del re che si dichiara disposto a dare i più grandi privilegi a chi accetta di rinnegare la sua fede anche solo mediante il semplice gesto di mangiare carne proibita. Il fatto che vi siano persone capaci di resistere fino in fondo alle richieste del re è visto come l’unico mezzo per preservare il popolo dalla rovina. Alla fine la violenta persecuzione lascia il posto alla rivincita, che ha luogo non tanto per la prodezza dei combattenti quanto piuttosto per l’eroismo dei martiri.
È precisamente nell’ambito della persecuzione che si comincia a pensare che i giusti, i quali hanno dato la vita per la loro fede, alla fine dei tempi, quando il popolo entrerà nella pienezza della comunione con Dio, usciranno dal regno dei morti e torneranno in vita per partecipare alla felicità dei loro fratelli. Non si tratta dunque di un ritorno alla vita di questo mondo, ma dell’ingresso nel regno di Dio in vista del quale i martiri hanno saputo donare la propria vita. Il fatto di riavere le proprie membra è quindi un’espressione simbolica per indicare la nuova vita che comporta l’attuazione di quei valori che i martiri hanno identificato con le leggi del loro popolo.

 

STORICITÀ DEI VANGELI: MISTERO DIVINO E STORIA SECONDO J. RATZINGER

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STORICITÀ DEI VANGELI: MISTERO DIVINO E STORIA SECONDO J. RATZINGER

Floriana Stevanin

La storicità dei Vangeli:
Mistero divino e Storia secondo Joseph Ratzinger

… Quanto è accaduto nell’episodio del cieco nato guarito da Gesù – l’incredulità di fronte all’evidenza dell’avvenuto miracolo – si è verificato e si verifica tuttora di fronte alle descrizioni di fatti che implicano l’intervento divino riportati dai Vangeli: la razionalità ha rifiutato e rifiuta l’idea che Mistero divino e Storia possano coesistere.
Molti studiosi, molti teologi, dall’Illuminismo in poi, hanno analizzato i Vangeli con i metodi di indagine suggeriti dal pensiero filosofico di volta in volta prevalente, ed hanno iniziato ad esprimere dubbi sulla veridicità delle pagine evangeliche che parlano di teofanie, di miracoli, di predizioni.
Intorno alla metà del secolo scorso, i Vangeli sono stati valutati con il metodo della critica storica che parte da una premessa filosofica di notevole peso: nella storia si verifica solo ciò che è attribuibile a cause naturali conosciute oppure all’intervento umano: elementi contrastanti, quali interventi di natura divina non riconducibili alla normale trama dei fatti, non si possono considerare storici: non deve perciò essere preso in considerazione tutto quello che nei Vangeli è relativo alla trascendenza.
Secondo tale presupposto dunque, osserva Joseph Ratzinger, non è possibile che un uomo sia veramente Dio, che compia opere che richiedono un potere divino; e tutto ciò che nella figura di Gesù oltrepassa la dimensione puramente umana, tutto ciò che secondo queste teorie non è veramente “storico”, non è veramente accaduto: non sono vere le rivendicazioni d’autorità divina attribuite a Gesù, e non sono vere le corrispondenti azioni. “Questa convinzione si è impressa in profondità nella coscienza generale, senza risparmiare la comunità dei credenti in tutte le Chiese”.
Egli sottolinea come i Vangeli e la stessa figura di Gesù siano valutati in base a ideologie filosofiche con la conseguenza che “le presupposizioni riguardo a ciò che Gesù non poteva essere (Figlio di Dio), e riguardo a ciò che doveva essere, … fanno apparire come frutto di rigore storico ciò che in realtà è unicamente il risultato di premesse filosofiche”.(1)
Sulla scorta dei vari metodi adottati l’esegesi critica, nel tempo, non solo ha messo in dubbio, ma in molti casi ha negato la veridicità dei Vangeli; parallelamente ha proposto le più diverse immagini di Gesù – il moralista, il rivoluzionario, il pacifista … “in sostituzione della figura viva, quella che in realtà non può essere riconosciuta attraverso l’esclusivo metodo storico, ma soltanto nella fede” – scrive Benedetto XVI, il più grande teologo cattolico del nostro tempo. Egli guida i fedeli ad avvicinarsi a comprendere quale sia la natura di Gesù, e quale sia la “fonte sorgiva” delle sue parole e dei miracoli.
La fede, che si fonda sulla integrità e sulla veridicità dei Vangeli, non misconosce la storia apre però gli occhi per poterla pienamente comprendere.
E aggiunge: quando leggiamo nel vangelo di Giovanni: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (1,18), noi comprendiamo che Gesù vive al cospetto di Dio e, come Figlio, vive in profonda unità col Padre.
“Per comprendere Gesù sono fondamentali gli accenni ricorrenti al fatto che Egli si ritirava sul monte e lì pregava per notti intere, da solo con il Padre. Questi brevi accenni diradano un po’ il velo del mistero, ci permettono di gettare uno sguardo dentro l’esistenza filiale di Gesù, di scorgere la fonte sorgiva delle sue azioni, del suo insegnamento e della sua sofferenza. Questo pregare di Gesù è il parlare del Figlio con il Padre in cui vengono coinvolte la coscienza e la volontà umane, l’anima umana di Gesù, di modo che la preghiera dell’uomo possa divenire partecipazione alla comunione del Figlio con il Padre…
Gesù può parlare del Padre, così come fa, solo perché è il Figlio e vive in comunione filiale con il Padre. Il mistero del Figlio come rivelatore del Padre… è presente in tutti i discorsi e in tutte le azioni di Gesù”(2) nei suoi miracoli, nelle sue profezie.
“Non da teorie filosofiche, non da convinzioni personali, ma da questa comunione con il Padre deve partire ogni approccio alla comprensione della figura di Gesù, … questo è il vero centro della sua personalità. Senza questa comunione non si può capire niente e partendo da essa Egli si fa presente a noi anche oggi”(3)…

Floriana Stevanin

1) Joseph Ratzinger, In cammino verso Gesù Cristo, Ed San Paolo, 2004, p 50-53
2) Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, vol. I, p 27-28
3) vol. I, p 10

LECTIO DIVINA PERSONAGGI BIBLICI – SARAH GENESI (16,1-2; 18,1-2.9-15; 21,1-2)

http://www.novena.it/Lectio_divina_personaggi_biblici/lectio_sarah.htm

LECTIO DIVINA PERSONAGGI BIBLICI – SARAH GENESI (16,1-2; 18,1-2.9-15; 21,1-2)

A cura di fra Vincenzo Boschetto

16,[1] Sarai, moglie di Abram, non gli aveva dato figli. Avendo però una schiava egiziana chiamata Agar, [2] Sarai disse ad Abram: « Ecco, il Signore mi ha impedito di aver prole; unisciti alla mia schiava: forse da lei potrò avere figli ». 18,[1] Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. [2] Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, [9] Poi gli dissero: « Dov’è Sara, tua moglie? ». Rispose: « E’ là nella tenda ». [10] Il Signore riprese: « Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio ». Intanto Sara stava ad ascoltare all’ingresso della tenda ed era dietro di lui. [11] Abramo e Sara erano vecchi, avanti negli anni; era cessato a Sara ciò che avviene regolarmente alle donne. [12] Allora Sara rise dentro di sé e disse: « Avvizzita come sono dovrei provare il piacere, mentre il mio signore è vecchio! ». [13] Ma il Signore disse ad Abramo: « Perché Sara ha riso dicendo: Potrò davvero partorire, mentre sono vecchia? [14] C’è forse qualche cosa impossibile per il Signore? Al tempo fissato tornerò da te alla stessa data e Sara avrà un figlio ». [15] Allora Sara negò: « Non ho riso! », perché aveva paura; ma quegli disse: « Sì, hai proprio riso ». 21,[1] Il Signore visitò Sara, come aveva detto, e fece a Sara come aveva promesso. [2] Sara concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia, nel tempo che Dio aveva fissato. La lettura di queste pagine della Genesi, racchiude le vicende di Sarai moglie di Abramo anche se le pagine citate, riportano le vicende di Agar. La storia di Sarai si presenta, a ciascuno di noi, con un duplice aspetto: sterilità e gratuità. La Bibbia non dice tanto sulla sterilità di Sarai, ma in penombra noi possiamo vedere la sua sofferenza e la sofferenza d’ogni sterilità: «Ecco, il Signore mi ha impedito…» (16,2). Questa donna, sterile, incarna la sofferenza per la maternità mancata, ma al contempo ha dentro di sé una grande forza di volontà a non rassegnarsi e ricorre ai metodi allora consentiti. Sara non è l’unica donna nella Bibbia che si trova impedita, sterile: vedi per esempio Anna moglie di Elkana (Cfr. 1Sam 1,1ss). Per questa sua grande fortezza gli viene mutato il nome: «Dio disse ancora ad Abramo: non chiamare più tua moglie Sarai; d’ora in poi il suo nome è Sarah. per mezzo di lei ti darò un figlio» (Gen 17,15-16). Qui abbiamo un gioco di parole che nella lingua ebraica assume vari significati: da Sarai a Sarah. Il nome che termina con la lettera i, come in ebraico terminano certi suffissi di possesso, sembra sottolineare la presunzione di Sarai nel momento in cui decise in cuor suo di dare la sua ancella al marito per aiutarlo a garantire la discendenza, che tanto desidera e che Dio promette. Ma non era quello l’aiuto che Sarai poteva dare a suo marito, ma da una Sarah capace di rinunciare a ogni possessiva presunzione di sé a vantaggio della propria uterina ( il significato della lettera h) natura di donna e di madre responsabile di figli autentici. Il cambiamento del nome, nella Bibbia indica il progetto di Dio sulla persona, sul popolo; infatti, il nome Sarah significa “Mia principessa”. Sarah, infatti, sarà madre di numerosi re. Questa forza di volontà il Signore la benedice, visita Abramo e fa una promessa inaudita. L’«Inaudito» si rende presente nella vita di questa coppia, diventa un punto d’incontro perché la sterilità sia feconda, perché Sara dia frutto: generi! L’annuncio che Dio fa è inaudito perché sfida l’ordine naturale, ma «c’è forse qualcosa impossibile per il Signore?». Nella Bibbia, queste sono parole che si ripetono quando Dio chiama qualcuno per realizzare il suo disegno d’amore (cfr Lc 1,19-20.37). Queste sono parole che ogni volta si ripetono quando Dio fa visita a ciascuno di noi e trova qualche ostacolo, quando la nostra vita è come un deserto senza vita, infeconda: «come una terra arida senza acqua» (Sal 62,2), come un deserto bruciato, come un vicolo cieco, come un orizzonte chiuso senza speranza, come un vuoto incolmabile senza attesa, come un grembo di donna incapace di generare. Avere sete di Dio è già un dono di Dio. Lasciata a se stessa, la carne non è altro che rifiuto, occhi chiusi, orecchie turate, cuore indurito (Mt 13,10-15). Spesso, questa è la nostra vita! Non ha senso vivere per vivere; ha senso vivere se si loda Dio: la grazia divina non solo sorpassa infinitamente la vita fisica, ma è quella che le conferisce significato. È una pagina di fede quella che abbiamo davanti, una fede che diventa rischio. «Si tratta di due orizzonti lontani verso i quali l’uomo si deve incamminare con un lungo e defatigante itinerario che raffigura la dialettica della fede, sempre sospesa ala promessa e al rischio» (G. Ravasi). Ma proprio perché la fede si trasforma in rischio, la fede di Sarah davanti alle parole dell’Inaudito conosce il dubbio, il sospetto, l’esitazione, la sospensione: «Allora Sarah rise dentro di sé e disse: « Avvizzita come sono dovrei provare il piacere, mentre il mio signore è vecchio! »» (18,21). Vi è un po’ d’ironia nell’atteggiamento di Sarah e una reazione da parte dell’Inaudito, dei Tre personaggi (Dio). La storia di questa donna insegna che non esiste situazione disperata che Dio non sappia capovolgere: «Tornerò da te alla stessa data e Sarah avrà un figlio» (18,14). Alla reazione di Dio vi è paura e imbarazzo e una certa autodifesa: « »Non ho riso! »» (18,15). Nella Bibbia il riso ha vari significati, ma nel riso di Sarah e nella sua autodifesa possiamo leggere il nostro riso, le nostre finzioni dinanzi alla Parola di Dio, dinanzi alla sua Parola che continuamente chiama; ma è un riso che Dio sa trasformare in nuova umanità, promessa, certezza, vita, dono per l’altro… perché il Signore «non ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra Devastata, ma tu sarai chiamata Mio compiacimento e la tua terra, Sposata» (Is 62,4); il figlio che nasce prenderà nome Isacco, cioè “JHWH ha riso”. Sì, Dio ride dinanzi agli ostacoli. Il Suo riso spazza ogni nostra perplessità, paura, ogni male degli uomini: «Colui che è assiso nei cieli se ne ride, il Signore si fa beffe» (Sal 2,4; cfr anche Sal 37,13; 59,9). «È un riso che disarma nel senso più vero, privando della sua forza l’apparente potente predominio dell’incredulità e dell’arroganza» (Gerhard Ebeling). «Nel tempo che Dio aveva fissato» (21,2). C’è un tempo che Dio fissa per Sarah, per ciascuno di noi, per farci visita. Nel tempo stabilito, il riso di Dio visita Sarah portando vittoria sulla sua sterilità, portando il dono di generare, il miracolo della nascita, il passaggio dall’essere infecondo ad essere fecondo: la vita; perché essere visitati da Dio è incontrare la vita. Generare, per la Bibbia, non è l’espressione di una legge naturale ma l’evento dell’amore di Dio personale dove tutto si trasforma in dono. Nell’incontro con la vita Sarah scopre “un di più” che viene dall’amore personale di Dio dove per Sarah, inizia un nuovo rapporto, un nuovo cammino. Nell’atteggiamento di Sarah, sembra ricordare le parole di Gesù: «Chi rimane in me, fa molto frutto. Chi non rimane in me viene gettato via» (Gv 15,5-6). Questo è il dilemma posto da Gesù ai discepoli: accettare di essere innestati in Lui o essere soppressi, perché «senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,5). Chi rimane «in me». Gesù pone l’accento in questo rimanere in Lui perché fonte e mèta della vita personale e comunitaria, è l’unico sentiero di fecondità evangelica e pastorale perché ha in sé la fecondità di Cristo che ha dato se stesso per amore. Il portare frutto dipende dal rapporto personale dei discepoli con Gesù. Diversamente si è sterili, secchi, inutili a se stessi e agli altri. «Allora sarete miei discepoli» (Gv 15,8). È una conclusione significativa. Si è discepoli solo in conseguenza del rimanere in Cristo ed è da questo rimanere in Lui che scaturisce il dovere della testimonianza. Anche Sarah, nella sua vita, scoprendo il “di più”, ha dimorato nella Parola dell’Eterno dando senso e valore alla sua stessa vita e a quella degli altri generando a tutti Isacco, il sorriso di Dio, divenendo madre d’Israele. Questa sua maternità si fa gratuità fino alla morte, fino al raggiungimento della Terra che Dio promise di dare. Sarah muore a centoventisette anni la sua gratuità fu di esempio per tutti, anche in terra straniera e Abramo acquista nella terra Ittita, da Efron figlio di Zocar, la caverna di Macpela per seppellirvi Sarah (Gen 23).

Interrogarsi 1. Quali situazioni di “infecondità” riscontri nella tua vita e nella società in cui vivi? 2. Qual è il senso della visitazione di Dio a Sara… di Dio nella tua vita? 3. Nella tua vita, c’è l’apertura personale verso Dio dove vi incontrate e parlate da amici? 4. Come ti rapporti, nella società in cui vivi, in modo sterile o gratuito? 5. Quale è il tempo che Dio ha fissato per te?

Preghiera Hai un compito, anima mia, un grande compito, se vuoi. Scruta seriamente te stessa, il tuo essere, il tuo destino; donde vieni e dove dovrai posarti; cerca di conoscere se è vita quella che vivi o se c’è qualcosa di più. Hai un compito, anima mia, purifica, perciò, la tua vita: considera, per favore, Dio e i suoi misteri, indaga cosa c’era prima di questo universo e che cosa esso è per te, da dove è venuto e qual sarà il suo destino. Ecco il tuo compito, anima mia, purifica, perciò, la tua vita. Accostati al Dio che ti parla nel Figlio suo e saprai la via della gioia. (S. Gregorio di Nazianzo, † 410)

Actio Medita oggi queste parole e portale nella tua vita quotidiana: «Noi siamo liuti, tu il suonatore. Non sei tu che emetti sospiri attraverso essi? Noi siamo flauti, ma il soffio è tuo, o Signore! Noi siamo dei monti, ma l’eco è tua, o Signore!».

SALMO 26, 1-6 – FIDUCIA IN DIO – GIOVANI PAOLO II 2004

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Vita%20Spirituale/04-05/10-Salmo_26.html

SALMO 26, 1-6 – FIDUCIA IN DIO – GIOVANI PAOLO II 2004

Il Salmo 26 viene distribuito dalla Liturgia in due diversi brani. La prima parte di questo dittico poetico e spirituale (cf vv. 1-6) viene pregata ai Vespri del mercoledì della 1a settimana e ha come sfondo il tempio di Sion, sede del culto di Israele. Infatti il Salmista parla esplicitamente di «casa del Signore», di «santuario» (v. 4), di «rifugio, dimora, casa» (cf vv. 5-6). Anzi, nell’originale ebraico questi termini indicano più precisamente il «tabernacolo» e la «tenda», ossia il cuore stesso del tempio, dove il Signore si svela con la sua presenza e la sua parola. Si evoca anche la «rupe» di Sion (cf v. 5), luogo di sicurezza e di rifugio, e si allude alla celebrazione dei sacrifici di ringraziamento (cf v. 6). Se, dunque, la liturgia è l’atmosfera spirituale in cui è immerso il Salmo, il filo conduttore della preghiera è la fiducia in Dio, sia nel giorno della gioia, sia nel tempo della paura.

Una lotta simbolica La prima parte del Salmo, che ora meditiamo, è segnata da una grande serenità, fondata sulla fiducia in Dio nel giorno tenebroso dell’assalto dei malvagi. Le immagini usate per descrivere questi avversari, che sono il segno del male che inquina la storia, sono di due tipi. Da un lato, sembra che ci sia un’immagine di caccia feroce: i malvagi sono come belve che avanzano per ghermire la loro preda e straziarne la carne, ma inciampano e cadono (cf v. 2). Dall’altro lato, c’è il simbolo militare di un assalto compiuto da un’intera armata: è una battaglia che divampa impetuosa seminando terrore e morte (cf v. 3). La vita del credente è spesso sottoposta a tensioni e contestazioni, talora anche a un rifiuto e persino alla persecuzione. Il comportamento dell’uomo giusto infastidisce, perché risuona come un monito nei confronti dei prepotenti e dei perversi. Lo riconoscono senza mezzi termini gli empi descritti dal Libro della Sapienza: il giusto «è diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti; ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita è diversa da quella degli altri, e del tutto diverse sono le sue strade» (Sap 2,14-15).

Il Dio della vita Il fedele è consapevole che la coerenza crea isolamento e provoca persino disprezzo e ostilità in una società che sceglie spesso come vessillo il vantaggio personale, il successo esteriore, la ricchezza, il godimento sfrenato. Tuttavia egli non è solo e il suo cuore conserva una sorprendente pace interiore, perché – come dice la splendida «antifona» d’apertura del Salmo – «il Signore è luce e salvezza, è difesa della vita» del giusto (Sal 26,1). Egli ripete continuamente: «Di chi avrò paura?… Di chi avrò timore?… Il mio cuore non teme… Anche allora ho fiducia» (vv. 1.3). Sembra quasi di ascoltare la voce di San Paolo che proclama: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Rm 8,31). Ma la quiete interiore, la fortezza d’animo e la pace sono un dono che si ottiene rifugiandosi nel tempio, ossia ricorrendo alla preghiera personale e comunitaria.

Sorgente della pace L’orante, infatti, si affida alle braccia di Dio e il suo sogno è espresso anche da un altro Salmo (cf 22,6): «Abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita». Là egli potrà «gustare la dolcezza del Signore» (Sal 26,4), contemplare e ammirare il mistero divino, partecipare alla liturgia sacrificale ed elevare le sue lodi al Dio liberatore (cf v. 6). Il Signore crea attorno al suo fedele un orizzonte di pace, che lascia al di fuori lo strepito del male. La comunione con Dio è sorgente di serenità, di gioia, di tranquillità; è come entrare in un’oasi di luce e di amore. Il nostro rifugio Ascoltiamo ora, a sigillo della nostra riflessione, le parole del monaco Isaia, di origini sire, vissuto nel deserto egiziano e morto a Gaza verso il 491. Nel suo Asceticon egli applica il nostro Salmo alla preghiera nella tentazione: «Se vediamo i nemici circondarci con la loro furbizia, cioè con l’accidia, sia che indeboliscano la nostra anima nel piacere, sia perché non conteniamo la nostra collera contro il prossimo quando agisce contro il suo dovere, oppure se aggravano i nostri occhi per portarli alla concupiscenza, o se vogliono condurci a gustare i piaceri della gola, se rendono per noi come un veleno la parola del prossimo, se ci fanno svalutare la parola altrui, se ci inducono a far differenze tra i fratelli dicendo: “Questi è buono, quest’altro è cattivo”: se dunque tutte queste cose ci circondano, non perdiamoci di coraggio, ma gridiamo piuttosto come Davide con cuore fermo dicendo: “Signore, protettore della mia vita!” (Sal 26,1)» (Recueil ascétique, Bellefontaine 1976, p. 211).

 Giovanni Paolo II / L’Osservatore Romano, 22-03-2004

LA VISIONE BIBLICA DELLA COMPLEMENTARIETÀ UOMO-DONNA (2012)

http://www.gliscritti.it/

LA VISIONE BIBLICA DELLA COMPLEMENTARIETÀ UOMO-DONNA,

di Gilles Bernheim [Maschio e femmina li creò. Il testo del gran rabbino di Francia ricordato dal Papa]

Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 21/12/2012 un testo del gran rabbino di Francia Gilles Bernheim. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (26/12/2012)

S’intitola Matrimonio omosessuale, omogenitorialità e adozione: ciò che si dimentica di dire il «trattato accuratamente documentato e profondamente toccante» ricordato da Benedetto XVI nel discorso alla Curia romana. Scritto dal gran rabbino di Francia, il documento (di cui il nostro giornale aveva riferito nell’edizione dello scorso 20 ottobre) è stato inviato al presidente, François Hollande, al primo ministro, Jean-Marc Ayrault, e a tutti i ministri francesi. Nel testo (che si può scaricare dal sito www.grandrabbindefrance.com ) l’autore si presenta come «il referente e il portavoce dell’ebraismo francese nella sua dimensione religiosa. La mia posizione — aggiunge — riflette la solidarietà che mi lega alla comunità nazionale cui appartengo». Di seguito pubblichiamo una nostra traduzione italiana dell’ultimo capitolo del lungo e importante documento, intitolato «La visione biblica della complementarietà uomo-donna».

La visione biblica della complementarietà uomo-donna, di Gilles Bernheim

La complementarietà uomo-donna è un principio strutturante nell’ebraismo, in altre religioni, nelle correnti di pensiero non religiose, nell’organizzazione della società, come pure nell’opinione di una vastissima maggioranza della popolazione. Questo principio, per me, trova il proprio fondamento nella Bibbia. Per altri, può trovare il proprio fondamento altrove. Mi concentrerò qui sulla visione biblica, che non esclude altre visioni. «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gn 1, 27). Il racconto biblico fonda la differenza sessuale sull’atto creatore. La polarità maschile-femminile attraversa tutto ciò che esiste, dall’argilla a Dio. Fa parte del dato primordiale che orienta la vocazione rispettiva — l’essere e l’agire — dell’uomo e della donna. La dualità dei sessi appartiene alla costituzione antropologica dell’umanità. Così, ogni persona è portata, prima o poi, a riconoscere che possiede solo una delle due varianti fondamentali dell’umanità e che l’altra le sarà per sempre inaccessibile. La differenza sessuale è quindi un segno della nostra finitezza. Io non sono tutto l’umano. Un essere sessuato non è la totalità della sua specie, ha bisogno di un essere dell’altro sesso per produrre il suo simile. La Genesi vede la somiglianza dell’essere umano con Dio solo nell’unione dell’uomo e della donna (1, 27) e non in ognuno di essi preso separatamente. Ciò suggerisce che la definizione dell’essere umano è percettibile solo nella congiunzione dei due sessi. Di fatto ogni persona, a motivo della sua identità sessuale, viene rinviata al di là di se stessa. Dal momento in cui prende coscienza della propria identità sessuale, ogni persona umana si vede così messa a confronto con una sorta di trascendenza. È obbligata a pensare al di là di se stessa e a riconoscere come tale un altro essere inaccessibile, essenzialmente simile a lei, desiderabile e mai totalmente comprensibile. L’esperienza della differenza sessuale diventa così il modello di ogni esperienza della trascendenza che designa un rapporto indissolubile con una realtà assolutamente inaccessibile. Su questa base si può comprendere perché la Bibbia utilizzi volentieri la relazione tra l’uomo e la donna come metafora del rapporto tra Dio e l’uomo; non perché Dio è maschile e l’uomo femminile, ma perché la dualità sessuale dell’uomo è ciò che esprime più chiaramente un’alterità insormontabile anche nel rapporto più stretto. È importante che nella Bibbia la differenza sessuale sia enunciata subito dopo l’affermazione del fatto che l’uomo è a immagine di Dio. Ciò significa che la differenza sessuale s’iscrive in questa immagine ed è benedetta da Dio. La differenza sessuale va dunque interpretata come un fatto naturale, permeato d’intenzioni spirituali. Ne è prova il fatto che nella creazione in sette giorni gli animali non sono presentati come sessuati. A caratterizzarli non è la differenza dei sessi, ma la differenza degli ordini e, all’interno di ogni ordine, la differenza delle specie: ci sono i pesci del mare, gli uccelli del cielo, le bestie della terra, tutti gli esseri viventi sono generati, come un ritornello, «secondo la loro specie» (Gn 1, 21). In questo racconto la sessuazione è menzionata solo per l’uomo poiché è proprio nel rapporto d’amore, che include l’atto sessuale mediante il quale l’uomo e la donna diventano «una sola carne», che tutti e due realizzano il proprio obiettivo: essere a immagine di Dio. Il sesso non è dunque un attributo casuale della persona. La genitalità è l’espressione somatica di una sessualità che riguarda tutto l’essere della persona: corpo, anima e mente. È proprio perché l’uomo e la donna si percepiscono diversi in tutto il loro essere sessuato, pur essendo entrambi persone, che ci possono essere complementarietà e comunione. «Maschile» e «femminile», «maschio» e «femmina» sono termini relazionali. Il maschile è tale solo nella misura in cui è rivolto verso il femminile e, attraverso la donna, verso il figlio; in ogni caso verso una paternità, sia essa carnale o spirituale. Il femminile è tale solo nella misura in cui è rivolto verso il maschile e, attraverso l’uomo, verso il figlio; in ogni caso verso una maternità, sia essa carnale o spirituale. Il secondo racconto della creazione approfondisce questo insegnamento presentando l’atto della creazione della donna sotto forma di un’operazione chirurgica mediante la quale Dio toglie dal più intimo di Adamo quella che diventerà la sua compagna (Gn 2, 22). Da quel momento né l’uomo né la donna saranno il tutto dell’umano, e nessuno dei due saprà tutto dell’umano.

Viene qui espressa una duplice finitezza: — Io non sono tutto, non sono neppure tutto l’umano. — Io non so tutto sull’umano: l’altro sesso resta per me sempre parzialmente inconoscibile. Ciò conduce all’irrealizzabile autosufficienza dell’uomo. Questo limite non è una privazione, ma un dono che consente la scoperta dell’amore che nasce dalla meraviglia dinanzi alla differenza. Il desiderio fa sì che l’uomo scopra l’alterità sessuata in seno alla stessa natura: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» (Gn 2, 23) e l’apertura a questo altro gli consente di scoprirsi nella sua differenza complementare: «lei si chiamerà Isha perché è presa da Ish» (cfr. Ibidem). «L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gn 2, 24). In ebraico «una sola carne» rimanda al «Solo», Ehad, il nome divino per eccellenza, secondo la preghiera dello Shema Israel: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo – Adonaï Ehad» (Dt 6, 4). È nella loro unione insieme carnale e spirituale, resa possibile dalla differenza e dall’orientamento sessuale complementare, che l’uomo e la donna riproducono, nell’ordine creato, l’immagine del Dio Solo. A mo’ di contrappunto, il capitolo tre della Genesi presenta il peccato come il rifiuto del limite e quindi della differenza: «Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gn 3, 5). L’albero della conoscenza del bene e del male — «l’albero del conoscere bene e del conoscere male» — simboleggia proprio i due modi di comprendere il limite: — il «conoscere bene» rispetta l’alterità, accetta di non sapere tutto e acconsente a non essere tutto; questo modo di conoscere apre all’amore e quindi all’«albero della vita», piantato da Dio «al centro del giardino» (Gn 2, 9); — il «conoscere male» rifiuta il limite, la differenza; mangia l’altro nella speranza di ricostituire in sé il tutto e di acquisire l’onniscienza. Questo rifiuto della relazione di alterità conduce alla bramosia, alla violenza e infine alla morte. Non è proprio questo che propone il gender, ovvero il rifiuto dell’alterità, della differenza, e la rivendicazione di adottare tutti i comportamenti sessuali, indipendentemente dalla sessuazione, primo dono della natura? In altre parole, la pretesa di “conoscere” la donna come l’uomo, di diventare il tutto dell’umano, di liberarsi da tutti i condizionamenti naturali, e quindi «di essere come Dio»? Io sono tra coloro che pensano che l’essere umano non si costruisca senza struttura, senza ordine, senza statuto, senza regole; che l’affermazione della libertà non implichi la negazione dei limiti; che l’affermazione dell’uguaglianza non comporti il livellamento delle differenze; che la potenza della tecnica e dell’immaginazione esiga di non dimenticare mai che l’essere è dono, che la vita ci precede sempre e che ha le proprie leggi. Ho voglia di una società in cui la modernità occupi tutto il suo posto, senza che però vengano negati i principi elementari dell’ecologia umana e familiare. Di una società in cui la diversità dei modi d’essere, di vivere e di desiderare sia accettata come una possibilità, senza che tale diversità venga però diluita riducendola a un denominatore più piccolo che cancelli ogni differenziazione. Di una società in cui, nonostante i progressi del virtuale e dell’intelligenza critica, le parole più semplici — padre, madre, coniugi, genitori — conservino il loro significato, allo stesso tempo simbolico e incarnato. Di una società in cui i bambini siano accolti e occupino il loro posto, tutto il loro posto, senza però diventare oggetto di possesso a ogni costo o posta in gioco del potere. Ho voglia di una società in cui ciò che accade di straordinario nell’incontro tra un uomo e una donna continui a essere istituito, con un nome preciso.

Publié dans:BIBBIA, EBRAISMO: RABBINI |on 31 août, 2016 |Pas de commentaires »

PERCHÉ GESÙ SI FECE BATTEZZARE DA GIOVANNI? – Gianfranco Ravasi

http://digilander.libero.it/davide.arpe/BibbiaScoBattesimoGesu.htm  

PERCHÉ GESÙ SI FECE BATTEZZARE DA GIOVANNI?

 a cura di Mons. Gianfranco Ravasi  

Nel vangelo della liturgia della Il domenica per annum (Anno B ndr), si legge questo passo: «Giovanni Battista stava là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: Ecco l’agnello di Dio! E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù» (Gv 1,35-37). Com’è evidente, due seguaci del Battista abbandonano il loro maestro e si avviano sulla strada del nuovo “profeta” messianico indicato da Giovanni. Questo fatto si è ripetuto a più riprese durante la vita di Gesù ma, per quanto riguarda i discepoli del Battista, non fu così pacifico come questo racconto sembra dimostrare. Vorremmo, perciò, affrontare — sia pure in modo molto semplificato — la questione, più delicata di quanto appaia, del rapporto tra Cristo e il suo precursore e soprattutto tra le due comunità che si erano create attorno a loro. La figura di Giovanni Battista (cioè il Battezzatore) appare solenne agli esordì della vita pubblica di Gesù, come lo era stato agli inizi stessi del suo ingresso nel mondo, se stiamo al racconto del capitolo 1 di Luca. Non mancano anche tensioni e confronti tra le due figure, registrati soprattutto dal quarto vangelo (Gv 1,6-8; 1,19-39; 3,22-36). Uno studioso italiano, il professor Edmondo Lupieri, ha seguito la vicenda del Battista non solo nei vangeli ma anche nella tradizione successiva, vicenda sospesa tra storia e leggenda, con la costituzione di un gruppo che rimandava al precursore come se fosse lui il vero Messia. Per questa ragione si marca nei vangeli la confessione che Giovanni fa della sua dipendenza e finalizzazione a Gesù, colui che “deve crescere” e occupare la scena della salvezza. In questa luce desta qualche sorpresa la rappresentazione del battesimo di Cristo al Giordano. Gli esegeti fanno notare che l’evento è indubbiamente storico, secondo quel criterio di veri­fica che è definito della “discontinuità”. Infatti mai si sarebbe creato artificiosamente un episo­dio nel quale Gesù risultasse inferiore al Battista e immerso nella folla dei peccatori: questo sarebbe stato in aperta “discontinuità” o difformità con la fede in Cristo della Chiesa delle origini e con l’evocata celebrazione dell’inferiorità del precursore rispetto al Messia. Ma, allora, perché Gesù si è messo in fila lungo le sponde del Giordano per essere battezzato da Giovanni? L’unico evangelista a rispondere al quesito è Matteo, che riferisce questo dialogo tra Gesù e il Battista: «Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me? Ma Gesù gli disse: Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia. Allora Giovanni acconsentì» (3,14-15). Questo dialogo è ancor più marcato in un frammento del vangelo apocrifo detto “degli Ebrei” citato da san Girolamo, ove Gesù inizialmente rifiuta di andare con Maria e i suoi parenti da Giovanni dichiarando: «Che peccato ho commesso perché vada a farmi battezzare da lui?». Gesù — secondo le stesse parole del precursore citate da Matteo — non solo non ha bisogno di un battesimo d’acqua di conversione, ma è superiore allo stesso battezzatore come suo Signore e Messia. Decisiva, allora, è la risposta di Cristo sopra citata, che è modulata secondo il linguaggio matteano e che letteralmente suona così: «E opportuno che noi portiamo a pienezza ogni giustizia». Due sono i termini fondamentali della frase. Da un lato, c’è il verbo greco pleroun, che non è solo il semplice “adempiere” come spesso si traduce (così anche la versione usata nella liturgia, cioè la Bibbia della C.E.I.), ma è il pieno compimento, il portare a pienezza. L’Antico Testamento col suo annunzio è come una sorgente o un fiume che raggiunge il suo approdo ora in Cristo: esso è alla base ed è indispensabile, ma anche rimanda a una meta ulteriore. D’altro lato, c’è il vocabolo dykaiosyne, che di solito è reso con “giustizia”. Anche in questo caso la traduzione può essere fuorviante, perché la “giustizia” a cui si fa riferimento è quella divina e nell’Antico Testamento essa è sinonimo di fedeltà amorosa di Dio, di salvezza. Gesù, allora, afferma che con quel gesto di umiltà egli vuole rappresentare pubblicamente la sua adesione al progetto divino di salvezza: facendosi battezzare in mezzo agli uomini peccatori, Gesù si fa solidale con loro, rivela l’incarnazione, si fa prossimo all’umanità e al suo peccato, proprio com’era nel disegno del Padre celeste. A questo punto ecco aggiungersi, quasi in contrappunto all’atto di fraternità nei confronti dei peccatori, la visione successiva che rivela al mondo il mistero profondo di quell’uomo battezzato: «Si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire sopra di luì. Ed ecco una voce dal cielo che disse: Questi è il Figlio mio, il prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3,16-17).  

BRANO BIBLICO SCELTO – COLOSSESI 2,12-14

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Colossesi%202,12-14

BRANO BIBLICO SCELTO – COLOSSESI 2,12-14

Fratelli, 12 con Cristo siete stati sepolti nel battesimo, in lui siete anche stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti.  13 Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti per i vostri peccati e per l’incirconcisione della vostra carne, perdonandoci tutti i peccati, 14 annullando il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli. Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce.

COMMENTO Colossesi 2,12-14

Battesimo e perdono dei peccati L’esordio dello scritto ai Colossesi (Col 1,1-23) termina con una enunciazione dei temi che l’autore intende trattare. Essi sono: l’opera di Cristo per la santità dei credenti, la fedeltà al vangelo ricevuto, il vangelo annunziato da Paolo (cfr. 1,21-23). L’ultimo di questi temi è quello trattato per primo (1,24 – 2,5). Successivamente l’autore affronta il secondo tema, che riguarda la fedeltà al vangelo (2,6-23) e infine si concentra sull’opera di Cristo per la santità dei credenti (3,1 – 4,1). Al centro del secondo di questi tre sviluppi Paolo pone alcuni spunti cristologici, riguardanti il rapporto che i credenti hanno con Cristo (2,9-15). Nel testo liturgico è ripresa la parte finale di questo brano. Il pensiero in esso contenuto si sviluppa in due momenti: il battesimo con Cristo (v. 12); il perdono dei peccati (vv. 13-14).

Il battesimo con Cristo (v. 12) Prima di parlare del battesimo, l’autore si rivolge ai suoi interlocutori in seconda persona plurale. Ciò significa che egli suppone di avere di fronte un pubblico di gentili diventati cristiani. Egli afferma che in Gesù abita tutta la pienezza della divinità ed essi hanno avuto parte alla sua pienezza, che fa di lui il capo di ogni principato e di ogni potestà (Col 2,9-10). Egli continua, sempre  usando la seconda persona plurale, sottolineando che in lui essi hanno ricevuto non una circoncisione fatta da mano di uomo mediante la spogliazione del corpo di carne, cioè la circoncisione fisica, ma la vera circoncisione di Cristo (Col 2,11; cfr. Ef 2,11). Egli spiega poi in che cosa consiste la circoncisione di Cristo: «Con lui infatti siete stati sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti» (v. 12). Diversamente dalla circoncisione fisica, la «circoncisione di Cristo» ha luogo in rapporto con Cristo e in unione con lui. Essa consiste nel battesimo, che è presentato da Paolo, nella polemica contro i giudaizzanti, come la vera circoncisione (cfr. Fil 3,3). L’autore di Colossesi riprende questa immagine definendo il battesimo come un essere sepolti con Cristo, cioè come una partecipazione alla sua morte, e come una risurrezione con lui. È chiara l’allusione al rito del battesimo come immersione nella morte e risurrezione di Cristo di cui parla Paolo in Rm 6,3-4. L’autore di Colossesi sottolinea che ciò è avvenuto per mezzo della fede, non direttamente in Cristo, come avrebbe detto Paolo, ma nella potenza di Dio che lo ha risuscitato dai morti. La risurrezione, sia di Cristo che dei credenti, è dunque opera della potenza di Dio. Inoltre la risurrezione del credente viene presentata come un evento ormai realizzato (cfr. Col 3,1-4), mentre per Paolo era ancora un evento futuro (cfr. Rm 6,5). Nel contesto della crisi determinata dal ritardo della parusia, cioè del ritorno di Cristo, si tende a presentare la partecipazione alla risurrezione di Cristo come una realtà che non riguarda un futuro non precisabile, ma che è già presente e operante. I gentili diventati cristiani non hanno dunque bisogno del rito della circoncisione, che i falsi dottori di ispirazione giudaizzante volevano imporre loro, perché hanno il battesimo, che fin d’ora li fa partecipi della vita gloriosa di Cristo risorto.

Il perdono dei peccati (vv. 13-14) li effetti del battesimo vengono così descritti: «Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce» (vv. 13-14). Prima di diventare cristiani, i gentili erano morti a causa delle loro colpe e della loro incirconcisione. L’idea qui espressa si richiama chiaramente a Gal 2,15 dove Paolo definisce così la differenza tra giudei e gentili: «Noi che per natura siamo giudei, e non peccatori dalle genti…» (cfr. Ef 2,11): la circoncisione pone dunque in un mondo a parte, che contrasta con quello dei gentili dominati dal peccato, pur essendo fuori discussione che tutti, giudei e gentili, hanno bisogno di essere giustificati in Cristo. Perciò a questo punto l’autore della lettera passa dalla seconda alla prima persona plurale e afferma che noi tutti, giudei e gentili, abbiamo ricevuto in Cristo il perdono dei loro peccati. Egli descrive poi questo perdono simbolicamente come un annullare, cioè togliere valore, a un «documento scritto» (cheirographon), contenente delle «prescrizioni» (dogmata, clausole), il quale era contro di noi. E aggiunge che questo documento è stato inchiodato alla croce.  In questa frase non è chiaro che cosa l’autore intenda per «documento scritto». Normalmente si pensa che si tratti dell’elenco dei debiti, cioè delle colpe commesse, che stanno contro l’umanità non ancora giustificata come un atto d’accusa. Esse sarebbero state annullate per mezzo della croce di Cristo. Spesso si aggiunge che Cristo avrebbe annullato il nostro debito prendendo su di sé la pena che sarebbe spettata a noi. Ma è meglio ritenere che l’autore riprenda qui la polemica di Paolo nei confronti della legge, di cui i falsi dottori volevano forse imporre la pratica ai cristiani di Colosse. Alla luce delle argomentazioni paoline, egli presenta qui la legge come un documento scritto contenete precetti  che sono contro di noi, perché in quanto peccatori non siamo in grado di praticarli. Questa interpretazione è confermata dal confronto con la lettera sorella agli Efesini dove si dice che Cristo ha fatto di giudei e gentili un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, «annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti (dogmata)…» (Ef 2,15). Portando all’estremo il discorso di Paolo, egli affermerebbe allora che la legge è stata eliminata da Dio stesso mediante la croce di Cristo in quanto, a causa del perdono e della vita nuova che egli ci ha dato in lui, essa non è più necessaria per far sì che l’uomo compia la volontà di Dio. Al termine del brano, nell’ultima parte omessa dalla liturgia, l’autore afferma che, così facendo, Dio ha spogliato i principati e le potestà e ne ha fatto pubblico spettacolo, trionfando su di loro in Cristo. Questa frase deve essere collegata con l’affermazione, contenuta nell’inno cristologico (Col 1,16), secondo cui i principati e le potestà sono stati creati per mezzo di Cristo. Si tratta probabilmente di quelle potenze spirituali che si riteneva avessero un potere tutelare nei confronti della legge e si servissero di essa per esercitare il loro potere sull’umanità peccatrice. Una volta che la legge è stata eliminata, anch’esse perdono il loro potere e vengono trascinate nel corteo trionfale di Cristo, cioè sono assoggettate a lui. Probabilmente l’autore si riferisce qui ai colossesi che, in nome di queste potenze, venivano attirati all’adesione alla legge mosaica.

Linee interpretative

L’autore di questo brano riprende temi paolini in funzione di comunità formate da gentili divenuti cristiani, i quali subiscono forti pressioni per aderire a una forma di religione nella quale svolge ancora un ruolo determinante la circoncisione e l’osservanza della legge come mezzo per stabilire un rapporto autentico con Dio. Egli vuole far loro capire che la circoncisione, pur avendo caratterizzato il popolo di Dio, or non ha più nessun valore. È attraverso l’adesione a Cristo, significata nel battesimo, che il credente riceve la partecipazione alla vita nuova di Cristo, e di conseguenza i suoi peccati sono perdonati. Il perdono di Dio non è solo una realtà intellettuale, ma piuttosto fa scattare la molla dell’impegno per compiere la volontà di Dio. In questa prospettiva non ha più senso parlare di legge. Questa aveva importanza solo prima del battesimo, in quanto metteva come dei paletti oltre i quali non si poteva andare. Ma ormai questo ruolo, in gran parte inefficace, è finito. Con la sua morte in croce Gesù ha aperto nuove prospettive che non hanno più nulla a che fare con la legge e con il peccato. Questo discorso sul peccato e sul perdono mette in luce l’importanza della fede e del battesimo ai fini di condurre una vita santa. Per l’uomo peccatore l’esistenza di una legge fa sì che egli sia coinvolto nella spirale peccato – legge – castigo. Chi si trova in questo circolo vizioso è sottoposto ai poteri che dominano il mondo, primi fra tutti il potere economico e politico. La morte di Cristo in croce, provocando il perdono di quelli che credono in lui, vince anche i poteri che dominano la società. È vero, non si tratta ancora di una vittoria piena e definitiva. Ma è proprio mediante coloro che credono in lui che Gesù continua a mettere un limite ai poteri di questo mondo e, in prospettiva escatologica, li destina ad essere sottomessi a lui. Il Paolo storico avrebbe parlato piuttosto di una distruzione dei poteri (cfr. 1Cor 15,25-27)

 

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