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LODATE DIO CON ARTE (I Salmi)

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LODATE DIO CON ARTE

In un testo giudaico intitolato Sefer ha-Haggadah, il “libro del racconto” pasquale, leggiamo questo curioso apologo: «Si narra che, quando Davide ebbe finito il libro dei Salmi, si sentì molto orgoglioso. Egli disse a Dio: Padre del mondo, chi fra tutti gli esseri umani che hai creato canta più di me la tua gloria? In quel momento sopraggiunse una rana che gli disse: Davide, non inorgoglirti! Io canto più di te in onore di Dio!». Questa parabola mi aveva offerto anni fa il titolo di un libro che avevo dedicato alla musica e alla teologia nella Bibbia, Il canto della rana (Ed. Piemme). C’è, infatti, nella Bibbia la convinzione che nella natura ci sia una musica bellissima e segreta: «tutto ciò che respira canti l’alleluia», dice letteralmente l’ultimo versetto del Salterio (150,5). La rana, perciò, canta a Dio con tutto il suo essere e «i piccoli del corvo gridano al Signore», come dice il Salmo 147,9. Tuttavia non bisogna dimenticare che la Bibbia esalta la musica creata dall’uomo e invita il popolo a «cantare inni con arte» (Salmo 47,8). Potremmo a questo riguardo elencare una lunga lista di testi biblici che mettono in scena l’orchestra del tempio, il canto, l’armonia della musica.
Pensiamo solo all’Apocalisse con le sue trombe, le arpe, i cori: c’è chi ha definito quel libro «una palingenesi per soli, coro e orchestra». Noi sappiamo, però, che la Bibbia è stata anche alla sorgente di tanta splendida musica. I nostri lettori più fedeli ricorderanno che un paio di settimane fa abbiamo parlato del Magnificat, il canto di Maria messo in musica infinite volte. Ora, invece, faremo un esempio un po’ più difficile.
C’è nel Salterio un inno piccolissimo; ed è il Salmo 117, il più breve di tutti (in ebraico sono solo 17 parole!). Esso era forse usato come una giaculatoria, una specie di Gloria Patri dell’Antico Testamento, da mettere in finale ad altri canti. Ebbene, questo Salmo – nella versione latina della liturgia cattolica è noto come Laudate Dominum – è irrilevante dal punto di vista poetico
ma ha al suo interno due parole che per l’ebreo erano di altissimo livello teologico, l’amore e la fedeltà (hesed e emet), i due sentimenti che uniscono Dio a Israele nel legame dell’alleanza.
Ecco il testo: «Lodate il Signore, popoli tutti, voi tutte nazioni, glorificatelo, perché forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura in eterno». Su questa specie di antifona Mozart ha costruito nel 1780 una composizione colma di stupore e di pace, di esaltazione e di bellezza, il Laudate Dominum in fa minore dei Vespri solenni di un confessore (K 339). In questa rielaborazione lo spirito di fiducia dell’originale è ricreato in una forma che nessuna spiegazione esegetica riesce a dare.
Dopo dieci battute dell’orchestra si apre – come scrive un critico, Marc Vigna! – una meravigliosa cantilena del soprano solo. La melodia viene poi ripresa da! coro in un’atmosfera di ineffabile tenerezza ultraterrena. Poi c’è un breve momento di immobilità e di gioia. E infine la voce soprano dell’Amen finale si unisce al coro e lo domina dolcemente. Provate ad ascoltare per credere!

IL PANE QUOTIDIANO…

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IL PANE QUOTIDIANO…

Padre Davide ripercorrerà nei suoi articoli i pasti di Gesù evidenziandone la dimensione conviviale della sua vita. L’incontro con uomini e donne di ogni stato e condizione di vita sarà l’occasione per cogliere l’amabilità del Cristo che anche attorno ad una tavola ha riportato la speranza e ha donato la salvezza

Autore: Davide Carbonaro

Tratto da: L’Emanuele del 01/01/2005
La vita terrena di Gesù, Figlio di Dio, è segnata a più riprese nella narrazione dei Vangeli dall’esperienza conviviale. Gesù lascia “tracce visibili” del suo incontro con l’umanità, attraverso i pasti consumati con alcune figure espressive che ricevono luce nuova dal singolare evento. Non per niente un teologo qualche tempo fa affermava che le cose più belle Gesù le ha realizzate a tavola. O, come spesso mi capita ascoltare dai confratelli anziani: “a tavola non ci s’invecchia mai”. Con probabilità questo detto popolare come altri, riconosce nell’atto conviviale una delle esperienze alte di vita che la cultura umana ha tenuto da sempre in gran considerazione. L’atto di prendere il cibo insieme, esercitando il dono reciproco dell’ospitalità, è dunque legato alla vita. Da sempre l’uomo si è scontrato con il problema del pane quotidiano; è spesso ha dovuto fare i conti con l’esperienza dolorosa della fame. Mentre il nostro occidente opulento si può permettere il lusso di fare delle diete, una buona parte dell’umanità grida a Dio in tanti modi: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”. La Bibbia da sempre, ha raccolto l’esperienza conviviale dell’uomo e il grido per la sussistenza solidale.

Dio commensale dell’uomo
“Essi (i settantadue) videro Dio e tuttavia mangiarono e bevvero” (Es 24,11). Così nell’Esodo è descritta l’alleanza conclusa con il popolo nel Sinai. Mangiare e bere è garanzia di vita e Dio, inaccessibile per la religiosità ebraica, diventa paradossalmente commensale per l’uomo. Nella stipula dell’Alleanza gli ospiti sono chiamati a mangiare un cibo offerto a Dio che egli ridona loro come segno della sua benevolenza. Dio, rimane per Israele, colui che dà il cibo ad ogni vivente ponendo così rimedio all’inevitabile ingiustizia degli uomini (Sal 136,25; 145,15-16; 107,36-38; Is 65,13; Pr 22; Gb 31,17). Su questa linea si pone Gesù rievocando nei pasti comuni i valori di condivisione e di solidarietà che il gesto richiama. Nello stesso tempo egli annunzia che Dio attua le sue promesse attraverso un rinnovamento finale. Tale novità è segnalata nei pasti che Gesù condivide con gli ultimi e i peccatori, anticipando in essi il segno profetico della cena pasquale indissolubilmente connesso con il sacrificio della croce. I pasti nel Vangelo, diventano così occasioni per consegnare ai commensali, non solo degli insegnamenti, ma la stessa salvezza (Lc 19,9; 23,43). La Chiesa riceverà questo modo di agire del Maestro di Nazareth, rinnovando nell’Eucaristia le parole di vita e i pasti condivisi con coloro che egli amò sino alla fine.

Dal tavolo di lavoro…
Le prime battute del Vangelo riservano alla chiamata dei discepoli un posto rilevante. Il Maestro di Nazareth acquista sempre più popolarità tra la gente per gli insegnamenti e le opere che compie (Mc 2,12). Il racconto che consideriamo in queste riflessioni, si riferisce alla chiamata di Levi (Mc 2,13-17) ed è diviso in due scene strettamente dipendenti: la chiamata del figlio di Alfeo ed il banchetto con i pubblicani e i peccatori. È l’evangelista Marco, a detta degli studiosi, che lega queste due scene già esistenti come materiale tradizionale indipendente. D’altra parte lo schema di vocazione segue quello di Mc 1,16-20, mentre l’abbinamento pubblicani peccatori s’incontra in contesti analoghi (vedi Mt 11,19; Lc 15,1). La presenza di Gesù lungo il mare, oltre alla indicazione geografica, presenta un richiamo simbolico. Il cammino del Maestro tra i passi quotidiani della gente, rammenta chi è Gesù: il Figlio di Dio venuto tra gli uomini (Mc 1,1; 2,13). Il suo passaggio s’impiglia ai confini della povertà e ai margini della debolezza umana (Mc 2, 1-11).

Il primo evangelista tra gli ultimi
Lo sguardo di Gesù incrocia quello di Levi. La chiamata avviene lungo la strada, tra la gente, lungo la via che dal lago va a Cafarnao. Sulla linea di frontiera è giustificabile il banco delle imposte. Un lavoro disprezzato dal popolo e quanti lo esercitavano, erano considerati avidi e sfruttatori, rinnegati dal punto di vista religioso e politico. I pubblicani avevano il compito di riscuotere i tributi per conto del potere romano soprattutto su quelle merci che attraversavano i confini. La riscossione avveniva non per mezzo di impiegati dello stato, ma attraverso appaltatori: i pubblicani appunto. Ora, il contesto, c’induce a pensare che Levi-Matteo fosse uno di questi (Mc 2, Mt 9,9; Lc 5,27). Alla sequela di Cristo c’è posto per tutti, basta rispondere senza mezze misure o reticenze alla sua chiamata. Il racconto evangelico, è di una essenzialità disarmante. L’imperativo appartiene a Gesù: “Seguimi!”. Al discepolo spetta la risposta confermata nel gesto concreto: seguire e mangiare insieme. Non sono questi i presupposti dell’Eucaristia che la Chiesa riconosce come “luogo” della chiamata, del convito e della guarigione? La Tradizione riserva a Matteo un certo primato: il suo Vangelo è il primo della lista. Forse questo per ricordarci che è testimone chi ha sperimentato il passaggio dagli ultimi ai primi, dalla morte alla vita.

Quale casa?
Il racconto non precisa di quale casa si tratta, se quella di Levi o quella di Gesù. Luca elimina ogni dubbio: l’ospite è Levi (Lc 5,29); mentre lo stesso Matteo non specifica (Mt 9,10). In Mc 1,29 e 2,1 si fa riferimento alla casa di Simone a Cafarnao, in essa le parole autorevoli del Maestro s’intrecciano con il gesto di guarigione fisica e interiore. Il caso della guarigione della suocera di Pietro termina con un pasto: “si mise a servirli” (Mc 1,29-31); mentre la doppia guarigione del paralitico si conclude con l’invito di Gesù a tornare nella propria casa (Mc 2,1-12). La figura del pubblicano, per le esigenze della legge d’Israele, non poteva avere dimora religiosa o appartenenza comunitaria, egli per l’impurità del suo mestiere era accomunato ai ladri, agli usurai, ai pastori e agli schiavi; ed escluso dall’alleanza. Si comprende a questo punto che Gesù frequentando la sua casa o viceversa, rimane impigliato nell’accusa d’impurità legale tanto più che consumare un pasto, era ritenuto in Israele un atto di sacralità e di comunione profonda. Il gesto compiuto da Gesù, oltre alla manifesta dissidenza con la legislazione corrente che dimentica la persona (Mt 9,13), dimostra che la dimora di Dio e dell’umanità s’intrecciano mirabilmente e ogni uomo che risponde generosamente alla chiamata diventa suo commensale. D’altro canto l’allusione alla tribù di Levi (Nm 18,20.24; 26,62) separata dal resto delle tribù e senza luogo nella terra promessa, ricorda che Gesù chiama il nuovo Israele a ricevere in eredità non la terra, ma il regno di Dio. In definitiva, la chiamata di Levi è figura della chiamata degli esclusi d’Israele questi, accomunati ai pagani, sono inseriti tra le primizie del regno di Dio.

… alla mensa della salvezza
La chiamata di Levi inaugura il messaggio universalista di Gesù che rifiuta in modo esplicito le barriere innalzate nel nome di Dio o per il sentire degli uomini. Se da una parte a Gesù non interessano i precedenti o il vuoto mormorio che riempie le strade, dall’altra, al discepolo è chiesta una decisione autentica e liberante: “alzatosi lo seguì”. Il tavolo delle imposte (Mc 2,14) è ricordo del passato di Levi, mentre la mensa del banchetto (Mc 2,15) è memoriale della salvezza ricevuta. Fra queste coordinate si estende la seconda scena che i tre Evangeli sinottici riservano al banchetto che Gesù consuma con i peccatori. Tale gesto, posto in apertura del Vangelo, riassume la missione del Maestro di Nazareth ed è annuncio del pasto salvifico che egli morto e risorto, condividerà con i suoi discepoli in ogni tempo.

Gli invitati: i seguaci di Gesù
Il racconto presenta subito il biglietto da visita degli invitati al banchetto: gli esattori (pubblicani) uniti ai peccatori sono i primi della lista; poi Gesù e i suoi discepoli. Questi ultimi, appaiono per la prima volta nella narrazione. Infine con i molti che lo seguivano, il racconto lascia intravedere un numero indeterminato di persone. A tutti è rivolto l’invito-chiamata che si prolungherà nel tempo e nella storia coinvolgendo una moltitudine di uomini e donne cercatori della salvezza. È la comunità formata da uomini nuovi provenienti da Israele e dalle genti, primizia della futura “comunità universale”. La casa e il banchetto ne rappresentano il segno visibile. Gesù è descritto da Marco mentre “giace a mensa” (Mc 2,15). Il verbo giacere, stare sdraiato, coricato è detto degli infermi (la suocera di Pietro Mc 1,30; il paralitico Mc 2,4; i morti Mc 5,40; Simone il lebbroso Mc 14,3); forse tale congiunzione linguistica, ha delle tracce nel detto popolare: “chi mangia lotta con la morte”. D’altro canto, per descrivere la posizione di quelli che mangiano insieme a Gesù, si dice “adagiati”. Con questa leggera sfumatura Marco anticipa nel gesto di Gesù il mistero della Pasqua. Egli invita al banchetto nuovo la comunità che è frutto della sua morte e risurrezione.

La guarigione come salvezza
Il banchetto è immagine dell’Eucaristia, annunciata nelle pagine del Vangelo e celebrata dalla Chiesa. Il nutrimento offerto, non è il cibo dei perfetti o di quelli che si ritengono tali. È medicina dei deboli, compagnia di Dio nella fragilità, farmaco d’immortalità per l’uomo pellegrino. Ogni volta che la Chiesa si raduna, confessa la paralisi del peccato e sente la distanza tra la sua vita, le sue scelte e l’amore di Dio. Chi colma questo vuoto? Chi permette al cuore di esercitare la sua libertà? Solo chi è venuto a chiamare i peccatori e non i giusti, i deboli e non i sani. Cos’è allora la salvezza? Accogliere l’amore gratuito e universale di Gesù che per noi si è fatto peccato (2Cor 5,21). Tale incontro salvifico che accorcia le distanze tra Dio e l’uomo, si compie nel pasto conviviale, e ci rende familiari di Dio e suoi commensali (Ef 2,19). Gesù non solo perdona i peccati, gesto che solo Dio può compiere (Mc 2,6), ma entra in comunione con l’uomo condividendo la sua vita divina.

EBREI 4,14-16; 5,7-9 – LETTURA E COMMENTO

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EBREI 4,14-16; 5,7-9

Fratelli, 14 poiché abbiamo un grande sommo sacerdote che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede. 15 Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato. 16 Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno.
5,7 Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; 8 pure essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.

COMMENTO
Ebrei 4,14-16; 5,7-9

Gesù sacerdote misericordioso
Nella seconda sezione dello scritto (3,1-5,10) viene affrontato il tema del sommo sacerdote «misericordioso e fedele», preannunziato in 2,17-18. L’autore procede però in un ordine inverso rispetto a quello adottato nell’annunzio tematico. Anzitutto Gesù può e deve essere considerato come il sommo sacerdote «fedele» (3,7-4,13). Ma Gesù è anche un sommo sacerdote «misericordioso»: questa prerogativa viene spiegata in 4,14 – 5,10. Questo brano termina con l’affermazione che proprio nella passione, dove «imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (5,8), Gesù è stato «proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek» (5,10). Viene così anticipata la terza parte della lettera, quella centrale (5,11 – 10,39), in cui si dimostra che il sacerdozio di Cristo supera gli schemi del culto veterotestamentario, che avevano la loro più alta espressione nel sacerdozio levitico, in quanto realizza il misterioso sacerdozio «secondo l’ordine di Melchisedek» dei cui si parla il Sal 110,4.
In Eb 4,14 – 5,10 l’autore mostra dunque come la piena solidarietà di Cristo con gli uomini rappresenti un elemento costitutivo del suo sacerdozio. Il testo si può facilmente dividere in due parti: nella prima (4,14-16), di evidente carattere esortativo, l’autore si esprime alla prima persona plurale («…manteniamo ferma la professione della nostra fede… Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia»); la seconda parte contiene invece una descrizione del ruolo e della condizione del sommo sacerdote dell’AT, cui fa seguito l’applicazione a Cristo (5,1-10). La liturgia propone solo la prima parte e alcuni versetti della seconda.

L’adesione a Cristo sommo sacerdote (Eb 4,14-16)
Precedentemente l’autore aveva presentato Gesù come un sacerdote degno di fede. Ora riprende questo tema, facendone il punto di partenza di una pressante esortazione: «Poiché dunque abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede» (v. 14). Sebbene il sacerdozio di Cristo sia stato consumato sulla croce (cfr. 5,9), esso continua a esercitarsi ancora oggi nei «cieli», dove egli è penetrato con la sua morte cruenta e ormai siede alla destra della maestà «divina» (cfr. 1,3). L’appellativo «Figlio di Dio», sul quale è stato messo l’accento nel prologo (cfr. 1,1-4) e nella prima parte della lettera (cfr. 1,5-8), è attribuito qui direttamente al «Gesù» storico, allo scopo di sottolineare ancora una volta il fondamento del suo ruolo sacerdotale (cfr. 3,6): in quanto Figlio, egli è un sacerdote potente, capace di «salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore» (7,25). In Gesù morto e risorto si è attuato quel «sacerdozio» di cui le istituzioni cultuali dell’AT erano soltanto un’«ombra» (10,1; cfr. 8,5): questa certezza deve spingere il credente a «mantenere salda», cioè a rinnovare e rinvigorire la sua «professione di fede». Solo così potrà entrare in un rapporto vivo con lui e godere i frutti della sua mediazione sacerdotale.
All’esortazione iniziale fa seguito una frase esplicativa con cui si esclude una possibile interpretazione errata del sacerdozio di Cristo: «Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (v. 15). La grandezza del sacerdozio di Cristo non esclude, anzi esige che egli sia solidale con la famiglia umana, che deve rappresentare davanti a Dio: egli infatti è «uomo» in mezzo agli uomini e perciò è capace di comprendere fino in fondo i loro limiti e i loro peccati. Il verbo «compatire» (sympatheō) è tipico della lettera agli Ebrei (cfr. 10,34): esso non significa semplicemente una qualche partecipazione alla sorte dell’altro, ma una vera e propria consonanza di affetti profondi: è l’amore che spinge a patire con chi patisce! Gesù ha dimostrato questa sua compassione perché proprio lui, che è e rimane sempre il «Figlio di Dio» (cfr. v. 14), si è assoggettato ai limiti e alle prove comuni della vita, compreso il dramma della morte (cfr. 5,7-10), come un qualsiasi essere umano (cfr. 2,14-18). Precedentemente l’autore aveva detto che Gesù, «proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (2,18).
La solidarietà di Gesù con l’umanità ha però un limite: egli si assimila in tutto alla condizione umana «escluso il peccato». Si afferma così la perfetta santità di Cristo, che esclude ogni sua partecipazione alla comune situazione di peccato. In realtà questa prerogativa non diminuisce la sua solidarietà con gli uomini, anzi rappresenta la condizione indispensabile perché egli possa effettivamente andare loro incontro e salvarli. Un peccatore infatti ha bisogno prima di tutto di essere lui stesso salvato: solo chi è santo può salvare gli altri! Per questo si dirà tra poco che il sacerdozio antico era inefficace perché il sommo sacerdote doveva offrire sacrifici prima di tutto per i propri peccati (cfr. 5,3). La santità quindi non impedisce a Cristo di essere totalmente simile a noi, partecipe dello stesso sangue e della stessa carne (cfr. 2,14): al contrario, gli consente di essere «redentore» in senso pieno, senza limiti di sorta. Inoltre lo costituisce modello della vita nuova, redenta, che tutti i credenti devono ormai condividere.
L’autore conclude con una nuova esortazione: «Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno» (v. 16). L’invito iniziale a mantenere salda la professione di fede viene qui ripreso, dopo lo sviluppo riguardante la compassione di Gesù, sotto forma di richiamo ad accostarsi con piena fiducia al «trono della grazia», cioè alla presenza del Dio misericordioso. Dopo che Cristo «ha attraversato i cieli», Dio non deve essere più ricercato in un santuario terreno, ma proprio là dove egli si trova, cioè nel suo santuario celeste. In forza della mediazione di Cristo i credenti devono ormai sentirsi sicuri che Dio non negherà loro la salvezza e l’aiuto necessario tutte le volte che ne avranno bisogno.

Cristo sommo sacerdote «compassionevole» (Eb 5,7-9)
Nella seconda parte della pericope l’autore mostra come il sacerdozio di Cristo debba essere compreso specialmente a partire dal suo atteggiamento di solidarietà e compassione nei confronti dei peccatori. A tale scopo egli propone anzitutto una definizione di sacerdote quale emerge dall’esperienza del popolo ebraico e poi la applica a Cristo (5,1-10). La liturgia omette la descrizione del sacerdozio levitico e le affermazioni riguardanti la chiamata di Cristo come sacerdote, proponendo soltanto i versetti riguardanti la sua solidarietà con l’umanità, quale appare dalla sua preghiera per essere liberato dalla morte: «Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà » (v. 7). Se è vero infatti che per ottenere il sommo sacerdozio bisognava essere chiamati, così come era stato chiamato Aronne, è vero anche che esso era un onore (cfr. 5,4), per ottenere il quale parecchi erano disposti persino ad affrontare aspre guerre. Il sacerdozio di Cristo invece è tale che neppure l’unico abilitato ad esercitarlo aveva il desiderio di accedervi perché implicava già in partenza l’identificazione con la vittima, e quindi la totale offerta di sé al Padre; l’onore certamente sarebbe venuto con l’ingresso nei cieli, ma la via per accedervi passava per la croce. È questo che ha spaventato Cristo stesso quando stava ormai per raggiungere il culmine della sua opera sacerdotale.
Egli infatti, giunto al termine della sua vita terrena «offrì» (prosenenkas) a Dio preghiere e suppliche. Questo verbo è il participio aoristo di prosferō, il verbo tecnico con cui indica solitamente l’attività sacrificale propria del sacerdote («offrire in sacrificio»; cfr. 5,1.3; 8,3) e l’offerta che Cristo ha fatto di se stesso sulla croce (cfr. 7,27; 9,14.28). Prima che sulla croce, la sua offerta sacrificale ha avuto dunque luogo nell’orto degli Ulivi, dove ha rivolto al Padre la sua preghiera, accompagnata da «forti grida e lacrime». Le «preghiere e suppliche con forti grida e lacrime» sono quasi certamente quelle che Cristo ha elevato a Dio durante la sua passione. (cfr. Mc 14,33-36 e par.). In questo testo non si parla di «forti grida e lacrime», ma solo di una preghiera accorata di Cristo: è chiaro che l’autore di Ebrei, pur avendo in mente i fatti accaduti nel Getsemani, non si riferisce ai vangeli scritti, ma alla tradizione orale, che egli ha ulteriormente drammatizzato.
Più difficile da spiegare è il significato della frase «fu esaudito per la sua pietà (apo tēs eulabeias, Vg: pro sua reverentia)». Se con la sua preghiera Gesù voleva ottenere di essere liberato dalla morte, di fatto non è stato esaudito, come appare chiaramente dal racconto evangelico. Perciò alcuni studiosi hanno supposto che nel testo originale fosse scritto che egli «non» fu esaudito, sebbene fosse figlio di Dio; in seguito il «non» sarebbe stato eliminato per motivi dottrinali. Questa ipotesi però non è accettabile, in quanto non è suffragata da testimonianze o varianti di codici; inoltre, essa toglierebbe non poco alla drammaticità del testo e alla sua densità teologica. Altri invece, facendo leva sul fatto che il termine eulabeia significa anche «timore», «paura», traducono così il passo: «… fu esaudito (venendo liberato) dalla paura (della morte)». Ma anche questa spiegazione non convince, perché Gesù ha realmente pregato per essere liberato dalla morte, come risulta anche dal racconto dei vangeli.
Secondo una terza interpretazione, l’autore non intenderebbe semplicemente la morte fisica, ma il tipo di morte affrontata da Cristo. Questi ha voluto partecipare alla comune condizione umana «per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita» (2,14-15). La morte è intesa qui come lo strumento mediante il quale gli uomini sono tenuti sotto la schiavitù del diavolo, e di conseguenza riguarda direttamente solo i peccatori (cfr. Sap 2,24; 3,1). Da questa morte Cristo è stato effettivamente liberato non solo perché Dio gli ha dato la forza per superare la prova, ma anche e soprattutto perché si è servito della sua morte fisica per eliminare la morte stessa in quanto realtà strettamente collegata con il peccato, trasformandola in un grande gesto di affidamento a Dio.
L’autore fa poi questa riflessione: «Pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì» (v. 8). L’«obbedienza» (hypakoē) che Cristo imparò dalla sua sofferenza consiste nell’adesione radicale al progetto di Dio, che lo ha guidato nelle scelte decisive della sua vita. La sottomissione alla volontà del Padre viene presentata spesso nel NT come un aspetto caratteristico del comportamento di Gesù (cfr. Mc 14,36; Gv 4,34; 10,18). Paolo in modo speciale sottolinea come l’obbedienza di Cristo si sia manifestata nella sofferenza della morte (cfr. Fil 2,8; Rm 5,19). Ma ciò che la lettera agli Ebrei mette maggiormente in luce, in piena sintonia con il racconto evangelico della passione, è il fatto che questa obbedienza non è stata spontanea e quasi scontata, ma ha richiesto una notevole dose di impegno e di fatica per superare la naturale paura della morte. L’aspetto più specifico del sacerdozio di Cristo sta quindi nell’accettazione libera, anche se sofferta, della morte, che certo non è stata voluta dal Padre, ma imposta dalle circostanze concrete della storia. Le modalità con cui è stata esaudita la sua preghiera aiutano dunque a comprendere retrospettivamente in che cosa essa consisteva.
Dall’esperienza terrena di Cristo l’autore ricava questa conclusione: «Reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchìsedek» (vv. 9-10). Proprio a causa della sua obbedienza Cristo «fu reso perfetto» (teleiōtheis). Nell’AT l’appellativo di «perfetto» (ebr. tamîm) compete non a Dio, ma all’uomo che adempie tutto ciò che, in campo morale o rituale, è richiesto per poter accedere a Dio (cfr. Gn 17,1; Dt 18,13; 2Sam 22,26). Il verbo teleioō, « perfezionare » è molto importante per l’autore della lettera agli Ebrei, che lo usa ben nove volte, delle quali tre applicato a Cristo (2,10; 5,9; 7,28) come espressione dell’opera di Dio in lui. La «perfezione» ottenuta da Cristo non deve però intendersi in senso morale: essa è piuttosto quella che gli deriva dall’aver raggiunto il «fine» (tēlos) della sua esistenza terrena, cioè dall’attuazione della salvezza che il Padre aveva progettato di realizzare per mezzo suo in favore degli uomini. L’obbedienza di Cristo ha come risultato la salvezza eterna di tutti coloro che «gli obbediscono». Obbedire significa qui accettare la totalità del messaggio di Cristo, ma soprattutto seguire l’esempio che egli ha offerto a tutti nel suo affidarsi all’amore del Padre, anche quando poteva sembrare che il Padre l’avesse abbandonato (cfr. Mt 27,46). Il Padre dal canto suo ha talmente accettato l’offerta sacrificale di Cristo da proclamarlo, proprio in virtù di essa, «sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek».

Linee interpretative
L’autore della Lettera agli Ebrei si è assunto l’arduo compito di presentare la vicenda umana di Gesù in termini sacrificali. Il concetto di sacerdozio, quale di fatto si ricava sia dall’AT sia dalla più normale esperienza religiosa, implica la possibilità di compiere un’efficace mediazione tra Dio e gli uomini: «Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati» (5,1). La mediazione perfetta però esige che il sacerdote sia veramente rappresentativo delle due parti in causa: solidale con Dio e al tempo stesso con gli uomini. In questo senso Gesù rappresenta il sacerdote ideale, perché è il «figlio di Dio» (4,14; 5,8), «che ha attraversato i cieli» e gode di una potenza di intercessione infinita presso «il trono della grazia» (4,16); ma nello stesso tempo si è fatto simile a noi, «essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (4,15).
La prova più grande (che è stata anche una forte tentazione), a cui è stato sottoposto Gesù nel suo radicale assimilarsi agli uomini, è la morte: da essa egli, in quanto Figlio, aveva il diritto di essere esentato, e invece le è andato incontro coscientemente, pur sentendone la naturale ripugnanza (5,7). Nell’accettazione, pur sofferta, della morte Gesù realizza il massimo di amore verso Dio e verso gli uomini. Verso Dio tale amore si manifesta in forma di radicale «obbedienza» (5,8); verso gli uomini assume i caratteri della più totale «condivisione».
Proprio per questa dimensione di amore, totalmente libero e perciò anche estremamente sofferto, la morte di Cristo è presentata come un vero «sacrificio»: la stessa preghiera, con cui domanda di essere liberato dalla morte, ma al tempo stesso si affida al Padre, diventa un’offerta sacrificale (5,7). Non stupisce pertanto che il Padre gradisca questa offerta al punto tale da farla rifluire, come dono di salvezza, su tutti gli uomini: «E, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (5,9). A questo sacrificio totalmente nuovo e diverso si ricollega il sacerdozio di Cristo, che l’autore definisce come un sacerdozio «alla maniera di Melchisedek» (5,10), il misterioso personaggio che è presentato come «re di Salem» e «sacerdote del Dio Altissimo» (Gen 14,17-20). Con questo riferimento a Melchisedek però egli, più che definire la natura del sacerdozio di Cristo, vuole affermarne la novità e anche la rottura nei confronti del vecchio sacerdozio levitico.
La presentazione in termini sacrificali dell’esperienza di Gesù ha un alto significato teologico, comprensibile soprattutto a persone che vivevano l’esperienza sacrificale di Israele. In pratica però, pur affermando la solidarietà di Gesù con l’umanità, l’autore rischia di perdere la dimensione vissuta della sua partecipazione alle sofferenze, alle lotte e al cammino di liberazione dei più poveri quale appare dai vangeli. Senza volerlo, l’autore ha aperto la strada a una nuova ritualizzazione del cristianesimo che ha fatto sentire i suoi effetti nei secoli successivi.

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L’INCONTRO DI GESU’ CON NICODEMO: « RINASCERE DALL’ALTO » GV. 3,1-21

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L’INCONTRO DI GESU’ CON NICODEMO: « RINASCERE DALL’ALTO » GV. 3,1-21

Gv. 3,1-21
Vi era tra i farisei un uomo di nome Nicodemo, uno dei capi dei Giudei. Costui andò da Gesù, di notte, e gli disse: «Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui».
Gli rispose Gesù: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio».Gli disse Nicodemo: «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?».
Rispose Gesù: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito».
Gli replicò Nicodemo: «Come può accadere questo?».
Gli rispose Gesù: «Tu sei maestro d’Israele e non conosci queste cose? In verità, in verità io ti dico: noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo.
E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

Chi rappresenta Nicodemo?
Giovanni ci racconta di Nicodemo che cerca Gesù, nella prima visita alla città santa, il primo pellegrinaggio pasquale, dopo il battesimo al Giordano e lo Spirito che lo consacra Servo di Yahvè, figlio diletto. Vedremo Nicodemo come rappresentante dell’esperienza religiosa ebraica. In questo senso Nicodemo può pure rappresentare noi cristiani di oggi, che cerchiamo un’esperienza religiosa che ci scaldi il cuore, dopo periodi di delusione e stanchezza. In particolare ascolteremo, con Nicodemo, cosa significa nascere di nuovo; vogliamo anche noi vivere l’esperienza dello Spirito, come aria che respiriamo, come vento sulle nostre vele.
Con Nicodemo e con Giovanni conserveremo nel cuore l’eco delle parole di Gesù: “Dio ha tanto amato il mondo da donare l’unico Figlio”. Cosa significa, per noi oggi, che Dio ama tanto il mondo? Vogliamo scoprire nel volto di Gesù come Dio guarda noi, nati da donna; noi oggi, a volte inquieti nel vedere una storia umana che va avanti per conto suo come se Dio non ci mettesse mano.

Chi era Nicodemo?
Dunque, Nicodemo di Gerusalemme. È un notabile, un anziano, capofamiglia benestante; appartiene alle prime famiglie tornate da Babilonia, che hanno preso possesso delle terre migliori, lasciando a chi arriva dopo le colline seminate a sassi, dove gli altri capifamiglia aspettano in piazza di venire assunti a giornata come braccianti agricoli precari (Mt 20, 6-7).
È “maestro in Israele”, testimone della novità religiosa che la famiglia di Abramo conserva gelosamente di fronte alle altre religioni, tutte ‘pagane’. Sa che può dire la sua parola nel Consiglio del Sinedrio, dare del tu alle persone importanti del popolo. È uomo di cultura tra i colleghi Scribi, esperti di Bibbia e di leggi sociali, che sanno a chi va la casa della vedova e il campo dell’orfano.
L’iniziativa coraggiosa di Nicodemo per incontrare quel Gesù non amato da chi ha il potere nelle mani.
Nicodemo va da Gesù di notte. Fuori città, lontano dagli occhi dei colleghi. Essi provano fastidio per questo nuovo rabbì senza diploma, che viene da una Nazaret da niente, da una Galilea dei pagani da cui non è mai venuto fuori un profeta. Conosce bene il disprezzo dei colleghi per il popolo ignorante, che non conosce la Torà ed è maledetto (Gv 7, 49), e si lascia « abbindolare » da questo profeta dai sandali polverosi, che vende speranze a chi non ha roba da parte.
Nicodemo è stato colpito da Gesù, non lo cercava, non l’aspettava. A Gerusalemme la religione c’era già; il tempio era splendido, le liturgie solenni; le regole morali erano chiare fino ai dettagli. Non c’era nessun problema di fede, quella era già detta e ridetta. Restava il problema della morale, cioè di mettere in pratica i comandamenti e i precetti e le sante tradizioni. Perché c’è sempre chi cerca di farla franca con la moglie di un altro, chi non paga le decime per il tempio, chi ruba nel campo del padrone, le prostitute dei bassifondi. Piccole cose diciamo, bastano già i Farisei a ridire le regole e controllare i comportanti. Gesù era un di più, non era aspettato, tutto era già a posto.

Nicodemo si lascia affascinare da Gesù!
Ma Gesù lo ha colpito. Nessuno ha mai parlato come quest’uomo. Sembra acqua di sorgente, non quella tirata fuori dalla vecchia cisterna. Quando parla di Dio gli si illumina il volto, pare che lo veda con gli occhi. Già, come diceva Davide: “Il tuo volto, Signore, io cerco”.
Ma è vero! Gli altri esperti di religione e di riti sono fieri dei paramenti, sono protagonisti delle liturgie, sembrano incaricati di tirare l’attenzione; forse cercano solo la gloria gli uni dagli altri.

La novità di Gesù: « l’Abbà amabile »
Gesù è libero, è innamorato di Dio. Certo, lo chiama Abbà, lo chiama suo Padre; no, qui deve stare attento, gli chiederò spiegazioni. Ecco, Gesù ha spostato l’attenzione dalla Legge al volto di Dio. Siamo abituati a spiegare alla gente quello che deve fare per Dio, e Gesù spiega quello che Dio fa per l’uomo. Noi, a parte i grandi pellegrinaggi; noi abbiamo sempre il problema che la gente pratica poco, che è poco interessata. Ma quelli che vanno dietro a Gesù anche nei giorni feriali sembrano avere scoperto un Dio che attira; un Dio che, una volta incontrato, non hai più voglia di mollarlo. Gesù presenta un Dio amabile, quello che “la luce del suo volto” illumina i nostri volti, e anche i poveri sotto gli stracci sporchi si sentono importanti per Dio.

Anch’io Gesù ho bisogno di parlarti!
E Nicodemo va. Sa che Gesù coi suoi amici è accampato sotto gli alberi, dorme sotto gli olivi. “Sì, Gesù, ho bisogno di parlarti, di ascoltare da te altre cose. Sono sicuro che vieni da Dio, benedetto il suo Nome. Ascoltate dalla tua bocca, le parole del Signore riprendono il sapore del miele, come diceva il nostro padre Davide. E poi, le opere che fai, di sicuro vengono dall’alto. Pare che Dio metta di nuovo mano al mondo, porti a compimento l’opera iniziata, restauri la sua casa caduta in rovina. Ci fai incontrare un Dio che si impegna per l’uomo, e vuole che la festa non finisca. E la festa sono le nozze, l’Alleanza, sentirci dentro la storia di Dio che ama il suo popolo. A volte pare che il suo braccio si sia fatto corto, che sia mutata la destra dell’Altissimo. Perché la miseria lima gli orfani e le vedove e i forestieri; i malati non hanno nessuno che li guardi; i ricchi portano animali da sacrificare al tempio, ma non si curano delle vere pecore, che è il popolo dei poveri di Yahvè. La religione vera non può essere una liturgia di sacrifici, senza la misericordia della vita. Ecco, Gesù, vorrei ascoltare da te parole che mettono luce nuova alle mie conoscenze”.
Forse hai messo i comandamenti al primo posto; prova a metterci l’Amore, cambierà tutto.
Ma non si tratta di aggiungere capitoli nuovi alle conoscenze antiche: si tratta di nascere di nuovo. Non basta mettere in bella l’insegnamento già dato, bisogna essere persone nuove, uscite inedite da un grembo che genera vita. No, non parlo del grembo della tua vecchia madre, inaridito come quello di Sara. Ciò che nasce dalla carne è carne. Bisogna nascere dallo Spirito, per essere figli di Dio, a immagine e somiglianza di chi ci ha fatti con sapienza e amore. Perché eterno è il suo amore per noi. Invece Dio dice, per bocca di Osea profeta: “L’amore del mio popolo è breve come la rugiada del mattino, che secca al primo sole”. È lo Spirito che ci fa partecipi della Vita che è in Dio. È lo Spirito che ci fa vivere al ritmo dell’Amore che Dio ha per noi. Solo chi nasce dallo Spirito può avere questa qualità di Vita, questa qualità di Amore. Cos’è la vita, senza l’Amore? Avete messo i comandamenti al primo posto; prova a metterci l’Amore, cambierà tutto. Cosa dobbiamo fare per avere questo? Ma è dono! Senti il vento tra gli alberi: non lo vedi, ma fa danzare le foglie. Lo Spirito di Dio è gratuito come il vento, come l’aria da respirare, ma fa danzare l’anima di festa.

Il segreto della felicità: sentirsi amati e poter amare.
Perché i bambini sono felici? Perché sanno di essere amati. La felicità è qui, il senso della vita è qui: sentirsi amati e poter amare. Chi si lascia colmare dall’amore, farà traboccare questo amore come sorgente che non secca, come la sorgente di Siloe che non secca nella lunga arsura estate. È Dio, questa sorgente di Siloe, come diceva Isaia. È Dio, che non desidera altro che effondere il suo amore, e colmarci, e renderci capaci di amare. Ecco: Dio ha tanto amato il mondo, da donare l’unico figlio. Sì, hai capito giusto. Dio non ha mandato il Figlio a giudicare il mondo, ma a farlo vivere.
Avete troppo insistito sulla legge. La Legge è stata data per mezzo di Mosé, la grazia e la verità per mezzo del Figlio. Grazia, gratuità, volto grazioso del nostro Dio: tu queste cose le sai. Verità è la stessa cosa che fedeltà: Dio è Amore, non può essere altro che Amore. L’Amore può essere festa, può essere dolore, ma sarà sempre soltanto amore, amore a caro prezzo. Le grandi acque non possono spegnere l’Amore, e il vento « dello spirito » le rafforza

L’anelito del rinascere di nuovo, vedi l’esperienza dell’iniziazione in Africa.
In varie luoghi dell’Africa ho notato che si realizza ancora, sebbene ora con minor durata, un antico rito di iniziazione, che permette ai ragazzi di diventare adulti e poter così assumere una vita di responsabilità con tutti i suoi diritti e doveri. In questa esperienza di iniziazione, obbligatoria per far parte del clan, viene chiesto al giovane di dire addio alla vita passata da bambino e di non voltarsi indietro quando lascia i suoi genitori per andare nella foresta, sebbene la madre pianga a causa della paura e del timore di perdere per sempre il proprio figlio.
Al giovane iniziato viene insegnata la saggezza degli antenati, i comportamenti da assumere in ogni situazione di vita; gli vengono anche presentati modelli di vita vissuta per imitarli. L’iniziato poi deve dimostrare di saper costruire la propria casa, di aver il coraggio di cacciare animali pericolosi, passare varie prove di resistenza e di isolamento e lasciarsi incidere sul proprio corpo il segno di appartenenza (v. circoncisione).
Alla fine di tutto per accedere alla comunità degli adulti, viene chiesto all’iniziato di affrontare il saggio maestro mascherato che lo aspetta sotto l’albero (simbolo della vita), il quale lo esamina bene e poi gli chiede di avvicinarsi a lui e di imitare la nascita di un bambino. Alla fine di tutto gli rivela che ora è rinato ad una nuova vita, la vita della comunità degli adulti, i quali ora possono contare su di lui in qualsiasi momento.
Da quel momento gli viene dato un nome nuovo, un padrino che lo accompagna nella vita, gli viene preparato un bagno di purificazione e lo si accoglie con danze e gioia grande. Da qui in poi potrà assumere incarichi per il bene di tutti e potersi anche formare una famiglia. Questa esperienza fatta, non potrà più dimenticarla perché viene ritenuta sacra.
Quante analogie ci sono con il nostro cammino cristiano di iniziazione (l’addio alla vita di bambino, il padrino, gli istruttori, la comunità, gli insegnamenti, le prove, le esperienze pratiche, il nome nuovo, il bagno con l’acqua, la festa, la possibilità di accedere alla vita degli adulti, vedi con i sacramenti,… ), ma ciò che più segna è la convinzione di essere rinato nuovamente.
La comunità o il clan, solo ora lo potrà ritenere una persona a pieno titolo, rimarcandogli che ha lasciato per sempre « quel bambino che era prima e le cose usate nella sua infanzia ». Ora avrà davanti a se nuovi ideali, un modo nuovo di vivere e dovrà fare scelte coraggiose e responsabili, dove potrebbe anche essere disposto a perdere la vita per il bene della sua comunità.

La rigenerazione dell’Africa o « rinascita dall’alto » in Comboni.
Che stupendi insegnamenti di vera saggezza di vita si trovano proprio in questi luoghi della terra sperduti in questo continente, ma altrettanto amati da Dio e anche dal caro Daniele Comboni. Lo stesso Comboni ci ha insegnato che Gesù lo ha chiamato a collaborare per la rigenerazione dell’Africa per mezzo degli stessi africani, cioè farla rinascere nuovamente con la forza della Parola del Vangelo e dello Spirito donato dal Salvatore. Ora se ci abita nel cuore la stessa passione del Comboni e permettiamo a Dio di farci rinascere dall’alto, possiamo dire che tocca a noi fare la nostra parte, affinché la pienezza della vita del Figlio di Dio sia offerta a tutta l’umanità.

 

I / NON AVRAI ALTRO DIO FUORI DI ME II / NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO – GIANFRANCO RAVASI

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I / NON AVRAI ALTRO DIO FUORI DI ME II / NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO

(non trovo il seguito, ma trattandosi di uno studio di Ravasi, anche se tratta solo dei due primi comandamenti, lo posto ugualmente)

Quel creatore « geloso » che libera la sua creatura

Dalla legge divina alla fedeltà umana.

Autore: Gianfranco Ravasi

Tratto da: Famiglia Cristiana del 29/02/2004

«Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio» (Esodo 31,18). È suggestiva questa immagine del dito divino che incide sulla pietra, quasi fosse un’epigrafe perenne, la sua parola. Essa s’incarna per eccellenza nelle « dieci parole » o precetti – tale è appunto il significato del termine di origine greca « Decalogo » usato per indicarle – che la Bibbia offre in due redazioni segnate da lievi variazioni: una è nel capitolo 20 del libro dell’Esodo, mentre l’altra è nel capitolo 5 del Deuteronomio, il quinto libro dell’Antico Testamento.
Ora noi cercheremo di illustrare i primi due comandamenti, omogenei tra loro perché hanno al centro la figura di Dio. Inizieremo col primo, che è quasi l’architrave di tutta l’architettura spirituale del Decalogo. Esso si apre con una dichiarazione in cui il Signore si presenta come persona che proclama un « io », ossia un’identità, e che agisce intervenendo nella storia: «Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù». Il Dio che entra in scena, parla e si rivela: è, perciò, un liberatore ed è a questo primo suo atto, che precede ogni nostra azione, che dobbiamo dare una risposta di adesione.
Ecco, allora, l’impegno del primo comandamento, che nel testo biblico ha una formulazione ben più vasta del sintetico: «Non avrai altro dio fuori di me» usato dalla tradizione. Tre, infatti, sono le descrizioni del nostro impegno di fedeltà al Signore. Innanzi tutto dobbiamo riconoscere la sua unicità assoluta contro ogni tentazione politeistica. È quello che si definisce come un « monoteismo affettivo »: non è tanto il riconoscere in sede teorica che non ci sono altri dèi, bensì «avere un Dio a cui il cuore si abbandona totalmente», come aveva giustamente commentato Lutero.
C’è, poi, un’altra definizione del comandamento: «Non ti farai idolo né immagine alcuna…». Il pensiero corre alla scena del vitello d’oro, che subito dopo è narrata dall’Esodo (cap. 32). In realtà essa rappresentava la tentazione di un popolo nomadico-agricolo di raffigurare la divinità, sorgente della vita, nell’immagine di un toro fecondo. L’appello del Decalogo è chiaro e tagliente: Dio non è riducibile a un oggetto o a un segno magico, la sua è una realtà infinita ed eterna che travalica spazio e tempo e, se proprio si vuole pensare a una sua immagine, c’è una sua creatura particolarmente amata: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò» (Genesi 1,27).
Ecco, infine, un’ultima formulazione del primo comandamento: «Non ti prostrerai davanti agli idoli e non li servirai». L’atto di culto dev’essere riferito solo al Signore, come replicherà Cristo a Satana che, mostrandogli il fascino del potere e del possesso, gli aveva suggerito di « prostrarsi e adorarlo »: «Vattene, Satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto!» (Matteo 4,9-10). E a questo punto il comandamento ricorda che il Signore è «un Dio geloso», un simbolo vivace per evocare la passione divina nei confronti della sua creatura, libera nel respingerlo ma anche nella scelta di essere legata a lui da un nodo d’amore.
Possiamo, così, concludere la riflessione sul primo comandamento, il più ampio, invitando a leggerlo nella sua stesura completa in Esodo 20,1-6: esso è un forte appello alla purezza della fede nei confronti di un Dio vivo e personale, esigente ma anche amoroso, tant’è vero che, se ricorda il peccato punendolo «fino alla quarta generazione», perdona chi è pentito e svela il suo amore «fino alla millesima generazione», come è scritto nella stessa pagina biblica del primo precetto.
Il secondo comandamento, molto più lapidario, aggiunge un’altra pennellata a questo ritratto divino: «Non nominare il nome di Dio invano» è per noi spontaneamente la condanna della bestemmia. E questo ha un suo fondo di verità perché essa incarna un’aggressione carica di odio e di disprezzo nei confronti della realtà di Dio: il « nome » nel linguaggio biblico è appunto la persona. Spesso, soprattutto nel mondo occidentale, la bestemmia è ridotta a un intercalare volgare e miserabile e perde la sua violenza, rimanendo pur sempre un’offesa impotente alla divinità.
Tuttavia, nel mondo semitico ove la bestemmia in questo senso è ignota, il significato primario del comandamento è un altro ed è legato al termine « invano ». In ebraico la parola usata (shaw’) indica qualcosa di « falso, vuoto, vano, inutile » ed era il vocabolo con cui si indicava spregiativamente l’idolo. Scopriamo, allora, un altro senso da attribuire al secondo precetto, un senso che lo collega al primo. La vera bestemmia è scambiare il nome-persona di Dio col nome « vano » delle cose cui ci aggrappiamo e che consideriamo come un tesoro al quale tutto sacrificare. È l’auto-adorazione dell’uomo o la sostituzione di una cosa (denaro, potere, piacere, successo) al Dio vivente.
Risuona, allora, la voce del Salmista che idealmente commenta il nostro comandamento: «Non vogliate affidarvi alla forza, le rapine non portano frutto; pur se abbonda la ricchezza, mai ponete in essa il vostro cuore… Solo in Dio il mio cuore riposa, da lui viene la mia speranza. È mia rupe e mia salvezza lui solo, la mia roccia: io più non vacillo» (Salmo 62,2-3.11).

SALMO 6 – SUPPLICA DI UN UOMO GRAVEMENTE AMMALATO

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SALMO 6 – SUPPLICA DI UN UOMO GRAVEMENTE AMMALATO

[1] Al maestro del coro. Per strumenti a corda. Sull’ottava. Salmo. Di Davide

[2] Signore, non punirmi nel tuo sdegno, non castigarmi nel tuo furore.
[3] Pietà di me, Signore: vengo meno; risanami, Signore: tremano le mie ossa.
[4] L’anima mia è tutta sconvolta, ma tu, Signore, fino a quando…?
[5] Volgiti, Signore, a liberarmi,
salvami per la tua misericordia.
[6] Nessuno tra i morti ti ricorda.
Chi negli inferi canta le tue lodi?
[7] Sono stremato dai lungi lamenti,
ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio,
irroro di lacrime il mio letto.
[8] I miei occhi si consumano nel dolore,
invecchio fra tanti miei oppressori.
[9] Via da me voi tutti che fate il male,
il Signore ascolta la voce del mio pianto.
[10] II Signore ascolta la mia supplica,
il Signore accoglie la mia preghiera.
[11] Arrossiscano e tremino i miei nemici, confusi, indietreggino all’istante.

Il salmo 6 è una supplica individuale di un uomo gravemente malato. L’esperienza che l’orante fa è quella amara della malattia e delle sue sofferenze, di un’angoscia interiore e del timore della morte, la coscienza di una ostilità perversa, la consapevolezza del peccato. Questo intreccio esistenziale, le relazioni fra tutti questi fattori somatici e spirituali, ci permetteranno di meditare questo salmo. Una classificazione tradizionale ha inserito questo salmo tra i sette salmi penitenziali (6; 32; 38; 51; 102; 130; 143). La ragione è tematica ed ha alle sue spalle una conferma nell’uso liturgico.
È un salmo che ci parla dell’ira di Dio: « Signore, non punirmi nel tuo sdegno, non castigarmi nel tuo furore » (v 2). Non è facile farci un’idea dell’ira di Dio; è una cosa che esula dal nostro linguaggio ordinario. Come posiamo sentirci invitati alla preghiera da questa menzione cruda dell’ira, del furore, dello sdegno di Dio? Sembra che questo salmo rappresenti come una chiusura di orizzonti sulla vita presente dell’uomo. Al v .6 si dice: « Nessuno tra i morti ti ricorda, chi negli inferi canta le tue lodi? ». Sembra che chi recita questo salmo non si preoccupi di un avvenire dell’uomo oltre la vita, ma abbia una visione limitata, una chiusura di orizzonti sulla vita presente. Il Nuovo Testamento ha completamente trasformato questa visione, ponendo chiaramante l’orizzonte della vita dell’uomo nella vita senza fine. E’ un salmo che fu composto per essere recitato dai malati, ma nessuno di noi può presumere di poter entrare nella psicologia di un malato grave, tentato di disperazione, di solitudine, di chiusura. Solo chi l’ha provato può avere un’idea di questo stato d’animo.
Un dramma con tre personaggi: Dio, il sofferente, i nemici. C’è un uomo in uno stato di grande prostrazione fisica e morale che attraverso lo sfogo libero del cuore a Dio, chiede di essere liberato dai nemici. Che cos’è il lamento? E’ il grido dell’uomo che sente venire meno il vivere in senso specifico, cioè la salute, il progetto di vita, la propria capacità di amare, la propria dignità. Allora l’uomo grida a Dio: « Non abbandonarmi, ritorna, voglio tornare a lodarti ». Quello che l’uomo sperimenta in questo degradarsi del vivere di cui ha paura, è chiamato l’ira di Dio, lo sdegno di Dio, il non vivere è l’essere abbandonati da Dio. E allora grida: « Abbi pietà di me, Signore, vengo meno… » (C 3 – 6). Il lamento è l’opposto della lode, della chiarezza, della coscienza dell’uomo che il vivere è lodare Dio.
Nella Bibbia troviamo personaggi che hanno pregato così: in gran parte dei salmi di lamento Davide ha pregato così, ma non da disperato. Il profeta Geremia ha scritto lamenti molto simili a questo salmo. Giobbe nella sua sofferenza fisica e morale si è espresso così. Gesù sulla croce ha detto: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». Ogni cristiano può ripetere l’esperienza di Davide, di Geremia, di Gesù. Quando noi recitiamo questo salmo ci uniamo a tutti coloro che soffrono; forse non possiamo raggiungere la loro sofferenza; ma ci possiamo ugualmente unire al lamento universale di coloro che invocano Dio perché venga a salvarli.
I nemici. Possono essere nemici molto diversi: nemici politici, popoli conquistatori, oppressori, ma anche nemici privati, prepotenti, sfruttatori. Nei salmi i nemici sono sempre figure un pò vaghe; non hanno un volto preciso, però sono sempre uomini senza Dio. Sono il segno dell’impossibilità del mondo di vivere senza amore e senza lode; sono il segno del male.

v. 2 .l’orante cerca un Dio che sia un pedagogo comprensivo; rifugge da un Dio giudice adirato. Si potrebbe tradurre: « riprendimi senza ira, correggimi senza collera ». Si può vedere Ger 10, 24: « Correggici, Signore, con misura, non farci venir meno con la tua collera ». Oppure Sap 12,2: « Per questo correggi poco a poco chi cade ».

vv. 3-4 « Vengo meno… tremano le mie ossa ». Il verbo indica lo slogamento per cui le ossa sono disarticolate, il respiro affannoso e ansimante, l’animo agghiacciato dalla paura. L’interrogativo: « e tu, Signore, fino a quando? » che appare anche in altri salmi (Sal 12; Sal 90, 13; Sal 79, 5 sulla sorte di Gerusalemme), ha l’effetto di mettere in risalto la situazione drammatica nel senso che l’indugio di Dio nell’intervenire, può rendere mortale la malattia.

v. 5 Curare è salvare la vita che è in gioco nella malattia che affligge l’orante. Nel Nuovo Testamento la guarigione viene chiamata salvezza: « La tua fede ti ha salvato » (la guarigione del cieco di Gerico: Mc 10. 52).

v. 6 Il Signore è un Dio dei viventi: cf il testo classico di Is 38, 18: « poiché non ti lodano gli inferi, né la morte ti canta inni; quanti scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà ».

v. 7 L’immagine è il giaciglio dell’orante che dilaga in lacrime. Il pianto è l’espressione del dolore interiore, come in Lam 1, 2; 2, 11. 18.

v. 8 I continui gemiti prostrano l’orante come se il travaglio faticoso di una vita fosse gemere, travaglio sterile, senza esiti. A causa del pianto gli occhi si consumano ed invecchiano.

v. 9 Dopo i cinque imperativi indirizzati a Dio « non punirmi, non castigarmi, risanami, volgiti, salvami », e dopo la descrizione del suo stato pietoso, ci sorprende un imperativo al plurale rivolto a personaggi di cui ignoravamo la presenza: « Via da me voi tutti che fate il male ». Il salmista che fino a questo momento è stato a guardare se stesso, in una amara analisi introspettiva, scopre all’improvviso una presenza ostile, quando questa è già praticamente vinta.

v. 10 L’orante riconosce subito che Dio ha ascoltato la sua richiesta. Da dove nasce la sua certezza? Secondo un’ipotesi l’orante è venuto al tempio per esporre la sua situazione. Il sacerdote o il profeta del tempio pronunciano un oracolo che contiene l’esaudimento divino. Il fedele ringrazia e benedice Dio.

v. 11 « Arrossiscano e tremino i miei nemici ». E’ il prolungamento della ritirata dei nemici. C’è una ritorsione, quasi un contrappasso, di quello che i nemici hanno fatto. Il male fatto si ritorce contro coloro che l’hanno fatto.

Trasposizione e attualizzazione cristiana
Leggiamo in Mt 7, 23 e in Lc 13, 27: « allontanatevi da me voi tutti operatori di iniquità » quello che leggiamo al v. 9 del salmo. Le guarigioni operate da Cristo, specialmente quando si presentano in relazione con il peccato dell’uomo, prolungano il tema del salmo.
Ma partendo dalla situazione descritta nel salmo, quali sono le domande che ci riguadano?
* La prima domanda ci interroga sul tema del lamento come verità del nostro vivere. Il lamento esprime la voglia di vivere, l’aspirazione ad avere motivazioni di vita dal Dio della vita. E’ la preghiera di chi, vivendo coscientemente le proprie sofferenze, le proprie miserie, le miserie e le sofferenze di coloro che ama, le propone a Dio con cuore fiducioso?
Ho mai sperimentato in me il rapporto tra la lode e la vita?
Mi perdo nel lamento, oppure, nei momenti di sofferenza, mi presento al Signore nella preghiera sapendo che è purificatrice, che trasforma la sofferenza e anche chi prega così?

* La seconda domanda ci fa interrogare sull’oggetto di questo lamento. Di che cosa si lamenta l’uomo, qual è l’oggetto reale della preghiera, della sofferenza? E’ tutto ciò che toglie la vita, tutto ciò che diminuisce l’essere dell’uomo, tutto ciò che lo contrasta. Il salmo 6 sottolinea la dignità della protesta per tutto ciò che avviene in noi come forza di morte e indica pure le qualità che questa protesta deve avere. E’ una protesta che individua il male fino in fondo e non si ferma alle cause esteriori, ma scopre l’origine del male nel cuore dell’uomo.
So veramente da che cosa dipende il male dell’uomo?
Quale coscienza ho del mio peccato?
Mi fido completamente di Dio?
C’è dignità in me quando mi lamento, oppure esprimo una protesta inerte e velleitaria che si accontenta solo del gridare?

* La terza domanda riguarda la fiducia nella preghiera. Il salmista ha pregato descrivendo se stesso: « sono stremato dai lunghi lamenti, ogni notte inondo di lacrime il mio giaciglio… « .
So che Dio ascolta la mia preghiera? Sono certo che il Signore mi ascolta, mi accoglie, mi riceve? Quale coscienza ho dell’amore, della fedeltà e del perdono di Dio?
So vedere la realtà con occhi nuovi e superare le difficoltà con un entusiamo rinnovato?
C’è qualche gesto che posso fare concretamente per esprimere la forza di questa preghiera?

I DUE ALBERI DEL GIARDINO DI EDEN: L’ALBERO DELLA CONOSCENZA DEL BENE E DEL MALE E L’ALBERO DELLA VITA (RAV LUCIANO CARO)

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I DUE ALBERI DEL GIARDINO DI EDEN: L’ALBERO DELLA CONOSCENZA DEL BENE E DEL MALE E L’ALBERO DELLA VITA

(RAV LUCIANO CARO)

Voglio fare un approccio al testo biblico, come messaggio di origine divina indirizzato a tutti gli uomini che credono, ebrei o non ebrei. Vediamo cosa insegna questo messaggio all’uomo. Tutta la prima parte del libro della Genesi appartiene a quelle parti del testo biblico che sono le più pericolose; io li chiamo capitoli trappola. Dico questo nel senso che sono talmente interessanti e semplici nella loro esposizione, che possono portarci fuori strada; sembrano solo delle belle storielle (la creazione del mondo, il paradiso terrestre, l’arca di Noè, ecc.), che noi leggiamo con un certo sorriso di compiacimento, credendoci molto più avanti. Secondo me, invece, dietro questa esposizione così semplice, c’è un bagaglio di significati che molto spesso non riusciamo a vedere. Quando il testo ci dice che Dio creò il mondo in sei giorni, o che creò il cielo e la terra, non è vero, perché le cose non sono andate così, ma nessuno sa come sono andate in realtà. Dietro questo modo così elementare, apparentemente puerile della descrizione, ci sia una provocazione rivolta ad ognuno di noi, perché cerchiamo di approfondire e di capire il messaggio divino insito in quelle pagine.
Volevo anche sottolineare che la Genesi non è stata prodotta in un ambiente completamente vergine; cioè non è che Mosè un bel giorno ha detto: « Adesso scrivo la creazione, il diluvio, i patriarchi, ecc. », ma il testo è stato prodotto in un ambiente già saturo di miti, storie, leggende che circolavano. Di questi miti di ambiente mesopotamico, egiziano, numerico, ecc. lascia alcune cose così come si trovano, mentre altre le manipola, per cercare di presentarci un racconto dal quale noi possiamo cercare di ricavare un insegnamento, così come si fa con i bambini. Se voglio parlare di Dio a un bambino piccolo, non posso adoperare un linguaggio teologico, che non sarebbe in condizione di capire, ma devo utilizzare dei raccontini, che gli permettano di ricavare lui il significato. Così tutto quello che il testo biblico ci dice della creazione, è ripreso da miti più antichi, ma sono raccontati in modo tale da togliere dalla mente della gente determinati elementi negativi, per fare cogliere loro degli elementi positivi. Il racconto sulla creazione, ad es., a mio avviso vuole insegnarci che tutte quelle forze della natura, che anticamente erano divinizzate, non sono altro che il prodotto di una volontà superiore. Il mare, dunque, non è più il dio del mare, ma un qualcosa creato da qualcuno che è al di sopra; lo stesso per le piante e così via. Viene così insinuato in noi il concetto che tutto è nato da una volontà superiore imperscrutabile. La Torah non vuole insegnarci il come e il perché Dio abbia creato il mondo, ma vuole solo dirci che c’è un creatore che ha creato le forze della natura.
La cosa ha particolare significato per quanto attiene ai passi che dovremo considerare oggi. Il testo ci racconta che Dio, tra le cose che ha fatto, ha piantato un giardino in una località chiamata Eden; un giardino a oriente dell’Eden, nel quale ha collocato l’uomo, dandogli l’ordine di non mangiare un certo frutto. Si parla della mela, perché tutti i pittori di tutti i tempi hanno rappresentato Adamo ed Eva nel giardino sempre con la mela; doveva essere un frutto, ma nell’immaginario collettivo il frutto è un qualche cosa di rotondo e quindi questa cosa tonda, per noi, è la mela. Il testo, però, dice solo « il frutto dell’albero », che era bello da vedersi e appetibile da mangiarsi. I nostri maestri si sono sbizzarriti nel trovare tutte le risposte a questo riguardo. Qual è il frutto bello da vedersi e appetibile? Ognuno ha i suoi gusti. Fate attenzione, perché molto spesso le traduzioni ci portano fuori strada.
Dobbiamo abituarci, in queste parti narrative del testo sacro, a cercare di vedere qual è il significato interno; buttare via (è un’espressione usata dai nostri maestri) la buccia, cioè il contorno e guardare qual è l’interno. Da una lettura dei primi capitoli della Genesi, si ricava che Dio ha creato il mondo tov, buono ed è stata la presenza dell’uomo a sottrarre, in un certa misura, questa bontà all’universo, con il suo comportamento.
Nel nostro racconto si parla dell’albero della conoscenza del bene e del male. Ma facciamo attenzione, perché il testo biblico a volte ci prende in giro, ci stimola. Noi traduciamo tov e ra’, con buono e cattivo, bene e male. Non so se vuol dire bene nel senso nostro; quando leggiamo che Dio vide che una cosa era buona, cosa vuol dire? Che è una cosa bella, o utile, o buona dal punto di vista morale ed etico?
Leggendo il testo così con semplicità, ci vengono delle perplessità sulla figura di Dio, il quale crea e, dopo aver creato, vede che è una cosa buona. Prima non lo sapeva? Possiamo farci un’idea sbagliata di Dio. Il succo è che cosa vuol dire buono. Tutto il libro della genesi è focalizzato su questa parola. Dio crea la donna, perché dice: lo tov, cioè non è bene che l’uomo sia solo. Non è cosa buona dal punto di vista morale, etico, oppure non è comodo, cioè l’uomo senza la donna non sta bene? A un certo punto del testo si dice che vennero i figli di Dio (chi sono non lo sa nessuno) e videro le figlie dell’uomo che erano tovòt, buone e si sono prese delle donne, da cui nacquero i giganti. Cosa vuol dire? Che erano belle più delle donne che ci sono tra gli angeli? Buone alla romana, nel senso di formose? E’ evidente che le cose non stanno in questi termini. Analogamente in termine di provocazione, quando si narra della nascita di Mosè, è detto che la mamma non l’ha buttato via, perché era buono; se era cattivo lo buttava, forse? E qual è quella madre che nei confronti del bambino appena nato, trova qualcosa che non funziona?
Lo stesso vale per l’albero della conoscenza del tov e del ra’. Il ra’ è il contrario del tov, ma cos’è?
C’è un altro elemento che vorrei sottoporre alla vostra attenzione; sembra che vada fuori tema, ma soltanto parzialmente. Nel racconto del giardino dell’Eden, compaiono degli altri personaggi. C’è il giardino, le piante, Adamo ed Eva, il serpente e alla fine ci sono i cherubini. Cosa sono? Non lo sappiamo di preciso. Un qualche cosa che sono degli esseri posti da Dio a guardia del giardino per fare in modo che l’uomo, cacciato dal giardino, non ci ritorni. L’immagine che abbiamo noi dei cherubini è quella di angioletti paffuti, dalla forma pseudo umana. Ma è proprio così o vuol dire un’altra cosa? Sembra che questa parola cherubìm fosse chiarissima ai tempi in cui fu scritto il testo. Ritroviamo questo termine nel racconto dell’Esodo, dove si narra della tenda del convegno, in cui vi era una cassetta, che conteneva le tavole della Legge e che aveva sopra un coperchio e su di esso due cherubini, che si guardano. Rimaniamo sbigottiti. Proprio nel momento culminante, in cui si sottolinea il divieto di farsi alcuna immagine per adorarla, compaiono due forme umane. Io credo che nell’antichità, quando la Torah fu emanata, avessero delle idee più chiare delle nostre su cosa fossero questi cherubini.
Un’altra cosa che vorrei suggerire alla vostra attenzione, sempre come provocazione, perché cerchiate di approfondire, è che del giardino dell’Eden se ne parla, in forma piuttosto oscura, in fonti mesopotamiche e anche in altre fonti ebraiche bibliche, in particolare nel libro di Ezechiele, ai capitoli 28 e 31, dove è riproposto in chiave diversa. Non sappiamo nemmeno cosa vuol dirci Ezechiele. Lui ci parla di un cherubino, cherùv, che forse è la personificazione del re di Tiro. Lui sta rivolgendo una petizione al re di Tiro e in modo sarcastico gli dice: « Ma cosa ti credi di essere ancora il cherubino del giardino dell’Eden? ». Inoltre in quella circostanza si fa riferimento al fatto che questo giardino, nella visione di Ezechiele, era in un monte sacro, mentre, viceversa, nel testo della Genesi, di monte non se ne parla per niente. E cosa vuol dire Eden? Nell’ebraico moderno è una radice che vuole dire soavità, dolcezza, delicatezza, ma sembra che in una radice araba più antica abbia il significato o di un nome di luogo oppure sembra che abbia delle attinenze con pianura, quindi il giardino dell’Eden è il giardino della pianura. Ezechiele lo pone, invece, su una montagna. Probabilmente c’erano vari miti che circolavano. La Genesi ce lo propone anche con dei fiumi e delle pietre preziose, mentre Ezechiele ci parla di alberi che invece di frutti, producevano pietre preziose. La stessa cosa troviamo in miti numerici precedenti, dove si parla del giardino collocato in un posto pieno di miniere di pietre preziose.
Se leggete quei capitoli di Ezechiele, troverete che il giardino è chiamato il giardino di Dio, facendoci immaginare che fosse una specie di residenza divina. Sembra che Dio l’avesse preso per abitarci, ma poi ci ha messo l’uomo. Ma cos’è questa storia? Quindi siamo veramente provocati a cercare di capire cosa ci vuole insegnare il testo.
Spero di non deludervi, ma devo dire ancora una cosa. Per cercare di capire bene qual è il significato di questi passi, dobbiamo tenere conto anche della terminologia antica usata nel testo. Ad es. per indicare il nome di Dio, che compare sotto forme diverse. All’inizio della Genesi compare il nome Elohìm, un termine molto generico: divinità. Chiunque sia, qualunque cosa sia. Poi, andando avanti nel testo, si usa il termine tetragrammato, cioè con le quattro lettere sacre, impronunciabile. Come mai l’autore usa questo e quello? In altri passi viene chiamato in tutti e due i modi: il Tetragramma seguito da Elohìm. Una delle interpretazioni che va per la maggiore, è quella che dice che quando si usa Elohìm si vuole indicare Dio dal punto di vista della giustizia, mentre quando si parla di Dio dal punto di vista della bontà e della misericordia, si usa il tetragramma. Ma c’è chi dice esattamente il contrario.
Qualcuno dice che il termine Elohìm viene usato per indicare il Dio in qualche modo trascendente, il Creatore, che non si sa bene cos’è; mentre l’altro termine indica un Dio più personale, che parla con l’uomo in un rapporto più diretto. Sarà vero? Non lo so.
Quello che non riusciamo a capire è cosa sia questa faccenda di Dio che crea il giardino e vi mette dentro l’uomo. Un passo dice che l’ha messo lì « per lavorarlo e per custodirlo ». E noi ci inalberiamo subito. Intanto perché dal punto di vista grammaticale le cose non funzionano, perché se lavorarlo si riferisce al giardino, la parola giardino, in ebraico, è maschile, mentre viene adoperato un suffisso femminile, come se dicessimo in italiano: « Dio creò un giardino e vi mise l’uomo per lavorarla e custodirla »; ma lavorarla e custodirla che cosa? Mosè non sapeva la grammatica? Prima adopera un maschile e poi ci mette un suffisso femminile? Tra l’altro non è nemmeno chiaro se sia un suffisso femminile o no. Qualcuno dice che Mosè volesse intendere la terra e non il giardino, da lavorare. Ma poi non funziona dal punto di vista del significato, perché Dio ha decretato il lavoro dopo che l’uomo aveva peccato. Sembra, da una lettura sommaria, che l’uomo, quand’era nel giardino, passasse il tempo a fare i complimenti a sua moglie, forse, oppure a mangiare i frutti che gli capitavano. Cosa vuol dire custodire il giardino? Custodirlo, proteggerlo da che cosa? Non lo sappiamo. I nostri maestri, adoperando il meccanismo di andare a cercare tutti i significati dei vari termini, sostengono che lavorarlo e custodirlo ha un significato più cultuale, perché la parola avodà vuol dire lavoro, ma anche culto e la parola custodire vuol dire anche osservare. Già nel momento in cui l’uomo è stato collocato lì dentro, Dio aveva lo scopo che l’uomo prestasse una specie di servizio di Dio, osservando quello che Dio gli aveva detto di osservare. Come un segno di riconoscimento che tutte le cose di cui l’uomo stava godendo, venivano da Dio. Ovviamente l’uomo non ha fatto né l’una, né l’altra cosa.
Poi troviamo l’albero della conoscenza del bene e del male collocato proprio nel mezzo del giardino, quasi come una provocazione; qualunque strada l’uomo facesse, si trovava davanti questo albero. Inoltre c’era anche l’albero della vita; però Dio non gliel’ha detto. Lo scopo sembra che sia quello di fare in modo che, prima o poi, l’uomo mangi anche di quell’albero e perciò divenga immortale. Dio dice solo che se mangiano di quell’albero, moriranno; ma cosa vuol dire morire? Fino a quel momento non era ancora morto nessuno e perciò che idea potevano avere Adamo ed Eva della morte? Dio è scorretto! Una delle forme interpretative è quella di considerare l’uomo, in quel momento, come l’uomo bambino. Dio si rivolge a lui come ci si rivolge a un bambino, perché non aveva nessuna esperienza. La provocazione consisterebbe in questo: l’albero della conoscenza del bene e del male è l’albero delle esperienze. L’uomo ha due possibilità davanti a sé: o obbedire a Dio e non mangiare dell’albero della conoscenza e continuare, così, a vivere come un bambino, senza l’esperienza di quello che è buono e cattivo, ma non in senso morale, ma nel senso di quello che è positivo e quello che è negativo nella vita: malattie, dispiaceri, vecchiaia, ecc. Se l’uomo fosse stato lì dentro come un bambino, ubbidendo a Dio, avrebbe continuato a vivere una vita felice inconsapevole, senza particolari problemi. Invece l’uomo ha voluto prescindere da questo avvertimento, scegliendo di conoscere, anche se questa conoscenza è legata alla sofferenza. L’albero della conoscenza del bene e del male diventerebbe l’albero dell’esperienza di quello che la vita può dare, allorché diventiamo consapevoli. L’avere ottenuto questa esperienza, disubbidendo a Dio, ha sottratto all’uomo la possibilità di diventare immortale. Questa disubbidienza dell’uomo era in qualche modo pilotata da Dio, perché gli ha detto quello che era vero in modo che non poteva capire. Gli pone davanti due possibilità: o vivere illimitatamente in modo inconsapevole, oppure vivere limitatamente nel tempo, ma consapevolmente, con tutto quello che la consapevolezza comporta: sofferenza, guai, ecc. ma, in qualche modo, Dio l’avrebbe spinto in quella direzione, perché gli ha messo accanto la donna, che gli ha dato il consiglio, poi gli ha dato il serpente, che ha consigliato la moglie e poi ha collocato questo albero nel punto più strategico, inoltre gli avrebbe detto le cose in modo incomprensibile. Gli dice: « Morirai, se fai questo », ma per Adàm quella parola era incomprensibile, perché è come se voi diceste a un bambino: « Non metterti il dito in bocca, quando hai toccato per terra, perché se non ti ammali! ». E’ vero che gliel’avete detto, ma io ho dei dubbi se lui ha capito. Quand’è che comincia a capirlo? Appena gli hai dato la sberla. Come noi: cerchiamo di lasciare i nostri figli liberi di scegliere, ma un po’ li pilotiamo.
Fermiamoci un attimo su una questione semantica, che riguarda il significato delle parole. In varie parti del testo biblico, la conoscenza del bene e del male è un attributo di Dio. Cosa significa, però, che Dio conosce il bene e il male? Che sa distinguere? Mangiando quel frutto proibito, l’uomo può acquisire quella caratteristica di Dio. Anche la vita eterna è una caratteristica divina, ma ad essa Dio non vuole che l’uomo attinga.
Di nuovo. Bene e male è quello che è utile, non dannoso, o in senso morale? Adoperando lo stesso verbo conoscere, il testo dice che, quando ebbero mangiato il frutto, conobbero che erano nudi. Il fatto di essere nudi era una cosa negativa? E’ questo il male? Dio provvede in prima persona a fare loro i vestiti; è il primo sarto dell’universo. Determinati filoni di interpretazione, soprattutto in campo cristiano, hanno portato a pensare il bene e il male in termini sessuali. Quasi a sottolineare che l’uomo e la donna abbiano cominciato a praticare il sesso, dopo aver mangiato il frutto proibito. Io ho molte perplessità che voglia dire questo. Non so bene cosa vuol dire questa nudità. Forse conoscenza vuol dire esperienza; dopo aver mangiato il frutto, si rendono conto di certo aspetti della realtà, ai quali prima non facevano caso. Come i bambini, che crescono piano piano e acquisiscono una conoscenza oggettiva delle cose.
Qualcuno interpreta che tutta questa storia è stata deliberata; in origine sembra che Dio avesse previsto che l’uomo stesse nel giardino e Dio si sarebbe comportato nei suoi confronti come un padre che pensa a tutto. Fa’ quello che ti dico io, e starai bene. L’uomo si sarebbe ribellato: « No, papà! Io voglio uscire dalla tutela paterna. Sbaglierò, non sbaglierò, ma voglio affrontare la vita come desidero io ».
Dio dice che non voleva che l’uomo diventasse immortale, infatti pone i cherubini a guardia del giardino perché l’uomo non potesse mangiare dell’albero della vita. Ma allora perché ha inventato questo albero e l’ha messo nel giardino?
Il passo biblico è provocatorio, incomprensibile. Sta di fatto che il regista di tutto è Dio: è Lui che ha creato, determina e giudica l’operato dell’uomo. Maimonide dice che c’è qualcosa che non funziona; si chiede: « Come fa Dio a dare degli ordini a chi non è in condizione di sapere che disubbidire è male? ».
Quando Adamo si nasconde nell’albero, dopo il peccato, Dio si rivolge a lui dicendogli: « Dove sei? ». Frase bellissima, con un significato molto preciso e cioè il significato più ampio, come se Dio chiedesse a noi tutti i giorni: « Dove sei? Dove stai andando? Dove sei collocato nell’universo? Ti rendi conto? ». C’è un altro elemento più terra terra ed è che noi da qui impariamo il comportamento di Dio, che non ha accusato direttamente l’uomo, assalendo col rimprovero, ma gli ha posto questa domanda per dargli il tempo di formulare una risposta. Viceversa Dio si rivolge all’uomo, dandogli il tempo di prepararsi una difesa, quasi a prepararlo alla seconda domanda, che sarebbe arrivata subito dopo. Quando dobbiamo accusare qualcuno, dovremmo anche dargli la possibilità di prepararsi una giustificazione. Dobbiamo leggere questi racconti, imparando come Dio si comporta, per imitarlo.
Non lasciamoci trascinare dal fascino che esercitano questi racconti o dalle tradizioni stereotipate che ci portano fuori strada. Le traduzioni fanno molta fatica a rendere ciò che il testo vuole dire, perciò dobbiamo sempre stare attenti, tenendo conto anche che certi termini sembrano molto semplici a tradurli e invece non capiamo bene cosa veramente significano. Per es., cosa significa santificare,

I RACCONTI DELLA PASSIONE DI GESÙ CRISTO

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/b_maggioni_la_passione1.htm

I RACCONTI DELLA PASSIONE DI GESÙ CRISTO

Bruno Maggioni

Prefazione di p. Massimo Casaro, 1996

Prefazione

La fede cristiana è un passaggio, simile al concentrarsi progressivo e sempre più intenso della luce in un raggio. Fino a raggiungere un punto, un solo punto luminosissimo. Il punto luminosissimo è Cristo e la sua luce filtra attraverso lo spessore della croce. Non è luce pervasiva, totale. E’ luce che geme « per le doglie del parto ».
Luce che non può illuminare, che non sa promettere se non filtrando attraverso quello spessore, quell’ombra. Infatti c’è sempre, e sempre ci sarà, la tentazione di: scegliere la gloria senza la carne, la risurrezione senza la croce, la libertà senza i costi della liberazione, i frutti senza la fatica del lavoro… di negare, ignorare o sottovalutare la Sua carne. Ma è il limite dell’uomo, che Dio si è preso per manifestarsi a lui.
Cardo salutis caro! La concretezza della persona di Gesù – la debolezza della sua carne – è lo scandalo ineliminabile della fede in un Dio che è amore, simpatia e solidarietà totale con noi. Ma insieme è anche l’unica salvezza possibile della nostra storia concreta (SILVANO FAUSTI, « LETTERA A SILA »).
La proposta che, in questo libro, il biblista don Bruno Maggioni rivolge al lettore, con l’immediatezza e la concretezza che gli sono abituali è, allora, un fissare lo sguardo su Gesù, un guardare, un ascoltare, per vivere e attendere. Inoltre, per ogni « stazione », abbiamo cercato qualcosa che ampliasse l’eco suscitata dalla passione di Gesù Cristo nel cuore del credente, che rendesse ogni sosta ancora più vera, intensa e fruttuosa.
Una serie di testimonianze letterarie di grandi credenti, dunque, fanno da contrappunto ai passi di Gesù perché diventino il più possibile i passi di ogni discepolo.
p. Massimo Casaro

I testi proposti e commentati in quest’opera sono affrontati, in modo più ampio e approfondito, nel libro di don Bruno Maggioni « I racconti evangelici della passione », ed. Cittadella, Assisi, 1995.

LO SCANDALO DELLA CROCE
La croce: compimento della rivelazione
Prima di entrare nel vivo dell’analisi dei racconti della passione, occorre fare alcune premesse, necessarie non solo per definire il metodo con cui affrontare i testi, ma anche per anticipare alcune convinzioni che sono alla base di tutto il discorso.
Il primo quesito che sorge spontaneo è perché i racconti della passione sono così ampi e simili tra loro. La risposta è significativa: la croce è l’evento più alto e anche più imprevedibile, luogo denso di contraddizioni. E’ qui che i cristiani possono comprendere fino in fondo chi è il loro Dio e che senso ha il compimento messianico.
Nel Nuovo Testamento troviamo diversi modi di parlare della croce, che si possono raggruppare in tre diverse accentuazioni.
Il primo è lo « schema del contrasto ». Si trova, per esempio, negli Atti degli Apostoli, in particolare nei discorsi missionari: gli ebrei hanno appeso il Cristo al legno, ma Dio lo ha fatto risorgere. Con questo schema non solo si cercava di risolvere lo scandalo della croce, ma, soprattutto, si sottolineava la grande importanza della risurrezione, riducendo la passione a un momento di passaggio, non particolarmente carico di significato.
Emerge, dunque, il contrasto tra il modo di pensare degli uomini e il modo di pensare di Dio. Sono due modi opposti di « immaginare » Dio.
Alcuni, guardando Gesù, hanno dichiarato che lì non poteva esserci Dio; altri lo riconoscono proprio per quel tipo di morte e risurrezione. La conversione cristiana, dunque, è prima di tutto una conversione « teologica » che, cioè, riguarda l’idea di Dio, l’immagine di Dio.

Il secondo schema è quello contenuto nell’inno cristo logico della lettera ai Filippesi (2,5 ss.). Paolo, raccontando in questo inno l’intera storia di Gesù, vuole mostrare l’identità del Cristo – vero uomo e vero Dio, due nature in una persona – la cui originalità consiste nel modo in cui si è rivelato. Ecco, allora, che mette in luce soprattutto la logica che ha guidato le varie tappe della vita di Gesù. E la croce rientra in questa logica: ne è il punto culminante. A Paolo interessa dimostrare che la croce di Gesù non è altro che la realizzazione piena, l’andare fino in fondo di un ragionamento partito in Dio. Volendo Dio diventare uomo, ha condiviso la condizione dell’uomo, non un’umanità all’altezza della sua divinità, ma simile a quella di un uomo qualunque. La croce è il punto culminante sia dell’ obbedienza di Gesù, sia della sua condivisione con l’umanità che ha assunto.
Il terzo schema è quello dei testi eucaristici, in cui emerge la dimensione salvifica della croce. La costante di tutti i racconti eucaristici è il « per »: per le moltitudini, per voi, a favore di…
C’è un’altra premessa che fa da pilastro all’ analisi che stiamo per intraprendere. Paolo sia al primo capitolo (dove parla delle due sapienze), sia all’undicesimo (dove è riportato il più antico testo eucaristico) della prima lettera ai Corinti, parla della croce.
Nel primo brano (1 Cor 1,17 ss) Paolo se la prende con i predicatori missionari che non hanno il coraggio di esporre la passione e la croce nella loro chiarezza e cercano di sorvolare questo punto nevralgico con delle attenuanti.
L’apostolo ha davanti agli occhi due tipologie di missionari: quella dei giudei e quella dei pagani. I primi vogliono scolorire lo scandalo della croce, per conciliare insieme la gratuità della salvezza con la necessità delle opere. I secondi valorizzano maggiormente la risurrezione per salvaguardare la potenza di un Dio che è già scandaloso per il semplice fatto di essersi fatto uomo, rinunciando alla sua immagine di essere infinito, assoluto, immobile, immateriale. Il tentativo, dunque, è quello di far apparire la croce un incidente felicemente superato.
Ma c’è anche un’astuzia ancora più sottile che consiste nel voler sostituire la croce con lo slogan « Dio è amore », che si può conciliare con il credo di qualunque altra religione: parliamo di Dio amore e… l’ecumenismo è fatto! Solo che, così, l’evento di Gesù passa in secondo piano. Paolo vuole restituire il primato al crocifisso (scandalo e stoltezza), senza neppure citare la risurrezione, se non implicitamente.
Nel secondo brano (1 Cor 11,23 ss) Paolo, che pure è ben convinto della risurrezione di Gesù, mette bene in risalto la sua morte, e la morte di croce, per invitare i cristiani a fermarsi e a riflettere. Questo perché è fondamentale non vedere la passione e la croce solo come salvezza, ma anche e soprattutto come rivelazione.
Se si sottolinea solo la salvezza è come dire che Gesù è morto esclusivamente per riparare un peccato. Ma la croce è di più, ha un’altra funzione: rivelare fino a che punto Dio si è inserito nella storia dell’uomo, fino a che punto Dio ama l’uomo, condividendone la sua esperienza. Dunque il luogo più rivelatore è la croce, e la risurrezione serve a confermare che il crocifisso è proprio Dio.
Quando un giusto viene condannato, siamo portati a pensare che si ripete la solita storia: i furbi trionfano e gli onesti sono uccisi. L’attenzione si concentra sullo scandalo della giustizia sconfitta. E Gesù è stato condannato. Se dopo tre giorni si sa che quel giusto è risorto, la reazione è immediata: «Meno male che lui ce l’ha fatta». L’attenzione va sulla risurrezione.
Ma se, dopo qualche giorno ancora, si viene a sapere che quello è il Figlio di Dio, questa volta il fatto che stupisce è che un Dio abbia deciso di morire come un uomo qualunque. La meraviglia, dunque, non è tanto che un Dio sia risorto (ci mancherebbe altro che Dio non risorgesse), quanto che un Dio abbia deciso di morire come me.
Questa è la verità della croce, la novità del Figlio di Dio crocifisso. Crocifisso con due ladroni, poi! A dimostrazione del fatto che non solo è morto per i peccatori, ma insieme ai peccatori, confuso con loro, come un ladrone. E’ una novità sconcertante.
Allo stesso modo vanno interpretati la passione e i miracoli. Avendo Gesù fatto i miracoli, la gente era portata a chiedersi: Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo (Mc 15,31-32). Allora, se Gesù non scende dalla croce, pur potendo farlo, significa che ci sarà un motivo, che non è quello della debolezza.
A questo punto, vorrei introdurre una riflessione: questo Dio crocifisso che sconcerta, in realtà è il Dio dell’ amore di cui parlano tutti. Infatti sulla croce è vissuta fino in fondo, nella sua verità, la logica dell’amore. E l’amore, per sua natura, è debole, perché non vuole sopraffare l’altro. Se Dio fosse sceso dalla croce, non avrebbe compiuto fino in fondo il suo gesto d’amore. Ecco come questo Dio, che sembrava così diverso, lo ritrovo familiare, amico. Immaginate che disastro sarebbe stato se Gesù fosse sceso dalla croce! Si sarebbe dimostrato un dio pagano, il dio della potenza, del terremoto, il dio che vuole convincere a ogni costo.
Quando parliamo della futura venuta di Gesù, preannunciamo che sarà « in potenza e gloria ». Ma bisogna intendere bene questa frase, altrimenti si potrebbe pensare che Gesù, visti i risultati deludenti ottenuti con la sua prima venuta nell’amore, abbia deciso di tornare con potenza. Ma così si stravolge la logica del Signore. A questo proposito Luca ci racconta una parabola escatologica: quella del padrone e dei servi. Quando il padrone tornerà, se troverà i servi al lavoro, li farà sedere a tavola e si metterà a servirli. Questa è la natura di Dio: servizio e amore che si dona.
L’attesa del Messia coincide con l’attesa del compimento della storia e noi crediamo che Gesù abbia compiuto questa attesa. Ma quando ci guardiamo intorno e vediamo che le cose continuano come prima, come sempre, ci chiediamo come si deve intendere questo compimento.
Forse si potrebbe dire che il compimento è tutto nell’altra vita. Ma adesso?
Forse si potrebbe dire che il compimento, così come lo ha realizzato Gesù, è il compimento della rivelazione: Gesù ha rivelato fino a che punto Dio ama l’uomo. E più di così, più che rivelarlo dentro la nostra storia, non poteva fare.
Se Dio condivide la storia dell’uomo, vuol dire che la storia ha un valore, benché siano molti i segni che dicono il contrario, e che la storia può essere migliorata attraverso la trasformazione dell’ uomo e delle sue azioni.
Ma il compimento di Gesù parla anche del lato nascosto di Dio. E’ abbastanza naturale che un uomo muoia per Dio, come per la patria, la bandiera, un’idea; è del tutto impensabile invece, anche se noi ce ne siamo un po’ abituati, che Dio muoia per l’uomo. Questa è la novità radicale: il Figlio di Dio è venuto nel mondo per rivelarmi questo aspetto impensabile di Dio, il lato in ombra della luna, quello che gli uomini, con tutta la loro buona volontà, il loro acume, non possono scoprire. Il vangelo, infatti, racconta di più quello che Dio ha fatto e fa per noi, piuttosto che quello che noi dobbiamo fare per lui. Allora il cristiano, il testimone, non deve mostrare al mondo come amare Dio, quanto è disposto a fare per Dio, ma deve mostrare al mondo come Dio lo ama e come Egli ama il mondo, ogni uomo, tutti gli uomini. Solo così morire per i fratelli sarà un vero martirio, una testimonianza.

Crudeltà senza limiti
Ho visto altre impiccagioni, ma non ho mai visto un condannato piangere, perché già da molto tempo questi corpi inariditi avevano dimenticato il sapore amaro delle lacrime.
Tranne che una volta. L’Oberkapo del 52° commando dei cavi era un olandese: un gigante di più di due metri… Aveva al suo servizio un ragazzino, un pipe/, come li chiamavamo noi. Un bambino dal volto fine e bello, incredibile in quel campo. Questo piccolo servitore dell’olandese era adorato da tutti. Aveva il volto di un angelo infelice.
Un giorno la centrale elettrica di Buna saltò. Chiamata sul posto la Gestapo concluse trattarsi di sabotaggio. Si scoprì una traccia: portava al blocco dell’Oberkapo olandese. E lì, dopo una persecuzione, fu trovata una notevole quantità di armi! L’Oberkapo fu arrestato subito. Fu torturato per settimane, ma inutilmente: non fece alcun nome. Venne trasferito ad Auschwitz e di lui non si sentì più parlare. Ma il suo piccolo pipe/ era rimasto nel campo, in prigione. Messo alla tortura restò anche lui muto. Allora le S.S. lo condannarono a morte, insieme a due detenuti presso i quali erano state scoperte altre armi.
Un giorno che tornavamo dal lavoro, vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello: tre corvi neri. Appello. Le S.S. intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia. Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipe/, l’angelo dagli occhi tristi.
Le S.S. sembravano più preoccupate, più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco.  » capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L’ombra della forca lo copriva. Il Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia. Tre S.S. lo sostituirono. I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.
«Viva la libertà!» gridarono i due adulti. Il piccolo, lui, taceva.
«Dov’è il Buon Dio? Ma dov’è?», domandò qualcuno dietro di me. Ad un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte. Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava.
«Scopritevi!» urlò il capo del campo. La sua voce sembrava rauca. Quanto a noi, noi piangevamo. «Copritevi!».
Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente, il bambino viveva ancora… Per più di mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: «Dov’è dunque Dio?».
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…».
E. Wiesel, «La notte», Giuntina, Firenze, 1993

L’ebreo Elie Wi esel (1928, vivente), premio Nobel per la pace nel 1986, giornalista e docente all’Università di Boston, non potrà mai dimenticare la sua fanciullezza. Nato nel 1928 in Transilvania, durante la Seconda guerra mondiale viene deportato ad Auschwitz. E’ solo un adolescente, ma non gli viene risparmiato nulla, neppure di assistere all’impiccagione di un coetaneo. Nel suo librodiario « La notte » rievoca l’agghiacciante episodio riportato.

BRANO BIBLICO SCELTO: 1 PIETRO 3,18-22

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=1%20Pietro%203,18-22

BRANO BIBLICO SCELTO

1 PIETRO 3,18-22

Carissimi, 18 Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti per ricondurvi a Dio, messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito.
19 E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione; 20 essi avevano un tempo rifiutato di credere, quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua.
21 Figura, questa, del battesimo, che ora salva voi; esso non è rimozione di sporcizia del corpo, ma invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo, 22 il quale è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.

COMMENTO
1 Pietro 3,18-22
Battesimo e salvezza in Cristo
La Prima lettera di Pietro è uno scritto cristiano della fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma che secondo gli studiosi moderni è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire in qualche modo a Pietro o al suo ambiente. In mancanza di chiari riferimenti epistolari nel corpo dello scritto e a motivo del suo carattere esortativo si ritiene oggi che esso non sia una lettera vera e propria, ma un’omelia inserita in una cornice epistolare. Alcuni studiosi, basandosi sugli accenni al battesimo che vi sono contenuti, affermano che si tratti di una predica battesimale, forse organizzata in modo da riflettere la celebrazione di un battesimo comunitario.
Il brano preso in considerazione fa parte della sezione centrale dello scritto, nella quale si danno direttive per la partecipazione dei cristiani alla vita sociale (2,11-4,11). Questo tema è enunciato in 2,11-12 e poi viene sviluppato in tre momenti: a) Codice di comportamento familiare e sociale (2,13-3,12); b) Vita cristiana e sofferenza (3,13-22); c) Rinunzia alle passioni e servizio dei fratelli (4,1-11). Nel brano intermedio (3,13-22) l’autore esorta anzitutto i credenti, fatti oggetto di vessazioni da parte dei loro connazionali, perché siano sempre pronti a dare ragione della speranza che è in loro (vv. 13-17); nei successivi vv. 18-22, che sono riportati nel testo liturgico, egli accenna prima alla risurrezione di Cristo (v. 18), poi spiega il significato della sua discesa agli inferi (vv. 19-20) e infine affronta il tema del battesimo (vv. 21-22).
La risurrezione di Cristo (v. 18)
Ai cristiani perseguitati (cfr. 3,13-17) l’autore ricorda che essi devono ispirare la loro vita al modello di Cristo e associarsi alle sue sofferenze e alla sua morte dolorosa (cfr. 2,21-24). Pietro non si limita però a richiamare le sofferenze di Cristo, ma ne mette in luce il significato. Anzitutto Cristo è morto «una volta per sempre» (apax), cioè con il suo gesto ha raggiunto pienamente, una volta per tutte, il suo scopo. Inoltre egli è morto «per i peccati» (peri amartiôn) cioè per liberare l’uomo dai peccati che lo tengono schiavo. Proprio lui, che era giusto, ha dato la vita per uomini ingiusti, attuando così il compito di ricondurli a Dio: costoro sono identificati con i destinatari dello scritto, i quali sono stati liberati dai peccati e hanno sperimentato l’amicizia di Dio.
Infine Pietro sottolinea che l’opera di Cristo si è attuata secondo la dialettica carne-Spirito. Cristo è stato messo a morte «nella carne», cioè nella sua realtà umana, povera e limitata, che lo accomuna a tutta l’umanità, ma è stato reso «vivo nello Spirito», cioè in forza della potenza stessa di Dio che egli possiede nella sua pienezza. In altre parole l’autore vuole dire che, dopo e in forza della morte che lo ha colpito come ogni altro essere umano, lo Spirito di Dio ha attuato in lui una vita nuova, che si manifesta mediante la sua resurrezione, e da lui si estende a tutti i credenti (cfr. Rm 1,4).
La discesa di Cristo agli inferi (vv. 19-20)
Pietro prende lo spunto dalla morte di Cristo per parlare della sua discesa agli inferi. Egli collega questa nuova riflessione con la precedente mediante l’espressione «nel quale» (en hôi). Questo pronome relativo può riferirsi in generale agli eventi di cui ha appena parlato, cioè alla sua morte e risurrezione: anche la discesa agli inferi fa parte degli eventi fondamentali con cui Cristo ha concluso la sua vita. Ma il relativo può riferirsi anche allo Spirito, che è stato appena nominato: Cristo sarebbe quindi disceso agli inferi «in forza di esso», cioè con la potenza dello Spirito. Questa interpretazione è più probabile in quanto l’autore dimostra la tendenza a riferirsi, col relativo, a un sostantivo espresso immediatamente prima (cfr. 1,6.8; 2,4, ecc.).
La discesa di Cristo negli inferi è così descritta: «Andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione; essi avevano un tempo rifiutato di credere quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua» (vv. 19-20). L’autore allude qui allo Sheol, che era considerato come il regno dei morti, nel quale vanno a finire le anime dei trapassati, per i sadducei senza alcuna speranza di cambiamento, per i farisei in attesa della risurrezione finale. Secondo la terminologia ebraica “andare agli inferi” era semplicemente una circonlocuzione per indicare la morte. Pietro invece la interpreta come una visita in quella regione tenebrosa, nella quale secondo lui erano tenuti come prigionieri tutti coloro che erano vissuti al tempo del diluvio universale (cfr. Gen 6-9). Costoro, pur vedendo che Noè costruiva l’arca, invece di approfittare dell’ultima possibilità che veniva loro concessa dalla pazienza di Dio, non avevano creduto in modo da essere salvati. In altre parole si tratterebbe dell’umanità che è stata sterminata per la sua malvagità al tempo di Noè. Ma forse l’autore pensa più in generale a tutta l’umanità vissuta prima di Cristo, che egli vede contrassegnata dallo stesso peccato che ha provocato la distruzione del diluvio.
A questi spiriti racchiusi nello Sheol come in una prigione Cristo andò a «predicare» (kêryssô). Come oggetto di questo annunzio le traduzioni mettono la parola «salvezza», ma il testo greco non dice che cosa ha annunziato Gesù. Secondo una interpretazione egli non ha annunziato la salvezza, ma la condanna definitiva. Ma è più probabile che si tratti invece di un’offerta di salvezza, una liberazione vera e propria, riferita ai giusti dell’Antico Testamento. È questa l’opinione di Agostino, seguito dalla maggior parte dei Padri e degli esegeti moderni.
Il battesimo (vv. 21-22)
Nell’ultima parte del brano l’acqua del diluvio è presentata come la «figura» (antitypon) del battesimo: l’autore intravede una qualche analogia tra il diluvio e il battesimo cristiano. È vero che l’acqua del diluvio è stata soprattutto strumento di morte, mentre quella del battesimo porta la salvezza; ma bisogna riconoscere che ambedue hanno in comune l’effetto di purificare dal contagio del peccato. Il battesimo è presentato anzitutto come un mezzo di salvezza che opera «ora»: questo avverbio, più che riferirsi al momento liturgico del battesimo, indica l’attualità presente della salvezza battesimale, contrapposta alla sua figura, l’acqua del diluvio, che ha operato in un remoto passato.
L’autore precisa che il battesimo non è un mezzo per togliere la sporcizia del corpo, ma una «invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza», cioè la richiesta a Dio perché mantenga l’impegno da lui preso in favore di chi lo riceve con retta intenzione. La preghiera che accompagna il rito battesimale, non può non essere esaudita se chi la pronunzia non ha una «coscienza buona», cioè le disposizioni del cuore che sono richieste per ritornare a Dio. Queste disposizioni non vengono dalla buona volontà dell’uomo, ma sono anch’esse un dono di Dio, che le opera «in virtù della risurrezione di Gesù Cristo».
Il brano termina con una professione di fede cristologica: questo Cristo che è risorto «è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze». Questa frase riprende le affermazioni delle lettere deuteropaoline circa l’esaltazione di Cristo (cfr. Ef 1,20-21; Col 2,15), alle quali Luca ha dato forma narrativa nel racconto dell’ascensione (At 1,9), facendole poi enunciare da Pietro nella sua prima predica dopo la Pentecoste. In esse si esprime la sovranità cosmica di Cristo, in forza della quale egli diventa il salvatore universale.

Linee interpretative
La morte di Cristo non è stata dunque un incidente di percorso, ma un evento accettato volontariamente da lui perché era l’unico che gli permetteva di manifestare pienamente la sua fedeltà al Padre e la solidarietà con l’uomo limitato e peccatore. Solo accettando fino in fondo il suo destino Gesù poteva esprimere la radicalità della sua scelta a favore degli uomini, soprattutto gli ultimi, i più poveri e diseredati. Proprio per la sua radicalità questo gesto ha un impatto profondo su coloro che ne vengono a conoscenza e li spinge a sopportare le proprie sofferenze con lo stesso spirito e per lo stesso scopo.
Nel contesto del mistero pasquale, Cristo ha dunque ricevuto la pienezza dello Spirito per proporre la salvezza a tutti gli uomini, anche a quelli che erano vissuti prima di lui, non esclusi i peccatori più pervertiti, come quelli del tempo di Noè. Con questa immagine di tipo mitologico e leggendario, propria delle concezioni cosmologiche di allora, l’autore vuole affermare che la salvezza portata da Cristo opera misteriosamente a favore di tutti gli uomini, anche di coloro che sono vissuti prima di lui. Infatti nella sua esperienza personale si rende visibile, in modo chiaro e urgente, quella spinta che ha portato uomini di ogni razza e religione a dare la vita per i loro fratelli.
Il coinvolgimento nell’esperienza di Cristo ha la sua radice nel rito del battesimo, che produce in chi lo riceve effetti di purificazione dal male e di rinnovamento interiore. Chi lo riceve si impegna a vivere come figlio di Dio, in conformità a Cristo. Ma questa partecipazione non dipende dalla buona volontà del soggetto, bensì da un dono di Dio che viene chiesto nel rito del battesimo e si attua in forza dell’influsso salvifico di Cristo risorto e asceso al cielo. Il battesimo è dunque un rito accompagnato da una preghiera con cui viene portata a termine la salvezza inaugurata da Dio nell’Antico Testamento.

Publié dans:BIBBIA, Bibbia - Nuovo Testamento |on 20 février, 2015 |Pas de commentaires »

COMMENTO AL SALMO 51 (50) MISERERE

http://www.cistercensi.info/monari/1999/m19990226.htm

COMMENTO AL SALMO 51 (50) MISERERE

Stazione quaresimale

26 febbraio 1999

«Al maestro del coro. Salmo. Di Davide.
Quando venne da lui il profeta Natan dopo che aveva peccato con Betsabea.
Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nella tua grande bontà cancella il mio peccato.
Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.
Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto;
perciò sei giusto quando parli,
retto nel tuo giudizio.
Ecco, nella colpa sono stato generato,
nel peccato mi ha concepito mia madre.
Ma tu vuoi la sincerità del cuore
e nell’intimo m’insegni la sapienza.
Purificami con issopo e sarò mondo;
lavami e sarò più bianco della neve.
Fammi sentire gioia e letizia,
esulteranno le ossa che hai spezzato.
Distogli lo sguardo dai miei peccati,
cancella tutte le mie colpe.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non respingermi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.
Rendimi la gioia di essere salvato,
sostieni in me un animo generoso.
Insegnerò agli erranti le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.
Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza,
la mia lingua esalterà la tua giustizia.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode;
poiché non gradisci il sacrificio
e, se offro olocausti, non li accetti.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,
un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi.
Nel tuo amore fa grazia a Sion,
rialza le mura di Gerusalemme.
Allora gradirai i sacrifici prescritti,
l’olocausto e l’intera oblazione,
allora immoleranno vittime sopra il tuo altare» (Sal 51, 1-21).

“Tu non hai ancora considerato seriamente quanto sia grave il peso del peccato”, sono parole di sant’Anselmo di Aosta quando s’interrogava sul perché sia stato necessario che Dio si facesse uomo per la redenzione dell’umanità. Il Miserere, che insieme abbiamo pregato, ci vuole aiutare in questa stazione quaresimale a fare nostra la meditazione dolorosa sul peccato, ma che sia anche piena di speranza sulla misericordia e la bontà del Signore. Il cammino quaresimale ha nella sua prima parte un colore fortemente penitenziale. Poi c’è una seconda parte che è invece piuttosto di contemplazione del mistero e dell’identità del Signore. Ma innanzitutto bisogna passare dalla meditazione sulla gravità del nostro peccato.
1. La richiesta di perdono
Di fatto, ad un certo punto il Miserere dice: «Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre». Vuole dire: il peccato è inciso profondamente nella mia vita. Non è come un vestito che io indosso e che posso togliere quando lo desidero, ma, diceva il profeta Geremia, è piuttosto come una pelle: “Può forse il Moro cambiare la sua pelle o la pantera cambiare il suo mantello? E voi potete forse fare il bene, abituati come siete a fare il male?» (Ger 13, 23). Il Miserere esprime questa dimensione di profondità con un’immagine temporale: «nel peccato mi ha concepito mia madre». Vuole dire: se io ritorno indietro fino all’inizio della mia vita trovo ugualmente il peccato. È come se io, disgustato dalla mia condizione di egoismo attuale, volessi andare indietro nella mia vita nel tempo passato per trovare un’epoca in cui il mio cuore era puro e la mia mente era sana. Ma non riesco a trovarlo, perché fin dal primo istante della mia vita mi sento segnato dalla realtà negativa del peccato. Per questo il Miserere dice: «il mio peccato mi sta sempre dinanzi». È come se fosse un tormento, una presenza scomoda e inquietante, alla quale vorrei sfuggire ma senza mai riuscirci, perché mi sta davanti come un’ossessione, come un incubo, poiché molti sono i crimini contro di te e i nostri peccati ci accusano. Diceva il profeta: «Siamo diventati tutti come una cosa impura e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia» (Is 64, 5a).
Ma che cos’è il peccato? Perché è così pesante da portare? Il Salmo lo dice attraverso una serie di immagini che cercano di introdurci e di accostarci alla comprensione di una realtà che rimane fondamentalmente incomprensibile (non si riesce a comprendere con la ragione, perché il peccato è un’espressione di irrazionalità, è la smentita della sanità del cuore e della mente dell’uomo).
La prima immagine è della macchia, quando dice: «Lavami… cancella il peccato». Dietro c’è quest’idea del peccato come una macchia che rovina la bellezza dell’uomo. Secondo il Libro della Genesi, Dio ha fatto l’uomo bello: «lo ha fatto a sua immagine e somiglianza» (Gen 1, 26), tanto che il Salmo può dire con stupore: «che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, lo hai coronato di gloria e di onore» (Sal 8, 5-6). È proprio questa gloria, che Dio ha messo sul volto dell’uomo, che è offuscata e macchiata con il peccato.
La seconda immagine è il debito. Il peccato è un debito, perché è una ribellione contro quel rapporto di alleanza che Dio ha voluto stabilire con l’uomo: «Dio è il nostro Dio, e noi siamo il suo popolo» (Sal 95, 7). Dio ha fatto di noi dei figli, c’è quindi un impegno, un debito di reciprocità; all’amore e alla generosità di Dio deve rispondere la fedeltà e l’obbedienza dell’uomo. Il peccato è una ribellione contro questo debito che abbiamo con Dio. Diceva il profeta Isaia: «Figli ho allevato e cresciuto, ed essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non capisce» (Is 1, 2b-3). Quell’amore che Dio ha donato con generosità al suo popolo, per farlo suo popolo, è stato rifiutato, non compreso da un Israele ribelle. Tanto che – di fronte alla ribellione d’Israele Dio rimane sgomento – si chiede ancora nel profeta Isaia: «Che cosa dovevo fare… che io non abbia fatto?» (Is 5, 4). Che cosa potevo offrire che io non abbia donato al mio popolo? Perché, mentre io mi aspettavo giustizia, ho trovato oppressione, falsità e menzogna?
La terza immagine è del fallimento di un progetto che aveva suscitato delle speranze e che in realtà è miseramente fallito, si è ripiegato su se stesso. Uno potrebbe pensare (perché questo è l’immagine che sta sotto ad un verbo del miserere) che ha l’arco allentato. Un arco allentato può cercare di gettare la freccia, ma non riesce a farla arrivare al bersaglio, perché cade prima di quella che è la sua meta, il suo obiettivo.
Ebbene, il peccato è questo: è la condizione dell’uomo che dovrebbe avere una meta e un obiettivo da raggiungere, e che invece si perde per la strada, cade e fallisce la sua vocazione, la sua chiamata. Il salmista del Miserere riconosce questo peccato con sincerità, perché dice: «Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi». E quel “riconosco” non vuole dire semplicemente: so di essere peccatore. Ma significa: sperimento tutto il dolore e l’avvilimento, e la vergogna del mio peccato mi pesa. È una conoscenza per l’esperienza che suscita dolore e nasce davanti a Dio per quello che viene riconosciuto come offesa a Dio: «Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto». Non c’è dubbio che il peccato è contro l’uomo, è offesa e distruzione del tessuto sociale, è umiliazione della persona umana. Ma in realtà si può comprendere la gravità del peccato solo quando si riconduce a Dio e ritrovo, nella mia menzogna verso il fratello, il mio rifiuto radicale di quel Dio da cui viene il mondo e la mia esistenza. Nel momento in cui io riconosco la mia colpa proclamo nello stesso tempo la giustizia di Dio. A questo non ci siamo molto abituati, ma nella Scrittura, nei Salmi, ritorna fuori abbastanza spesso, perché dice: «Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto; perciò sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio». Per capire un’espressione di questo genere bisogna pensare a Dio non solo come ad un giudice, ma come ad una parte lesa, che è in gioco; in quello che è il gioco della vita e della storia sono coinvolto io e Dio. C’è un patto, un’alleanza; ebbene di fronte alla realtà del peccato c’è qualcosa che in questo patto non ha funzionato. Gli Israeliti del tempo dell’esilio, che abbiamo ascoltato nel cap. 18° di Ezechiele, davano la colpa a Dio, proclamavano che quella punizione, quell’esperienza di esilio, era immeritata: è Dio che è venuto meno al suo impegno di proteggere Israele. Quando noi riconosciamo il nostro peccato, proclamiamo che Dio ha avuto ragione, che Dio è giusto, che se qualche cosa non ha funzionato è dalla nostra parte. Vuole dire: se il mondo non è così bello come dovrebbe, e se la Chiesa non è così santa come dovrebbe, non posso dare la colpa a Dio, la colpa la debbo assumere e portare io, «perché tu sei giusto quando parli», perché tu appaia giusto nel tuo comportamento e nelle tue parole, non sei venuto meno alla fedeltà; l’infedeltà è mia. Quando l’uomo proclama il suo peccato implicitamente proclama la giustizia di Dio; è una confessione della santità e della verità di Dio.
Ma questa confessione di colpa si manifesta nel modo più pieno, proprio negli imperativi che aprono la preghiera del Miserere. Il Miserere è fatto in ebraico con 17 imperativi, sono verbi che esprimono la richiesta, l’attesa e la speranza dell’uomo: «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato. Lavami da tutte le mie colpe». In ebraico sono tre verbi. In italiano la parola “pietà” sembra un sostantivo, ma in realtà non è il nome “pietà, è il verbo “abbi pietà”: «Guarda con benevolenza me, o Dio, secondo la tua misericordia». Quindi ci sono tre imperativi: “abbi pietà” – “cancella” – “lava”; sono il grido di chi si sente affondare nella morte e può solo chiamare aiuto. Perché l’uomo è in grado di produrre il peccato, ma non è in grado di uscire dal peccato. Per questo ha bisogno di Dio, di un aiuto, di una grazia, di un sostegno che gli venga dalla potenza e dalla misericordia di Dio.
Anzi soprattutto dalla misericordia, perché dice il Miserere: «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; secondo la tua grande bontà cancella il mio peccato». In questo modo vengono richiamati alcuni termini che sono l’immagine fondamentale di Dio. Nel Libro dell’Esodo, quando Mosè vuole vedere il volto di Dio, Dio gli si rivela passandogli davanti proclamando il suo nome: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34, 6). Così si è presentato Dio e sono esattamente le parole del Miserere: «Pietà di me» – «Dio pietoso»; «secondo la tua misericordia» – «Dio misericordioso».
Ed è significativo come «nella tua grande bontà», voglia dire: «nel tuo grande amore viscerale cancella il mio peccato». Cosa dice questo? Che, quando Dio cancella il peccato dell’uomo, manifesta quello che lui è. Certamente, quello che Dio è, si manifesta nella creazione, quando Dio fa dal mondo il sole, la luna, le stelle, le piante… manifesta quello che è, cioè la sua potenza. Ma in realtà non c’è una manifestazione così vera e piena dell’identità di Dio come il perdono dei peccati. Perché l’identità di Dio, quella che Dio ha manifestato a Mosè, è questa: «Dio misericordioso e pietoso». Noi vediamo il Dio misericordioso e pietoso proprio nel perdono dei peccati. Dio non è mai così Dio (questo è un modo barbaro di parlare, ma intendete cosa voglio dire) come quando perdona. Una preghiera dell’Eucaristia dice: “O Dio, che manifesti la tua potenza, soprattutto con la misericordia e il perdono”. Sant’Ambrogio, quando spiegava l’“Hexaemeron”, i sei giorni della creazione, si chiedeva: «Come mai solo al sesto giorno Dio si è riposato? Perché leggo che Dio nel primo giorno ha separato la luce dalle tenebre, ma non leggo che si sia riposato. E dopo il secondo giorno non leggo che si sia riposato, nemmeno dopo il terzo e neanche dopo il quarto… Solo dopo il sesto giorno si è riposato, perché nel sesto giorno aveva creato l’uomo, e quindi aveva qualcuno a cui rimettere i peccati». Dio cercava qualcuno a cui rimettere i peccati, nei cui confronti manifestare la sua misericordia, la bontà, la fedeltà e il suo amore paterno. E quando lo ha trovato nella creazione dell’uomo, Dio ha potuto riposarsi perché la creazione era completa, non mancava più niente.
Per questo il Miserere nello stesso tempo è proclamazione del peccato dell’uomo e della misericordia di Dio; anzi la consapevolezza del proprio peccato nasce dalla conoscenza della misericordia di Dio. Quando ci guardiamo allo specchio non possiamo comprendere bene il nostro peccato, anche se sulla nostra faccia vediamo tutti i nostri difetti, quello che non funziona e non è bello; questo è solo un inizio, una propedeutica al senso del peccato. Il senso del peccato scaturisce quando la misericordia di Dio è misurata in tutta la sua grandezza. Allora appare, in tutta la sua gravità, l’infedeltà e la mancata risposta dell’uomo.
Questa consapevolezza del peccato diventa una supplica: «Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato». Ma questo chiedere il perdono è espresso nel Miserere anche in un altro modo, come la domanda di una richiesta di gioia: «Fammi sentire gioia e letizia, esulteranno le ossa che hai spezzato». E un po’ più avanti: «Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me un animo generoso». “Le ossa spezzate” sono il simbolo di una vita fiaccata, di un’esistenza che non ha più sostegno. Le ossa danno al corpo umano la sua solidità e il suo sostegno, ma è venuto meno: la mia esistenza si è ripiegata su se stessa. Allora ho bisogno che Dio mi ridia la vita, la dignità di creatura e di suo figlio. Per questo chiedo il perdono secondo la sua misericordia, perché la mia vita possa rifiorire e rinascere la gioia.
Per questo bisogna che Dio distolga lo sguardo dai miei peccati: «Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe»; cioè che tiri via la faccia dal mio egoismo e dal mio orgoglio. Però qui c’è un aspetto sorprendente e paradossale, perché il versetto 11 dice: «Distogli lo sguardo dai miei peccati». Invece il versetto 13 dice: «Non respingermi dalla tua presenza». Allora mi chiedo: io debbo stare o no davanti a Dio? Dio deve guardare da un’altra parte o deve accogliermi alla sua presenza? Tutte e due le cose! è necessario che Dio mi accolga, e per me stare alla presenza di Dio, altrimenti non si vive. Dio è sorgente di vita e di gioia, non è possibile andarlo a cercare da un’altra parte: «Non respingermi dalla tua presenza», perché se tu non mi parli la mia vita precipita nell’oscurità della notte. Ho bisogno dello sguardo di Dio, ma che nello stesso tempo sia benevolo e accogliente; e che non stia misurando a valutare e a pesare il mio peccato, altrimenti lo sguardo di Dio diventerebbe di distruzione, di annientamento. Allora «distogli lo sguardo dai miei peccati», vuole dire: io chiedo a Dio di “non guardare il peccato, ma il peccatore” (cfr. Ez 33, 11), perché se il peccato ha bisogno di essere cancellato, il peccatore, cioè io, ho bisogno di essere accolto e di ritrovare dallo sguardo di Dio la mia gioia.
2. La richiesta di una nuova creazione
Ma il perdono è ancora di più. Il Miserere è fatto più o meno di due sezioni, la prima è questa richiesta di perdono che abbiamo tentato di esprimere. La seconda incomincia così: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo». Sottolineate quel verbo, quell’imperativo iniziale, “crea”, che non è messo lì a caso. Il verbo che è usato si ritrova nella Bibbia sempre con Dio come soggetto. In italiano diciamo che gli artisti creano, un poeta crea. Nella Bibbia questo verbo è riservato a Dio, è il suo; dice un’azione da Dio quale lui solo è in grado di compiere.
Proprio perché il peccato è radicato profondamente nel mio cuore, ho bisogno di un’azione che non può essere semplicemente umana di purificazione; ho bisogno di un’azione divina che è niente meno una creazione: «Crea in me, o Dio, un cuore puro». Il cuore è il centro della coscienza da cui escono i pensieri, i sentimenti e le decisioni dell’uomo. Nell’antropologia biblica il cuore è la sede della libertà. Allora “un cuore puro” vuole dire: una libertà pulita non deformata dall’interesse o dall’egoismo, che non vede le cose secondo il proprio vantaggio, che non decide secondo le sue preferenze ma sa vedere la realtà e la sa accettare e riconoscere così com’è; cioè un cuore pulito che non ha doppi fini né maschere.
Insieme al cuore l’altra richiesta fondamentale è lo spirito, che è ricordato tre volte. In italiano se ne vedono due, ma in realtà il testo ne ha tre: «rinnova in me uno spirito saldo»; «non privarmi del tuo santo spirito»; «sostieni in me uno spirito (non un animo) generoso». Ed è quello che gli esegeti chiamano una triplice epìclesi. “Epìclesi” vuole dire: invocazione dello Spirito. Che facciamo nella Messa quando invochiamo lo Spirito, perché “il pane e il vino diventino il corpo e il sangue del Signore”. Poi invochiamo lo Spirito, perché la gente che è a Messa diventi “il corpo e il sangue del Signore”. È l’epìclesi, è il momento più solenne della celebrazione, perché è quello dell’intervento di Dio che dona, non qualche cosa, ma lo Spirito, cioè se stesso.
Dunque il perdono non consiste solo nel cancellare il male; questo sarebbe ancora troppo poco. Perché il perdono sia autentico bisogna che ci sia una creazione nuova, che si esprime nel cuore e soprattutto nello spirito.
Il quale spirito deve essere prima di tutto «uno spirito saldo». Anche questo è un po’ strano, perché la parola “spirito” in ebraico o in greco è la parola stessa che indica il vento; e se c’è qualche cosa di poco saldo, fermo e stabile è il vento. È invece no, è uno spirito che ha la leggerezza e la libertà del vento, ma che è stabile e fermo e di cui ci si può fidare, che non cambia capricciosamente il suo atteggiamento e che deve essere forte nella sua perseveranza e costanza. È quello che chiediamo al Signore, perché siamo così incostanti che se il Signore non ci dona lo Spirito noi non ce la caviamo. Diceva Osea: «La vostra pietà è come la nube del mattino, come la rugiada che svanisce presto» (Os 6, 4); vi entusiasmate, fate delle grandi celebrazioni penitenziali e poi durano per qualche istante, poi si ritorna alla propria inconsistenza. Ebbene «uno spirito saldo», consistente e fermo.
Poi «uno spirito santo». “Santo” vuole dire quello che il Signore aveva promesso e donato ad Israele, quando ha proposto l’alleanza al suo popolo: «Voi sarete per me… una nazione santa» (Es 19, 6); cioè una nazione che appartiene integralmente e totalmente a Dio, che non ha due o tre padroni, ma ha un unico Signore. «Li chiameranno popolo santo, redento dal Signore» (Is 62, 12a); «siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo» (Lv 11, 45). La somiglianza con lui, che mi permette di assomigliare a Dio e di essere santi come lui è santo, è solo il suo Spirito: «non privarmi del tuo santo spirito».
«Sostieni in me un animo generoso». Questa è la traduzione, ma il testo dice: «uno spirito principesco», cioè da principe. “Da principe” vuole dire: padrone; non uno spirito da schiavo, che fa le cose per timore e sottomesso a chissà quali condizionamenti. No, questo è un principe, è un re, che si muove liberamente e spontaneamente, che opera con generosità e con un animo – spirito – nobile. Dentro è ricco della libertà e dignità che vengono dal Signore: «quelli che sono guidati dallo spirito di Dio, costoro sono figli di Dio» (Rm 8, 14), quindi quelli che nei loro desideri sono suscitati e animati dallo spirito e dalla generosità ricca di Dio. Non è una legge esterna che possa guidare l’esistenza dell’uomo, ma è lo Spirito che mette nel cuore la connaturalità con la volontà di Dio, per cui la volontà di Dio diventa nostra. Questo è il centro del Miserere, l’aspetto più bello e sorprendente, quello che richiama l’insegnamento dei profeti, in particolare nel profeta Ezechiele (bisognerebbe leggere anche Geremia). Ezechiele nel cap. 36° fa esattamente questa promessa: «Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi» (Ez 36, 24-27). Qui corrisponde esattamente al Miserere, in tutto il suo dinamismo: 1) La purificazione: «Vi aspergerò con acqua pura… vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli». 2) Poi la nuova creazione: «vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo». Anzi questo spirito nuovo che metto dentro di voi è il mio spirito: «Porrò il mio spirito dentro di voi», perché voi impariate ad avere i desideri e i pensieri di Dio, quindi anche i suoi comportamenti.
Questa esperienza del perdono e il dono dello spirito costituiscono il salmista, una volta perdonato, in testimone: «Insegnerò agli erranti le tue vie e i peccatori a te ritorneranno. Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza, la mia lingua esalterà la tua giustizia. Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode». Che cosa significhi quel “liberami dal sangue” è misterioso (forse dalla punizione della vita che mi toccherebbe), ma il significato globale si capisce. Sino a che sono in questa condizione di peccato le mie labbra sono sigillate: non possono lodare, benedire e ringraziare. E il non poterlo fare vuole dire: non posso vivere. Non esiste una vita gioiosa, degna di questo nome, se non quella per la quale si può ringraziare e dire: Signore è bello, ringrazio. Ma nella condizione di peccato questa lode è inaridita, esprime l’inaridimento della vita. Ma quando il Signore farà fiorire il perdono, rinascerà anche la lode e il ringraziamento. E la lode non sarà privata e nascosta, ma proclamata davanti a tutti gli uomini, perché tutti possano partecipare della mia gioia e della mia salvezza: «Insegnerò agli erranti le tue vie e i peccatori a te ritorneranno».
Tradizionalmente la lode, il sacrificio di ringraziamento, era accompagnata da sacrifici veri e propri: dall’offerta di un capretto o di un vitello, secondo le situazioni diverse. Questo adesso è impossibile: il Salmo è nato probabilmente al tempo dell’esilio, quando il tempio era distrutto e la possibilità di fare dei sacrifici era tolta a Israele. Allora vuole dire che il ringraziamento non è completo, perché ci manca l’aspetto sacrificale? No, dice il nostro Salmo: il sacrifico ha solo cambiato prospettiva, anzi il vero sacrificio, che può e deve accompagnare la lode, è la vita, non dei capretti o vitelli o animali: «tu non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi». Siamo ancora nell’insegnamento dei profeti, quando hanno aiutato Israele a comprendere che il sacrifico esterno non può altro che essere il segno di un cuore che diventa lui stesso sacrificio, di un cuore spezzato e donato al Signore.
Secondo molti autori gli ultimi due versetti dovrebbero essere un’aggiunta, ma in ogni modo danno al Salmo una prospettiva più ampia. Abbiamo commentato che il Salmo si presenta come la preghiera di un singolo: è un peccatore che davanti a Dio presenta la sua angoscia e il pentimento; e proprio per questo il titolo attribuisce il Salmo a Davide (gli esperti dicono che non è probabilmente di Davide, perché dovrebbe appartenere al tempo dell’esilio). Infatti, è significativo che sia stato messo questo titolo, perché vuole dire che l’esperienza di Davide, peccatore e condotto al pentimento, si esprime meglio in questo Salmo: «Quando venne da lui il profeta Natan dopo che aveva peccato con Batsabea». Ricordate come il profeta racconta a Davide una storiella, perché non capisca che si sta parlando di lui, e quando Davide ha dato un giudizio di condanna nei confronti del protagonista di questa storiella il profeta gli ha detto: «Sei tu quell’uomo!» (2 Sam 12, 7), il peccato è tuo. E Davide ha risposto chiedendo il perdono di Dio: «Pietà di me, o Dio». Per questo il Miserere si taglia bene sull’esperienza di Davide. Ma gli ultimi due versetti l’allargano: non è più Davide che parla, è Gerusalemme, è il popolo intero che ha conosciuto tutto il peccato e chiede il perdono e la rinascita. È Israele del dopo esilio che attende da Dio di potere ritornare in patria e di riprendere tutta quell’esperienza di culto, di sacrificio religioso, che aveva accompagno la sua storia. In questo senso anche gli ultimi due versetti sono preziosi perché ci permettono di leggere il Miserere, come preghiera della Chiesa, di ciascuno di noi, ma della comunità nel suo complesso.
Conclusione
Il Miserere fino al versetto 11 è fondamentalmente una richiesta di perdono: la consapevolezza e la gravità del peccato, la supplica a Dio e soprattutto alla misericordia e alla bontà di Dio.
Quindi il versetto dal 12 in poi è la richiesta di una nuova creazione: non solo il perdono come cancellazione del male, ma il perdono come una nuova esistenza, un nuovo cuore, e soprattutto un nuovo spirito. Lo spirito di Dio come sorgente di un’esistenza nuova: «Se qualcuno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove» (2 Cor 5, 17).
Credo che riprendendolo con pazienza, imparandolo un po’ a memoria, facendolo entrare dentro al cuore, il Miserere ci possa davvero fare entrare nello spirito penitenziale della Quaresima. È il testo più bello che c’è nel Salterio per cogliere la dimensione penitenziale e di conversione del nostro cammino quaresimale.
* Documento rilevato dalla registrazione, adattato al linguaggio scritto, non rivisto dall’autore.

Publié dans:BIBBIA, BIBBIA. A.T. SALMI |on 17 février, 2015 |Pas de commentaires »
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