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SALMO 103 (102) – IL MAGNIFICAT DI UN PECCATORE PERDONATO

http://www.padresalvatore.altervista.org/Salmo103.htm

SALMO 103 (102) – IL MAGNIFICAT DI UN PECCATORE PERDONATO

Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tanti suoi benefici.

Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue malattie;
salva dalla fossa la tua vita,
ti corona di grazia e di misericordia;
egli sazia di beni i tuoi giorni
e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza.

Il Signore agisce con giustizia
e con diritto verso tutti gli oppressi.
Ha rivelato a Mosè le sue vie,
ai figli d’Israele le sue opere.

Buono e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Egli non continua a contestare
e non conserva per sempre il suo sdegno.
Non ci tratta secondo i nostri peccati,
non ci ripaga secondo le nostre colpe.

Come il cielo è alto sulla terra,
così è grande la sua misericordia su quanti lo temono;
come dista l’oriente dall’occidente,
così allontana da noi le nostre colpe.
Come un padre ha pietà dei suoi figli,
così il Signore ha pietà di quanti lo temono.

Perché egli sa di che siamo plasmati,
ricorda che noi siamo polvere.
Come l’erba sono i giorni dell’uomo,
come il fiore del campo, così egli fiorisce.
Lo investe il vento e più non esiste
e il suo posto non lo riconosce.

Ma la grazia del Signore è da sempre,
dura in eterno per quanti lo temono;
la sua giustizia per i figli dei figli,
per quanti custodiscono la sua alleanza
e ricordano di osservare i suoi precetti.
Il Signore ha stabilito nel cielo il suo trono
e il suo regno abbraccia l’universo.

Benedite il Signore, voi tutti suoi angeli,
potenti esecutori dei suoi comandi,
pronti alla voce della sua parola.
Benedite il Signore, voi tutte, sue schiere,
suoi ministri, che fate il suo volere.
Benedite il Signore, voi tutte opere sue,
in ogni luogo del suo dominio.
Benedici il Signore, anima mia.

Il Sal 103 (102) è un inno di benedizione di un peccatore che ha fatto l’esperienza del perdono.
Nella liturgia ebraica, il Sal 103 è utilizzato per la festa del Kippur, il giorno, appunto dell’espiazione e del perdono.
Nella liturgia monastica lo cantiamo ai vespri del mercoledì, impostati, anch’essi, sulla tematica del perdono.
La benedizione del peccatore che ha fatto esperienza della misericordia di Dio, abbraccia, a mo’ d’inclusione, tutto il Salmo:
parte dall’intimo del singolo fedele, che si sente gratuitamente perdonato (vv. 1-2),
fino a coinvolgere Angeli e creature, in una lode veramente cosmica (vv. 20-22).

Ed ecco la “sintesi dei benefici per i quali Dio va ringraziato:
perdona i nostri peccati per mezzo della propiziazione che è il Cristo (v. 3);
ti libera dalla morte dando per la tua morte il sangue del Figlio suo (v. 4a);
ti corona della grazia d’adozione (v. 4b).
ti dona la speranza della risurrezione col pegno dello Spirito (v. 5b).
Tutto questo sono i doni dello Sposo (Cristo) alla Sposa (Chiesa), e questa non porta che la propria fede” (EUSEBIO).
Dio non si limita a togliere il peccato al suo fedele, ma si fa Go ‘el di colui che ha salvato.
Il Go ‘el, nella Bibbia, è colui che ha il dovere e il diritto di riscatto, verso un Israelita caduto in disgrazia. Questo diritto dovere spetta prioritariamente al parente più prossimo; di conseguenza, Dio, in questo suo intervenire a favore del peccatore, è “come un padre” (v. 13), in tutti i sensi. Perciò non c’è malattia (v. 3), non c’è disfacimento d’età (v. 5b), che non siano sanate da questo Padre pietoso. Tutto ciò non è in contraddizione con la sua giustizia, anzi! “Proprio perché Egli è giusto, è anche compassionevole…conosce, infatti, la nostra debolezza…”, scriveva santa Teresa di Gesù Bambino nella Lettera 226, rifacendosi proprio al versetto 14 di questo salmo.
Dio sa sempre scusarci e perdonarci, come farà Gesù, suo Figlio, dalla Croce nei confronti dei suoi uccisori (Lc 23,34).
L’attualizzazione della misericordia paterna di Dio, di cui parla il Sal 103, la troviamo espressa in modo irraggiungibile nella parabola del Padre misericordioso, conosciuta come del figlio prodigo (Lc 15,11-32).
Nel v. 8, l’espressione: “Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore”, rivela la più alta esperienza di Dio. Il perdonato percepisce il Signore nella identità più intima, quella che Dio stesso rivelò a Mosè, sul Sinai, dopo il peccato del vitello d’oro (Es 34,6). Allora, come adesso, possiamo dire, con il preconio pasquale: “Felice colpa, che ci hai fatto incontrare un tale Redentore!”. Dio perdonando si manifesta quale Egli è: Amore viscerale, fedele, materno.
Così la storia di un individuo che riceve il perdono, si inserisce nella Storia della salvezza, che ha riguardato, Mosè ed Israele (v.7), Cristo e tutte le Nazioni.
Pregando questo Salmo, possiamo percepire tutta la verità delle affermazioni di santa CATERINA da SIENA: “L’affronto più crudele che si possa fare a Dio, è quello di pensare che il delitto della creatura sia più grande della bontà del Creatore”.
È stato questo, in definitiva, il vero peccato di Giuda: credere che il suo tradimento non potesse essere perdonato dal Maestro, che moriva anche per lui.
Mi piace citare un’attualizzazione di EUSEBIO, che prende sul serio l’equiparazione della vita monastica alla vita angelica. Commentando il v. 20a: “Benedite il Signore, voi tutti suoi angeli”, egli scrive:
“All’inizio lo Spirito divino invitava l’anima umana a benedire Dio. Ora, dopo aver parlato delle dimore celesti destinate ai fedeli, passa con molta naturalezza agli spiriti celesti, perché questi fanno festa per ogni peccatore che si pente (Lc 15,7.10). O anima mia, sei ben poca cosa tu per benedire il Signore, mentre questi spiriti potenti… E quelli che conducono sulla terra la vita degli angeli (cioè i monaci) han più possibilità ancora che altri di lodare Dio. Quando ci si pensa, si sarebbe tentati di dire: Lasciamo ai migliori questa cura! Cediamo il posto a persone più degne! No, ciascuno al proprio posto loda Dio nella creazione: quelli che sono fatti a immagine di Dio come te, ed anche gli esseri inanimati lo celebrano con la loro bellezza. Questo concerto incita anche me a celebrare il Creatore”.

LA SAPIENZA UMANA NEI DETTI DI GESÙ – RINALDO FABRIS

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=113

LA SAPIENZA UMANA NEI DETTI DI GESÙ

SINTESI DELLA RELAZIONE DI RINALDO FABRIS

VERBANIA PALLANZA, 7 DICEMBRE 1996

La modalità più comune di sapere sapienziale è la piccola sentenza ritmica, nella forma del proverbio, espressione non tanto dell’erudizione quanto dell’amore intelligente.
Gesù si colloca all’interno della tradizione popolare della sapienza. Appare estraneo alla sapienza colta, coltivata a corte o presso il tempio.
L’immagine di un Gesù profeta apocalittico arrabbiato non corrisponde a quanto i vangeli ci trasmettono. Più veritiera è quella di saggio, sapiente, maestro.

Gesù « maestro »
Marco ci presenta Gesù, dopo l’annuncio programmatico del Regno, come un maestro che insegna con autorità (Mc 1,21-22), un’autorità che non gli deriva da titoli di scuola conseguiti. Gesù è un autodidatta, un sapiente carismatico.
Gesù è un terapeuta itinerante, ex falegname, che suscita lo stupore, la meraviglia e anche la reazione stizzita dei suoi compaesani (Mc 6,2-3).
Gesù, al pari di ogni altro essere umano (una malintesa fede nella divinità di Gesù ha messo in ombra questo aspetto) compie tutto il percorso di formazione umana. Il suo sapere è legato alla sua esperienza.
La cultura di Gesù è una cultura popolare, di carattere pratico e induttivo, propria di un artigiano che lavora con le mani. Gesù mostra una grande capacità di leggere in profondità le esperienze umane.
Luca retroproietta nella vicenda storica delle origini la figura del maestro che insegna con autorità e sapienza (Lc 2,39-40; 46-47).

proverbi e sentenze sapienziali
Si trovano soprattutto nel discorso sul monte di Matteo e in quello più breve ambientato in pianura di Luca.
armonia tra interno/esterno
La trasparenza tra interno/esterno costituisce uno dei temi più affascinanti dei vangeli, con l’immagine dell’occhio e della luce o del parlare che viene dalla pienezza del cuore.
Sulla stessa linea si colloca la critica alla purità rituale, esteriore, in favore di una purità interiore, della qualità delle relazioni con gli altri e con Dio.
coerenza e sincerità
Gesù colpisce per la sua libertà e coerenza.
Critica i farisei che pretendono di guidare gli altri senza avere una luce interiore (ciechi guide di ciechi); critica chi scopre la pagliuzza nell’occhio del fratello ma non la trave nel proprio. Si tratta di sentenze che fanno riflettere.
ascoltare e mettere in pratica
Gesù invita a costruire la propria vita su un solido fondamento, come una casa costruita sulla roccia, nell’ascoltare e nel mettere in pratica le sue parole.
valutazione e uso dei beni
L’interesse per la salute, per il corpo, per l’uso dei beni è un problema sapienziale che ha a che fare con il senso del vivere.
Gesù invita a riflettere sull’investimento affettivo: sul cuore che segue il luogo del tesoro e sulla dedizione totale a qualcuno (non si possono servire due padroni).
Gesù invita non a disprezzare i beni (Mt 6,25.27-28) ma a disporli secondo una corretta gerarchia. I beni più importanti, come la salute o la vita, sono beni gratuiti. Vivendoli secondo questa prospettiva si fa esperienza religiosa, si coglie il senso del vivere: vivere con senso di gratitudine, senza crearsi inutili problemi (ad ogni giorno basta la sua pena).

enigmi sapienziali
L’enigma, una sentenza paradossale o oscura, è un invito a riflettere.
La esperienza religiosa non si identifica con un semplice stato emotivo, ma neppure col ragionamento. La tradizione sapienziale privilegia la capacità di riflettere, fa appello alla ragione, ma immergendola in un clima affettivo.
La sapienza non è la fredda filosofia o teologia, non è puro stato emotivo, ma è una riflessione partecipe della vita.
Rispondendo alle critiche rivolte ai suoi discepoli perché non digiunano, Gesù afferma che in tempo di nozze si fa festa, che il vestito nuovo non ha bisogno di toppe, che il vino giovane ha bisogno di otri nuovi. È la chiara affermazione della novità di Gesù: gioia e festa non conciliabili con vecchi modi di pensare e di agire.
Come i bambini che giocano alla festa di nozze o al funerale così è capricciosa la gente che critica Giovanni perché troppo severo e Gesù perché fa festa.
Gesù, a chi lo critica perché non si è sposato, dice che ci sono eunuchi per il regno dei cieli. Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è concesso: la sapienza nasce dalla riflessione sulla vita, ma è anche dono di Dio, è lasciarsi illuminare da Dio che parla attraverso la vita.

similitudini sapienziali
L’esperienza religiosa deve essere vista per poter essere riconosciuta, come la lucerna deve essere messa in alto.
Occorre stare attenti al vecchio rappresentato da Erode e dai farisei (il lievito che corrompe, Mc 8,15).
L’immagine del cammello e della cruna sono usate per parlare della difficoltà di un ricco ad entrare nel regno dei cieli.

detti e similitudini del quarto vangelo
Anche nel quarto vangelo, disseminate qua e là, si trovano espressioni che mostrano il gusto di Gesù per la sentenza che fa riflettere sul senso del vivere, come quelle sul tempio ricostruito in tre giorni, sullo spirito che è come il vento (il modo libero dell’agire di Dio), sui tempi nuovi in cui addirittura chi semina fa tutt’uno con chi miete, sul chicco che deve morire per portare molto frutto, sul legame affettivo tra pastore e gregge, immagine di quello tra Gesù e i discepoli, sulla partenza e sulla morte premessa per una nuova e più profonda relazione (Gv 16,21-22).

conclusione
Gesù riflette sui fatti della vita per cogliere il senso della propria vita e missione, per fare intravedere l’agire di Dio: è un riflettere come un andare dentro le cose per coglierne il senso davanti a Dio.
Il vangelo, la buona notizia del nuovo rapporto tra Dio e gli uomini, è amore intelligente, è sapienza.

BENEDETTO XVI – LOTTA NOTTURNA E INCONTRO CON DIO (GEN 32,23-33)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110525.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 25 maggio 2011

L’UOMO IN PREGHIERA (4)

LOTTA NOTTURNA E INCONTRO CON DIO (GEN 32,23-33)

Cari fratelli e sorelle,

Oggi vorrei riflettere con voi su un testo del Libro della Genesi che narra un episodio abbastanza particolare della storia del Patriarca Giacobbe. È un brano di non facile interpretazione, ma importante per la nostra vita di fede e di preghiera; si tratta del racconto della lotta con Dio al guado dello Yabboq, del quale abbiamo sentito un brano.
Come ricorderete, Giacobbe aveva sottratto al suo gemello Esaù la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie e aveva poi carpito con l’inganno la benedizione del padre Isacco, ormai molto anziano, approfittando della sua cecità. Sfuggito all’ira di Esaù, si era rifugiato presso un parente, Labano; si era sposato, si era arricchito e ora stava tornando nella terra natale, pronto ad affrontare il fratello dopo aver messo in opera alcuni prudenti accorgimenti. Ma quando è tutto pronto per questo incontro, dopo aver fatto attraversare a coloro che erano con lui il guado del torrente che delimitava il territorio di Esaù, Giacobbe, rimasto solo, viene aggredito improvvisamente da uno sconosciuto con il quale lotta per tutta una notte. Proprio questo combattimento corpo a corpo – che troviamo nel capitolo 32 del Libro della Genesi – diventa per lui una singolare esperienza di Dio.
La notte è il tempo favorevole per agire nel nascondimento, il tempo, dunque, migliore per Giacobbe, per entrare nel territorio del fratello senza essere visto e forse con l’illusione di prendere Esaù alla sprovvista. Ma è invece lui che viene sorpreso da un attacco imprevisto, per il quale non era preparato. Aveva usato la sua astuzia per tentare di sottrarsi a una situazione pericolosa, pensava di riuscire ad avere tutto sotto controllo, e invece si trova ora ad affrontare una lotta misteriosa che lo coglie nella solitudine e senza dargli la possibilità di organizzare una difesa adeguata. Inerme, nella notte, il Patriarca Giacobbe combatte con qualcuno. Il testo non specifica l’identità dell’aggressore; usa un termine ebraico che indica “un uomo” in modo generico, “uno, qualcuno”; si tratta, quindi, di una definizione vaga, indeterminata, che volutamente mantiene l’assalitore nel mistero. È buio, Giacobbe non riesce a vedere distintamente il suo contendente e anche per il lettore, per noi, esso rimane ignoto; qualcuno sta opponendosi al Patriarca, è questo l’unico dato certo fornito dal narratore. Solo alla fine, quando la lotta sarà ormai terminata e quel “qualcuno” sarà sparito, solo allora Giacobbe lo nominerà e potrà dire di aver lottato con Dio.
L’episodio si svolge dunque nell’oscurità ed è difficile percepire non solo l’identità dell’assalitore di Giacobbe, ma anche quale sia l’andamento della lotta. Leggendo il brano, risulta difficoltoso stabilire chi dei due contendenti riesca ad avere la meglio; i verbi utilizzati sono spesso senza soggetto esplicito, e le azioni si svolgono in modo quasi contraddittorio, così che quando si pensa che sia uno dei due a prevalere, l’azione successiva subito smentisce e presenta l’altro come vincitore. All’inizio, infatti, Giacobbe sembra essere il più forte, e l’avversario – dice il testo – «non riusciva a vincerlo» (v. 26); eppure colpisce Giacobbe all’articolazione del femore, provocandone la slogatura. Si dovrebbe allora pensare che Giacobbe debba soccombere, ma invece è l’altro a chiedergli di lasciarlo andare; e il Patriarca rifiuta, ponendo una condizione: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto» (v. 27). Colui che con l’inganno aveva defraudato il fratello della benedizione del primogenito, ora la pretende dallo sconosciuto, di cui forse comincia a intravedere i connotati divini, ma senza poterlo ancora veramente riconoscere.
Il rivale, che sembra trattenuto e dunque sconfitto da Giacobbe, invece di piegarsi alla richiesta del Patriarca, gli chiede il nome: “Come ti chiami?”. E il Patriarca risponde: “Giacobbe” (v. 28). Qui la lotta subisce una svolta importante. Conoscere il nome di qualcuno, infatti, implica una sorta di potere sulla persona, perché il nome, nella mentalità biblica, contiene la realtà più profonda dell’individuo, ne svela il segreto e il destino. Conoscere il nome vuol dire allora conoscere la verità dell’altro e questo consente di poterlo dominare. Quando dunque, alla richiesta dello sconosciuto, Giacobbe rivela il proprio nome, si sta mettendo nelle mani del suo oppositore, è una forma di resa, di consegna totale di sé all’altro.
Ma in questo gesto di arrendersi anche Giacobbe paradossalmente risulta vincitore, perché riceve un nome nuovo, insieme al riconoscimento di vittoria da parte dell’avversario, che gli dice: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto» (v. 29). “Giacobbe” era un nome che richiamava l’origine problematica del Patriarca; in ebraico, infatti, ricorda il termine “calcagno”, e rimanda il lettore al momento della nascita di Giacobbe, quando, uscendo dal grembo materno, teneva con la mano il calcagno del fratello gemello (cfr Gen 25,26), quasi prefigurando lo scavalcamento ai danni del fratello che avrebbe consumato in età adulta; ma il nome Giacobbe richiama anche il verbo “ingannare, soppiantare”. Ebbene, ora, nella lotta, il Patriarca rivela al suo oppositore, in un gesto di consegna e di resa, la propria realtà di ingannatore, di soppiantatore; ma l’altro, che è Dio, trasforma questa realtà negativa in positiva: Giacobbe l’ingannatore diventa Israele, gli viene dato un nome nuovo che segna una nuova identità. Ma anche qui, il racconto mantiene la sua voluta duplicità, perché il significato più probabile del nome Israele è “Dio è forte, Dio vince”.
Dunque Giacobbe ha prevalso, ha vinto – è l’avversario stesso ad affermarlo – ma la sua nuova identità, ricevuta dallo stesso avversario, afferma e testimonia la vittoria di Dio. E quando Giacobbe chiederà a sua volta il nome al suo contendente, questi rifiuterà di dirlo, ma si rivelerà in un gesto inequivocabile, donando la benedizione. Quella benedizione che il Patriarca aveva chiesto all’inizio della lotta gli viene ora concessa. E non è la benedizione ghermita con inganno, ma quella gratuitamente donata da Dio, che Giacobbe può ricevere perché ormai solo, senza protezione, senza astuzie e raggiri, si consegna inerme, accetta di arrendersi e confessa la verità su se stesso. Così, al termine della lotta, ricevuta la benedizione, il Patriarca può finalmente riconoscere l’altro, il Dio della benedizione: «Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva» (v. 31), e può ora attraversare il guado, portatore di un nome nuovo ma “vinto” da Dio e segnato per sempre, zoppicante per la ferita ricevuta.
Le spiegazioni che l’esegesi biblica può dare riguardo a questo brano sono molteplici; in particolare, gli studiosi riconoscono in esso intenti e componenti letterari di vario genere, come pure riferimenti a qualche racconto popolare. Ma quando questi elementi vengono assunti dagli autori sacri e inglobati nel racconto biblico, essi cambiano di significato e il testo si apre a dimensioni più ampie. L’episodio della lotta allo Yabboq si offre così al credente come testo paradigmatico in cui il popolo di Israele parla della propria origine e delinea i tratti di una particolare relazione tra Dio e l’uomo. Per questo, come affermato anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, «la tradizione spirituale della Chiesa ha visto in questo racconto il simbolo della preghiera come combattimento della fede e vittoria della perseveranza» (n. 2573). Il testo biblico ci parla della lunga notte della ricerca di Dio, della lotta per conoscerne il nome e vederne il volto; è la notte della preghiera che con tenacia e perseveranza chiede a Dio la benedizione e un nome nuovo, una nuova realtà frutto di conversione e di perdono.
La notte di Giacobbe al guado dello Yabboq diventa così per il credente un punto di riferimento per capire la relazione con Dio che nella preghiera trova la sua massima espressione. La preghiera richiede fiducia, vicinanza, quasi in un corpo a corpo simbolico non con un Dio nemico, avversario, ma con un Signore benedicente che rimane sempre misterioso, che appare irraggiungibile. Per questo l’autore sacro utilizza il simbolo della lotta, che implica forza d’animo, perseveranza, tenacia nel raggiungere ciò che si desidera. E se l’oggetto del desiderio è il rapporto con Dio, la sua benedizione e il suo amore, allora la lotta non potrà che culminare nel dono di se stessi a Dio, nel riconoscere la propria debolezza, che vince proprio quando giunge a consegnarsi nelle mani misericordiose di Dio.
Cari fratelli e sorelle, tutta la nostra vita è come questa lunga notte di lotta e di preghiera, da consumare nel desiderio e nella richiesta di una benedizione di Dio che non può essere strappata o vinta contando sulle nostre forze, ma deve essere ricevuta con umiltà da Lui, come dono gratuito che permette, infine, di riconoscere il volto del Signore. E quando questo avviene, tutta la nostra realtà cambia, riceviamo un nome nuovo e la benedizione di Dio. E ancora di più: Giacobbe, che riceve un nome nuovo, diventa Israele, dà un nome nuovo anche al luogo in cui ha lottato con Dio, lo ha pregato; lo rinomina Penuel, che significa “Volto di Dio”. Con questo nome riconosce quel luogo colmo della presenza del Signore, rende sacra quella terra imprimendovi quasi la memoria di quel misterioso incontro con Dio. Colui che si lascia benedire da Dio, si abbandona a Lui, si lascia trasformare da Lui, rende benedetto il mondo. Che il Signore ci aiuti a combattere la buona battaglia della fede (cfr 1Tm 6,12; 2Tm 4,7) e a chiedere, nella nostra preghiera, la sua benedizione, perché ci rinnovi nell’attesa di vedere il suo Volto. Grazie.

LA PRESENZA DI DIO NEL SUO POPOLO : «ABITERÒ IN MEZZO A LORO…»

http://www.indaco-torino.net/gens/06_05_04.htm

LA PRESENZA DI DIO NEL SUO POPOLO – PROSPETTIVE DI TEOLOGIA BIBLICA

«ABITERÒ IN MEZZO A LORO…»

L’autore è professore di Antico Testamento e decano della Facoltà di teologia cattolica all’Università di Augsburg. Il presente contributo mette a fuoco come il Primo Testamento parla del “prendere dimora di Dio fra gli uomini”. L’articolo segnala poi le ripercussioni storiche di questa nozione veterotestamentaria sia nel discorso postbiblico-giudaico della “Shekhinah” che negli scritti del Nuovo Testamento sulla presenza di Cristo in mezzo ai suoi.
Era un tempo di crisi. Ciò che per secoli aveva fornito appoggi e orientamenti era venuto meno. Mancavano prospettive. Le grandi speranze erano crollate. E nessuno sapeva in che modo si potesse continuare. Il paese era devastato, occupato dai nemici. Il tempio, il luogo della presenza di Dio, giaceva in macerie. Parte della popolazione era stata deportata, viveva in esilio, lontano dalla propria patria. Era subentrato il caos sulla gente di quel tempo. Sembrava che Dio avesse nascosto il suo volto.

1. L’anelito di Dio: l’uomo vivente
Alcuni teologi, di cui non conosciamo i nomi, posero gli uomini del loro tempo davanti a un’alternativa: o ci fissiamo sul negativo, sul caos, e allora questa confusione insanabile continuerà a condizionare la nostra vita. Oppure diamo un’opportunità a Dio e in questo modo anche in mezzo ai deserti crescono gli spazi della speranza, spazi di vita. Perché – questa è l’esperienza degli autori biblici – Dio desidera abitare presso gli uomini. Dio vuole prendere abitazione, impiantare la sua tenda in mezzo al caos umano1.
Scoprire nel caos il sì di Dio
A quell’epoca – nel tempo del cosiddetto esilio babilonese – fu scritto il primo grande testo della Bibbia, Gn 1, 1-2, 4a. Secondo questo “racconto della creazione” Dio realizza – dal caos invivibile (Gn 1, 2) e con l’azione della sua parola potente e generatrice di vita – uno spazio adatto alla vita. Ad ogni creatura, ad ogni essere vivente viene assegnato il proprio ambiente vitale (Gn 1, 3-31). La creazione dell’uomo e della donna rappresenta un vertice del racconto della creazione (Gn 1, 26-31). Dio decide dentro di sé: «Facciamo l’uomo». Si tratta di una presa di posizione consapevole e ponderata per l’uomo. Dio vuole l’uomo! Indipendentemente da come l’uomo sia arrivato ad essere tale da un punto di vista evoluzionistico, vale per lui: tu sei voluto da Dio. Sulla tua vita c’è un grande SÌ. È il SÌ di Dio – fin dal principio.
Allo stesso tempo l’essere umano fa parte della creazione. Voluto e amato da Dio, l’uomo condivide il suo destino con l’intera creazione. Insieme ad essa egli è rinviato a Dio e dipende da Dio.

L’uomo – immagine di Dio
«Facciamo l’uomo: sia simile a noi, sia la nostra immagine». Nell’antico Oriente, nel mondo dal quale proviene la Bibbia, i governanti erano considerati spesso immagini delle rispettive divinità, come ad esempio i re dell’Assiria e di Babilonia o i faraoni egiziani. Ritenevano inoltre che una parte dello splendore e della gloria divini fossero riversati su di loro. Ciò che attorno a Israele veniva considerato vero solamente per i grandi e potenti vale – secondo la testimonianza biblica – per tutti gli uomini. Ogni essere umano, forte o debole, sano o malato, uomo o donna, piccolo o grande: ogni essere umano reca in sé una dignità regale. Lo splendore della luce divina è sopra di lui. Ogni essere umano è chiamato ad essere portatore e diffusore di tale luce.
Si ricordi pure un’altra tradizione del mondo biblico. Spesso i Re che governavano un grande regno, facevano collocare immagini di sé nelle varie province del loro regno. In questo modo intendevano affermare: in questa immagine – una statua o un bassorilievo – sono presente io. L’immagine rappresentava il sovrano, lo rendeva “presente”.
Applicato all’affermazione che l’uomo è immagine di Dio, ciò significa: nell’essere umano Dio si rende presente ed opera in un modo speciale nella sua creazione. Attraverso di lui Dio vuole essere presente nel mondo. L’uomo è, per così dire, la presenza di Dio nella creazione, il luogo in cui Dio e la creazione possono rendersi presenti in modo particolare l’uno all’altra.

L’immagine tradita
La vocazione ad essere immagine di Dio comprende anche una speciale responsabilità. Per questo motivo l’uomo è incaricato di “dominare” – un’espressione di non facile comprensione, a volte malintesa e abusata. “Dominio” non significa arbitrio e sottomissione né esercizio di potere ad ogni costo o sfruttamento irrispettoso delle risorse disponibili, sia in natura che nell’umanità. Al contrario! “Dominare”, nell’antico Oriente, è un’espressione dalle connotazioni assai positive. Il “dominatore” è al contempo il pastore. Spetta a lui difendere la pace, preservare e dar forma all’ambiente vitale, imporre il diritto e la giustizia, perché sia possibile una vera convivenza. Secondo il racconto biblico della creazione l’uomo non può concepire tale incarico in modo autosufficiente o arbitrario. È un compito che gli è stato affidato da Dio stesso. E perciò deve compierlo anche con responsabilità di fronte a Dio e secondo le sue intenzioni. L’uomo agisce in quanto immagine di Dio, se segue le indicazioni divine, se si orienta secondo la volontà di Dio. La potente ed efficace parola di Dio, che l’ha chiamato in essere, deve anche farsi spazio nella sua vita, rinnovarlo e indicargli il cammino.
Ma com’è in realtà il mondo dell’uomo? La Bibbia accosta al racconto della creazione il racconto del diluvio universale: l’uomo tradisce la sua chiamata ad essere immagine di Dio. Esercita violenza – il contrario di “dominio” – e così scatena il caos, che si esplicita nell’immagine cosmica del diluvio. Questa è, spesso, la realtà dell’uomo. I due grandi racconti della creazione e del diluvio universale non rappresentano un “prima” e un “dopo”; mostrano bensì il mondo, così com’è stato pensato da Dio (l’uomo a sua immagine) e così come viene ripetutamente ridotto dall’uomo (l’immagine tradita). All’immagine “reale” del mondo – il diluvio come esperienza del caos: “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra” (Gen 6, 5) – viene contrapposta l’immagine ideale del mondo voluto da Dio: «E Dio vide che tutto quel che aveva fatto era davvero molto buono» ovvero «molto bello»2. In questo mondo contraddittorio, che da una parte viene scosso dalla distruzione e dal caos, ma che al contempo è realizzato in modo tale da poter accogliere la presenza trasformatrice e rinnovatrice di Dio, vive Israele, vive la Chiesa.
Ma se la vocazione di ogni uomo è già quella di esprimere la presenza di Dio in questo mondo contraddittorio, per quale fine dunque esiste Israele? E perché è necessaria una Chiesa, la quale, secondo gli scritti neotestamentari, traccia il profilo della propria autocomprensione proprio riagganciandosi ai testi veterotestamentari? Perché la Bibbia parla ancora di un “popolo eletto”, se ogni essere umano nella creazione è chiamato ad essere “presenza di Dio”?

2. La tenda di Dio tra gli uomini
Torniamo al primo racconto biblico. Il settimo giorno Dio riposa – un’affermazione significativa. Il settimo giorno è il giorno del compimento e della pienezza di vita (Gn 2, 1-4a). Il riposo di Dio è segno del compimento. Ma espressamente si parla soltanto del riposo di Dio, non del riposo dell’uomo. Presso Dio e in Dio la creazione è compiuta. Ma come giunge questa pienezza agli esseri umani e nel loro mondo? La descrizione di questo settimo giorno in Gn 2, 1-4a, attraverso l’utilizzo di parole-chiave, si spinge ben al di là del racconto della creazione e rinvia al racconto sinaitico di Es 19-403.
Portatori della luce divina
Dopo gli avvenimenti della liberazione dal potere del faraone (Es 1-15), passando attraverso il deserto (Es 15-18), il popolo di Israele raggiunge il Sinai (Es 19ss). Per sei giorni – come si legge in Es 24, 15ss – il monte è coperto dalla nuvola. Non succede nulla. La nuvola è segno della presenza di Dio. Dio appare come l’indisponibile e l’inavvicinabile. Il settimo giorno invece Mosé sale sul monte ed “entra” nella nuvola. Sperimenta il Dio presente. Lo splendore di Dio si mostra all’intero popolo. Israele può prendere parte al compimento e alla gloria di Dio. Questo settimo giorno è per l’appunto il giorno nel quale, secondo Gn 2, 1-4, il mondo è compiuto in Dio.
«Mosé salì dunque sul monte. La nube coprì la cima del monte e il Signore si manifestò sul Sinai in tutta la sua gloria. Essa appariva agli occhi di tutto il popolo come un fuoco divorante. La nube coprì il monte per sei giorni; al settimo il Signore dal mezzo della nube chiamò Mosé, e Mosè entrò nella nube e salì sulla cima. Egli rimase là quaranta giorni e quaranta notti» (Es 24, 15-18).
Ciò significa che in Israele si manifesta – e così diventa visibile nel mondo – qualcosa della pienezza e dello splendore di Dio. La magnificenza di Dio, il suo sabato deve incendiare Israele «come fuoco che consuma» e attraverso Israele deve raggiungere e toccare il mondo. Nel Nuovo Testamento ciò corrisponde al messaggio del discorso della montagna: «Siete la luce del mondo… Una città costruita sopra una montagna non può rimanere nascosta» (Mt 5, 14-16).
Per quale motivo e per quale fine allora esistono Israele e la Chiesa? In un mondo sperimentato come conflittuale e lacerato, attraverso il popolo eletto da Dio deve diventare “visibile” qualcosa dell’integrale pienezza creata da Dio e che lui intende realizzare. Israele viene scelto, perché Dio vuole rendere visibile nel mondo lo splendore della pienezza. Grazie a questa luce viene sempre di nuovo in rilievo la dignità e la grandezza dell’uomo come immagine di Dio. Per questo motivo a Israele e alla Chiesa spetta in modo speciale il compito di proteggere la dignità riconosciuta da Dio all’essere umano e di metterla sempre di nuovo “in luce”.

Una casa di pietre vive
Cosa avviene sulla montagna? Mosè guarda il Santuario celeste, la dimora di Dio in cielo. Perché vede la dimora celeste? Deve costruire quel Santuario sulla terra.
Es 25, 1.8-9: «Il Signore disse a Mosè: “Gli Israeliti mi consacreranno un luogo particolare, così io abiterò in mezzo a loro. Farete la tenda e gli oggetti di culto uguali al modello che io ti mostrerò”».
Dio desidera abitare sulla terra, così come abita in cielo. Israele stesso deve essere il suo santuario, una casa di pietre vive. Dio vuole essere presente nel suo popolo Israele e attraverso di esso nel mondo. Per questo quindi esiste Israele, il popolo eletto, e per questo esiste anche la Chiesa: affinché Dio abiti in mezzo a loro e gli sia possibile comunicare qualcosa della pienezza che è presso di lui.
La presenza trasformante di Dio
Ci soffermeremo ora sulla tenda sacra, sulla “tenda dell’incontro”, e sulla forza trasformante della presenza divina.
«In quel luogo mi incontrerò con gli israeliti, ed esso sarà consacrato dalla mia presenza gloriosa. La tenda dell’incontro e l’altare saranno consacrati a me. Anche Aronne e i suoi figli saranno consacrati a me per servirmi come sacerdoti. Abiterò in mezzo agli Israeliti e sarò il loro Dio. Riconosceranno che io, il Signore, il loro Dio, li ho fatti uscire dall’Egitto per poter abitare in mezzo a loro. Io, il Signore, sono il loro Dio (Es 29, 43-46).
La presenza di Dio in mezzo al suo popolo non conduce soltanto ad una percezione nuova di Dio da parte di Israele. In questo incontro Israele stesso viene rinnovato e santificato. La presenza di Dio fa vedere a Israele in una luce nuova anche la propria storia e gliela fa capire come un cammino con Dio. Il cammino di Dio con il suo popolo è orientato a questo obiettivo: preparare a Dio una dimora.
La ragione d’essere di Israele risiede quindi in questo: essere, se così si può dire, “contenitore” della presenza di Dio nel mondo. Israele, con tutti i suoi limiti, rende possibile che Dio faccia irradiare il suo splendore nel mondo. La forza trasformante della presenza di Dio diviene così messaggio per il mondo.

Tendere l’orecchio
al ritmo di vita di Dio
Del completamento della creazione (Gn 2, 1-4a) fa parte il completamento del santuario (Es 40, 33). Non soltanto la storia della salvezza di Israele, bensì anche l’intera storia della creazione tende a questo: preparare d Dio una dimora, attraverso Israele. Dove Dio è presente, la realtà della creazione e quella della salvezza si incontrano rinviando l’una all’altra.
«Così Mosè terminò tutti i lavori. Allora la nube coprì la tenda dell’incontro e la presenza gloriosa del Signore riempì l’abitazione. Mosè non poté più entrare nella tenda dell’incontro perché su di essa c’era la nube e la presenza gloriosa del Signore riempiva l’abitazione» (Es 40, 33b-35).
Il grande compito di Israele nel mondo e per il mondo consiste quindi nell’affinare l’attenzione alla realtà divina e nel custodire il santo che gli è affidato. Tale opera di custodia della presenza di Dio non può ovviamente essere realizzata esclusivamente nel giorno del sabato e nella celebrazione sacra. Questo impegno abbraccia tutta la vita, il giorno del sabato e la quotidianità. Anche la vita quotidiana con i suoi ritmi dev’essere intrisa di questa presenza divina. Nelle parole del testo biblico: «A ogni tappa, quando la nube si alzava dall’Abitazione, gli Israeliti levavano l’accampamento. Se però la nube non si alzava, essi non partivano e attendevano che la nube si fosse alzata» (Es 40, 36-37).
Il compito principale di Israele lungo il cammino attraverso il deserto verso la Terra Promessa della pienezza consiste dunque in primo luogo nell’essere attento alla presenza divina. I tempi per riposare e per essere attivi, i tempi per riflettere e per ricominciare sono determinati a partire dalla presenza di Dio. La presenza di Dio forgia il ritmo vitale del popolo di Dio. Questo “ante omnia” di un amore vigilante per la presenza di Dio è costitutivo per il cammino di Israele attraverso i tempi e rimane costitutivo anche per il cammino della Chiesa3.

3. Ebrei e cristiani: testimoniare
insieme il Dio vivente
Che Dio voglia prendere dimora fra gli uomini è illustrato dall’Antico Testamento in molteplici modi. Non soltanto i racconti dei Patriarchi della Genesi o i testi citati sopra del Libro dell’Esodo, anche i Salmi (cf Sl 23; 46) e gli Scritti profetici si occupano di questo argomento. Così ad esempio il profeta Ezechiele, nel suo annuncio di salvezza, traccia immagini che preannunciano una vita futura e non più perdibile nella presenza di Dio: «… Stabilirò il mio santuario in mezzo a loro per sempre. Abiterò con loro: essi saranno il mio popolo, io sarò il loro Dio. Quando avrò messo il mio santuario in mezzo a loro per sempre, allora le nazioni riconosceranno che io sono il Signore e che ho consacrato Israele al mio servizio» (Ez 37, 26-28).
Questo messaggio biblico-veterotestamentario sul “prendere dimora” di Dio nel suo popolo ha avuto un influsso decisivo, nel suo doppio seguito storico, sia sull’ebraismo che sul cristianesimo. Entrambe le religioni sorelle testimoniano, benché in modi diversi, il Dio vivente che in quanto trascendente si prende cura del mondo e non lo lascia in balia degli eventi.

La teologia giudaica postbiblica
della Shekhinah
Nella tradizione ebraica, in epoca post-biblica, il messaggio della dimora di Dio tra gli uomini si ripercuote nell’insegnamento della Shekhinah. Quando i Romani, nel 70 d.C. distrussero il secondo Tempio (luogo della presenza di Dio) e quando il popolo di JHWH fu costretto ad affrontare grosse difficoltà, la teologia della Shekhinah – sorta durante il periodo dell’esilio e dopo l’esilio – venne ulteriormente approfondita nella riflessione rabbinica e venne sviluppata narrativamente in numerosi racconti sotto forma di parabola. Si trattava di dare conforto e motivazione a rimanere fedeli alla comunione con Dio. Questa teologia riflessiva e narrativa serviva ad Israele quale rassicurazione di sé e del proprio cammino con Dio, per vivere saldi nella comunione con Dio specialmente nelle notti della fede5.
Nonostante le differenze evidenti, si rilevano anche forti legami tra la concezione biblica del “dimorare di Dio fra gli uomini”, il discorso postbiblico-ebraico della Shekhinah e il messaggio del Nuovo Testamento sulla presenza del Signore risorto fra i suoi (cf Mt 18, 20; 28, 20).

Il messaggio del Nuovo Testamento
L’idea veterotestamentaria del dimorare di Dio presso il suo popolo ha trovato espressione anche nel Nuovo Testamento. Accanto alle affermazioni fondamentali del Vangelo di Matteo5, ciò diviene manifesto soprattutto attraverso il Vangelo di Giovanni, il cui prologo interpreta l’incarnazione del Logos divino sullo sfondo del messaggio veterotestamentario del dimorare di Dio fra gli uomini: «E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi» ovvero: «e venne a porre la sua tenda in mezzo a noi» (Gv 1, 14). Nelle parole di Gesù, nelle sue opere e nel suo patire, il Padre stesso è all’opera. A chi corrisponde all’amore di Gesù, vive la sua parola e le rimane fedele, Gesù promette: «… il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23). Il vivere secondo la Parola fa sì che chi segue Gesù diventi tempio vivo, nel quale Dio stesso prende dimora.
Anche Paolo – facendo riferimento a Lv 26, 1 – in 2Cor 6, 16 sottolinea che la comunità dei credenti in Cristo è «Tempio del Dio vivente». La parola di Cristo abita in mezzo alla comunità dei credenti (Col 3, 17). Ciò vale nella stessa misura dei singoli credenti, che si aprono al mistero di Dio nella fede. In loro abita lo spirito di Dio (Rm 8, 9.11; 1Cor 3, 16; 2Tit 1, 14); Cristo stesso abita nel loro cuore (Ef 3, 17).
Il libro dell’Apocalisse infine ci presenta la promessa veterotestamentaria come il traguardo delle vie di Dio: «Ecco l’abitazione di Dio fra gli uomini; essi saranno suo popolo ed egli sarà “Dio con loro”. Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. La morte non ci sarà più. Non ci sarà più né lutto né pianto né dolore» (Ap 21, 3-4).
Questa immagine di una salvezza non più perdibile in un futuro realizzato da Dio non toglie però la responsabilità di fronte al presente. Al contrario! La salvezza futura deve agire sulla vita presente e modellarla. Essa chiede di cercare e di mettere in atto già fin da qui ed ora vie e forme di vita nelle quali si prepari una dimora al Dio vivente nel quotidiano. E, come afferma un detto ebraico: Dio prende dimora dove lo si fa entrare.
Israele e la Chiesa sono sollecitati a testimoniare insieme, pur in modi diversi, che Dio vuole abitare in questo mondo ed essere presente agli uomini. Così può farsi strada nel mondo una speranza che non inganna e che sostiene.

Franz Sedlmeier
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1) È presumibilmente al tempo dell’esilio in Babilonia, nel 6° sec. prima di Cristo, che nasce la teologia della Shekhinah, quale teologia narrativa che parla dell’abitare di Dio presso il suo Popolo, nonostante il fatto che i fedeli di JHWH nell’esilio sperimentino in maniera drammatica la perdizione e la lontananza da Dio.
2) La parola ebraica “buono” può significare anche “bello” e si riferisce pertanto alla beatitudine che Dio prova al cospetto del suo operato.
3) Questo “ante omnia” muove l’autore della Prima Lettera di Pietro quando chiede alle prime comunità: «Soprattutto conservate tra voi una grande carità» (1Pt 4, 8). Tale sfondo biblico spiega la nota iniziale con cui si aprono gli Statuti generali del Movimento dei focolari e che formula in queste parole la “premessa di ogni altra regola”: «La mutua e continua carità, che rende possibile l’unità e porta la presenza di Gesù nella collettività, è per le persone che fanno parte dell’Opera di Maria la base della loro vita in ogni suo aspetto: è la norma delle norme, la premessa di ogni altra regola».
4) Per la genesi e il significato della teologia della Shekhinah cf tra l’altro Hanspeter Ernst, Die Schehkina in rabbinischen Gleichnissen, Judaica et Christiana 14, Frankfurt 1994.
5) Cf più ampiamente il contributo di Gérard Rossé in questo numero di “Gen’s”, pp. 156-163.

IL «SERVO DEL SIGNORE» (Is 42; 49-50; 52-53).

http://www.collevalenza.it/CeSAM/02_CeSAM_0014.htm

IL «SERVO DEL SIGNORE» (Is 42; 49-50; 52-53).

« ESSI SI VOLGERANNO A ME CHE HANNO TRAFITTO… IN QUEL GIORNO VI SARA’ UNA FONTANA ZAMPILLANTE » (Zc 12,10; 13,1)

P. Aurelio Pérez fam

All’interno del libro del profeta Isaia si distinguono chiaramente tre parti, di cui la prima (cap. 1-39) è quella propria del profeta Isaia, vissuto nell’VIII sec. a. C., e la seconda (cap. 40-55), ambientata in un quadro storico di quasi due secoli dopo, è quella che contiene i cosiddetti « canti del servo ».
L’orizzonte di consolazione, di attesa di liberazione, di speranza di rinnovamento cantato dal « secondo Isaia » durante l’esilio, è dominato dalla misteriosa figura del « servo del Signore », innocente e giusto, chiamato a radunare il popolo disperso e ad essere addirittura luce delle genti, ma attraverso una morte violenta che espia i peccati del popolo.
Chi è questo servo? Alcuni lo identificano con il popolo d’Israele, chiamato spesso « servo » del Signore (cf Is 41,8-16; 44,21-23), molti propendono a vedervi una figura storica, l’anonimo profeta che scrive (il secondo Isaia). In ogni modo sono i testi sul servo sofferente e la sua espiazione vicaria quelli che Gesù ha evocato ed ha applicato alla sua missione e passione, soprattutto in quella lectio divina che rilegge tutte le Scritture, fatta personalmente da Lui ai due discepoli di Emmaus dopo la risurrezione (Lc 24,25-32.44-46).

1. Il Signore presenta il suo Servo.

Primo canto (Is 42,1-9)
L’identità personale di questo servo viene, anzitutto, presentata solennemente dal Signore stesso, che lo qualifica come colui che Egli sostiene, il suo « eletto » in cui si compiace e in cui pone il suo Spirito, per portare il diritto alle nazioni e stabilirlo sulla terra (vv. 1.4).
Questa missione universale così grande sarà caratterizzata da uno stile di discrezione, misericordia e compassione, che non scoraggia nessuno, ma nello stesso tempo è fermo e costante nel portare a termine la missione che il Signore gli affida (vv. 2-4).
« Io, JHWH, ti ho chiamato nella giustizia e ti ho afferrato per mano, ti ho formato e ti ho stabilito alleanza di popolo e luce delle nazioni, per aprire gli occhi dei ciechi, far uscire dal carcere i prigionieri e dalla prigione gli abitatori delle tenebre » (vv. 6-7)

2. Il Servo presenta se stesso e la sua difficile missione

Secondo e terzo canto (Is 49,1-7; 50,4-9a)
Il Servo stesso presenta, di nuovo in modo solenne, la sua vocazione profetica. Ha coscienza di essere stato « chiamato » (49,1), anzi « plasmato » (49,5) dal Signore fin dal seno materno, non solo per ricondurgli Giacobbe e a Lui riunire Israele, ma anche per essere luce delle nazioni (49,6), affinché la salvezza misericordiosa del Signore arrivi alle estremità della terra e abbracci tutti.
Ma si tratta di una vocazione simile a quella di Geremia (cf Ger 1,4-10), caratterizzata da una misteriosa sofferenza, che sembra rendere inutile e destinato al fallimento lo sforzo del profeta (49,4), la cui vita verrà disprezzata e rifiutata (49,7). Ma l’opera del Signore nel suo Servo avrà, alla fine, la meglio e si manifesterà di fronte ai potenti della terra (49,7).
Continuando su questa linea, il terzo canto del Servo (50,4-9a), presenta, ancora in termini autobiografici, la sofferenza fisica e morale (v. 6), con dettagli (flagelli, insulti, sputi) che si compiranno alla lettera nella Passione di Gesù. Il Signore che chiama il suo Servo a sostenere gli sfiduciati, lo prepara a questa missione aprendogli l’orecchio alla sua volontà, e il Servo risponde con decisione (vv. 4-5), anzi rende la sua faccia dura come pietra, fiducioso nel Signore (v. 7; cf Ez 3,4-11; Lc 9,11).

3. Il Servo « schiacciato per le nostre iniquità »

Quarto canto (52,13-53,12)
La missione del Servo di JHWH conoscerà un fallimento bruciante agli occhi umani e un epilogo inatteso. Si tratta di una notizia inaudita. La persecuzione e la passione, che il Servo in persona presentava nel terzo canto, diventano una umiliante condanna a morte, in cui entra senza aprir bocca, « come agnello condotto al macello » (53,7). Martin Buber, ebreo anche lui, ha scritto che « il successo non è uno dei nomi di Dio ».
Solamente a distanza, coloro che erano stupiti di lui – «tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo» (52,14) – apriranno gli occhi e «comprenderanno ciò che mai avevano udito» (52,15). Verrà alla luce una rivelazione incredibile: il Servo «castigato, percosso da Dio e umiliato» (53,4cd), questo «uomo dei dolori» è, in realtà, il soggetto nascosto del più alto compiacimento del Signore e della sua volontà di salvezza(1). Viene sottolineato con molta insistenza che la morte ignominiosa del servo innocente, ha nel disegno misterioso del Signore, un carattere vicario: « si è caricato delle nostre sofferenze » (53,4), « è stato trafitto per i nostri delitti… per le sue piaghe noi siamo stati guariti » (53,5, cf vv. 6.8b.11d.12d).
Com’era stato all’inizio (52,13-15), così alla fine, è il Signore che dice l’ultima parola sulla sorte e sulla « buona riuscita » e il « successo » (quello secondo Dio) che avrà il Servo(2). La sua morte si rivelerà un’esplosione di vita e il Signore gli darà in premio le moltitudini (53,11-12).

ZACCARIA: Il « trafitto » e la « fontana zampillante »
Il libro del profeta Zaccaria si divide in due parti ben distinte(3). La prima parte (cap. 1-8) si occupa, come il profeta Aggeo, della ricostruzione del Tempio e della restaurazione nazionale, ma che aprono all’era messianica, in cui sarà esaltato il sacerdozio rappresentato da Giosuè (3,1-7), ma in cui la regalità sarà esercitata dal « germoglio » (3,8), che 6,12 applica a Zorobabele. I due unti (4,14) governeranno in perfetto accordo.
La seconda parte (cap. 9-14), tutta diversa per stile e orizzonte storico, è importante soprattutto per la dottrina messianica: la rinascita della casa di Davide (12), l’attesa di un Re Messia umile e pacifico (9,9-10), l’annunzio misterioso del Pastore rifiutato e valutato trenta sicli d’argento (11,12-13), e del « Trafitto » (12,10), con cui il Signore stesso si identifica, verso cui si volgeranno gli sguardi, e nel cui « giorno » sgorgherà una « fontana zampillante » che laverà il peccato e l’impurità (13,1). Dietro questo misterioso « trafitto » ci sono le figure storiche del santo re Giosia, trafitto proprio nella pianura di Meghiddo, di tutti i profeti e giusti perseguitati, ma soprattutto si staglia la profezia del Messia Gesù trafitto sulla croce, dal cui costato sgorgherà la sorgente della salvezza per tutti. Il Nuovo Testamento citerà o farà allusione a questi capitoli di Zaccaria. (cf Mt 21,4-5; 27,9; Mc 14,27; Gv 19,37).

[1] Cf F. ROSSI DE GASPERIS – A. GARFAGNA, Prendi il Libro e mangia, 3.1, p. 47.

[2] Gli esegeti ritengono che sia più o meno contemporanea della profezia del secondo Isaia anche la “storia di Giuseppe” (Gen 37,2-50,26), segnata da un abbassamento drammatico a cui segue una glorificazione inattesa, attraverso la quale diventa il salvatore dei suoi fratelli malvagi e gelosi. Si ripeta la storia di una “pietra scartata dai costruttori, divenuta testata d’angolo” nel piano di Dio.

[3] Cf LA BIBBIA DI GERUSALEMME, EDB 1992, p. 1546.

GIOVANNI PAOLO II – (I CARMI DEL SERVO DI YHWH)

http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/1987/documents/hf_jp-ii_aud_19870225.html

GIOVANNI PAOLO II – (I CARMI DEL SERVO DI YHWH, Isaia, Antico e Nuovo Testamento)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 25 febbraio 1987

1. Durante il processo dinanzi a Pilato, Gesù, interrogato se fosse re, dapprima nega di esserlo in senso terreno e politico; poi, richiesto una seconda volta, risponde: “Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18, 37). Questa risposta collega la missione regale e sacerdotale del Messia alla caratteristica essenziale della missione profetica. Il profeta, infatti, è chiamato e inviato a rendere testimonianza alla verità. Come testimone della verità egli parla in nome di Dio. In un certo senso egli è la voce di Dio. Tale fu la missione dei profeti che Dio mandò lungo i secoli a Israele.

È particolarmente nella figura di Davide, re e profeta, che la caratteristica profetica è unita alla vocazione regale.

2. La storia dei profeti dell’Antico Testamento indica chiaramente che il compito di proclamare la verità, parlando a nome di Dio, è anzitutto un servizio in relazione sia al divino mandante, sia al popolo, al quale il profeta si presenta come inviato da Dio. Ne consegue che il servizio profetico è non solo eminente e onorevole, ma anche difficile e faticoso. Ne è un esempio evidente la vicenda occorsa al profeta Geremia, il quale incontra resistenza, rigetto e perfino persecuzione, nella misura in cui la verità proclamata è scomoda. Gesù stesso, che più volte ha fatto riferimento alle sofferenze subite dai profeti, le ha sperimentate personalmente in modo pieno.

3. Questi primi accenni al carattere ministeriale della missione profetica ci introducono alla figura del servo di Dio (“Ebed Jahwe”) che si trova in Isaia (precisamente nel cosiddetto “Deutero-Isaia”). In questa figura la tradizione messianica dell’antica alleanza trova un’espressione particolarmente ricca e importante se consideriamo che il servo di Jahvè, nel quale spiccano soprattutto le caratteristiche del profeta, unisce in sé, in certo modo, anche la qualità del sacerdote e del re. I Carmi di Isaia sul servo di Jahvè presentano una sintesi vetero-testamentaria sul Messia, aperta a sviluppi futuri. Benché scritti tanti secoli prima di Cristo, servono in maniera sorprendente all’identificazione della sua figura, specialmente per quanto riguarda la descrizione del servo di Jahvè sofferente: un quadro così aderente e fedele che si direbbe ritratto avendo sotto gli occhi gli avvenimenti della Pasqua di Cristo.

4. È doveroso osservare che i termini “Servo” e “Servo di Dio” sono largamente impiegati nell’Antico Testamento. Molti eminenti personaggi si chiamano o sono definiti “servi di Dio”. Così Abramo (Gen 26, 24), Giacobbe (Gen 32, 11), Mosè, Davide e Salomone, i profeti. Anche ad alcuni personaggi pagani che svolgono una loro parte nella storia di Israele, la sacra Scrittura attribuisce questo termine: così per esempio a Nabucodonosor (Ger 25, 8-9) e a Ciro (Is 44, 26). Infine tutto Israele come popolo viene chiamato “servo di Dio” (cf. Is 41, 8-9; 42, 19; 44, 21; 48, 20), secondo un uso linguistico di cui troviamo eco anche nel cantico di Maria che loda Dio perché “ha soccorso Israele, suo servo” (Lc 1, 54).

5. Quanto ai Carmi di Isaia sul servo di Jahvè constatiamo anzitutto che essi riguardano non un’entità collettiva, quale può essere un popolo, ma una persona singola, che il profeta distingue in certo modo da Israele-peccatore: “Ecco il mio servo che io sostengo – leggiamo nel primo Carme -, il mio eletto in cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta . . . non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra . . .” (Is 42,1-4). “Io, il Signore . . . ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre” (Is 42, 6-7).

6. Il secondo Carme sviluppa lo stesso concetto: “Ascoltatemi, o isole, udite attentamente, nazioni lontane: il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome. Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra” (Is 49, 1-2). “Mi disse: È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe . . . Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra” (Is 49, 6). “Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola” (Is 50, 4). E ancora: “si meraviglieranno di lui molte genti; i re davanti a lui chiuderanno la bocca” (Is 52, 15). “Il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità” (Is 53, 11).

7. Questi ultimi testi, appartenenti ai Carmi terzo e quarto, ci introducono con impressionante realismo nel quadro del servo sofferente al quale dovremo ancora tornare. Tutto quanto Isaia dice sembra preannunziare in modo sorprendente ciò che all’alba stessa della vita di Gesù predirà il santo vecchio “Simeone”, quando lo saluterà come “luce per illuminare le genti” e insieme come “segno di contraddizione” (Lc 2, 32.34). Già dal Libro di Isaia la figura del Messia emerge come profeta, che viene al mondo per rendere la testimonianza alla verità, e che proprio a motivo di questa verità sarà respinto dal suo popolo, divenendo con la sua morte motivo di giustificazione per “molti”.

8. I Carmi sul servo di Jahvè trovano ampia risonanza “nel Nuovo Testamento”, fin dall’inizio dell’attività messianica di Gesù. Già la descrizione del battesimo nel Giordano permette di stabilire un parallelismo con i testi di Isaia. Scrive Matteo: “Appena battezzato (Gesù) . . . si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui” (Mt 3, 16); in Isaia è detto: “Ho posto il mio spirito su di lui” (Is 42, 1). L’evangelista aggiunge: “Ed ecco una voce dal cielo che disse: Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto” (Mt 3, 17) mentre in Isaia Dio dice del servo: “il mio eletto in cui mi compiaccio” (Is 42, 1). Giovanni Battista indica Gesù che si avvicina al Giordano, con le parole: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato dal mondo” (Gv 1, 29), esclamazione che rappresenta quasi una sintesi del contenuto del terzo e del quarto Carme sul servo di Jahvè sofferente.

9. Un rapporto analogo lo si trova nel brano in cui Luca riporta le prime parole messianiche pronunziate da Gesù nella sinagoga di Nazaret, quando Gesù legge il testo di Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” (Lc 4, 17-19). Sono le parole del primo Carme sul servo di Jahvè (Is 42, 1-7; cf. anche 61, 1-2).

10. Se poi guardiamo alla vita e al ministero di Gesù, egli ci appare come il Servo di Dio, che porta salvezza agli uomini, che li guarisce, che li libera dalla loro iniquità, che li vuole guadagnare a sé non con la forza ma con la bontà. Il Vangelo, specialmente quello secondo Matteo, fa spesso riferimento al Libro di Isaia, il cui annuncio profetico viene attuato in Cristo, come quando narra che “Venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua parola e guarì tutti i malati, perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie” (Mt 8, 16-17; cf. Is 53, 4). E altrove: “Molti lo seguirono ed egli guarì tutti . . . perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta Isaia: Ecco il mio servo . . .” (Mt 12, 15-21), e qui l’evangelista riporta un lungo brano dal primo Carme sul servo di Jahvè.

11. Come i Vangeli, così anche gli Atti degli Apostoli dimostrano che la prima generazione dei discepoli di Cristo, a cominciare dagli apostoli, è profondamente convinta che in Gesù ha trovato compimento tutto ciò che il profeta Isaia ha annunciato nei suoi Carmi ispirati: che Gesù è l’eletto Servo di Dio (cf. per esempio At 3, 13.26; 4,27.30; 1 Pt 2, 22-25), che compie la missione del servo di Jahvè e porta la Legge nuova, è luce e alleanza per tutte le nazioni (cf. At 13, 46-47). Questa medesima convinzione la ritroviamo quindi nella “Didaché”, nel “Martirio di san Policarpo”, e nella Prima Lettera di san Clemente Romano.

12. Bisogna aggiungere un dato di grande importanza: Gesù stesso parla di sé come di un servo, alludendo chiaramente a Is 53, quando dice: “Il Figlio dell’uomo . . . non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10, 45; Mt 20, 28). Lo stesso concetto egli esprime quando lava i piedi agli apostoli (Gv 13, 4.12-15).

Nell’insieme del Nuovo Testamento, accanto ai brani e alle allusioni al primo Carme del servo di Jahvè (Is 42, 1-7), che sottolineano l’elezione del servo e la sua missione profetica di liberazione, di guarigione e di alleanza per tutti gli uomini, il numero maggiore di testi fa riferimento al terzo e al quarto Carme (Is 50, 4-11; Is 52, 13-53,12) sul servo sofferente. È la medesima idea così sinteticamente espressa da san Paolo nella Lettera ai Filippesi, quando inneggia a Cristo:

“Il quale, pur essendo di natura divina, / non considerò un tesoro geloso / la sua uguaglianza con Dio; / ma spogliò se stesso / assumendo la condizione di servo / e divenendo simile agli uomini . . . / umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte” (Fil 2, 6-8).

 

LODATE DIO CON ARTE (I Salmi)

http://web.tiscali.it/pulchritudo/page70/page103/page103.html

LODATE DIO CON ARTE

In un testo giudaico intitolato Sefer ha-Haggadah, il “libro del racconto” pasquale, leggiamo questo curioso apologo: «Si narra che, quando Davide ebbe finito il libro dei Salmi, si sentì molto orgoglioso. Egli disse a Dio: Padre del mondo, chi fra tutti gli esseri umani che hai creato canta più di me la tua gloria? In quel momento sopraggiunse una rana che gli disse: Davide, non inorgoglirti! Io canto più di te in onore di Dio!». Questa parabola mi aveva offerto anni fa il titolo di un libro che avevo dedicato alla musica e alla teologia nella Bibbia, Il canto della rana (Ed. Piemme). C’è, infatti, nella Bibbia la convinzione che nella natura ci sia una musica bellissima e segreta: «tutto ciò che respira canti l’alleluia», dice letteralmente l’ultimo versetto del Salterio (150,5). La rana, perciò, canta a Dio con tutto il suo essere e «i piccoli del corvo gridano al Signore», come dice il Salmo 147,9. Tuttavia non bisogna dimenticare che la Bibbia esalta la musica creata dall’uomo e invita il popolo a «cantare inni con arte» (Salmo 47,8). Potremmo a questo riguardo elencare una lunga lista di testi biblici che mettono in scena l’orchestra del tempio, il canto, l’armonia della musica.
Pensiamo solo all’Apocalisse con le sue trombe, le arpe, i cori: c’è chi ha definito quel libro «una palingenesi per soli, coro e orchestra». Noi sappiamo, però, che la Bibbia è stata anche alla sorgente di tanta splendida musica. I nostri lettori più fedeli ricorderanno che un paio di settimane fa abbiamo parlato del Magnificat, il canto di Maria messo in musica infinite volte. Ora, invece, faremo un esempio un po’ più difficile.
C’è nel Salterio un inno piccolissimo; ed è il Salmo 117, il più breve di tutti (in ebraico sono solo 17 parole!). Esso era forse usato come una giaculatoria, una specie di Gloria Patri dell’Antico Testamento, da mettere in finale ad altri canti. Ebbene, questo Salmo – nella versione latina della liturgia cattolica è noto come Laudate Dominum – è irrilevante dal punto di vista poetico
ma ha al suo interno due parole che per l’ebreo erano di altissimo livello teologico, l’amore e la fedeltà (hesed e emet), i due sentimenti che uniscono Dio a Israele nel legame dell’alleanza.
Ecco il testo: «Lodate il Signore, popoli tutti, voi tutte nazioni, glorificatelo, perché forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura in eterno». Su questa specie di antifona Mozart ha costruito nel 1780 una composizione colma di stupore e di pace, di esaltazione e di bellezza, il Laudate Dominum in fa minore dei Vespri solenni di un confessore (K 339). In questa rielaborazione lo spirito di fiducia dell’originale è ricreato in una forma che nessuna spiegazione esegetica riesce a dare.
Dopo dieci battute dell’orchestra si apre – come scrive un critico, Marc Vigna! – una meravigliosa cantilena del soprano solo. La melodia viene poi ripresa da! coro in un’atmosfera di ineffabile tenerezza ultraterrena. Poi c’è un breve momento di immobilità e di gioia. E infine la voce soprano dell’Amen finale si unisce al coro e lo domina dolcemente. Provate ad ascoltare per credere!

I / NON AVRAI ALTRO DIO FUORI DI ME II / NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO – GIANFRANCO RAVASI

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I / NON AVRAI ALTRO DIO FUORI DI ME II / NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO

(non trovo il seguito, ma trattandosi di uno studio di Ravasi, anche se tratta solo dei due primi comandamenti, lo posto ugualmente)

Quel creatore « geloso » che libera la sua creatura

Dalla legge divina alla fedeltà umana.

Autore: Gianfranco Ravasi

Tratto da: Famiglia Cristiana del 29/02/2004

«Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio» (Esodo 31,18). È suggestiva questa immagine del dito divino che incide sulla pietra, quasi fosse un’epigrafe perenne, la sua parola. Essa s’incarna per eccellenza nelle « dieci parole » o precetti – tale è appunto il significato del termine di origine greca « Decalogo » usato per indicarle – che la Bibbia offre in due redazioni segnate da lievi variazioni: una è nel capitolo 20 del libro dell’Esodo, mentre l’altra è nel capitolo 5 del Deuteronomio, il quinto libro dell’Antico Testamento.
Ora noi cercheremo di illustrare i primi due comandamenti, omogenei tra loro perché hanno al centro la figura di Dio. Inizieremo col primo, che è quasi l’architrave di tutta l’architettura spirituale del Decalogo. Esso si apre con una dichiarazione in cui il Signore si presenta come persona che proclama un « io », ossia un’identità, e che agisce intervenendo nella storia: «Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù». Il Dio che entra in scena, parla e si rivela: è, perciò, un liberatore ed è a questo primo suo atto, che precede ogni nostra azione, che dobbiamo dare una risposta di adesione.
Ecco, allora, l’impegno del primo comandamento, che nel testo biblico ha una formulazione ben più vasta del sintetico: «Non avrai altro dio fuori di me» usato dalla tradizione. Tre, infatti, sono le descrizioni del nostro impegno di fedeltà al Signore. Innanzi tutto dobbiamo riconoscere la sua unicità assoluta contro ogni tentazione politeistica. È quello che si definisce come un « monoteismo affettivo »: non è tanto il riconoscere in sede teorica che non ci sono altri dèi, bensì «avere un Dio a cui il cuore si abbandona totalmente», come aveva giustamente commentato Lutero.
C’è, poi, un’altra definizione del comandamento: «Non ti farai idolo né immagine alcuna…». Il pensiero corre alla scena del vitello d’oro, che subito dopo è narrata dall’Esodo (cap. 32). In realtà essa rappresentava la tentazione di un popolo nomadico-agricolo di raffigurare la divinità, sorgente della vita, nell’immagine di un toro fecondo. L’appello del Decalogo è chiaro e tagliente: Dio non è riducibile a un oggetto o a un segno magico, la sua è una realtà infinita ed eterna che travalica spazio e tempo e, se proprio si vuole pensare a una sua immagine, c’è una sua creatura particolarmente amata: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò» (Genesi 1,27).
Ecco, infine, un’ultima formulazione del primo comandamento: «Non ti prostrerai davanti agli idoli e non li servirai». L’atto di culto dev’essere riferito solo al Signore, come replicherà Cristo a Satana che, mostrandogli il fascino del potere e del possesso, gli aveva suggerito di « prostrarsi e adorarlo »: «Vattene, Satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto!» (Matteo 4,9-10). E a questo punto il comandamento ricorda che il Signore è «un Dio geloso», un simbolo vivace per evocare la passione divina nei confronti della sua creatura, libera nel respingerlo ma anche nella scelta di essere legata a lui da un nodo d’amore.
Possiamo, così, concludere la riflessione sul primo comandamento, il più ampio, invitando a leggerlo nella sua stesura completa in Esodo 20,1-6: esso è un forte appello alla purezza della fede nei confronti di un Dio vivo e personale, esigente ma anche amoroso, tant’è vero che, se ricorda il peccato punendolo «fino alla quarta generazione», perdona chi è pentito e svela il suo amore «fino alla millesima generazione», come è scritto nella stessa pagina biblica del primo precetto.
Il secondo comandamento, molto più lapidario, aggiunge un’altra pennellata a questo ritratto divino: «Non nominare il nome di Dio invano» è per noi spontaneamente la condanna della bestemmia. E questo ha un suo fondo di verità perché essa incarna un’aggressione carica di odio e di disprezzo nei confronti della realtà di Dio: il « nome » nel linguaggio biblico è appunto la persona. Spesso, soprattutto nel mondo occidentale, la bestemmia è ridotta a un intercalare volgare e miserabile e perde la sua violenza, rimanendo pur sempre un’offesa impotente alla divinità.
Tuttavia, nel mondo semitico ove la bestemmia in questo senso è ignota, il significato primario del comandamento è un altro ed è legato al termine « invano ». In ebraico la parola usata (shaw’) indica qualcosa di « falso, vuoto, vano, inutile » ed era il vocabolo con cui si indicava spregiativamente l’idolo. Scopriamo, allora, un altro senso da attribuire al secondo precetto, un senso che lo collega al primo. La vera bestemmia è scambiare il nome-persona di Dio col nome « vano » delle cose cui ci aggrappiamo e che consideriamo come un tesoro al quale tutto sacrificare. È l’auto-adorazione dell’uomo o la sostituzione di una cosa (denaro, potere, piacere, successo) al Dio vivente.
Risuona, allora, la voce del Salmista che idealmente commenta il nostro comandamento: «Non vogliate affidarvi alla forza, le rapine non portano frutto; pur se abbonda la ricchezza, mai ponete in essa il vostro cuore… Solo in Dio il mio cuore riposa, da lui viene la mia speranza. È mia rupe e mia salvezza lui solo, la mia roccia: io più non vacillo» (Salmo 62,2-3.11).

SALMO 6 – SUPPLICA DI UN UOMO GRAVEMENTE AMMALATO

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SALMO 6 – SUPPLICA DI UN UOMO GRAVEMENTE AMMALATO

[1] Al maestro del coro. Per strumenti a corda. Sull’ottava. Salmo. Di Davide

[2] Signore, non punirmi nel tuo sdegno, non castigarmi nel tuo furore.
[3] Pietà di me, Signore: vengo meno; risanami, Signore: tremano le mie ossa.
[4] L’anima mia è tutta sconvolta, ma tu, Signore, fino a quando…?
[5] Volgiti, Signore, a liberarmi,
salvami per la tua misericordia.
[6] Nessuno tra i morti ti ricorda.
Chi negli inferi canta le tue lodi?
[7] Sono stremato dai lungi lamenti,
ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio,
irroro di lacrime il mio letto.
[8] I miei occhi si consumano nel dolore,
invecchio fra tanti miei oppressori.
[9] Via da me voi tutti che fate il male,
il Signore ascolta la voce del mio pianto.
[10] II Signore ascolta la mia supplica,
il Signore accoglie la mia preghiera.
[11] Arrossiscano e tremino i miei nemici, confusi, indietreggino all’istante.

Il salmo 6 è una supplica individuale di un uomo gravemente malato. L’esperienza che l’orante fa è quella amara della malattia e delle sue sofferenze, di un’angoscia interiore e del timore della morte, la coscienza di una ostilità perversa, la consapevolezza del peccato. Questo intreccio esistenziale, le relazioni fra tutti questi fattori somatici e spirituali, ci permetteranno di meditare questo salmo. Una classificazione tradizionale ha inserito questo salmo tra i sette salmi penitenziali (6; 32; 38; 51; 102; 130; 143). La ragione è tematica ed ha alle sue spalle una conferma nell’uso liturgico.
È un salmo che ci parla dell’ira di Dio: « Signore, non punirmi nel tuo sdegno, non castigarmi nel tuo furore » (v 2). Non è facile farci un’idea dell’ira di Dio; è una cosa che esula dal nostro linguaggio ordinario. Come posiamo sentirci invitati alla preghiera da questa menzione cruda dell’ira, del furore, dello sdegno di Dio? Sembra che questo salmo rappresenti come una chiusura di orizzonti sulla vita presente dell’uomo. Al v .6 si dice: « Nessuno tra i morti ti ricorda, chi negli inferi canta le tue lodi? ». Sembra che chi recita questo salmo non si preoccupi di un avvenire dell’uomo oltre la vita, ma abbia una visione limitata, una chiusura di orizzonti sulla vita presente. Il Nuovo Testamento ha completamente trasformato questa visione, ponendo chiaramante l’orizzonte della vita dell’uomo nella vita senza fine. E’ un salmo che fu composto per essere recitato dai malati, ma nessuno di noi può presumere di poter entrare nella psicologia di un malato grave, tentato di disperazione, di solitudine, di chiusura. Solo chi l’ha provato può avere un’idea di questo stato d’animo.
Un dramma con tre personaggi: Dio, il sofferente, i nemici. C’è un uomo in uno stato di grande prostrazione fisica e morale che attraverso lo sfogo libero del cuore a Dio, chiede di essere liberato dai nemici. Che cos’è il lamento? E’ il grido dell’uomo che sente venire meno il vivere in senso specifico, cioè la salute, il progetto di vita, la propria capacità di amare, la propria dignità. Allora l’uomo grida a Dio: « Non abbandonarmi, ritorna, voglio tornare a lodarti ». Quello che l’uomo sperimenta in questo degradarsi del vivere di cui ha paura, è chiamato l’ira di Dio, lo sdegno di Dio, il non vivere è l’essere abbandonati da Dio. E allora grida: « Abbi pietà di me, Signore, vengo meno… » (C 3 – 6). Il lamento è l’opposto della lode, della chiarezza, della coscienza dell’uomo che il vivere è lodare Dio.
Nella Bibbia troviamo personaggi che hanno pregato così: in gran parte dei salmi di lamento Davide ha pregato così, ma non da disperato. Il profeta Geremia ha scritto lamenti molto simili a questo salmo. Giobbe nella sua sofferenza fisica e morale si è espresso così. Gesù sulla croce ha detto: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». Ogni cristiano può ripetere l’esperienza di Davide, di Geremia, di Gesù. Quando noi recitiamo questo salmo ci uniamo a tutti coloro che soffrono; forse non possiamo raggiungere la loro sofferenza; ma ci possiamo ugualmente unire al lamento universale di coloro che invocano Dio perché venga a salvarli.
I nemici. Possono essere nemici molto diversi: nemici politici, popoli conquistatori, oppressori, ma anche nemici privati, prepotenti, sfruttatori. Nei salmi i nemici sono sempre figure un pò vaghe; non hanno un volto preciso, però sono sempre uomini senza Dio. Sono il segno dell’impossibilità del mondo di vivere senza amore e senza lode; sono il segno del male.

v. 2 .l’orante cerca un Dio che sia un pedagogo comprensivo; rifugge da un Dio giudice adirato. Si potrebbe tradurre: « riprendimi senza ira, correggimi senza collera ». Si può vedere Ger 10, 24: « Correggici, Signore, con misura, non farci venir meno con la tua collera ». Oppure Sap 12,2: « Per questo correggi poco a poco chi cade ».

vv. 3-4 « Vengo meno… tremano le mie ossa ». Il verbo indica lo slogamento per cui le ossa sono disarticolate, il respiro affannoso e ansimante, l’animo agghiacciato dalla paura. L’interrogativo: « e tu, Signore, fino a quando? » che appare anche in altri salmi (Sal 12; Sal 90, 13; Sal 79, 5 sulla sorte di Gerusalemme), ha l’effetto di mettere in risalto la situazione drammatica nel senso che l’indugio di Dio nell’intervenire, può rendere mortale la malattia.

v. 5 Curare è salvare la vita che è in gioco nella malattia che affligge l’orante. Nel Nuovo Testamento la guarigione viene chiamata salvezza: « La tua fede ti ha salvato » (la guarigione del cieco di Gerico: Mc 10. 52).

v. 6 Il Signore è un Dio dei viventi: cf il testo classico di Is 38, 18: « poiché non ti lodano gli inferi, né la morte ti canta inni; quanti scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà ».

v. 7 L’immagine è il giaciglio dell’orante che dilaga in lacrime. Il pianto è l’espressione del dolore interiore, come in Lam 1, 2; 2, 11. 18.

v. 8 I continui gemiti prostrano l’orante come se il travaglio faticoso di una vita fosse gemere, travaglio sterile, senza esiti. A causa del pianto gli occhi si consumano ed invecchiano.

v. 9 Dopo i cinque imperativi indirizzati a Dio « non punirmi, non castigarmi, risanami, volgiti, salvami », e dopo la descrizione del suo stato pietoso, ci sorprende un imperativo al plurale rivolto a personaggi di cui ignoravamo la presenza: « Via da me voi tutti che fate il male ». Il salmista che fino a questo momento è stato a guardare se stesso, in una amara analisi introspettiva, scopre all’improvviso una presenza ostile, quando questa è già praticamente vinta.

v. 10 L’orante riconosce subito che Dio ha ascoltato la sua richiesta. Da dove nasce la sua certezza? Secondo un’ipotesi l’orante è venuto al tempio per esporre la sua situazione. Il sacerdote o il profeta del tempio pronunciano un oracolo che contiene l’esaudimento divino. Il fedele ringrazia e benedice Dio.

v. 11 « Arrossiscano e tremino i miei nemici ». E’ il prolungamento della ritirata dei nemici. C’è una ritorsione, quasi un contrappasso, di quello che i nemici hanno fatto. Il male fatto si ritorce contro coloro che l’hanno fatto.

Trasposizione e attualizzazione cristiana
Leggiamo in Mt 7, 23 e in Lc 13, 27: « allontanatevi da me voi tutti operatori di iniquità » quello che leggiamo al v. 9 del salmo. Le guarigioni operate da Cristo, specialmente quando si presentano in relazione con il peccato dell’uomo, prolungano il tema del salmo.
Ma partendo dalla situazione descritta nel salmo, quali sono le domande che ci riguadano?
* La prima domanda ci interroga sul tema del lamento come verità del nostro vivere. Il lamento esprime la voglia di vivere, l’aspirazione ad avere motivazioni di vita dal Dio della vita. E’ la preghiera di chi, vivendo coscientemente le proprie sofferenze, le proprie miserie, le miserie e le sofferenze di coloro che ama, le propone a Dio con cuore fiducioso?
Ho mai sperimentato in me il rapporto tra la lode e la vita?
Mi perdo nel lamento, oppure, nei momenti di sofferenza, mi presento al Signore nella preghiera sapendo che è purificatrice, che trasforma la sofferenza e anche chi prega così?

* La seconda domanda ci fa interrogare sull’oggetto di questo lamento. Di che cosa si lamenta l’uomo, qual è l’oggetto reale della preghiera, della sofferenza? E’ tutto ciò che toglie la vita, tutto ciò che diminuisce l’essere dell’uomo, tutto ciò che lo contrasta. Il salmo 6 sottolinea la dignità della protesta per tutto ciò che avviene in noi come forza di morte e indica pure le qualità che questa protesta deve avere. E’ una protesta che individua il male fino in fondo e non si ferma alle cause esteriori, ma scopre l’origine del male nel cuore dell’uomo.
So veramente da che cosa dipende il male dell’uomo?
Quale coscienza ho del mio peccato?
Mi fido completamente di Dio?
C’è dignità in me quando mi lamento, oppure esprimo una protesta inerte e velleitaria che si accontenta solo del gridare?

* La terza domanda riguarda la fiducia nella preghiera. Il salmista ha pregato descrivendo se stesso: « sono stremato dai lunghi lamenti, ogni notte inondo di lacrime il mio giaciglio… « .
So che Dio ascolta la mia preghiera? Sono certo che il Signore mi ascolta, mi accoglie, mi riceve? Quale coscienza ho dell’amore, della fedeltà e del perdono di Dio?
So vedere la realtà con occhi nuovi e superare le difficoltà con un entusiamo rinnovato?
C’è qualche gesto che posso fare concretamente per esprimere la forza di questa preghiera?

DIO PADRE NELL’ANTICO TESTAMENTO

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-06/14-2/DioPadre1.rtf.html

DIO PADRE NELL’ANTICO TESTAMENTO

Alberto Piola

Introduzione

Usiamo tutti delle immagini e dei titoli per parlare di Dio: ciascuna ha le sue utilità ed i suoi rischi.
Come cristiani il riferimento essenziale va fatto alla Bibbia, dove Dio si è rivelato, cioè si è fatto conoscere; l’atteggiamento giusto è accostarci ad essa nell’ascolto: Dio ci parla e noi siamo chiamati ad entrare in dialogo con lui (cfr. l’importanza del parlarsi anche a livello umano).
Una delle immagini più usate per parlare di Dio è quella di padre. Vogliamo innanzi tutto cercare che cosa dice l’Antico Testamento a questo proposito. Come cristiani sappiamo di dover guardare all’Antico Testamento tenendo presente il compimento della rivelazione di Dio che avviene in Cristo; ma già la prima parte della Bibbia può darci delle indicazioni utili per capire meglio in che senso Dio è nostro Padre.
Infatti, è facile constatare che il termine « padre » può avere moltissimi significati diversi, sia quando lo usiamo a livello umano, sia quando lo adoperiamo per parlare di Dio; in molte religioni Dio è chiamato « Padre », volendo dire che in tutti gli uomini c’è un qualcosa di divino e che tutti formano una sola famiglia; ma nella Bibbia ciò acquista una dimensione particolare.
In ascolto di alcuni brani dell’Antico Testamento
La paternità divina espressa dall’Antico Testamento è ben diversa da quella di religioni limitrofe: Dio non è padre perché ha generato fisicamente l’antenato del popolo tramite l’unione sessuale con una dea-madre.
Significa innanzitutto che Dio è creatore del mondo: Deuteronomio 32,6 così ripaghi il Signore, o popolo stolto e insipiente? Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito?; Malachia 2,10 non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro profanando l’alleanza dei nostri padri?
Poi significa che Dio ha fatto la scelta del suo popolo: questo ha creato un legame d’amore tra Dio e il popolo d’Israele; ha fatto alleanza con il popolo e ha fatto dono della Legge ad Israele, suo figlio primogenito (Esodo 4,22); Geremia 31,9 Essi erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li condurrò a fiumi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno; perché io sono un padre per Israele, Efraim è il mio primogenito; Sapienza 14,3 la tua provvidenza, o Padre, la guida perché tu hai predisposto una strada anche nel mare, un sentiero sicuro anche fra le onde; Deuteronomio 14,1-2 Voi siete figli per il Signore Dio vostro; non vi farete incisioni e non vi raderete tra gli occhi per un morto. Tu sei infatti un popolo consacrato al Signore tuo Dio e il Signore ti ha scelto, perché tu fossi il suo popolo privilegiato, fra tutti i popoli che sono sulla terra
Tutto ciò si concretizza in un atteggiamento amoroso, proprio come un papà: Osea 11,3-9 Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. Ritornerà al paese d’Egitto, Assur sarà il suo re, perché non hanno voluto convertirsi. La spada farà strage nelle loro città, sterminerà i loro figli, demolirà le loro fortezze. Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo. Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Admà, ridurti allo stato di Zeboìm? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira; ciò significa che Dio è anche colui che corregge: Proverbi 3,12 il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto
Ma questo atteggiamento amoroso di Dio non è corrisposto: c’è stata ingratitudine verso Dio; Deuteronomio 32,5-6 Peccarono contro di lui i figli degeneri, generazione tortuosa e perversa. Così ripaghi il Signore, o popolo stolto e insipiente? Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito?; e c’è allora il rammarico di Dio: Geremia 3,4-5.19 E ora forse non gridi verso di me: Padre mio, amico della mia giovinezza tu sei! Serberà egli rancore per sempre? Conserverà in eterno la sua ira? Così parli, ma intanto ti ostini a commettere il male che puoi Io pensavo: Come vorrei considerarti tra i miei figli e darti una terra invidiabile, un’eredità che sia l’ornamento più prezioso dei popoli! Io pensavo: Voi mi direte: Padre mio, e non tralascerete di seguirmi
Ecco allora che parte l’invocazione di misericordia verso questo padre che si è tradito: Isaia 64,4-11 Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli. Siamo divenuti tutti come una cosa impura e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento. Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si riscuoteva per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci hai messo in balìa della nostra iniquità. Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani. Signore, non adirarti troppo, non ricordarti per sempre dell’iniquità. Ecco, guarda: tutti siamo tuo popolo. Le tue città sante sono un deserto, un deserto è diventata Sion, Gerusalemme una desolazione. Il nostro tempio, santo e magnifico, dove i nostri padri ti hanno lodato, è divenuto preda del fuoco; tutte le nostre cose preziose sono distrutte. Dopo tutto questo, resterai ancora insensibile, o Signore, tacerai e ci umilierai sino in fondo?; Isaia 63,16 perché tu sei nostro padre, poiché Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda di noi. Tu, Signore, tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore; 64,7 Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani; Sal 103,13 come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono
Ecco allora che Dio padre è colui che dà il perdono: Geremia 3,12-13 Ritorna, Israele ribelle, dice il Signore. Non ti mostrerò la faccia sdegnata, perché io sono pietoso, dice il Signore. Non conserverò l’ira per sempre. Su, riconosci la tua colpa, perché sei stata infedele al Signore tuo Dio; hai profuso l’amore agli stranieri sotto ogni albero verde e non hai ascoltato la mia voce. Oracolo del Signore; Malachia 3,17 Essi diverranno dice il Signore degli eserciti mia proprietà nel giorno che io preparo. Avrò compassione di loro come il padre ha compassione del figlio che lo serve
E più in generale ci si rivolge a Dio per chiedere aiuto: Siracide 23,1.4 Signore, padre e padrone della mia vita, non abbandonarmi al loro volere, non lasciarmi cadere a causa loro Signore, padre e Dio della mia vita, non mettermi in balìa di sguardi sfrontati; e in fondo è padre per tutti coloro che si rivolgono a lui: Siracide 51,9-12 innalzi dalla terra la mia supplica; pregai per la liberazione dalla morte. Esclamai: « Signore, mio padre tu sei e campione della mia salvezza, non mi abbandonare nei giorni dell’angoscia, nel tempo dello sconforto e della desolazione. Io loderò sempre il tuo nome; canterò inni a te con riconoscenza ». La mia supplica fu esaudita; tu mi salvasti infatti dalla rovina e mi strappasti da una cattiva situazione. Per questo ti ringrazierò e ti loderò, benedirò il nome del Signore
Segue con amore particolare certe categorie di persone: Salmo 68,6-7 Padre degli orfani e difensore delle vedove è Dio nella sua santa dimora. Ai derelitti Dio fa abitare una casa, fa uscire con gioia i prigionieri; solo i ribelli abbandona in arida terra
Un messaggio per noi
Tutti questi brani non ci offrono una sintesi già pronta, ma ci invitano a riflettere: che cosa ci dice quest’immagine della paternità applicata a Dio? Quali aspetti sentiamo già più vicini, a quali abbiamo (quasi) mai pensato?
Innanzi tutto non dobbiamo mai assolutizzare quest’immagine, perché la Bibbia ci dice che Dio è anche madre: « Questa tenerezza paterna di Dio può anche essere espressa con l’immagine della maternità, che indica ancor meglio l’immanenza di Dio, l’intimità tra Dio e la sua creatura. Il linguaggio della fede si rifà così all’esperienza umana dei genitori che, in certo qual modo, sono per i genitori i primi rappresentanti di Dio. Tale esperienza, però, mostra anche che i genitori umani possono sbagliare e sfigurare il volto della paternità e della maternità. Conviene perciò ricordare che Dio trascende la distinzione umana dei sessi. Egli non è né uomo né donna. Egli è Dio. Trascende pertanto la paternità e la maternità umane, pur essendone l’origine e il modello. Nessuno è padre quanto Dio » (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 239).
Alcune sottolineature dai brani letti:
L’esperienza dell’essere scelti (diverso da vincere un concorso, simile all’innamoramento): non ci meritiamo mai Dio; pensando all’esperienza del nostro essere figli o di avere dei figli, in che senso ci sentiamo figli di Dio?
Dio ci educa, ci accompagna, ci corregge: sentiamo di aver bisogno di tutto ciò? O in fondo stiamo bene anche da soli?
L’esperienza del peccato è il fallimento del nostro rapporto filiale. A volte possiamo leggere il peccato solo a livello di coerenza personale o a livello orizzontale. Non è scontato elevare una supplica di misericordia chiedere perdono ci compromette (cfr. i bambini e i loro giri di parole per chiedere scusa). E poi ci sono molti modi di chiedere perdono: potrebbe anche solo essere un « sentirsi a posto », senza credere di aver rotto un rapporto (cfr. l’esperienza di certi perdoni « pesanti » tra gli sposi)
La richiesta di aiuto: quando e quanto ci rivolgiamo a Dio per chiedere aiuto? Ci crediamo davvero di averne bisogno? Che cosa chiediamo al Signore: una lista di cose che ci piacciono o di fare la sua volontà?
Vivere la paternità di Dio: è lo stimolo che può venirci dall’ascolto attento di questi brani dell’Antico Testamento. Si tratta di vivere un sentirsi figli di un Padre che ci vuole bene; e di comportarci di conseguenza (un figlio prende sempre qualcosa dai genitori), seguendo le sue scelte. E forse di ricuperare qualche aspetto di questa paternità che l’Antico Testamento ci ha presentato.

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