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IL DIO VIOLENTO NELLE SCRITTURE EBRAICHE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

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IL DIO VIOLENTO NELLE SCRITTURE EBRAICHE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio
Verbania Pallanza, 19 novembre 1994
il problema teologico delle immagini di Dio

Il problema della violenza investe il problema teologico delle immagini di Dio. Per violenza intendiamo qualsiasi azione contro la vita, dal renderla amara al toglierla del tutto.
Occorre distinguere anzitutto tra una violenza ingiusta espressione della malvagità umana e una violenza « giusta », perché operata per una giusta causa o per conseguire nobili fini (es. l’uccidere per legittima difesa). Ciò che fa problema non è la violenza ingiusta, ma quella « giusta », quella ad es. degli oppressi contro gli oppressori al fine di giungere ad una liberazione.
La violenza inoltre può essere direttamente ascrivibile all’uomo, come singolo o come collettività, oppure può essere comandata o compiuta da Dio stesso. Fa problema soprattutto quella violenza che la bibbia attribuisce direttamente a Dio.
Tra violenza dell’uomo però e quella di Dio non c’è una netta demarcazione: un uomo violento può avere solo un’immagine di Dio violento. L’uomo, nelle sue concezioni religiose, proietta ciò che è o ciò che sperimenta di essere. A sua volta l’immagine del Dio violento contribuisce a confermare e a legittimare la violenza umana. I rapporti sono di reciprocità.
L’uomo tende a proiettare in Dio non solo gli aspetti positivi, ma anche quelli aggressivi, violenti. E questa violenza proiettata in Dio entra nell’arte, nella cultura, diventa patrimonio culturale di tutti.
Il problema della violenza ha anche le proprie radici in immagini del Dio violento.
la rimozione della violenza delle Scritture ebraiche: il Dio bifronte
Chi legge la bibbia ebraica rimane impressionato dagli episodi di violenza. È bene, per rispetto verso gli ebrei, parlare di bibbia ebraica piuttosto che di Antico Testamento: la bibbia ebraica deve essere presa nella sua autonomia, senza utilizzare chiavi di lettura tratte dal Nuovo Testamento, chiavi di lettura legittime ma confessionali.
Schwager ha elaborato una statistica impressionante: più di 600 passi parlano espressamente di attacchi con annientamento e uccisioni di gruppi o di popoli; in circa 1000 passi si parla del fatto che l’ira di Dio divampa e punisce con morte e rovina. Più di 100 passi testimoniano che Jahvé ordina espressamente di uccidere uomini. Per N. Lofhink « la storia della esegesi della bibbia è una storia di rimozione della violenza ».
Solo la lettura delle opere di René Girard mi ha fatto aprire gli occhi sul macroscopico problema della violenza, sulla funzione della violenza sacrificale (religiosa) come valvola di sfogo della violenza della società e quindi come fonte di ricompattamento sociale.
Questa commistione tra violenza e sacro è presente anche nella bibbia. Per Girard, forse con una lettura un po’ parziale, la bibbia è l’unico testo nel quale si ode la voce degli oppressi che denuncia il meccanismo della violenza nei confronti del capro espiatorio. Nella bibbia invece c’è anche una violenza che viene deificata, che diventa uno strumento utile e necessario per ottenere pace e salvezza. La violenza messa in Dio significa che Dio stesso dipende dalla violenza. Non si vuole vedere il carattere mostruoso della violenza, della nostra violenza proiettata in Dio.
Rudolph Otto nell’opera « Das Heilige » (Il sacro), mostra come il divino, il sacro presente nella tradizione ebraica, cristiana e musulmana, è un Giano bifronte: un mysterium fascinans, affascinante, fonte di vita di bontà, di grazia, e un mysterium tremendum che aggredisce e che porta alla morte. Nella bibbia è il Dio che dà la vita e dà la morte, innalza e abbassa, crea e distrugge.
Quando diciamo che Dio è buono ma anche giusto, vogliamo dire che è anche violento per conseguire la giustizia.
Mentre nelle religioni monoteistiche l’uomo proietta nell’unico Dio gli aspetti tremendi e fascinosi che sono propri dell’uomo stesso, nelle religioni dualistiche l’uomo proietta nel principio del bene gli aspetti positivi e nel principio del male quelli negativi. Ora nella bibbia è presente solo questa immagine di un Dio bifronte, fascinoso e tremendo, fonte di vita e di morte o c’è anche un’altra immagine, minoritaria ma significativa, che, come un fiume carsico, ogni tanto esce allo scoperto?
tre soluzioni al problema del Dio bifronte

Marcione: netta contrapposizione tra bibbia ebraica e bibbia cristiana
Marcione, armatore del II sec. convertitosi alla fede cristiana e folgorato dalla lettura di Paolo, accoglie delle Scritture solo quelle parti che parlano di un Dio che è puro amore, escludendo l’intera bibbia ebraica, e parte del Nuovo Testamento (accoglie solo il vangelo di Luca e Paolo). Marcione risolve il problema delle contrastanti immagini di Dio eliminando una parte consistente della bibbia. Ha sicuramente avuto il merito di non aver rimosso il problema, anche se la soluzione adottata è vicina a una posizione dualistica, manichea.
Bultmann e la soluzione di tipo dialettico
Per Bultmann la funzione della bibbia ebraica è di rinviare per contrapposizione al Dio di Gesù Cristo, passando dal Dio della legge al Dio della grazia, dall’uomo religioso che pensa di poter entrare in comunione con Dio attraverso l’osservanza rigorosa della legge all’uomo che si affida ciecamente all’amore gratuito di Dio.
la soluzione evoluzionistico
È la soluzione più comune. Antico e Nuovo testamento sono un’unica storia che evolve progressivamente. È la soluzione più apprezzata dai cristiani, anche perché maggiormente consolatoria: mentre gli ebrei costituiscono il punto di partenza i cristiani si collocano al punto di arrivo. È una soluzione però non pienamente fedele al dato biblico.
assumere lo scontro di immagini presenti nella bibbia
Ma in Gesù non c’è solo l’immagine di un Dio d’amore, c’è anche il tema della condanna dei malvagi al fuoco eterno. Non esiste cioè una progressiva evoluzione da un’immagine di un Dio violento ad una che esclude totalmente la violenza.
Solo Giovanni è riuscito quasi sempre ad avere un’immagine di Dio senza violenza, in particolare quando afferma che Dio ha mandato il suo figlio nel mondo non per condannare il mondo, ma perché il mondo si salvi. Non è presente qui il Dio che giudica premiando e castigando. Non è Dio che condanna l’uomo ma è l’uomo stesso che si autocondanna chiudendosi alla parola. Siamo noi giudici e sanzionatori di noi stessi. Il giudizio non si compie alla fine, ma attraverso le scelte che operiamo. Solo in un’occasione Giovanni parla della collera di Dio, tema invece ricorrente in Paolo.
Nella bibbia, anche in quella cristiana, abbiamo lo scontro non di due divinità, ma di due immagini di Dio. Quando leggiamo la bibbia non incontriamo direttamente Dio, ma le immagini di Dio di Mosè, del popolo di Israele, di Gesù, di Paolo ecc. « Dio nessuno lo ha mai visto, ma il Figlio suo ce lo ha narrato » (Paolo).
Ora se di Dio si hanno solo immagini umane quale è il valore della bibbia? Quali immagini rispecchiano il volto di Dio? Il polo negativo, violento è nostro, non di Dio. Noi esportiamo in Dio la nostra distruttività e negatività per poterla giustificare. Noi siamo i violenti. Dio è tutt’altro. Nell’ottica di fede scorgiamo nelle immagini contrastanti di Dio la presenza dello Spirito che non soffoca né i processi proiettivi né quelle immagini folgoranti di un Dio puro. Dio è all’interno di questo scontro.
Abbiamo un’immagine troppo divina della bibbia. Non lo è di fatto. Lo stesso Gesù Cristo non è un puro Figlio di Dio, ma è figlio di Giuseppe e Maria e figlio di Dio allo stesso tempo.
Noi siamo chiamati a scegliere nello scontro di immagini tra un Dio bifronte, insieme mysterium fascinans et mysterium tremendum, o un Dio solo mysterium fascinans.
La nostra ipotesi è che l’immagine di un Dio bifronte, anche se quantitativamente nettamente maggioritaria, circa l’80-90% dell’intera bibbia, è una produzione umana, una proiezione degli aspetti positivi e negativi dell’uomo in Dio. È un meccanismo culturale. L’elemento originale invece è l’immagine di Dio che è solo fonte di vita. In una visione di fede è la voce profetica che emerge dal meccanismo culturale.
l’immagine del Dio bifronte nelle Scritture ebraiche
il diluvio: una violenza « giusta » per combattere una violenza « ingiusta »
La tradizione Jahvista (Gen 6, 1-4), che più volte aveva parlato della violenza dell’umanità originaria (disobbedienza, fratricidio) per spiegare il diluvio accenna solo alla misteriosa unione, percepita come mostruosa commistione, dei figli di Dio con le figlie dell’uomo da cui sarebbero nati i giganti. La tradizione Sacerdotale, che è sostanzialmente pacifista e nettamente contraria alla violenza umana, ritiene che il peccato originale consista nella diffusione della violenza (Hamas in ebraico) sulla terra (Gen 6, 11-13). La terra sta tornando al caos originario. Il diluvio stesso, conseguente alla violenza umana, è un ritorno al caos originario, alla morte, alle acque che invadono nuovamente la terra. Il diluvio è espressione anche della concezione di un Dio sanzionatore che retribuisce il bene con il bene e il male con il male. Il Sacerdotale non si accorge della contraddizione di voler condannare la violenza umana attraverso la violenza distruggitrice del diluvio. Mentre prima del diluvio l’uomo era vegetariano (visione non violenta) dopo il diluvio potrà cibarsi di carne di animali (Gen 9,3). E i comandamenti di Noè (Gen 9, 6-7) esprimono insieme una netta condanna della violenza umana (violenza ingiusta) e una sanzione altrettanto violenta della violenza (violenza giusta): « Chiunque verserà il sangue di un uomo per mezzo di un uomo il suo sangue sarà versato ».
l’esperienza dell’Esodo
« Dio ci ha tratto dall’Egitto (Dio liberatore) con mano forte e braccio disteso (Dio sanzionatore) ». Nel libro dell’Esodo si narra epicamente l’uscita dall’Egitto di tribù oppresse che sperimentano un Dio efficacemente liberatore, che libera gli oppressi sprofondando gli oppressori nel mare dei giunchi, con modalità diverse secondo la tradizione Jahvista (Dio fa soffiare il vento da oriente che prosciuga il mare) o la tradizione Sacerdotale (Dio, per mezzo di Mosè, separa le acque). È un Dio che dona la vita agli uni seminando la morte tra gli oppressori.
il dono della terra
La storia dell’esodo e dell’entrata delle tribù nella terra è la storia di una promessa. Dal punto di vista storico la penetrazione delle tribù israelitiche nella terra di Canaan avvenne in tempi diversi e in modi diversi, sia mediante infiltrazioni pacifiche in zone disabitate o scarsamente popolate sia per mezzo di colpi di mano militari.
Il racconto biblico parla invece di un unico capo, Giosuè, che, con tutto il popolo di Israele, in 3 o 4 campagne militari sconfigge e annienta tutti i cananei: È questa la visione della tradizione deuteronomista, redatta al tempo del re Giosia (640-609), rinvenibile nei libri del Deuteronomio e di Giosuè. Questa racconto nasce in un tempo di forte nazionalismo, quando Giosia vuole ricostituire l’impero davidico. Il progetto sarà sostenuto e giustificato dai circoli deuteronomistici, originari del Nord e venuti a Gerusalemme dopo la caduta di Samaria (721). La legittimazione avviene attraverso l’esposizione dell’ideale della guerra sacra: Dio, nella spartizione della terra ai popoli, ha assegnato a Israele la terra di Canaan, pertanto legittimamente è possibile annientare gli abitanti di quella regione perché lascino il posto agli israeliti. Anzi Dio stesso interviene per sbaragliare il campo nemico e quindi i combattenti non devono temere (Dt 20, 1-4). Tutta la normativa sulla guerra sacra è esposta in Dt 20, 1-17: se una città rifiuta di sottomettersi si farà la guerra, uccidendo tutti i maschi se la città conquistata è straniera, annientando ogni essere vivente (herem) se è cananaica. È impressionante la ferocia di questa prassi enunciata dalla tradizione deuteronomistica, legata al diritto divino del popolo di Israele alla terra di Canaan. La tradizione sacerdotale, pacifista, narra che l’ingresso della comunità israelitica in Canaan avviene senza nessuna violenza, anzi si compie con la celebrazione della Pasqua con i frutti della terra.
il giudizio di Dio

L’anima più profonda, laica, di tutto l’ebraismo è la sete di giustizia. Di fronte all’evidente ingiustizia nella società, soprattutto nei poveri nasce la speranza che la giustizia sia fatta da parte del re. Date le deludenti prove fornite dai re, la speranza viene proiettata in Dio, visto come l’unico giudice imparziale, sanzionatore, che rende a ciascuno secondo le sue opere. È un’immagine di Dio che scaturisce da bisogni sociali e che svolge una funzione sociale, infliggendo ai malvagi la pena dovuta e ai buoni il premio.
P. Ricoeur ritiene che siano stati gli uomini ad elaborare il mito della pena che deve ristabilire l’equilibrio rotto dalla colpa, e, senza molta congruenza, di una pena corporale per una colpa morale. Dio entra in questo schema mitico, dato che Dio sa leggere i cuori, sa misurare bene la colpa e pertanto anche la sanzione adeguata.
Sodoma e Gomorra
La tradizione Jahvista (Gen 18, 26 ss.) narra della distruzione di Sodoma, città divenuta esemplare per corruzione umana e per giusta e tremenda punizione divina.
Per l’anima ebraica il giusto è la distinzione (chiaro e scuro, asciutto e bagnato, terra e acqua, bene e male, maschile e femminile). Mentre il disordine, il caos, il male è la confusione. Per questa mentalità pertanto la omosessualità è un terribile male in quanto confusione di sessi.
Dio, giudice giusto, distruggerà le due città perché in esse non si trova nessun giusto. Dio punisce solo i malvagi e risparmia i giusti. Il giusto giudizio di Dio sarà ricorrente nella predicazione profetica. Ma a partire da Amos i profeti affermano che Dio sarà impietoso giudice del suo popolo infedele alle clausole del patto.
i profeti
Amos (9,7-8) mette sullo stesso piano il popolo di Israele e gli altri popoli (« Io lo sterminerò dalla faccia della terra »).
Ezechiele sottolinea con forza che il popolo di Giuda si è meritato la distruzione di Gerusalemme e l’esilio: « Ora tra breve rovescerò il mio furore su di te e su di te darò sfogo alla mia ira. Ti giudicherò secondo le tue opere… » (Ez 7,8-9).
letteratura apocalittica
Nel postesilio compare anche la visione del giudizio universale, quando saranno annientati tutti i malvagi e finalmente sarà ricreato un mondo di giustizia e di pace. È la letteratura apocalittica. Addirittura i malvagi saranno resuscitati per poter essere condannati e annientati: è una resurrezione per la morte! Emerge qui con evidenza la forza dello schema del giudizio di Dio.
l’invocazione della « vendetta » divina

La vendetta nelle Scritture ebraiche non ha a che fare con l’arbitrio o con un particolare sadismo, ma si pone all’interno della legge, per perseguire efficacemente la giustizia. La vendetta è la difesa di un diritto conculcato. La vendetta, addirittura, oltre che un diritto, è un dovere, perché è necessario ristabilire l’ordine leso.
Nei salmi i poveracci chiedono la vindicatio, la vendicazione del proprio diritto. In altri salmi si invoca la vendetta con violenza distruggitrice contro l’oppressore a favore dell’oppresso.
« Tu fa’ di loro un turbine, Dio mio, come paglia al vento » (Salmo 83,14). « Sorgi, Jahvè; nell’ira tua scagliati, contro la rabbia dei miei nemici » (Salmo 7,7). « In tribunale sia condannato, la sua difesa sveli i suoi delitti. Brevi siano i suoi giorni, un altro prenda il suo lavoro. Restino orfani i figli e vedova sua moglie. Si sperdano i suoi figli a mendicare, li scaccino lontani dalla casa in rovina. L’usuraio estorca ogni suo bene, gente straniera lo depredi d’ogni guadagno. Nessuno gli serbi pietà o si commuova dei suoi orfani. Sterminio alla sua discendenza, non viva il suo nome più di una generazione » (Salmo 109,7-13: un israelita lancia tremende maledizioni contro le persone che lo hanno accusato e perseguitato ingiustamente. Sembra quasi che la sete di vendetta prevalga sul desiderio di giustizia). « Gioisca il giusto che ha visto la vendetta, lava i suoi piedi nel sangue dell’empio » (Salmo 58,11).
l’immagine profetica del Dio di grazia, di perdono, di vita

il perdono di Dio
I profeti annunciano un Dio che perdona, che rompe la logica del nesso colpa – pena, facendo seguire alla colpa il perdono.
Osea parla dell’eterna comunione di vita tra Jahvè e il suo popolo: « Ti farò mia sposa per sempre » (2,21).
Per Geremia Israele sarà sempre il popolo di Jahvè e non sarà più rigettato (31,36-37).
In Ezechiele Dio afferma: « Non mi adirerò più » (16,42). Così Gioele: « Non farò più di voi il ludibrio delle genti » (2,19). E Naum: « Se ti ho afflitto non ti affliggerò più » (1,12).
Il secondo Isaia afferma che Israele non berrà più il calice dell’ira di Jahvè (51,52). Per Ezechiele Dio è con Israele per sempre, anche quando gli si rivolterà contro (20,9.14.22.44).
il Dio che Giona non può accettare
Giona non vuole obbedire all’ordine di Dio di recarsi a Ninive per invitare il popolo alla penitenza e fugge. Ripreso e condotto a forza nella città, è adirato per l’esito favorevole della sua predicazione. Non può accettare un Dio di sola grazia. Da fedele israelita si è costruito un’immagine di Dio bifronte, benigno verso Israele e punitore nei confronti degli altri popoli, soprattutto se nemici. Ma Jahvé ribatte così a Giona, che si era preoccupato per la morte della pianta di ricino: « Io non dovrei aver compassione di Ninive, quella grande città, nella quale ci sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere tra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali? » (4,11).
Qui Dio ha un solo volto, quello del mysterium fascinans, che dà solo la vita, non la morte. Dobbiamo stupirci per il fatto che un 10% della bibbia ebraica ci parli di un Dio di solo amore e di sola vita.

GERUSALEMME PATRIA DI TUTTI – « LECTIO » DEL SALMO 122, TRATTO DA: C.M. MARTINI

http://www.nostreradici.it/a_jerusalem.htm#meditatio

[TRATTO DA: CARLO MARIA MARTINI, LETTURA ECUMENICA DELLA PAROLA, 9-10 SETTEMBRE 1994,

GERUSALEMME PATRIA DI TUTTI, EDB, BOLOGNA 1995]

« LECTIO » DEL SALMO 122

[Testo del Salmo]
Nel testo ebraico questo salmo è intitolato Cantico delle ascensioni o delle ascesi, dei gradini, delle salite, un titolo che caratterizza ben quindici salmi (dal 120 al 134), detti pure I canti del pellegrinaggio, raccolti insieme per servire da cantici del pellegrinaggio a Gerusalemme.
Nella versione originale, il 122 è anche il primo dei quindici che viene attribuito a Davide, insieme ai due successivi (dei rimanenti uno è ascritto a Salomone mentre per gli altri non ci sono ipotesi). Certamente c’è un motivo per tale attribuzione, pur se non si ritiene che essa sia autentica e storica perché il salmo sarebbe stato composto più tardi, quando il pellegrinaggio a Gerusalemme era diventato un’abitudine.
In ogni caso, Davide è il fondatore della città e il Salmo 122 presuppone Davide come un personaggio: « Là ha sede il trono di giustizia, il trono di Davide » (v. 5). Probabilmente, parlando di Gerusalemme come città « costruita, salda e compatta », il salmista intende riferirsi alla città ricostruita dopo l’esilio, che diventa quindi il vanto e la gioia di Israele.
L’attribuzione del salmo a Davide è comunque fondata, perché esso testimonia un grande amore alla città costruita da Davide quale capitale del suo popolo.
Quali sono gli elementi costitutivi del salmo?
Anzitutto notiamo una inclusione, cioè una parola che ricorre all’inizio e alla fine: casa del Signore, dimora del Signore. « Andiamo alla dimora del Signore » (v. 1); « Per la casa del Signore » (v. 9).
È interessante osservare come poi non si parli più di questa casa, ma piuttosto della città: ciò significa che dapprima Gerusalemme è vista in particolare come luogo del tempio e poi anche come città nel suo insieme.
Un altro elemento fondante è la triplice menzione di Gerusalemme (vv. 2. 3. 6), descritta nelle sue porte, nelle sue mura, nei suoi baluardi. Appellata tre volte, delineata con tre caratteristiche e indicata con il pronome « tu »: « alle tue porte », « sia pace a chi ti ama ».
Altro elemento strutturale del salmo è che Gerusalemme è vista quale luogo di pace. Ben quattro le occorrenze di questo termine: « domandate pace per Gerusalemme », « sia pace a coloro che ti amano », « sia pace sulle tue mura », « su di te sia pace ». Il gioco di parole è evidente: « Gerusalemme » veniva interpretata quale « città dello shalom », della pace: sia pace alla città della pace, domandate pace per la città della pace.
Infine il salmo è caratterizzato anche da altre ripetizioni che gli imprimono un ritmo poetico, molto bello: le tribù, le tribù del Signore, i seggi di giustizia, i seggi della casa di Davide.
Vi cogliamo, pur se non possiamo penetrare a fondo il ritmo dell’originale, quell’affiato che ne fa un poema, un cantico, qualcosa che nasce dal cuore e, attraverso ritmi, ripetizioni, assonanze (sono tante nel testo ebraico) mette in luce un’anima innamorata di Gerusalemme.
Tenendo conto di questi elementi formali, cerchiamo di capire la struttura logica del salmo, facilmente suddivisibile secondo le tappe di un pellegrinaggio.
Un pellegrinaggio viene anzitutto deciso; immaginiamo che il salmo venga cantato da un gruppo di pellegrini che giungono alle porte della città. Essi devono fermarsi per sbrigare alcune pratiche burocratiche previste prima dell’ingresso; si riposano e contemplano la città. Contemplandola ripensano all’inizio del cammino, al momento in cui hanno deciso di partire; è il v. 1, « Quale gioia quando mi dissero: ‘Andremo alla casa del Signore »‘.
Dopo l’inizio, è immediatamente sottolineato l’arrivo: ora ci siamo, « i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! » (v. 2).
Al v. 3 Gerusalemme viene contemplata dall’esterno, ammirata quale costruzione salda e compatta, in cui tutto è unità. È un riferimento alla città sul monte, che dà l’impressione di compattezza (sulla roccia), e insieme alla situazione spirituale della città, salda perché fondata sul Signore, unificata dallo Spirito di Dio.
Quindi, Gerusalemme è contemplata nelle sue caratteristiche e nel suo ruolo (w. 4-5). Si tratta di una riflessione a livello morale: meta di pellegrinaggio, luogo di culto, di lode, di testimonianza della gloria di Dio, centro amministrativo e politico: « I seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide », casa a cui fu promessa la perpetuità. Dunque un centro religioso e un centro politico-amministrativo a cui si guarda con fiducia per i beni che ci attendono dalla responsabilità politica che ricade su Gerusalemme.
A questo punto segue la preghiera che può essere pensata a due cori, partendo dal v. 6: « Domandate pace per Gerusalemme ». Anzi, colui che ha espresso la sua gioia, magari il capo- pellegrinaggio, rivolge un invito ai compagni pellegrini: « Do- mandate… ». E all’invito risponde il coro: « sia pace a coloro che ti amano, sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi » (v. 7). Il capo, allora, riprende da solo: « Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: ‘Su di te sia pace!’. Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene » (w. 8-9). Qui ritorna l’appellazione a Gerusalemme con il « tu », come a una persona amica che si incontra e cui si augura il bene, la pace.
Dunque, due cori, nel senso di un solista e di un gruppo.
Sul tempo in cui il salmo è stato scritto ho già accennato un’ipotesi: il tempo dopo l’esilio, quando il tempio è ricostruito e il popolo va in pellegrinaggio alla città santa, l’unico simbolo rimasto dell’unità di Israele.

« Meditatio »del Salmo 122
Per rileggere il messaggio, sono possibili diverse piste, diverse linee. Ne ho scelte tre: una lettura storico-esistenziale (messianica); una lettura più specificamente cristiana; e una terza personale, che riguarda ciascuno di noi.
Gli elementi di una lettura storico-esistenziale sono i grandi simboli del cammino umano contenuti nel salmo, che ne fanno una realtà di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutte le culture.
Due sono i principali. n primo è il pellegrinaggio, menzionato non quale tema specifico, bensì nel suo decidersi, nel suo compiersi. È un grande simbolo del cammino umano, della vita dell’uomo e dell’umanità, della vita di tutti gli uomini e di tutte le donne considerati come collettività. n simbolo avverte: se la vita umana è colta come pellegrinaggio, allora essa non è un vagare senza scopo e neppure una fuga dal paradiso, priva di speranza; al contrario, è un camminare verso un termine. Questa è già un’apertura straordinaria per accogliere l’esistenza umana come una realtà che ha un senso preciso. E quando abbiamo riconosciuto che tale cammino ha un senso e una meta, scoppia la gioia: « Quale gioia… ».
Gerusalemme è l’altro simbolo, la meta stessa del cammino. Un simbolo universale perché si tratta di una città, di un luogo di incontro, un luogo di relazioni molteplici, dove i diversi si ritrovano. Quindi l’umanità non va verso una dispersione, una Babele confusa, ma verso un luogo nel quale tutti si incontreranno, si capiranno, intesseranno rapporti reciproci.
Questa città è salda, non delude. n tema della saldezza è il più ripreso dal Nuovo Testamento, che non cita esplicitamente il Salmo 122 però ne riprende il contenuto: andiamo verso una città salda, solida, ben costruita, compatta, dove tutto è unità. Questo è il termine del cammino umano. Ed è anche il luogo d’incontro armonioso e aperto con Dio, dove Dio è lodato e dove c’è ordine perché la legge è fatta osservare, dove c’è il trono di giustizia e ci sono i seggi del giudizio. L’umanità va verso un luogo dove la giustizia, quella di Dio, non la nostra, trionfa. Dove, soprattutto, l’umanità spera di vivere l’ideale della pace e della sicurezza: « Domandate pace per Gerusalemme, su di te sia pace e tranquillità nelle tue mura, sicurezza nelle tue case ».
L’umanità è così definita come colei che anela a una tale città, che va verso di essa e trova speranza nella fiducia di camminare e di essere condotta alla meta. Una visione quindi molto positiva, anzi propositiva perché ne derivano molte conseguenze per il modo di camminare dei popoli.
Da questa visione nasce pure una certa pazienza storica: a noi spetta di porre le premesse affinché si vada sempre meglio verso la città armoniosa, unita, capace di lodare l’Eterno, di vivere l’ordine della giustizia.
Una lettura cristiana ci fa subito pensare a Gesù che ha vissuto profondamente la gioia del Salmo 122. Già a dodici anni aveva esclamato: quale gioia ho provato ascoltando i miei genitori che mi dicevano: andiamo alla dimora del Signore! E probabilmente l’ha cantato alle porte di Gerusalemme quella prima volta e poi ogni volta, fino all’ultimo pellegrinaggio nel quale si avviava piangendo verso la città santa: « Oh, se tu riconoscessi ciò che giova alla tua pace! ». Anzi, nel testo greco il salmo usa l’espressione erofesafe de fa eis eirenen (v. 6) ripresa dal Nuovo Testamento: se tu riconoscessi le cose che riguardano la pace di Gerusalemme.
Dunque Gesù ha cantato questo salmo nella gioia e nella sofferenza sapendo che la sua sofferenza era parte del cammino di Gerusalemme e dell’umanità verso la pace.
Partendo dalla lettura che ne ha fatto Gesù, ci domandiamo se il Salmo 122 risuona anche negli scritti apostolici neotestamentari. Non mi sono venute alla mente citazioni specifiche, tuttavia il tema della città salda è molto presente.
Ef 2, 19-20, 22: « Voi non siete più stranieri ne ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti [...] In Gesù ogni costruzione cresce bene ordinata per essere tempio santo del signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio ».
Questo tema è penetrato fortemente nello spirito di Paolo, che ne fa un simbolo interpretativo della crescita della comunità cristiana, che è la realtà che viene edificata come la città del salmo.
L’aspetto di pellegrinaggio verso tale città è però presente in particolare in Eb 11 e in Eb 12: Abramo ha potuto partire e lasciare tutto in quanto « aspettava la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso » (11, 10); « Chi dice così, dimostra di essere alla ricerca di una patria » (11, 14), pellegrino sulla terra; « Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città » (11, 15-16).
E ancora: « Vi siete accostati alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste » (12, 22), ecco la menzione diretta. Alla città che fa parte delle cose incrollabili: « Rimangono le cose che sono incrollabili. Perciò riceviamo in eredità un regno incrollabile » (12, 27-28).
Riassumendo il messaggio del salmo: l’uomo è in cammino, pellegrino verso una città salda, compatta, nella quale Dio è lodato, nella quale è la pienezza della pace, una città che non delude e per cui vale la pena abbandonare le altre città.
Nella spiritualità del Nuovo Testamento è penetrato inoltre il pensiero delle moltitudini, di tutte le tribù della terra. Le moltitudini salgono ora verso tale città, e tutte sono chiamate « moltitudini del Signore ».
Così, la lettura cristiana diventa lettura ecclesiale; la chiesa non è la meta, la grande città, ma è un popolo in marcia verso quella città.
Se Israele testimonia « là » la tua gloria, Signore, se « là » ha sede il trono di giustizia, i nostri interessi sono veramente là? È il « là » di questa città verso cui camminiamo il nostro criterio di giudizio storico? Perché, se è così, allora tutte le altre realtà sono relative, tutti gli eventi (storici, sociali, politici, culturali, ecclesiali) vanno valutati tanto quanto rispondono a un cammino verso la città compatta, pacifica, giusta, oppure rallentano o fanno deviare il cammino.
Quindi il cristiano, interrogato sulle sue speranze, dovrebbe rispondere spontaneamente: le mie speranze sono la Gerusalemme celeste, sono là le mie speranze. È i « là » della pienezza dell’azione di Dio nel suo popolo, nell’umanità.
La lettura più personale del salmo dà spazio a tante riflessioni.
Pensiamo ai pellegrinaggi che ciascuno di noi ha fatto a Gerusalemme e nei quali probabilmente ha cantato, evocato, recitato il Salmo 122 allorché ha visto le mura della città. Nella preghiera potremmo ringraziare il Signore per le esperienze che ci ha donato nei nostri pellegrinaggi, per quanto ci ha fatto capire su Gerusalemme. Ogni volta che ne rivediamo le mura, proviamo una fortissima emozione. E se non siamo mai stati a Gerusalemme, come immaginiamo il pellegrinaggio verso la città santa, come lo viviamo nella preghiera?
« Andiamo con gioia! » è parola che esprime la tensione verso il pellegrinaggio, equivale a dire: sapevo che sarebbe venuto questo momento e penso a ciò che da sempre ho desiderato.

Conclusione
In quale modo la Gerusalemme di oggi partecipa, nel suo destino doloroso e tragico, alle benedizioni di Dio, alla promessa di pace?
Partecipa anzitutto attraverso la nostra instancabile preghiera per la sua pace, le nostre preghiere per la città reale e simbolica che conosciamo, di cui tocchiamo le mura: Sia pace sulle tue mura!

Ci domandiamo se e come operiamo per la pace di Gerusalemme, la cui pace è simbolo, segno, radice e causa della pace di tante altre città.
Il Salmo 122 ci impegna dunque a pregare e a operare per la pace nella giustizia.

«ASCOLTATE OGGI LA SUA VOCE» (SALMO 95/94,8)

http://www.usminazionale.it/2008_01/manicardi.htm

«ASCOLTATE OGGI LA SUA VOCE» (SALMO 95/94,8)

Ermenegildo Manicardi
Rettore dell’Almo Collegio Capranica

Parlerò da esegeta, ossia da amico mosso dalla preoccupazione del testo e del suo reale impatto sugli ascoltatori. Come dice la Dei Verbum, sulla scorta di San Girolamo, «l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo». I testi ispirati, le Sacre Scritture, sono uno strumento spirituale eccellente, che ci è stato donato per avvicinarci a Cristo e per conoscerlo così come lui è.
Le nostre meditazioni, per essere veramente spirituali, devono essere bibliche in senso reale. A volte bisogna fare anche qualche sacrificio. Quando siamo stanchi e sfiniti, forse è preferibile lasciare che la nostra mente e il nostro cuore vagabondino nel silenzio davanti al Signore senza speciali riferimenti biblici. Quando invece abbiamo ancora forze, anche se siamo un po’ affaticati, è bene che si perseveri nella lectio divina, ossia in una preghiera che si fa guidare da un testo biblico concreto. Nella preghiera non guidata dalle parole bibliche si può correre, non di rado, il pericolo di raccontare – in fondo a noi stessi –qualche cosa di troppo soggettivo. Rimaniamo allora nel «quando» di ciò che conosciamo bene, che forse è causa dei nostri stessi disagi e che in ogni caso non ci libera. Il testo biblico, invece, che è fuori di noi, ci costringe a vedere le cose da punti di vista più oggettivi, più esterni e ci ricorda quanto è veramente gradito al Signore e perfetto (cf Rm 12,1-2).
Non bisogna mai dimenticare che fra le poche istruzioni di preghiera date da Gesù, c’è questa norma: «Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole» (Mt 6,7). Spesso noi lasciamo che la nostra mente corra troppo su se stessa, galoppando sul proprio esclusivo terreno. Il tema che avete scelto dice: «Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore». Non mi racconterò ancora una volta quello che penso «io», riandando ai miei stati d’animo più o meno lieti; farò, invece, un «esercizio spirituale»: mi aprirò ad un dono che mi viene «dal Signore». Adesso cerchiamo di realizzare un momento di preghiera di questo tipo, ascoltando il Signore tramite uno dei salmi più famosi, il Salmo 95 (94), usato spesso come salmo all’Invitatorio, che apre la Liturgia delle ore. Esso inizia con le parole «Venite, applaudiamo al Signore».

Parte prima: «RUMINATIO»
Entriamo nel testo del Salmo 95/94 e stiamo in compagnia del testo. La definizione più bella, per indicare un salmo, è probabilmente quella di itinerario. Il salmo propone dei passaggi. «Ascolterò che cosa dice il Signore». Entriamo all’interno del Salmo, cominciamo a camminare nello spazio che le sue parole creano e seguiamo le tappe che esso propone nel suo itinerario.
Andiamo allora «dentro» il salmo. Per fare veramente questa operazione è necessario dimenti-care almeno tutti gli attuali stati d’animo. Siete arrivate qui molto diverse: alcune più liete, altre meno liete, alcune più tristi, altre meno tristi. Questo va lasciato fuori, perché se no non si ascolta. Facciamo un paragone. Noi ascoltiamo sempre la gente? Se siamo nervosi, tristi, offesi, riusciamo ad ascoltare solo con molta fatica. Se ci lasciamo andare allo stato d’animo pesante, che ci ha colto, l’ascolto sarà molto superficiale. A volte, quando mi sento molto preoccupato, faccio l’esperienza che è necessaria molta disciplina per non rispondere in modo formale. «Ascolto» vuol dire che interrompo il fiume delle mie sensazioni per rivolgermi alla persona che mi viene incontro. Se non sospendo il flusso delle mie preoccupazioni e sensazioni, posso leggere anche cinquanta testi biblici e non fare vera lectio divina. La ruminatio deve portarci via dal nostro mondo abituale, per farci entrare in un altro mondo, quello di Dio che parla. Dobbiamo liberarci dai nostri stati d’animo, per caricarci davvero delle preoccupazioni di Dio, che il testo, parola ispirata, ci vuole comunicare.

Dobbiamo allora percorrere con pazienza le parole del testo del Sal 95/94, perché proprio questo salmo, che abbiamo scelto per la lectio, ci regali il suo mondo come mondo della nostra preghiera.

La struttura del Salmo 95/94

Quante tappe ha l’itinerario proposto dal Salmo 95 (94)? Alcuni lettori pensano che siano due, altri invece ne propongono tre.
Nella Nuovissima versione della Bibbia delle Edizioni Paoline, p. Angelo Lancellotti si pone, di fatto, nel gruppo di esegeti che vedono nel salmo due parti. Egli cataloga questo salmo come «liturgia della fedeltà del Signore» e distingue due parti: nella prima vede un «invito alla solenne celebrazione in veste innica» (vv. 1-7); nella seconda, invece, un «ammonimento sotto forma di oracolo» (vv. 8-11).
La prima parte del salmo è un invito solenne a celebrare il Signore ed è in forma di inno. La forma di inno è molto evidente, soprattutto a causa di alcuni imperativi che invitano a lodare il Signore (vv. 1-2 e v. 6) e delle motivazioni che suggeriscono la ragione per cui dobbiamo venire e applaudire (vv. 3-5; poi v. 7).
La seconda parte è, invece, un ammonimento, espresso in forma d’oracolo. È Dio stesso che ammonisce in diretta, per mezzo di un profeta (cf v. 8a) che si mette a parlare in nome di Dio stesso: «Non indurite il vostro cuore…» (vv. 8b-11).
Per gli esegeti che seguono la divisone in due parti le tappe fondamentali del salmo sono un «inno/oracolo» e un «invito/ammonimento». Questa divisione dice solo quali sono i generi letterari fondamentali del Salmo: modulo innico e modulo oracolare.
Più ricca, anche per la preghiera, appare la proposta di individuare, nel Salmo 95 (94), tre parti. P. Tiziano Lorenzin nel volume: I salmi delle Edizioni Paoli-ne, vede nel salmo un’azione liturgica, strutturata da tre imperativi che introducono tre parti:

- vv.1-5 «Venite»
Invito al tempio

- vv.6-7 «Venite»; oppure, meglio, «Entrate»
Ingresso nel tempio

- vv.8-11 «Ascoltate»
Ascolto della Parola

I tre imperativi imprimono al salmo un movimento che propone tre passaggi: invito alla lode, invito all’adorazione, invito alla riflessione. In concreto abbiamo:
1) un invito ad andare verso il santuario, che comprende partenza della processione, saluto gioioso e lode;
2) un invito non solo a venire, ma ad entrare, adorare e confessare il Signore;
3) un invito ad ascoltare, che comprende richiesta del silenzio, discorso di Dio e ammonimento.
Il salmo, che recitiamo quasi ogni mattina, propone un itinerario triplice: bisogna venire, bisogna entrare e, infine, bisogna ascoltare. Non basta stare in ginocchio, ma c’è un crescendo d’impegno:
1) «Venite» subito (quando vi svegliate);
2) «Entrate» nel luogo più intenso della sua presenza (probabilmente la cappella);
3) «Ascoltate, oggi, la sua voce» e ricordate come, molte altre volte, l’ascolto in realtà non sia riuscito.
Un invitatorio non banale: venite alla roccia (Sal 95/94,1-2)
Il Sal 95/94 inizia con un invitatorio, «venite applaudiamo al Signore», che va verso un titolo centrale di Dio: «La roccia della nostra salvezza». L’orante non dice «scudo», «fonte», «sole», «aurora», ecc. Lasciamoci illuminare dalla specificità dell’immagine.
Perché mai si parla di «roccia»? Più sotto si parlerà di Massa e Meriba, ossia i luoghi della tentazione e contestazione in cui il popolo chiede acqua e Dio la trarrà dalla roccia (cf v. 8). L’idea sottesa alla scelta di questo titolo può dunque essere benissimo: Dio è la roccia della nostra salvezza, perché da lui scaturisce l’acqua che disseta il popolo anche in circostanze dove abbeverarsi parrebbe impossibile (cf Es 17,1-7; Nm 20,2-13). Il salmista, inoltre, ha forse in mente una seconda possibile allusione, che potrebbe irrobustire la prima. Gli oranti sono invitati ad entrare nel tempio di Gerusalemme, che è costruito sulla roccia dalla quale Ezechiele promette che scaturirà l’acqua che tutto risana (cf Ez 47,1.12). San Paolo identifica la pietra da cui scaturisce l’acqua nel deserto con una roccia che seguiva il popolo nei suoi spostamenti: «tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano, infatti, da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo» (1Cor 10,4).
Rientrare nella profondità e nella bellezza di questi orizzonti vasti, quando preghiamo, ci fa certamente bene. Nell’invitatorio mattutino, queste prospettive sono un dono quotidiano che il Signore ci fa per educarci. Se siamo veramente capaci di attivare questi meccanismi siamo vivi e ci rinnoviamo, altrimenti si rischia di appassire.
Che cosa si deve fare per an-dare al Signore? Si deve «applaudire», «acclamare». Si tratta di avere entusiasmo per chi ci fa il dono di questa giornata. Con l’applauso si passa dal dono al donante. Di fronte al dono che ho ricevuto mi viene voglia di lo-dare il donatore. La bellezza del regalo ci spinge ad avere un’idea della bontà del donatore ed ecco l’applauso che esplode. L’inizio della giornata è un invito a capire i doni che il Signore ci ha fatto, ma in forma di lode, andando verso la figura di colui che ci presenta questi doni. I bambini sono abituati a ringraziare e a concentrarsi sul dono. La lode che apre la nostra giornata deve invece essere il risultato del nostro avere compreso la grandezza di colui che ci fa il dono. Quando il dono è capito, si va verso la persona del donante; in concreto: verso la roccia da cui scaturisce l’acqua della nostra salvezza. «Offrire sacrifici di ringraziamento»: non solo rendergli grazie, ma prendere qualcosa ed offrirla al Signore, rendendola sacra al Signore. Si tratta di quel sacrificio che neanche il Sal 51/50 – così sospettoso della ritualità (cfr. il v. 18) – non rifiuta: «Allora gradirai i sacrifici prescritti, l’olocausto e l’intera oblazione, allora immoleranno vittime sopra il tuo altare» (v. 21).
Già l’invitatorio del Sal 95/94 contiene un grande insegnamento spirituale. Per coglierlo bene occorre attenzione e ruminatio. È necessario leggere e rileggere i salmi, forse anche studiarli per percepire, quando si prega, una ricchezza sempre maggiore. Se mi si permette un paragone spregiudicato: un salmo è quasi un palloncino da gonfiare, che spin-ge il nostro cuore ad allargarsi. Il lavoro di ruminatio è gonfiare il palloncino perché quanto è stato collocato dentro di noi cresca e dilati la nostra persona. Un salmo, se è veramente cresciuto dentro di noi, spinge verso le pareti del cuore, dilata le arterie e il sangue torna copioso a circolare.
La creazione e le mani di Dio: trascendenza e amorevolezza (Sal 95/94,3-5)
I motivi per la lode di Dio sono sostanzialmente due. Anzitutto «grande Dio è il Signore, grande re sopra tutti gli dei». La sua unicità si mostra nello splendore della corte divina dove tutti confluiscono. Secondo i capitoli iniziali del Libro di Giobbe in questa corte celeste penetra persino il satana tentatore (cf Gb 1,6). Il primo motivo per lodare Dio è la grandezza assoluta della sua trascendenza.
Il secondo motivo completa il primo: «nella sua mano sono gli abissi della terra». La trascendenza di Dio non gli impedisce di essere l’amorevole creatore di tutto l’universo. Con immaginazione felice, il salmista rappresenta il mondo attraverso quattro elementi, che corrispondono ai punti cardinali. Egli parte dalla dimensione verticale e mette in contrasto «gli abissi della terra» con «le vette dei monti». Passa poi alla linea orizzontale e contrappone «il mare» fatto da lui e «la terra», addirittura plasmata. Si supera la prima descrizione genesiaca in cui il mare e la terra sono separati, per indicare come la terra a sua volta separata sia stata anche particolarmente curata (almeno secondo il parere del salmista). Tutto è di Dio, che guarda in verticale e in orizzontale, abbracciando la realtà del cosmo.
Merita attenzione l’insistenza sulle mani, che sono ricordate due volte: «Nella sua mano sono gli abissi della terra» (v. 4) e «le sue mani hanno plasmato la terra» (v. 5). Il salmista vuol far pensare alla mano di Dio, che rappresenta il suo «fare» forte e amorevole. L’immagine è impressionante e commovente ad un tempo. Le cose che sono nella proprietà di Dio fanno apparire la sua mano come enorme: essa è larga a sufficienza per comprendere gli abissi della terra e le vette dei monti. Si tratta di una mano quindi che crea, che plasma come uno scultore le ve-nature dell’universo, che mantiene nella sussistenza tutto ciò che ha creato.
Adorare Dio che guida «il popolo della sua mano» (Sal 95/94,6-7)
Un nuovo invito a lodare e ad assumere un atteggiamento d’adorazione ricapitola il motivo della creazione e lo ripete applicandolo al popolo degli oranti. Il nuovo motivo di lode, che il salmo suggerisce, è la consapevolezza che il Signore è anche colui che ha creato e formato il popolo: «venite, prostrati adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha creati» (v. 6).
La dichiarazione: «Egli è il nostro Dio, e noi il popolo del suo pascolo» (v. 7) ricupera la formula dell’alleanza in forza della quale Israele appartiene al Signore e il Signore ad Israele. Nell’insieme dunque il Salmo loda due creazioni parallele: quella dell’universo e quella del popolo eletto.
La traduzione «il gregge che egli conduce» rende in maniera un po’ astratta la locuzione usata nel salmo che parla invece – molto plasticamente – del «gregge della sua mano». Certamente in questa espressione è intesa la guida che Dio dona al suo popolo, ma è anche dichiarato che il popolo è opera delle sue mani, nello stesso senso in cui prima si è parlato dell’universo e della creazione operata dalle mani di Dio.
«Entrare», «adorare», ma soprattutto «ascoltare» (Sal 95/94,8-11)
L’ultima tappa dell’itinerario, proposto dal salmo 95/94, conduce dall’ingresso adorante nel tempio alla necessità di «ascoltare la voce» del Signore (v. 8).
È illusorio pensare che basti entrare nel «tempio», nel luogo dove Dio ha compiuto i suoi prodigi, per avvicinarsi veramente al Signore e partecipare allo spazio dei suoi doni. Il tempio è vera-mente il luogo costruito dalla presenza dell’amore di Dio. Per questo si deve andare verso il tempio e là adorare.Tutto questo, però, non basta. Per entrare vera-mente nel tempio, alla fine è necessario aprirsi e passare all’ascolto. C’è una dialettica deci-siva tra il «cercare», che conduce la persona nel tempio, e l’«ascoltare», che ha la funzione di dischiudere il soggetto a qualcosa di nuovo. Cercando, l’uomo segue il meglio di ciò che il suo cuore propone; egli, per così dire, si dilata ma secondo un principio che parte da lui, ossia il proprio desiderio. Ascoltando, noi immettiamo in noi stessi degli elementi che ci spingono a crescere a par-tire da qualcosa che è donato dall’esterno.
L’insistenza sull’ascolto è formulata da un salmista/profeta che parla a nome di Dio. L’oracolo, con cui il salmo si chiude, insiste sulla necessità di ascoltare prendendo una lezione dalla storia passata del popolo, nel momento del deserto, ossia al tempo della sua massima vicinanza con Dio liberatore. L’appello è molto chiaro. Voi che siete entrati oggi in questo tempio, lo spazio che Dio ha creato, non fate come i vostri padri che «mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere» (v. 9).
Nella tappa decisiva appare dunque chiara la necessità di raggiungere una maggiore maturità. Non è detto che basti entrare nello spazio voluto e creato da Dio perché si compia la comunione con lui. A Meriba e a Massa il po-polo, che viveva apparentemente il dono dell’esodo, arrivò in realtà a contestare e a tentare il Signore.
Emerge così ripetutamente la dimensione del «cuore», come luogo distinto dal semplice camminare nello spazio di Dio: «non indurite il cuore» (v. 8) e «sono un popolo dal cuore traviato» (v. 10). Nell’insieme del salmo c’è un contrasto di simboli, veramente interessante e decisivo: nel caso di Dio si parla della «mano»; per l’uomo, invece, si parla del «cuore». La mano di Dio (il suo agire) è sempre amorevole. Il cuore dell’uomo (ossia il suo profondo sentire, pensare, decidere) è, invece, incerto ed esposto al pericolo. Il cuore umano può essere errante o addirittura «traviato». Il caso dei «padri», che non attraversarono il deserto lo dimostra chiaramente. Essi camminarono certamente dietro Mosè, ma il loro cuore non camminava in sintonia vera con i loro passi.
Il problema dell’uomo è il suo cuore. È necessario ascoltare, ossia uscire da sé perché, dentro di sé, potrebbe esserci qualche cosa che non va, anche se i passi all’esterno appaiono corretti. Si potrebbe camminare nel deserto, obbedendo «esteriormente» al Signore, ma se non ci si apre all’ascolto non si entrerà nel luogo del suo riposo.
Le ultime parole dell’oracolo che sigilla il salmo appaiono terribili. Dio assicura con un giuramento dichiarato: «Non entreranno nel luogo del mio riposo» (v. 11). L’uomo è creato per il riposo con Dio. Si raggiunge il riposo di Dio soltanto ascoltandolo. Se non ascolto sono irrimediabilmente «nel mondo» e «del mondo».
L’«oggi», che Dio questa mat-tina mi dona, è in connessione con «il luogo del riposo», ma c’è il cuore da trasformare. Ascolterò Dio e, se pregherò ascoltando, riuscirò a vedere la realtà in maniera non soltanto materiale. Potrò allora non ricadere nelle mie preoccupazioni solite, che mi avvincono ad una realtà ripetitiva ed ossessiva. La preghiera è un caso molto serio della nostra vita soltanto se è fatta bene, ossia se è vissuta da noi come l’esodo capace di farci uscire dalle nostre prigionie. Se invece è soltanto ascolto di noi stessi (e non di Dio), essa rischia di restare una ripetizione ossessiva dei nostri problemi e, allora, credendo di pregare, noi ci faremmo, in realtà, solo del male. È perciò molto importante tenere disciplinata la nostra preghiera perché essa sia ascolto di Dio e non chiacchiera nostra. «Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credo-no di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate» (Mt
6.7-8). «Uscite ed ascoltate». Nella giornata, che abbiamo davanti, dobbiamo entrare nel luogo creato da Dio, nel tempio che è la storia creata da Lui. Cosa posso fare per entrare, questa mattina, nelle giornate mie, vivendole come dono creato da Dio? Lo posso fare se ascolto la sua voce, altrimenti vivo nel mondo che mi circonda semplicemente essendo di questo mondo. Bisogna riuscire a farci educare dalla voce del Signore per capire che la realtà non è semplicemente quello che è percepibile e visibile. La realtà è oggetto dell’amore di Dio, ed è verso tale amore di Dio, che circonda e attraversa la realtà, che io voglio muovermi nella mia città. I problemi avranno la durezza di ieri. Se per caso ne avessi risolto uno oggi, la soluzione di ieri potrà forse servire a fare spazio ad un altro problema che già viene avanti. Molto importante è che ogni giorno io abbia una chiave «divina» per rileggere i problemi. Oggi puoi avere maggiore profondità di ieri; nella tua lettura ci sono giorni felici e giorni più complicati, ma questo non dipende da te. Da te dipende invece come reagisci e se veramente hai deciso di aprirti.

Parte seconda: «MEDITATIO»
La ruminatio ci ha fatto entrare ormai con sicurezza nel mondo creato dalla parola divina contenuta nel salmo. Scegliamo alcuni punti particolarmente idonei a raccordare la parola ruminata e la nostra vita. Questa parte della lectio ci porta ad illuminare con la parola meditata alcune situazioni della nostra vita. Al tempo stesso, quanto riscontriamo nella nostra esistenza ci aiuta a comprendere in modo ancora più concreto quanto la parola divina afferma.
1) Si entra nel mondo creato da Dio solo se si ascolta la sua voce, se il mondo non appare nella sua profanità. Come faccio a vedere la sacralità del mondo? Solo se c’è in me l’ascolto, altrimenti vedo quello che vedono tutti. Ho le paure e le angosce che hanno tutti.
2) A fronte della mano di Dio si trova il cuore dell’uomo. La mano di Dio crea, possiede, pascola. Il cuore dell’uomo è incerto ed errante. Gesù non direbbe mai: «Va’ dove ti porta il cuore». Gesù direbbe piuttosto: «Cerca dentro il tuo cuore, fai discernimento di quello che c’è nel tuo cuore. Stai attento a dove ti porta il cuore, perché il cuore ha bisogno di essere purificato». In una pagina decisiva Gesù accusa quanti lavano stoviglie e mani, per essere puri, e dimenticano il cuore. «Quando entrò in una casa lontano dalla folla, i discepoli lo interrogarono sul significato di quella parabola. E disse loro: «Siete anche voi così privi di intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?».
Dichiarava così mondi tutti gli alimenti. Quindi soggiunse: «Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo» (Mc 7,17-23). Nel Vangelo secondo Luca, Gesù spiega bene che il seme della parola divina porta frutto non semplicemente nel «cuore» dell’ascoltatore, ma nel «cuore buono». «Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza (Lc 8,15). Tal-volta noi pensiamo e diciamo: Metti la Parola nel cuore e tutto funzionerà bene. Questo però, non è il pensiero di Gesù. L’idea di Gesù è che la parola porta frutto nel cuore buono e perfetto. Se non è buono, proprio il cuore avviluppa con le spine la Parola e la soffoca.
3) La parola sul riposo di Dio è quella più difficile del salmo. Non siamo creati per questo mondo, ma siamo creati per il riposo divino, ossia perché arriviamo a riposarci con Dio. Dio ha creato il mondo in sei giorni per riposarsi il settimo giorno. Il settimo giorno è stato creato anche per l’uomo. L’uomo è stato creato nel sesto giorno perché nel settimo entri nel riposo con Dio. Di conseguenza c’è il rischio di non entrare nel riposo. Per la loro disobbedienza ho giurato nel mio sdegno: «non entreranno nel luogo del mio riposo». Nel salmo, che stiamo meditando, i quarant’anni dell’esodo sono rappresentati come una specie di settimana che deve condurre nella terra promessa, che è il simbolo del riposo in tutta la vita dell’uomo in cammino verso Dio. Siamo stati creati per il riposo. Lo raggiungeremo questo riposo di Dio? In che cosa consiste il nostro impegno per raggiungere il riposo? Consiste nell’ascolto: «Ascoltate oggi la mia voce» e, allora, arriverete al riposo. Se oggi, invece, non ascoltate, non entrerete nel riposo del Signore.
4) Nella Prima lettera ai Corinzi anche S. Paolo lo ha detto bene proprio rievocando il cammino dell’esodo e le contestazioni di Massa e Meriba. «Non voglio, infatti, che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nuvola, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rap-porto a Mosè nella nuvola e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma della maggior parte di loro Dio non si compiacque e perciò furono abbattuti nel deserto. [ …] Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per ammonimento nostro, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere […] infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (cf 1Cor 10,1-12).
5) Su questa stessa linea si potrebbe riflettere sul naufragio dei discepoli di Gesù durante la sua esistenza terrena. Lo seguivano, ma non lo seguivano evidentemente come la passione ha mostrato in maniera terribile. Al Getsemani fuggirono tutti. Restarono solo il discepolo amato e la madre. È soprattutto il vangelo di Marco a sottolineare un camminare dietro Gesù, un discepolato completamente naufragato (cf soprattutto Mc 14,26-31. 50-52). Funzionerà solo perché dopo la Pasqua c’è la ripresa del cammino ripartendo dalla Galilea (cf Mc 16,7). E allora? Il nostro discepolato, la nostra consacrazione verso che cosa pellegrina? Dove va questo pellegrinaggio? Si tratta di capire che il riposo è preparato dall’ascolto. Il Nuovo Testamento non dice che ci si salva a buon mercato. La grazia è proprio «a caro prezzo». Ha bisogno di una risposta. Non ci sono automatismi. «Oggi» è il giorno della salvezza, ma «oggi» è il giorno della salvezza nell’ascolto. Nessun «oggi» è tranquillo, denso di santità, denso di grazia. Siamo in un tempo di grazia che il Signore ha creato, il Signore è il nostro pastore, ma il Signore ci dice: «Ascoltate oggi la mia voce». Forse ci dice: «Adeguate il vostro cuore alle mie mani».

Parte terza: «COLLATIO»
La collatio può comprendere un confronto nei piccoli gruppi e uno scambio in assemblea plenaria.
Punti suggeriti per il confronto nei piccoli gruppi
* Consigli per l’invitatorio
– Abbiamo, all’inizio delle nostre giornate, il senso dell’«oggi»?
– Riusciamo ad attivarlo e come?
– Ci sono esperienze?
* L’apertura all’ascolto nella mia vita
– Come avviene di fatto?
- C’è davvero?
- Che cosa incide di più?
* quello che percepisco di mio?
* quello che medito e viene da «fuori»?
* c’è il rischio del ripiegamento: le troppe parole nostre
– C’è differenza fra essere in ricerca ed essere in ascolto?
* Un passaggio necessario
– Ci sono modi per aiutare il passaggio dall’«oggi liturgico», che ripropone l’historia salutis, all’«oggi esperienziale», che s’incentra sulla persona concreta e vuole valorizzarla?
Dallo scambio in assemblea
Dopo aver ascoltato le sintesi del confronto nei piccoli gruppi, sono emerse alcune domande.
A) Quali sono i passaggi cruciali, che fanno esistere la «lectio» come veramente biblica?
Ci sono state, in questi anni, molte proposte di scansione della lectio. Forse lo schema preferi-bile è in cinque passaggi.
1) LETTURA IN SENSO STRETTO O «RUMINATIO»: è l’incontro della persona con il testo; in questo incontro il testo torna ad essere vivo e diventa uno spazio in cui l’orante può entrare e muoversi. Questo spazio è creato dal dono del testo ispirato e dall’impegno dell’orante che utilizza tutte le sue possibilità per intendere bene – anzi al meglio – il testo biblico che ha scelto di ascoltare.
2) RIFLESSIONE O «MEDITATIO»: dopo aver ben analizzato il testo, ci si chiede: che cosa della mia esperienza è illuminato dal testo? E che cosa la mia esperienza permette di capire che è importante nel testo? È un movimento circolare. In termini ancora più concreti: che cosa questo testo dice della mia vita? e che cosa la mia vita fa capire essere importante in questo testo?
3) PREGHIERA/«ORATORIO»: la preghiera fatta dentro a quello che il testo ha creato, a quello che è emerso. Questo è un punto assolutamente decisivo perché la lectio sia preghiera di ascolto, senza ricaduta dell’orante nel proprio mondo personale precedente, non ancora compiutamente illuminato da questa concreta parola del Signore, che è stata messa come forza dinamica della meditazione in corso.
4) CONTEMPLAZIONE/«CONTEMPLATIO»: non credo sia opportuno avventurarsi a una descrizione di quello che è il dono specifico di Dio all’orante. Meglio accogliere con riconoscenza.
5) MESSA IN COMUNE O «COLLATIO»: si tratta di un confronto comunitario, di una messa in comune («metto insieme» in latino si può dire confero). È uno scam-bio fraterno in cui si possono mettere insieme alcune cose. Non è obbligatorio perché spesso si può fare – e si fa – lectio da soli. Nei casi in cui la lectio sia vissuta da più persone, una messa in comune di qualche frutto è molto utile. Segue poi la vita.
B) Quale rapporto posso intravedere tra il mio «oggi» e l’«oggi» di Dio?
Come intendere l’oggi mio in rapporto con l’oggi di Dio? Certo la realtà è una sola, ma il mio cuore è diviso. La divaricazione non esiste nella realtà: nella real-tà esiste solo l’oggi di Dio. Con tutto ciò, arrivare a capire nel nostro oggi l’«oggi di Dio» non è così semplice. Se non mi metto in ascolto, l’oggi rimane l’oggi delle mie preoccupazioni, l’oggi dell’orologio. Come facciamo allora a ridurre all’unità l’«oggi», che rischio, per la debolezza del mio cuore, di percepire frammentato in due polarità? Come faccio a non appartenere irrimediabilmente al mio modestissimo «oggi dell’orologio», delle mie preoccupazioni, visto che in realtà vivo nell’oggi di Dio, di fatto spesso senza averne coscienza e senza rendermene conto? Certo io vivo alla luce del sole, ma per avere una visione teologica del sole – per esempio per percepire il sole come creatura di Dio, come frutto della roccia che ci salva – ho bisogno di pensarci. Altrimenti alla luce del sole forse mi abbronzo, ma mi abbronzo dentro l’oggi dell’orologio. È qui che ap-pare chiara l’importanza della preghiera per l’apertura della persona. Non è Dio che ha bisogno di essere pregato: siamo noi che abbiamo bisogno di pregare. Dio, di per sé, non desidera la nostra preghiera, ma la nostra comunione con Lui. Desidera amarci ed essere amato. Ed è amato solo nella misura in cui noi ci rendiamo conto che egli ci ama. È un’operazione del cuore.
Esiste, quindi, un unico «oggi» ed è quello di Dio; ma il nostro cuore pone una specie di divisione, perché esso ha un suo oggi che non è perfettamente identico a quello di Dio. La meditazione (o, se volete, il discernimento) porta ad avvicinare il mio oggi all’oggi di Dio. Certo Dio ha messo nell’oggi anche le preoccupazioni che mi attraversano, però non c’è solo quello. Il rischio è che le mie preoccupazioni diventino il tutto di Dio. C’è il pericolo che io – anche se con nobili sentimenti – mi concentri molto sui problemi e veda un oggi di Dio deformato. Certo la crescita, le crisi, le sofferenze, le gioie, i passi indietro miei e di coloro che amo sono cose che manda Dio dentro al suo oggi. Però, se non sto attento, c’è il pericolo che noi ci riduciamo a questi elementi più emozionali e non diamo uno sguardo contemplativo. Il cristianesimo o sarà contemplativo o non sarà, aveva sostenuto Rahner già mezzo secolo fa. Egli si rendeva conto molto bene della visione complicata della realtà di oggi, per cui se un cristiano non diventa contemplativo, le cose gli scivolano via, dentro questi ingranaggi terribili.
C) Cosa vuol dire che il cuore vero è solo il cuore purificato?
Ripetutamente noi dobbiamo riprendere la navigazione a livelli superiori. Si parte dal postulandato, poi si arriva ai dieci anni di consacrazione, poi ai venti, ecc. C’è un periodo formativo e c’è un periodo «ri-formativo». Sotto i colpi della realtà, talvolta pesanti e pesantissimi, noi capiamo dov’è il nostro cuore. A volte sentiamo qualcuno che dice: «Sono diventato meno buono!». Spesso mi capita di consolare: meno male che sei diventato meno buono! Pensaci bene: prima non eri così buono, come apparivi. Avevi paura di scontentare, vo-levi fare bella figura, non volevi conflitti antipatici, eri troppo te-nero … e allora «volentieri» cede-vi. Adesso che sei più adulto e meno preoccupato di piacere, ti trovi di fronte ad una sfida più grande: devi essere buono dopo avere capito che, alla fine, tu sei indipendente dal giudizio degli altri più di quanto credessi. Cuore vero allora è nel senso di cuore purificato. Non si tratta di tirar via il cuore falso e tirar fuori il cuore vero. La realtà è che il nostro cuore ha delle bontà e degli egoismi e allora, attraverso l’uso spirituale della Bibbia, va bonificato il terreno. Il nostro cuore è un terreno sassoso. Se volete avere un buon terreno, dovete con pazienza togliere i sassi e fare i muretti. E così viene fuori il cuore purificato.D) Dov’è che sperimento la novità, dov’è che mi lascio colpire senza essere nella noiosissima ripetitività?
Come ci sono nuovi accadimenti e nuove azioni nella giornata, ci deve essere anche una novità di lettura della parola, di celebrazione dell’ascolto. Ognuno di noi ha il problema fondamentale: come faccio a rinnovarmi? C’è qualche trucco per essere auto-innovativo. È un problema molto urgente e di cui siamo responsabili noi. Bisogna attivarsi. In questo senso la Scrittura può dare un aiuto grandissimo: anche una sottolineatura di mezza parola scritta, che rimane con noi nella giornata, può dare un buon sapore alla mente ed energia per ripartire, soprattutto nei momenti di stanchezza e bassa pressione. È una responsabilità personale di gestione del nostro vissuto psicologico, che poi si riverbera su tutto il resto.
E) Puntare così tanto sulla lettura spirituale della Bibbia non espone all’intellettualismo?
Leggere la Bibbia è di fatto la ricerca di un mondo di valori molto concreti, che hanno segnato potentemente vite molto solide. Nella Bibbia noi affrontiamo parole umane, che sono anche parole divine e che possono muovere il nostro cuore; parole, che possono essere foriere di novità, di idee ricomprese e di nuovi punti di vista. Senza la Scrittura, saremmo affidati alla circolarità di noi stessi, dei nostri problemi. Ecco, invece, che la Parola scritta, lungi dal portarci in un mondo teorico e astratto, spezza il nostro orizzonte chiuso. La parola umana accessibilissima, ricca della forza della parola di Dio, accende qua e là per noi delle luci. Tu senti allora con commozione che c’è vera-mente l’«oggi di Dio», che è più grande dei tuoi problemi. «Ti ascolto e ti seguo». Avete scelto un buon tema: ti seguo solo se ti ascolto, perché se non ti ascolto m’illudo di seguirti, faccio l’itinerario scelto da me e dico che è la tua sequela. È facile cadere in questa trappola. Quando si può dire veramente che seguiamo il Signore? Lo dobbiamo seguire tra i nostri fratelli, certo. Il Signore ci parla attraverso i nostri fratelli, la parola di Dio scritta e la Parola ancora più ampia che è tutta la nostra vita. La Parola di Dio scritta ci blocca su alcuni punti e ci invita ad «allargare», altrimenti avremmo molta vita, ma con il pericolo di cadere nel soggettivismo: io mi faccio la vita che voglio, però ho imparato a dire che seguo il Signore. In realtà la mia vita (anche da religioso) finisce per essere un itinerario tutto mio e solo mio.

 

1 SAMUELE 3, 3-10.19 – COMMENTO

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=1%20Samuele%203,3-10.19

1 SAMUELE 3, 3-10.19

In quei giorni, 3 Samuele era coricato nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca di Dio. 4 Allora il Signore chiamò: « Samuele! » e quegli rispose: « Eccomi », 5 poi corse da Eli e gli disse: « Mi hai chiamato, eccomi! ». Egli rispose: « Non ti ho chiamato, torna a dormire! ». Tornò e si mise a dormire.
6 Ma il Signore chiamò di nuovo: « Samuele! » e Samuele, alzatosi, corse da Eli dicendo: « Mi hai chiamato, eccomi! ». Ma quegli rispose di nuovo: « Non ti ho chiamato, figlio mio, torna a dormire! ». 7 In realtà Samuele fino allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore.
8 Il Signore tornò a chiamare: « Samuele! » per la terza volta; questi si alzò ancora e corse da Eli dicendo: « Mi hai chiamato, eccomi! ». Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovinetto. 9 Eli disse a Samuele: « Vattene a dormire e, se ti si chiamerà ancora, dirai: Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta ». Samuele andò a coricarsi al suo posto.
10 Venne il Signore, stette di nuovo accanto a lui e lo chiamò ancora come le altre volte: « Samuele, Samuele! ». Samuele rispose subito: « Parla, perché il tuo servo ti ascolta ».
19 Samuele acquistò autorità poiché il Signore era con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole.

COMMENTO
1 Samuele 3,3-10.19
La vocazione di Samuele
Il racconto della vocazione di Samuele fa parte della prima sezione del libro (cc. 1-7), nella quale egli svolge il ruolo di protagonista: essi riguardano anzitutto la sua infanzia e adolescenza (cc. 1-3) e poi la sua attività di giudice (c. 7). Fra queste due sezioni si collocano i cc. 4-6, che raccontano le vicende dell’arca dell’alleanza, caduta nelle mani dei filistei e da loro riconsegnata agli israeliti.
Nella prima parte della sezione (cc. 1-3) è conservata una serie di racconti trasmessi nell’ambito del santuario di Silo, situato circa 20 km a sud dell’odierna Naplus, che emerge alla fine del periodo dei giudici come il principale luogo di culto israelitico (cfr. Gs 18,1; 21,1-2). In esso JHWH è adorato come il «Signore degli eserciti» (cfr. 1Sam 1,3), cioè delle schiere di Israele: questo titolo si è formato in connessione con l’arca dell’alleanza, che rappresenta il trono di JHWH, Dio di Israele, che ha liberato il popolo e lo ha guidato verso la terra promessa (cfr. 4,4). La sezione raccoglie i seguenti brani: nascita di Samuele (1,1-28); cantico di Anna (2,1-10); descrizione dei soprusi commessi dai figli di Eli, Cofni e Pincas (2,12-17) e parallelamente la crescita di Samuele alla presenza di Dio (2,18-21); rimproveri di Eli ai figli (2,22-26) e annunzio del castigo (2,23-36).
Questi racconti mettono in luce una situazione di peccato, sullo sfondo della quale è narrata la vocazione di Samuele (3,1-4,1a), che rappresenta un significativo rilancio dell’azione di Dio in favore del suo popolo. Dopo l’introduzione (vv. 1-2) il brano si divide in tre parti: visione di Samuele (vv. 3-10); messaggio (vv. 11-18); conclusione (3,19 – 4,1a). La liturgia si limita a riprendere la prima parte e l’inizio della conclusione.
Il narratore introduce il racconto presentando i personaggi e la situazione che si è venuta a creare in Israele. Anzitutto introduce Samuele, diventato ormai un «giovinetto», osservando che egli continuava a servire il Signore sotto la guida del sacerdote Eli (v. 1a), come aveva cominciato a fare fin dalla sua infanzia (cfr 2,21.26). Poi il narratore soggiunge che la parola del Signore era rara (jaqar, preziosa) in quei giorni e le visioni non erano frequenti (v. 1b): l’assenza di voci profetiche è segno di sventura, in quanto significa che il popolo si è allontanato dal suo Dio. Infine viene presentato Eli, il quale è vecchio e cieco, e pertanto riposa in casa sua, mentre il giovane Samuele si trova nel tempio, presso l’arca dell’alleanza, perché la lampada di Dio non era ancora spenta (v. 2). La situazione è quindi apparentemente disperata: il sacerdote, a cui spetta la guida del popolo, è vecchio e cadente, Dio non fa sentire la sua voce, mentre l’arca dell’alleanza è affidata a un fanciullo. Unico segno di speranza sta nel fatto che la lampada di Dio continua a brillare. La situazione è catastrofica, ma non del tutto senza speranza.
In una situazione così disperata JHWH si fa sentire. Il suo intervento avviene precisamente nel tempio, dove si trova l’arca dell’alleanza e la lampada continua a splendere, e ha come destinatario proprio quel giovinetto che riposa presso di essa. Dio si rivolge a lui chiamandolo tre volte. Dopo la prima e la seconda volta Samuele, pensando che fosse Eli a chiamarlo, corre da lui e si mette volenterosamente a sua disposizione, ma Eli lo rimanda a riposare (vv. 4-6). Il lettore sa che è Dio a chiamarlo, ma Samuele ne è totalmente all’oscuro. A questo punto il narratore spiega questo fatto a prima vista paradossale: Samuele non poteva sapere chi era colui che lo interpellava perché fino ad allora non aveva «conosciuto» JHWH (v. 7). Ciò non significa certamente che il giovinetto non conoscesse le tradizioni di Israele che parlavano delle azioni potenti compiute da JHWH in favore del suo popolo. Samuele sapeva certamente tante cose di lui, ma non lo aveva ancora incontrato, non aveva avuto un’esperienza personale di Dio. La sua situazione è analoga a quella di Giobbe, il quale era un uomo integro e retto, che temeva Dio (Gb 1,1), ma dopo l’apparizione di JHWH riconosce che precedentemente lo conosceva solo per sentito dire (Gb 42,5).
Quando Samuele si precipita per la terza volta da Eli chiedendogli se lo ha chiamato, il sacerdote si rende conto che JHWH sta chiamando il giovinetto. Perciò gli dice di tornare a dormire e gli suggerisce, se dovesse sentire nuovamente la voce che lo chiama, di rispondere: «Parla, Signore, perché il tuo servo di ascolta» (v. 9). Anche se con ritardo, Eli si rende conto che la voce sentita da Samuele è la voce di Dio. Egli dunque, forse nella sua giovinezza, ha fatto un’esperienza personale di Dio: la vecchiaia e l’infedeltà al suo ruolo di guida nei confronti dei figli e, di riflesso, anche nei confronti di tutto il popolo, non gli impediscono di riconoscere l’intervento divino. Il fatto che Dio si rivolga a Samuele e non a lui non suscita apparentemente la sua gelosia: è naturale che Dio si rivolga non a lui, che porta su di sé il segno della riprovazione divina, ma a uno che, proprio perché sta già servendo Dio, sarà capace di ascoltare la sua voce.
Nei versetti successivi si racconta che Samuele fa come gli aveva suggerito Eli, e JHWH gli affida un messaggio per lui e tutta la sua casa. Dio non gli spiega dettagliatamente che cosa capiterà, ma si limita a confermargli che tutto ciò che era stato preannunziato si compirà al più presto, perché Eli ha visto ciò che i suoi figli compivano e non li ha puniti (vv. 12-14) Il riferimento è senza dubbio al brano precedente (2,27-36), in cui vengono preannunziate le sventure che colpiranno la famiglia di Eli. Il narratore ha preferito anticipare questo messaggio in modo da suggerire che Dio ha lasciato a Eli il tempo di cambiare comportamento e si è mosso solo quando è apparso chiaro che non c’era più nulla da fare. Da ciò si capisce come mai Dio affermi che l’iniquità della casa di Eli non potrà mai essere espiata, neppure con sacrifici e offerte.
Al mattino Samuele si immerge nella routine quotidiana del al tempio. Ma Eli gli chiede che cosa gli ha detto Dio nella notte. Presentendo che si tratta di cose dolorose, Eli lo incoraggia e al tempo stesso lo minaccia: se non parla, potranno capitare a lui cose peggiori di quelle che, probabilmente, riguardano soltanto Eli e la sua casa. A malincuore Samuele gli dice tutto e Eli risponde: «Egli è il Signore! Faccia ciò che gli pare bene» (v. 18). Questa risposta richiama quella di Giobbe dopo essere stato colpito dalla prova: «Il Signore ha dato, il Signore a tolto, sia benedetto il nome del Signore» (Gb 1,21). Con questa frase egli rivela, questa volta senza ambiguità, di essere un vero uomo di Dio, anche se sconvolto dal peccato.
Gli ultimi versetti appaiono nel testo attuale in modo piuttosto disordinato e per di più hanno un collegamento piuttosto blando con il racconto precedente: si ha l’impressione che essi siano stati aggiunti dal narratore come anticipo e sintesi degli sviluppi successivi. Nel primo di essi si dice che «Samuele acquistò autorità perché il Signore era con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole» (v. 19). Tutto Israele riconosce così che egli è un profeta e accoglie la sua parola come parola di Dio. In queste espressioni si coglie un’idea tipica della fede israelita: l’uomo di Dio è autorevole presso il popolo solo se e nella misura in cui è fedele al suo Dio.

Linee interpretative
Questo racconto è un modello significativo di vocazione profetica, anche se lo schema adottato è solo vagamente simile a quello delle grandi scene bibliche di vocazione (cfr Is 6). Alla chiamata di Dio si oppone, come per Geremia (cfr. Ger 1,6) l’ostacolo costituito dalla giovane età e dall’inesperienza del prescelto, il quale non capisce che è Dio a chiamarlo; ma alla fine l’ostacolo è tolto e Dio comunica a Samuele la propria parola. Nel messaggio di condanna rivolto a Eli è implicito il fatto che a Samuele passerà il ruolo che il sacerdote non ha saputo svolgere. Questo consiste essenzialmente nel ricevere e comunicare al popolo la parola di Dio, guidandolo in quel cammino di liberazione che era iniziato con Mosè.
In forza della sua chiamata Samuele appare come il vero capo carismatico del popolo. Egli svolgerà non solo il ruolo profetico, ma anche quello di sacerdote e di giudice. Nella persona di Samuele si trova quindi un esempio di leadership che abbraccia tutti gli aspetti della vita del popolo. In una cultura fondamentalmente teocratica egli rappresenta l’immagine del capo ideale, che è capace di provvedere ai bisogni non solo spirituali ma anche materiali del popolo. Questo ruolo si frantumerà molto presto con la richiesta da parte del popolo di un re. Ciò implicherà la divisione dei compiti, che però non metterà in crisi il carattere teocratico del governo di Israele; anche il re infatti sarà un rappresentante di Dio e dovrà continuamente interagire con figure profetiche che gli indicheranno la strada da percorrere per essere fedele a JHWH.

 

MEDITAZIONE SU ISAIA 55,1

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MEDITAZIONE SU ISAIA 55,1

Isaia 55,1
“O voi tutti assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro e, senza spesa, vino e latte.”

Riconoscere di avere sete.
Sentirsi inadeguati per avvicinarsi.
Non mi avvicinerei mai a un chioschetto dove vedo che vendono bibite se so di non avere nemmeno 1 euro in tasca. Non posso aspettarmi che la mia sete sia un problema del venditore di bibite.
“Chi non ha denaro venga ugualmente”: è come se il Signore prendesse in esame tutte le domande che uno si pone in cuor suo davanti a una vetrina. È come se il Signore fosse dentro al negozio e ti invitasse ad entrare: “Tu! Si proprio tu! Dico a te: tu che non hai denaro… entra comunque! Vieni! Compra senza denaro tutto quello che vuoi.”
Vino e Latte: supefluo e necessario.
Chi ha detto che nel negozio di Dio c’è solo lo stretto indispensabile? In Dio c’è ogni sorta di abbondanza. Lui ha creato ogni cosa. Lui possiede ogni cosa.
Comprare senza denaro. Il denaro ti da il potere di possedere qualcosa.
Quando compri hai la chiara percezione del “legittimo possesso”. Se non hai denaro senti che certe gioie, certe soddisfazioni ti sono precluse. Nel peggiore dei casi, anche le cose necessarie alla sopravvivenza ti sono precluse.
Vino e Latte:
Il vino è la bevanda degli Adulti e il latte è la bevanda dei bambini. Ce n’è per tutti.
Il bambino non conosce il principio alla base dell’acquisto e cioè che ci vogliono i soldi per comprare ad esempio il latte. Per un bambino, il fatto che una cosa sia davanti a lui, è sufficiente perchè ne rivendichi la proprietà.
Ma il Signore non parla solo di latte, ma parla anche di vino: se da adulto, posso accettare che il Signore renda gratuito il “latte” (perchè lo riconosco come alimento indispensabile), il fatto che faccia lo stesso con il “vino” (con una cosa che è per così dire superflua) mi confonde, e in un certo senso mi spiazza.
Come a dire: “capisco che tu mi regali il latte, ma perchè anche la coca-cola? Perchè li poni sullo stesso piano?”
Se entrassi in un negozio dove ogni cosa che voglio comprare è gratuita, diventerebbe il mio negozio preferito! :) Insomma, perchè spendere soldi quando hai trovato un posto in cui c’è tutto ed è anche gratis?
Sembra che il Signore mi dica: “Prendi TUTTO da me”. E quello che mi tenta umanamente, è proprio il fatto che ci sia scritto GRATIS.
Ma ne traggo un altro insegnamento: la scritta “GRATIS”, mi mostra che il Signore è un abile esperto di marketing! :) Conosce cos’è che attira la clientela e cos’è che crea “fidelizzazione della clientela”.
Nell’antico testamento c’è chi si è venduto la primogenitura per un piatto di lenticchie.
Dio conosce le nostre debolezze e per evitare che barattiamo la nostra “regalità” di Figli di Dio, per le cose che a questo mondo vogliono tutti, inventa un sistema per cui è sicuro di non perderci: cioè, ci da lui tutto, a patto che restiamo vicini a Lui.
Una mamma, se vede un figlio che cerca di arrivare a tutti i costi a qualcosa che vuole, che cosa dice? “Fermo! Aspetta! …ora te lo da la mamma!” Questo per la mamma è garanzia che il figlio non corra nessun pericolo, ed è garanzia di stimolare la fiducia del figlio nella “sua grazia”.
In parole povere il Signore ci riempie le tasche di caramelle per evitare che desideriamo quelle degli sconosciuti :)
Ancora una volta “i Suoi pensieri non sono i nostri pensieri”.
I supermercati normalmente, mettono sul banco degli assaggini per fidelizzare la clientela: ti permettono di provare una piccolissima parte dei loro prodotti perchè tu ti convinca di quello che ti possono offrire e finisca per acquistare sempre da loro.
Il negozio di Gesù è differente: gli assaggini sono la gratuità di tutti i prodotti e il vero prodotto che lui vuole che tu abbia, è la sua amicizia. Essere amici di Dio, non solo ti garantisce sempre cibi di prima qualità sulla tua tavola, ma l’onore di ricervere queste primizie direttamente dalle mani di Dio onnipotente, che è l’unico vero proprietario di ogni cosa, perchè l’ha creata.
“Perchè vi affannate per ciò che mangerete e per come vestirete? Il Padre vostro sa che ne avete bisogno”. Ed essendo lui il proprietario di tutto perchè mi preoccupo per come farò?
Ho ancora paura che qualcosa sfugga al suo controllo, ma nulla può sfuggire al controllo di chi ha creato tutto, perchè nulla ci sarebbe se non l’avesse creata Lui.
Prendiamo ad esempio un acquario: immaginiamo che io sia un pesce che Dio ha desiderato tanto; mi ha presa, mi ha messa nell’acquario. Io nuoto dentro l’acquario. Ci sono piante, sassi, oggetti vari… e altri pesci. Tutte cose che sono lì non indipendentemente da Dio, ma sempre e solo perchè Dio le ha prese e ce le ha messe dentro.
Ad un certo punto, incontro un pirana: la mia reazione immediata è quella di scappare, temendo che Dio non sappia quanto male può farmi un pirana essendo io solo un pesce rosso. Ma come posso credere che Dio non sappia che in quell’acquario c’è un pirana? Non ce l’ha forse messo lui?
E mi domando: credo con tutta me stessa che la mia storia è sotto il “controllo” di Dio?
Divido gli eventi della mia vita, passati, presenti e soprattutto futuri: in quanti degli eventi della mia vita, percepisco la Signoria di Cristo? E in quanta della mia vita sono terrorizzata dal credere che sia sotto il dominio della casualità?
“Tutto è stato posto sotto i suoi piedi!”
Se è così, ed è così, ecco allora cosa devo fare: devo organizzare tutta la mia vita di modo che ogni cosa sia posta sotto la Signoria di Cristo.
Ed ecco subito affacciarsi le prime paure: i miei progetti di evangelizzazione! Come farò a realizzare i miei progetti di Evangelizzazione?
Lo faccio per te, è vero, ma credo di essere sola in questo. Se solo riuscissi a ricordare che il progetto di evangelizzazione è prima di tutto il tuo, crederei senza esitare che TU, unico vero proprietario di ogni cosa, puoi provvedermi tutto ciò di cui ho bisogno.
Ecco che ho sete, ho sete di fare qualcosa per te… ma non ho denaro. Tu mi darai l’acqua.
Ecco che ho fame, ho fame di servirti… e tu mi provvedi sia il vino, sia il latte.
Ecco allora come questa Tua Parola, parla oggi al mio cuore:
“O voi tutti che avete una qualunque necessità venite a prendere quello che vi serve, chi non ha denaro venga ugualmente.”
“Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”
Perdona la mia poca fede Signore e permettimi ancora di sedere davanti alla tua Signoria, per contemplarti, adorarti e così permetterti di prendere il posto che ti spetta come Signore della mia vita.

Amen,
Erika.

UN PROFETA CHE CONSOLA (ISAIA 40-55)

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UN PROFETA CHE CONSOLA (ISAIA 40-55)

Come descrivere un uomo che è rimasto completamente anonimo? I capitoli da 40 a 55 del libro d’Isaia costituiscono una piccola raccolta di testi profetici che formano una netta unità letteraria, ma il cui autore si è cancellato dietro il suo messaggio. Non si sa né il suo nome né il posto da dove parla. Si sa solamente che il suo messaggio si situa attorno al 538 prima di Cristo, l’anno in cui Ciro, re dei Persiani, ha permesso agli Ebrei esiliati a Babilonia di ritornare al loro paese. Il nome di «Secondo Isaia» gli è stato dato perché il suo pensiero s’ispira a una tradizione che risale al grande profeta Isaia (VIII secolo).
Questo Secondo Isaia doveva annunciare un avvenimento assolutamente inconcepibile: un piccolissimo popolo, un «resto» che non contava forse più di 15.000 persone, avrebbe attraversato il deserto, avrebbe vissuto un nuovo Esodo (43,16-21) per giungere a Gerusalemme. Non stupisce il fatto che gli ascoltatori siano rimasti increduli. Un popolo deportato era spesso condannato a scomparire, e i settant’anni d’esilio hanno dovuto creare un profondo scoraggiamento: si supponeva che l’alleanza che Dio aveva voluta con in suoi fosse stata annullata e che Dio ne aveva abbastanza di loro.
Con quali argomenti vincere questo scoraggiamento? Se Dio è eterno, la sua sapienza deve anch’essa avere delle risorse di cui abbiamo nessuna idea, e la sua forza deve essere propriamente inesauribile (40,27-31). E il profeta è ricorso a delle immagini ancora più forti: una madre può dimenticare suo figlio (49,14-15), un uomo può respingere la donna che è stato il grande amore della sua giovinezza (54,6-7)?
Le prime parole di questa piccola raccolta sono ripetute con insistenza: «Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio» (40,1). Dopo il tempo di una estrema desolazione, il popolo deve essere «consolato», cioè sarà messo nella condizione di cessare le sue lamentazioni, di rimettersi in piedi e ritrovare coraggio. Questo popolo ha un bel credersi alla fine, la consolazione deve mostrare che dal cuore di Dio scorre un avvenire.
L’immagine che i credenti si erano fatta di Dio si è purificata attraverso l’estrema prova dell’esilio, come ci si può rendere conto anche leggendo il libro di Giobbe. Quando il Secondo Isaia parla di Dio, non vi si trovano più gli accenti d’ira, né minacce, né affermazioni autoritarie. Dio ama, e ama senz’altra ragione che il suo amore (43,4; 43,25). Si direbbe che ormai non può che amare (54,7-10). Se ristabilisce il suo popolo sulla sua terra e nella sua città, questo ristabilimento avrà un’eco in tutte le nazioni (45,22; 52,10), poiché è il Dio universale (51,4). Nella scelta completamente gratuita di un popolo unico, nel perdono quasi ancora più gratuito del ritorno dall’esilio, la sua alleanza con questo popolo è stata come trascesa. Il re dei Persiani può allora ricevere il titolo di «Unto», messia (45,1), e il vero ministero di mediazione tra Dio e gli esseri umani sarà affidato ad un umile Servo.
Questo Servo rifletterà i tratti del suo Dio. Non solo non s’imporrà (42,1-5), ma sarà personalmente vulnerabile allo scoraggiamento dei suoi (49,4-6). A coloro che ridono di lui risponderà con nessuna parola dura (50,5-6). Egli stesso, restando all’ascolto di Dio come il più umile dei credenti (50,4), arriverà a prendere su di sé tutta l’incredulità che lo circonda (53,12), sull’esempio di quel Dio che ha «portato» il popolo attraverso tutta la storia (46,3-4).

OMELIA: 1° DOMENICA DI AVVENTO – “TU SEI NOSTRO PADRE!”

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OMELIA: 1° DOMENICA DI AVVENTO – “TU SEI NOSTRO PADRE!”

«Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani». Questa affermazione del profeta Isaia tratteggia bene la situazione del cristiano che, ogni anno, si ritrova a vivere un nuovo anno liturgico…

Letture:
Isaia 63, 16 – 64, 7
1 Corinzi 1, 3-9
Marco 13, 33-37

«Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani» (Is 64,7).
Questa affermazione del profeta Isaia, che ascolteremo nella prima lettura, tratteggia bene la situazione del cristiano che, ogni anno, si ritrova a vivere un nuovo anno liturgico, ritmato dalla vita e dal vangelo di Gesù: vita e vangelo che devono modellare l’esistenza stessa del cristiano.
Siamo chiamati a diventare noi «vangelo», attraverso l’accoglienza e l’adesione a questo mistero. Accoglienza e adesione che cominciano da una certezza: «Signore, tu sei nostro padre». Certezza di essere, dunque, figli amati, creati, modellati e plasmati da lui: «noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani».
Che meraviglia, che stupore sapere di essere in queste mani! Che gioia e che forza ci dovrebbe comunicare questa affermazione!
Iniziando così l’Avvento, credo che sia più facile fare nostro il grido di questo tempo liturgico: «Maranatha, Vieni Signore Gesù»; un grido che è certezza di una presenza, speranza di una pienezza di vita con lui. Maranatha! Maranatha!Il cristiano sa che il Signore è presente e non abbandona nessuno.
Il profeta Isaia, nella sua riflessione, parla con Dio e più volte gli racconta come vanno le cose: male. “Il nostro cammino è un vagare lontano dalle tue vie, dice Isaia parlando a nome di tutto il popolo; abbiamo peccato contro di te e siamo stati ribelli; le nostre azioni sono come panno immondo, siamo avvizziti come foglie secche, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento; abbiamo sbagliato e tu ci hai lasciato in balia delle nostre iniquità”.
Di fronte a questa realtà, Isaia ricorda il passato: non è sempre stato così, ci fu un tempo in cui il Signore compiva per il popolo cose terribili, apriva la strada davanti ai nemici…
Isaia, ricordando il passato, invoca il Signore e gli dice: torna da noi. È curioso l’argomento che il profeta usa per convincere il Signore; non dice, per esempio: abbiamo capito il nostro errore e non lo rifaremo più; oppure: adesso ci impegniamo, siamo migliorati. Non fa leva sulla propria determinazione a cambiare, ma sui sentimenti di Dio: «Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani».
La salvezza è proprio questa: la fedeltà di Dio! Dunque proprio questo brano ci aiuta a capire l’invito di Gesù del vangelo a vegliare, a non spegnere in noi l’attesa; Isaia ci ricorda che Colui che attendiamo non è uno sconosciuto: già l’abbiamo incontrato, già si è preso cura di noi, già ci ha manifestato il suo amore e la sua clemenza. Egli è fedele e non dimentica. Occorre qualificare l’attesa con la memoria, il ricordo di un Dio per noi e con noi sempre!
Un’attesa fatta di amore, di desiderio. Quanto desiderio c’è nel grido di Isaia: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!». Quanto desiderio e speranza nel salmo di questa domenica: «Signore, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi». Chi ama il Signore lo desidera; chi lo desidera lo attende; chi lo attende veglia, non si lascia andare.
Come vegliare? Cosa fare? Sono domande giuste, ma prima di tutto c’è un “chi” attendere. Se il nostro desiderio non è tutto per il Signore Gesù Cristo, personalmente amato, il fare ha poco significato.
Cari amici, in questa prima domenica di Avvento, la Parola ascoltata è una grande invocazione di speranza.
«Se tu squarciassi i cieli e scendessi!». Non è un pio desiderio ma è l’invocazione di un dono che è già stato fatto. Gesù Cristo ha già squarciato i cieli ed è disceso perché nessuna situazione di disagio, di incertezza o di peccato fosse senza uscita. Egli ha vinto la morte. È questo il vero e ultimo desiderio di ogni uomo, la vocazione del cristiano: la risurrezione dei morti, l’ultima speranza dell’uomo.
L’Avvento, nella celebrazione dell’unico Mistero di salvezza ci fa riappropriare di quel culmine e di quella sorgente che è capace in sé di nutrire la fede, la speranza e la carità dei credenti e di rivelarli al mondo. È l’eucaristia che celebriamo e dalla quale anche la nostra fede, ora in questo momento viene nutrita.
Vieni Signore Gesù! Maranatha! «Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani». Vieni Signore Gesù! Maranatha!

LA DONNA NELL’ANTICO TESTAMENTO

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LA DONNA NELL’ANTICO TESTAMENTO

di Pamela Salvatori

La Sacra Scrittura delinea i tratti della donna perfetta, moglie e madre virtuosa, donna zelante, attenta, fedele, premurosa, sensibile, generosa e sempre pronta a provvedere alla sua famiglia. La donna descritta nel libro dei Proverbi al capitolo 31 è timorata di Dio, saggia, attenta, lodata dai figli e alle porte della città per la sua modestia e intelligenza. Il Libro del Siracide al capitolo 26 definisce la donna virtuosa una “buona sorte” per il marito, pudica, modesta e silenziosa. Da ciò si deduce il ruolo fondamentale della donna nella società e nel mondo, colonna portante della famiglia e gioia della sua casa. Si comprende che colei che ama e teme il Signore con tutto il cuore, la mente e con tutte le forze, sviluppa appieno le sue potenzialità di donna e di madre. Creata da Dio per affiancare e sostenere l’uomo, essa è molto diversa da lui per sensibilità d’animo e dolcezza, possiede doti per natura che, se valorizzate adeguatamente, le permettono di brillare come luce nel mondo e di fare molto del bene per l’umanità. Ma solo affidandosi a Dio, la donna può comprendere la grandezza dell’essere donna, la bellezza che il suo volto e la sua persona sono chiamati ad esprimere come riflesso del volto materno di Dio.
Non bisogna pensare che una donna senza figli non sia in grado di essere madre. In realtà la maternità è qualcosa di insito nella donna, presente in lei sempre e comunque, indipendentemente dalla prole. La donna è madre anche quando non ha figli. Non è un caso che grandi donne senza figli, siano state più materne di molte madri naturali per l’umanità intera. Perché hanno lasciato che il Signore operasse in loro grandi cose, quei prodigi di grazia per cui erano state create, per accendere un fuoco d’amore lì dove amore non c’era. La donna possiede in sé quei tratti tipicamente materni e femminili che non vanno sottovalutati e repressi per nessuna ragione, perché sono proprio quei tratti che la rendono unica. La diversità della donna rispetto all’uomo non va limitata all’aspetto fisico, come spesso oggi accade. La donna differisce dall’uomo soprattutto nell’intimo della persona, nella sfera interiore e razionale. Se l’uomo spicca per forza e razionalità, la donna si distingue per sensibilità, intuito e tenerezza. Così l’uno ha bisogno dell’altra, per completarsi a vicenda, voluti proprio da Dio complementari e vicendevolmente necessari. Dunque la donna arricchisce l’uomo e lo completa quanto più essa si impegna ad essere donna e lo stesso si può dire per l’uomo. Nella donna « perfetta » l’uomo troverà la sua gioia. Perché avrà in lei un sostegno e un aiuto validi e stabili, così come Dio ha pensato dall’eternità, scoprirà di avere al fianco un punto fermo, sicurezza, calore, condivisione, fedeltà e attenzione, e potrà con lei stabilire un solido rapporto di amore, complicità e comprensione profonda, che lo porterà felicemente a realizzarsi e a compiere la sua missione nel mondo secondo il Cuore di Dio. Si tratta di un mistero grande e sorprendente, affascinante e da meditare per comprendere quale sia il valore di ogni persona agli occhi di Dio. La donna che valorizza esclusivamente il suo corpo trascurando la sua interiorità, per quanto possa risultare piacevole alla vista e desiderabile alla concupiscenza umana, svaluta se stessa e perde sia di bellezza che di autenticità: “Fallace è la grazia e vana è la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare” (Pr 31,30). La donna che entra in competizione con l’uomo, che non provvede alla crescita spirituale della sua famiglia e non fa della sua casa una « chiesa domestica », non riconosce la bellezza del suo ruolo nel mondo e nella società e danneggia gravemente non solo la sua stessa vita, ma anche le sorti dell’uomo, che manca di una fondamentale « colonna di appoggio » (Sir 36,24) e di conseguenza, come dice la Scrittura « dove non c’è moglie l’uomo geme randagio » (Sir 36,25). La donna è una ricchezza inesauribile, se apprezzata e valorizzata alla luce della grazia da se stessa prima che da chi le sta intorno. Essa è chiamata a cooperare con Dio e a lasciarsi plasmare da Lui per far risplendere la Sua bellezza nei tratti del suo essere, ma per riuscire in questo deve essere in profonda amicizia con Dio e ascoltare la Sua voce, per imparare a conoscere il suo cuore, dove Dio le parla e la guida per realizzarsi pienamente nella sua missione di donna nel mondo.
Per comprendere meglio cosa significhi essere donna bisogna volgere lo sguardo alla DONNA per eccellenza, Maria. In Maria ogni donna, in ogni fase della sua esistenza, può trovare un punto di riferimento e un modello sicuro e altissimo a cui attenersi. Maria è pienamente donna e pienamente Madre, al punto da essere stata innalzata a Madre di Dio. Dio guardando a Maria ha trovato in lei il Suo “paradiso”, dice il santo di Montfort, il Suo tempio perfetto, il luogo del Suo riposo. La donna perfetta che poteva riscattare l’immagine decaduta della prima donna, permettendo al Signore di incarnarsi nel suo seno immacolato. In Maria tutte le peculiarità della donna sono state portate al grado più alto di perfezione, tutte valorizzate al massimo. Guardando a Lei, alla sua vita, leggendo le sue parole riportate nel Vangelo, scopriamo una donna straordinaria, nascosta agli occhi degli uomini, umile, riservata, pudica, attenta, silenziosa, premurosa, tenera, comprensiva, tanto grande nel suo universo interiore, santa di una santità straordinaria, dal cuore palpitante d’amore sincero e puro per Dio e per tutti gli uomini. La descrizione che i libri dell’Antico Testamento fanno della donna virtuosa, la troviamo incarnata nella Madre di Dio, così che ammirando Lei, ogni donna vede quello che anche lei è chiamata a diventare con l’aiuto della grazia e in unione al Signore. In Maria ogni donna può vedersi realizzata pienamente in tutta la sua bellezza e in un modo così reale e concreto da poterla prendere come sicuro riferimento di tutta la sua vita, per imparare da lei cosa fare e come fare per diventare una donna perfetta.

Proverbi 31
10 Una donna perfetta chi potrà trovarla?
Ben superiore alle perle è il suo valore.
11 In lei confida il cuore del marito
e non verrà a mancargli il profitto.
12 Essa gli dà felicità e non dispiacere
per tutti i giorni della sua vita.
13 Si procura lana e lino
e li lavora volentieri con le mani.
14 Ella è simile alle navi di un mercante,
fa venire da lontano le provviste.
15 Si alza quando ancora è notte
e prepara il cibo alla sua famiglia
e dà ordini alle sue domestiche.
16 Pensa ad un campo e lo compra
e con il frutto delle sue mani pianta una vigna.
17 Si cinge con energia i fianchi
e spiega la forza delle sue braccia.
18 È soddisfatta, perché il suo traffico va bene, neppure di notte si spegne la sua lucerna.
19 Stende la sua mano alla conocchia
e mena il fuso con le dita.
20 Apre le sue mani al misero,
stende la mano al povero.
21 Non teme la neve per la sua famiglia,
perché tutti i suoi di casa hanno doppia veste.
22 Si fa delle coperte,
di lino e di porpora sono le sue vesti.
23 Suo marito è stimato alle porte della città
dove siede con gli anziani del paese.
24 Confeziona tele di lino e le vende
e fornisce cinture al mercante.
25 Forza e decoro sono il suo vestito
e se la ride dell’avvenire.
26 Apre la bocca con saggezza
e sulla sua lingua c’è dottrina di bontà.
27 Sorveglia l’andamento della casa;
il pane che mangia non è frutto di pigrizia.
28 I suoi figli sorgono a proclamarla beata
e suo marito a farne l’elogio:
29 « Molte figlie hanno compiuto cose eccellenti,
ma tu le hai superate tutte! ».
30 Fallace è la grazia e vana è la bellezza,
ma la donna che teme Dio è da lodare.
31 Datele del frutto delle sue mani
e le sue stesse opere la lodino alle porte della città.

Siracide 26
1 Beato il marito di una donna virtuosa;
il numero dei suoi giorni sarà doppio.
2 Una brava moglie è la gioia del marito,
questi trascorrerà gli anni in pace.
3 Una donna virtuosa è una buona sorte,
viene assegnata a chi teme il Signore.
4 Ricco o povero il cuore di lui ne gioisce,
in ogni tempo il suo volto appare sereno.

13 La grazia di una donna allieta il marito,
la sua scienza gli rinvigorisce le ossa.
14 È un dono del Signore una donna silenziosa,
non c’è compenso per una donna educata.
15 Grazia su grazia è una donna pudica,
non si può valutare il peso di un’anima modesta.
16 Il sole risplende sulle montagne del Signore,
la bellezza di una donna virtuosa adorna la sua casa.
17 Lampada che arde sul candelabro santo,
così la bellezza del volto su giusta statura.
18 Colonne d’oro su base d’argento,
tali sono gambe graziose su solidi piedi.

Siracide 36
22 La bellezza di una donna allieta il volto;
e sorpassa ogni desiderio dell’uomo;
23 se vi è poi sulla sua lingua bontà e dolcezza,
suo marito non è più uno dei comuni mortali.
24 Chi si procura una sposa, possiede il primo dei beni,
un aiuto adatto a lui e una colonna d’appoggio.
25 Dove non esiste siepe, la proprietà è saccheggiata,
dove non c’è moglie, l’uomo geme randagio.
26 Chi si fida di un ladro armato
che corre di città in città?
27 Così dell’uomo che non ha un nido
e che si corica là dove lo coglie la notte.

Publié dans:BIBBIA, Bibbia - Antico Testamento |on 14 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

OMELIA ISAIA 5, 1-7 IL CANTO DELL’AMORE DELUSO

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13697.html

OMELIA ISAIA 5, 1-7

DON MARCO PRATESI

IL CANTO DELL’AMORE DELUSO

Nel famoso « canto d’amore » di Isaia ci sono due insistenze. La prima è sulla concretezza. La parola « fare » ricorre sette volte: « aspettava che facesse uva, e fece agresto » (v. 2); « che cosa dovevo fare ancora che io non abbia fatto? Perché, mentre mi aspettavo che facesse uva, essa ha fatto agresto? » (v. 4). « Ora voglio rendervi noto ciò che sto per fare alla mia vigna » (v. 5). Qui c’è un fare di Dio – la sua cura per la vigna -, al quale non corrisponde il fare da parte della vigna, ossia il suo frutto. A questo mancato rendimento segue un nuovo fare di Dio, che questa volta è punizione.
La seconda insistenza è sull’aspettativa, la speranza che il vignaiolo nutriva nei confronti della vigna, andata delusa (vv. 2 e 4), che è esplicitata nel v. 7: « aspettava diritto ed ecco oppressione; giustizia, ed ecco grida ».
Si tratta dunque di un canto d’amore, ma di un amore molto concreto, che non chiede tanto lo slancio del sentimento quanto la concretezza della risposta. In origine il canto non doveva essere necessariamente legato a quanto gli segue nell’attuale testo del libro di Isaia. Se ci limitiamo ad esso, i frutti che il Signore si aspetta sono « diritto e giustizia », coppia classica nei profeti (cf. per esempio Is 9,6; 28,17; 32,16; 33,5; 54,17; 56,1; 58,2; 59,9). Se poi leggiamo anche il seguito, ci troviamo una serie di sei « guai! » che precisa ulteriormente quei cattivi frutti che la vigna ha prodotto: arricchimento sfrenato (8-10); vita gaudente (11-17); cinismo e scetticismo (18-19); pervertimento del giudizio morale (20); idolatria della propria intelligenza (21); corruzione del potere (22-23). Il quadro è impressionante, anche per la sua prossimità alla situazione attuale.
Il brano ci mette di fronte all’amore di Dio in un modo scomodo. Si dice, giustamente, che l’amore di Dio è gratuito; ma si deve anche dire che esso richiede il contraccambio. Certo, non si tratta di un do ut des; ma l’amore chiede risposta, vuole reciprocità. C’è nell’amore una insopprimibile dimensione di « speranza »: chi ama aspetta qualcosa dall’altro, spera qualcosa. Occorre un discernimento sapiente per saggiare la qualità di queste attese, ma chi ama sogna sempre che l’amore produca qualcosa, che porti un frutto.
Isaia ci ricorda che la perfezione dell’amore è l’opera, il comportamento concreto. Non che l’aspetto soggettivo sia irrilevante, poiché anzi in esso sta la radice; ma quanto sta dentro è reale solo se si fa anche esteriore, il sentimento è vero solo se si fa azione. Esiste anche l’alienazione sentimentalistica dell’amore. L’amore autentico connaturalizza al bene amato, cioè trasforma nel bene che attrae. A partire dall’attrazione, si mette in moto un processo di adattamento, che tende appunto a infondere in colui che ama alcune caratteristiche di quanto ama, creando una consonanza sempre maggiore. Se tale processo non si attiva, si può seriamente dubitare della qualità di un tale amore. È una risposta che non può soddisfare questo vignaiolo innamorato, che tutto fa – anche reagire in malo modo – pur di raccogliere dalle viti della nostra vita grappoli maturi e dolci.

LA GIUSTIZIA CHE SALVA (EZ 18,25-28)

http://anemaecore.myblog.it/2011/09/27/la-giustizia-che-salva-ez-18-25-28/

LA GIUSTIZIA CHE SALVA (EZ 18,25-28)

Posted on 27 settembre 2011

25 Voi dite: Non è retto il modo di agire del Signore.
Ascolta dunque, popolo d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? 26 Se il giusto si allontana dalla giustizia per commettere l’iniquità e a causa di questa muore, egli muore appunto per l’iniquità che ha commessa. 27 E se l’ingiusto desiste dall’ingiustizia che ha commessa e agisce con giustizia e rettitudine, egli fa vivere se stesso. 28 Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà.

Riflessione

Pace a voi tutti fratelli e sorelle nel Signore Gesù. Vorrei porre sotto la vostra attenzione un passo del libro del profeta Ezechiele, che tra l’altro animò la liturgia di domenica scorsa 25/09/2011. Ezechiele esercitò il suo ministero all’in circa verso 597 fino al 573 a. C. In un primo tempo operò a Gerusalemme nel tempio fino a che nel 587 fu esiliato a Babilonia, dove completò la sua opera profetica. In questo periodo così difficile e triste per Israele Ezechiele in modo energico e senza indugio confortò il suo popolo ricordandogli che Jahvè non l’avrebbe abbandonato nelle mani degli opressori mi li avrebbe liberati e ricondotti nella loro terra santa. Tuttavia negli oracoli di questo grande profeta non mancano le denuncie e le proteste verso l’infedeltà e la mancanza di fede da parte del popolo eletto. Nel passo in questione vengono fuori non pochi aspetti da illuminare tutt’ora anche la nostra vita, infatti se ci fate caso al verso 25 c’è una provocazione da parte di Dio verso i suoi servi, Dio si immedesima, si cala nel modo in cui l’uomo ragiona tra sè, in questo caso si vede che da parte del polo alcuni erano sfiduciati e pensavano che la condotta di Dio non fosse corretta poichè restava apparentemente inerme al loro sconforto e dolore, ma proprio in quel momento (Questa e’ una peculiarita’ della Rivelazione nell’AT) Dio proprio come un Padre con il proprio figlio interviene e li rimprovera poichè è un Padre giusto, ma al contempo li conforta e li assicura la sua Benedizone. Infatti al verso 26 Dio dice chiaramente che chi commette iniquità sarà punito e dovrà passare inevitabilmente per la sua Giustizia che al confronto della giustizia umana che distrugge, essa edifica e salva! Ma come emerge dai versetti 27 e 28 è necessario il pentimento, il ravvedimento, “uno spirito e un cuore contrito”, affinchè Dio possa operare e così salvare le loro vite. Bene miei cari quante volte anche noi in determinati momenti della nostra vita pensiamo che Dio sia ingiusto e indifferente alla nostra sofferenza? Beh soggettivamenhte parlando a me è capitato spesso e spesso altrettanto mi sono ricreduto. Perchè ritengo che spesso siamo noi a sbagliare a dimenticarci di Lui e del suo Eterno Amore per noi tutti! In ultimo vi esorto a gettare su di Lui tutte le vostre sofferenze e incomprensioni, poichè statene certi che Dio non tarderà a rispondervi.

Preghiera
Signore Iddio Padre santo, ti prego affinchè tu possa modellare sempre più il mio cuore e quello di tutti i fratelli e sorelle che mi hai donato, affinchè guidati dal tuo Spirito e dalla tua Parola possiamo sempre più evitare il male e compiere il bene. Te lo chiedo nel Nome del tuo Figliolo Gesù Cristo Signore della Vita e della Morte. Amen

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