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« IN PRINCIPIO », L’INIZIO APERTO DI UNA STORIA APERTA

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« IN PRINCIPIO », L’INIZIO APERTO DI UNA STORIA APERTA

Non credo ci siano pagine che abbiano fatto tanto scrivere di sé, quanto le pagine iniziali della Bibbia. Si potrebbe quasi dire che l’esegesi è nata lì, da Genesi 1-3. Certo non è nata lì, vista la loro composizione relativamente recente, la riflessione umana sul perché e sul come della vita, e non è nata lì neppure la religiosità biblica, che nelle sue prime espressioni di fede fa centro sulla liberazione dall’Egitto e tace della creazione. Ma è difficile pensare a qualche altro testo che abbia provocato tanti esercizi di lettura, tanti sforzi di comprensione. La ragione di ciò non sta nel fascino irriducibile dei racconti d’origine, che da sempre sono nel cuore dell’intelligenza e dell’affettività umana, ma nella natura interpretativa della formazione di queste pagine. Sta nel fatto che il racconto della creazione di Genesi 1,1-2,4a è una narrazione autonoma rispetto a quello di Genesi 2, 4b-3,25; che essi stanno in dialogo ma anche in conflitto tra loro; che la loro fusione in un testo unico e continuativo, quello che noi oggi conosciamo, è di fatto un terzo racconto, frutto di rilettura letteraria e teologica, di critica nella critica. Il che è come dire che il primo libro della Bibbia non ha un solo incipit ma due, anzi tre, che l’intera storia che seguirà non è una sola storia, ma l’intrecciarsi e il sovrapporrasi di tante storie, aperte nel loro sviluppo e nel loro fine, proprio come aperto e non chiuso è il loro inizio. Ogni buon lettore della Bibbia sa, infatti, da oltre un secolo, che non è Mosé l’autore a cui possono essere attribuiti i primi libri della Bibbia, anzi che non si può parlare di un autore unico ma di diverse tradizioni e, con ogni probabilità, di diversi testi, nati in tempi e luoghi contigui ma diversi; testi più tardi fusi da un redattore del VI-V sec. a. C.. Si parla per il cosidetto Pentateuco di un documento Jahvista (J, – IX-VII secolo), di uno Elohista (E –VIII-VII sec) e di uno Sacerdotale (P – VI sec.); e per il racconto genesiaco della creazione, dall’ « In principio » alla discendenza di Noé (1-11), di un complesso intrecciarsi di J e P, che tendono a correggersi e ad arricchirsi secondo criteri che sono una vera e propria sfida e un invito interpretativo per il lettore. Il tema della creazione non trova qui semplicemente una forma simbolica di espressione: Trova un processo interpretativo, un lavoro esegetico in formazione, che comincia con la rivisitazione, l’assemblamento e la correzione degli antichi miti pre-biblici sull’origine divina del mondo da parte dello Javhista, prosegue con una completa ridefinizione e riscrittura dell’intero materiale ad opera del Sacerdotale (P), e finisce, non con la vittoria e la canonizzazione dell’uno o dell’altro racconto mitico, dell’una o dell’altra prospettiva teologica, ma con la loro fusione, per mano di un redattore, il cui compito non sembra solo quello di cucire i due testi diversi in un terzo testo, ma anche quello di conservarli nella loro dialetticità. Questo perché l’inizio e la fine di una qualsiasi storia umana, quindi ancor più l’inizio e la fine della storia dei rapporti umani con-Dio, non possono essere colti come un semplice dato di fatto, come una verità assoluta , come un sistema concettuale, definibile una volta per tutte, ma vanno continuamente ricompresi e ripensati all’interno del processo aperto ed imprevedibile del cammino di questa storia stessa.. L’ »In principio creò Dio (Beresit bara’ ‘elohim) il cielo e la terra » di Genesi 1,1, si propone di offrire una nuova interpretazione al « Quando fece Dio (beyom casot jhwh) la terra e il cielo » di Genesi 2,4b, per meglio esprimere la trascendenza di Dio rispetto al creato, per completare la sdivinizzazione della natura, per affermare la superiore potenzialità teologica del tempo rispetto allo spazio, per celebrare il carattere positivo della volontà creatrice di Dio e il ruolo ordinatore e pacificatore della sua legge, per esaltare la centralità dell’intelligenza e della libertà umana. Proprio per questo dobbiamo ammettere che esso non è il linguaggio definitivo della Bibbia sulla creazione e che la ricerca teologica sulle origini non è meno aperta di quella filosofica e di quella scientifica. Nel singolare intrecciarsi e accavallarsi di miti e di racconti dei primi capitoli della Bibbia non c’è, però, solo questo esplicito e perentorio invito alla continuità e all’apertura della ricerca teologica, al carattere sempre interpretativo e simbolico e mai oggettivo, metafisico e dogmatico di ogni nostra affermazione sul mistero dell’uomo e di Dio. In quanto il mito nuovo non cancella semplicemente l’antico, ma ad esso si sovrappone ed aggiunge, correggendolo, ma anche conservandolo, abbiamo un altro insegnamento fondamentale per l’esegeta, per il teologo ed anche per il semplice credente. L’insegnamento che sono compatibili diverse espressioni della stessa verità e che ogni espressione nuova deve nascere in continuità con l’antica, non come il suo superamento con ripudio, ma come un suo approfondimento, come l’esplicitazione di qualcosa d’implicito o come la valorizzazione di un aspetto rivelatosi via via più importante e tale da presentarsi come quello che offre la chiave per ricomprendere meglio tutto il resto. Così chi vuole tentare di comprendere l’insegnamento teologico dei racconti genesiaci di P e di J deve, innanzitutto, liberarsi dal pregiudizio di dover cercare in essi il fondamento indiscutibile e sicuro della dottrina cristiana della creazione dal nulla. Questa non è presente né nel più antico ed antropomorfo Javhista, col suo Dio giardiniere e vasaio, che fabbrica l’uomo con argilla e con acqua, già lì a sua disposizione, e fa fiorire il giardino dell’Eden su una terra, fino ad allora deserta ed improduttiva; né nel più concettuale e teorico racconto Sacerdotale, con la Parola creatrice, ordinata in sei giorni e culminante nell’istituzione del Sabato. Il versetto 1,1: « In principio Dio creò il cielo e la terra » è al più, rispetto all’intero capitolo iniziale di P, il titolo che enuncia l’argomento, vale a dire ciò che Dio si prepara a fare a partire da una situazione, che il versetto 1,2 descrive come un’indefinibile stato di caos, di vuoto, improduttivo e inanimato, di abisso e di vento. L’agire creativo di Dio prende concretamente avvio col primo « Dio disse » (1,3) che dà origine alla luce, la prima tra le cose buone della lunga serie. Le tenebre, da cui la luce viene subito separata, restano sullo sfondo oscuro del non creato, proprio come le acque, che, prima, Dio divide con la creazione del firmamento (1,6) e, poi, costringe a ritirarsi dall’asciutto (1,9), ma mai qualifica come opera delle sue mani. Il dire, il fare, il vedere, la luce, l’ordine cosmico, che disciplina e dà confini agli elementi, la vita in tutte le sue forme infinite, il tempo, l’uomo-donna e il suo governo pacifico sugli animali, il sabato: vengono da Dio e sono buoni. Le tenebre, il vuoto, l’abisso, le acque, l’asciutto: vengono dominati e disciplinati, non prodotti, dalla sua azione creatrice. Col che la fede cristiana nella creazione dal nulla non è negata o smentita, ma semplicemente problematizzata, aiuta a ripensare se stessa, a riscoprire tutta la ricchezza del tema teologico ed esistenziale a cui ha voluto originariamente dare voce, ma che progressivamente ha finito col mettere a tacere, codificandosi in dogma e in dottrina indiscutibile. Ma l’ »In principio » di Genesi 1,1, non è solo l’inizio dell’opera dei sei giorni, è anche l’inizio della Bibbia come libro e come storia, come libro fatto di libri e storia tessuta di storie. In quanto tale, potrebbe essere anche la prima parola della nostra storia, a patto che impariamo ad interrogarla ed a lasciarcene interrogare, senza cercare di utilizzarla a strumentale conferma delle nostre mezza verità, per paura dell’avventura della verità piena. Come abbiamo visto, infatti, la prima parola della Bibbia non è nata per essere mummificata in verità eterna ed immutabile. E, del resto, neanche Dio, se vogliamo valorizzare ciò che questi racconti insegnano sulla creazione del mondo e dell’uomo, ha voluto licenziare un tutto fatto e finito una volta per sempre, oggettivamente e metafisicamente fissato nel suo essere e nelle sue leggi. Ha tentato l’avventura. Ha fatto uscire i cieli e la terra dall’anonimato del caos e dalla staticità dello spazio vuoto e inanimato; ha prodotto distinzioni e differenze e, con queste, le tensioni dinamiche; ha generato gli esseri viventi, dotati nell’uomo di personalità unica, irripetibile e creatrice; ha dato il via alla possibilità delle scelte, delle relazioni, del conflitto e dell’amore e, al tempo stesso, ha accettato di misurarsi con tutto ciò Col beresit di Genesi 1,1 non comincia solo la serie dei biblici racconti di creazioni, non inizia solo la storia biblica, come storia del mondo e dell’uomo, vengono anche poste le basi di una possibile storia di Dio, di un’infinita serie di storie in cui Dio è coinvolto, perché trascendente non significa separato, ma differente al punto da poter entrare in infinite relazioni di Altro con altri.

Aldo Bodrato 

ESODO 3,1-8A.13-15 – COMMENTO BIBLICO

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ESODO 3,1-8A.13-15 – COMMENTO BIBLICO

1 In quei giorni, Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. 2 L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava. 3 Mosè pensò: « Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia? ». 4 Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: « Mosè, Mosè! ». Rispose: « Eccomi! ». 5 Riprese: « Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa! ». 6 E disse: « Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe ». Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio. 7 Il Signore disse: « Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. 8 Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele. 13 Mosè disse a Dio: « Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro? ». 14 Dio disse a Mosè: « Io sono colui che sono! ». Poi disse: « Dirai agli Israeliti: « Io-Sono » mi ha mandato a voi ». 15 Dio aggiunse a Mosè: « Dirai agli Israeliti: il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione ».

COMMENTO Esodo 3,1-8a.13-15 La vocazione di Mosè Nella prima parte dell’Esodo si narra che i figli di Israele, arrivati nel paese del Nilo come un piccolo clan in cerca di rifugio a causa di una carestia, si sono moltiplicati e i loro discendenti sono stati sottoposti dai faraoni a duri lavori (Es 1). Dio allora salva Mosè dalle acque e lo chiama, conferendogli l’incarico di liberare il popolo (Es 2,1-7,7); dopo una serie di piaghe dolorose inflitte da Dio agli egiziani (Es 7,8-13,16), gli israeliti escono dall’Egitto e giungono nelle vicinanze del monte Sinai (Es 13,17-18,27). Il secondo periodo di spostamenti nel deserto è narrato in Nm 11-36. L’intervento divino in favore del popolo oppresso ha inizio con la vocazione di Mosè (Es 3,1-15). Questo episodio, narrato con materiale tradizionale, è modellato secondo lo schema tipico delle vocazioni bibliche: apparizione divina, missione, obiezione del pre­scelto, conferimento di un segno (cfr. Gdc 6,11-24; 13,1-25).

La visione di Mosè (vv. 1-12) Mosè attraversa il deserto con il gregge del suocero, che qui viene chiamato Ietro (cfr. Es 18,1), e giunge al «monte di Dio»: questo appellativo deriva dal fatto che qui avrà luogo la teofania, ma è possibile che già precedentemente vi fosse un santuario dedicato a qualche divinità. Il monte è chiamato Oreb secondo l’uso soprattutto del Deuteronomio, mentre altre tradizioni usano il nome Sinai. Qui Mosè vede un roveto che arde senza consumarsi e, in mezzo a esso, gli appare «l’angelo (mal<ak) di JHWH», espressione con cui si designa il Dio trascendente in quanto agisce in questo mondo (cfr. Es 23,20). Quando Mosè, attratto dalla visione, si avvicina al roveto per guardare, è Dio stesso che lo chiama per nome. Egli risponde: «Eccomi». Dio allora gli dice: «Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!» (v. 5). L’atto di togliersi i sandali è un segno di rispetto, universalmente diffuso in Oriente, a cui tutti sono tenuti quando entrano nella sfera del sacro. È possibile che in questo racconto sia conservata un’antica leggenda che spiegava l’origine del santuario situato nel monte di Dio. Ma ora colui che si presenta a Mosè è il Dio dei padri, che gli comunica di aver udito il grido degli israeliti oppressi dagli egiziani e di aver deciso di mandarlo dal faraone per imporgli di lasciar uscire il suo popolo, gli israeliti. La prima reazione di Mosè è quella di velarsi il volto, in ossequio all’idea biblica secondo cui chi vede Dio deve morire (v. 6). Egli presenta poi le sue obiezioni: «Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall’Egitto gli israeliti?». Dio allora lo rassicura e gli dà un segno: «Quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte» (vv. 7-12). Il nome divino (vv. 13-15) Il racconto prosegue con la rivelazione del nome divino  che, secondo i sostenitori dell’ipotesi documentaria, porta il marchio specifico della tradizione elohista. Siccome il segno promesso da Dio vale solo per le generazioni successive, Mosè presenta un’ulteriore richiesta: quando arriverà dagli israeliti e dirà loro che il Dio dei loro padri l’ha mandato, essi gli chiederanno: «Qual è il suo nome?», che cosa dovrà rispondere? (v. 13). La necessità di sapere il nome di Dio è comprensibile in un ambiente politeistico, nel quale ogni divinità si distingue dalle altre mediante un suo nome proprio; la tradizione lascia supporre che, prima dell’esodo dall’Egitto, gli israeliti, pur adorando il Dio dei padri, non ne conoscessero il vero nome, anche se questo, secondo altri testi, era noto fin dalla creazione (cfr. Gn 4,26). Per gli israeliti, così come in genere per gli antichi semiti, il nome non è puramente convenzionale, ma esprime, e in qualche modo contiene, la potenza vitale di chi lo porta. L’attesa degli israeliti, di cui Mosè si fa interprete, è perciò ambigua: in quanto implica il desiderio di entrare in un rapporto personale con Dio (culto) essa è legittima, ma diventa inaccettabile nella misura in cui contiene la pretesa superstiziosa di catturare la potenza divina per servirsene a proprio uso e consumo (magia). L’interpretazione del nome divino presenta numerose difficoltà. Anzitutto non è sicuro il modo preciso in cui esso si legge. Gli israeliti infatti, per eccesso di rispetto, a un certo punto della loro storia non lo hanno più pronunziato, e al suo posto hanno letto ’Adonaj, che significa Signore (in greco Kyrios). Siccome l’ebraico, come tutte le lingue semitiche, è scritto con le sole consonanti, di questo nome sono rimaste sole quattro lettere (J H W H), e di conseguenza esso è spesso chiamato il «sacro tetragramma». Quando nel testo ebraico sono state indicate, mediante lineette e puntini, le vocali, sotto queste quattro lettere sono state poste, per comodità del lettore, le vocali del nome ‘Adonaj. Leggendo le consonanti del nome divino con le vocali di ‘Adonaj si è avuto il nome «Jehova» (Geova), usato dai cristiani fino a qualche decennio fa: in realtà, questo nome è frutto di un’errata lettura del sacro tetragramma. La lettura moderna (Jahweh) è una ricostruzione scientifica del modo in cui originariamente era pronunziato il nome divino: essa si basa su vari indizi, quali le regole semantiche ebraiche, la pronunzia dei nomi biblici che contengono l’elemento divino, i reperti archeologici e le antiche traduzioni. Dal punto di vista storico, si è avanzata l’ipotesi che il nome JHWH  fosse utilizzato proprio dai madianiti, con i quali Mosè è venuto a contatto durante il suo esilio, ma ciò è difficilmente dimostrabile. Comunque è ormai certo che esso fosse noto nell’area medio-orientale già prima di Mosè, in quanto sembra attestato nei testi di Ugarit, nei nomi propri amorrei e, da ultimo, nei testi di Ebla del 3° millennio a.C. In questo nome, di cui non si sa quando sia entrato effettivamente nella vita religiosa di Israele, la tradizione ha visto la descrizione più esauriente della natura profonda del Dio dell’al­leanza. Questa intuizione è stata espressa mediante un’etimologia popolare, cioè presentando il nome divino come terza persona singolare del verbo «essere», che al futuro è abbastanza simile a esso (jihjeh). Naturalmente, sulla bocca di Dio il nome è espresso alla prima persona singolare e per di più è stranamente raddoppiato: «Io sono (sarò) colui che sono (sarò)» (‘ehjeh ‘asher ‘ehjeh). Questa formula è stata interpretata in modi diversi, perché in ebraico il tempo futuro può esprimere in certi casi anche il presente e l’imperfetto. In greco essa è stata tradotta «Io sono l’Ente», dando così adito a una interpretazione di tipo filosofico: Dio è l’essere pieno e infinito, che dà l’esistenza a tutte le cose senza dipendere da esse. Alcuni studiosi, invece, l’hanno tradotta «io sono quello che sarò», e vi hanno visto un riferimento all’eternità divina. Altri ancora vi hanno letto un’allusione al fatto che solo Dio può dare la vita («Io sono colui che fa essere»). Secondo la maggior parte degli studiosi moderni, ambedue i verbi della formula sono al presente e si spiegano tenendo conto del fatto che in ebraico il verbo «essere» non indica un semplice «sussistere» ma un «essere con», in senso attivo e dinamico. Perciò l’espressione «Io-sono» indica direttamente la propensione divina a essere presente accanto al popolo in vista della sua liberazione. Collegando il nome divino con il verbo «essere», si è dunque inteso affermare che la vera «natura» di Dio consiste nel volere la salvezza del suo popolo, e nell’essere capace di realizzarla intervenendo potentemente in suo favore. Il fatto che l’espressione «Io sono» sia raddoppiata si spiega alla luce di un testo parallelo in cui Dio afferma di se stesso: «Farò grazia a chi farò grazia» (Es 34,19). In questo testo la ripetizione del verbo sottolinea l’assoluta libertà con cui interviene per liberare Israele, senza esservi costretto da alcuno. Nello stesso modo quando rivela il proprio nome a Mosè, Dio lo mette in guardia contro ogni tentativo di strumentalizzarlo per scopi magici: nessuno può servirsi indebitamente del suo nome, e quindi della sua potenza straordinaria, per ottenere vantaggi di qualsiasi tipo. Linee interpretative La tradizione ha situato di proposito la rivelazione del nome divino nel contesto dell’esodo, affinché fosse chiaro che esso rappresenta la più significativa manifestazione di ciò che effettivamente JHWH ha dimostrato di essere per Israele, cioè il «Dio con noi» (cfr. Is 7,14); ma al tempo stesso ha sottolineato che egli resta l’Essere trascendente di cui nessuno potrà mai servirsi per i propri scopi egoistici. Il nome divino diventa così la sintesi più completa del progetto di liberazione che gli esuli ritornati da Babilonia si erano prefissi, sulla linea di quanto le tradizioni anteriori attribuivano a Mosè. Questo stretto collegamento di Dio con il popolo di Israele è il “dogma” fondamentale della religione biblica. L’interpretazione del nome divino in chiave di alleanza porta inevitabilmente con sé il rischio di un esclusivismo nei confronti degli altri popoli. Questo rischio è stato parzialmente superato con la concezione di JHWH come creatore di tutto il cosmo e di tutta l’umanità e con quella di un compimento escatologico al quale tutte le nazioni sono chiamate. Dio è presente in tutta l’umanità e la conduce a un fine di salvezza. Il suo nome rappresenta una garanzia che Dio non verrà mai meno al suo progetto di salvezza che non può non abbracciare tutti. Ma è stato soltanto il cristianesimo che ha messo pienamente in luce la dimensione universalistica della religione biblica.

BRANO BIBLICO SCELTO – ISAIA 6,1-2A.3-8

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BRANO BIBLICO SCELTO – ISAIA 6,1-2A.3-8

1 Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. 2 Attorno a lui stavano dei serafini, ognuno aveva sei ali e 3 proclamavano l’uno all’altro: « Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria ». 4 Vibravano gli stipiti delle porte alla voce di colui che gridava, mentre il tempio si riempiva di fumo. 5 E dissi: « Ohimè! lo sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti ». 6 Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. 7 Egli mi toccò la bocca e mi disse: « Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua iniquità e il tuo peccato è espiato ». 8 Poi io udii la voce del Signore che diceva: « Chi manderò e chi andrà per noi? ». E io risposi: « Eccomi, manda me! ».   COMMENTO Isaia 6,1-2a.3-8 La vocazione di Isaia

La vocazione di Isaia viene narrata dal profeta stesso in un brano che si trova all’inizio non di tutto il libro, come solitamente, ma del «Libretto dell’Emmanuele» (Is 6-12), cioè della seconda raccolta di oracoli che presuppone un’attività del profeta anteriore alla guerra siro-efraimita (Is 1-5). I motivi di questa collocazione non sono indicati, ma si può supporre che i redattori finali del libro abbiano voluto situare il messaggio negativo affidato al profeta sullo sfondo dell’insuccesso da lui sperimentato nella prima fase della sua missione. Isaia ambienta la sua vocazione nel contesto di una visione inaugurale avvenuta nel tempio: e di fatto gli elementi simbolici con cui è costruito il racconto sono ricavati da rappresentazioni tipiche del culto. È questa un’ulteriore conferma degli stretti legami che esistevano tra Isaia e Gerusalemme, di cui il tempio era il centro religioso e sociale. Il brano si divide in tre parti: ambientazione (vv. 1-4); indegnità e purificazione del profeta (vv. 5-7); missione (vv. 8-13).

Ambientazione (vv. 1-4) Il profeta inizia il suo racconto indicando il tempo e il luogo in cui si trovava quando ha avuto per la prima volta la manifestazione di Dio: «Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio» (v. 1). L’anno della morte del re Ozia potrebbe essere, come si è visto, il 740 a.C. Isaia non dice in quale luogo si trovava quando ha avuto la visione, ma si può supporre che si trattasse del cortile esterno del tempio, perché l’ingresso nell’edificio sacro era riservato ai sacerdoti. Dio gli appare dunque al di là del secondo velo, nella stanza più interna (il santo dei santi), assiso su di un trono alto ed elevato: questa immagine è suggerita dal fatto che il coperchio dell’arca dell’alleanza (espiatorio) era considerato appunto come il trono di Dio (cfr. Es 25,17-21; 1Sam 4,4). In realtà il profeta vede i lembi del manto divino, i quali, prendendo il posto della nube, simbolo della gloria di Dio (cfr. Es 40,34; 1Re 8,10-11), riempiono tempio (hêkal), cioè la prima stanza, chiamata anche il «santo». Accanto a Dio il profeta vede degli esseri animati: «Attorno a lui stavano dei serafini, ognuno aveva sei ali; con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi e con due volava» (v. 2). La presenza di questi esseri potrebbe essere suggerita dall’idea della corte celeste che, secondo la mitologia orientale, circondava la divinità oppure dal fatto che nel tempio due figure alate, chiamate cherubini, sovrastavano il coperchio dell’arca. Nella visione di Isaia questi esseri ricevono invece l’appellativo di «serafini» (serafîm, brucianti), forse in riferimento al fuoco della teofania. Essi sono forniti di sei ali: due servono loro per coprirsi il volto in segno di sacro terrore nei confronti di JHWH, due per coprirsi i piedi (eufemismo per indicare i genitali, che non devono essere esposti in luogo sacro: cfr. Es 20,26; 28,42-43) e due per volare. I serafini sono dunque davanti a Dio in un atteggiamento di adorazione e di lode come appare anche dal loro canto: «Proclamavano l’uno all’altro: Santo, santo, santo è JHWH degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria» (v. 3). Con queste parole si afferma che JHWH, il liberatore e la guida delle schiere di Israele, è tre volte santo, cioè è santo in senso pieno, in quanto è totalmente separato da tutti i limiti e i peccati dell’uomo (trascendenza) (cfr. Os 11,9). Al tempo stesso però la sua «gloria», cioè la sua presenza luminosa, riempie tutta la terra: egli è presente in tutto l’universo che governa secondo i suoi progetti. In altre parole Dio si rende presente nella storia umana, ma non accetta di diventare connivente con il peccato dell’uomo, e di conseguenza lo elimina, comunicando al popolo la sua santità (cfr. Es 19,6; Lv 19,2), oppure riversando i suoi castighi sui peccatori. La rivelazione di Dio è accompagnata da un forte fragore e da uno spesso fumo: «Vibravano gli stipiti delle porte alla voce di colui che gridava, mentre il tempio si riempiva di fumo» (v. 4): anche queste immagini sono suggerite dal modo in cui veniva rappresentata nel culto la manifestazione di Dio (cfr. Es 19,16-19; 1Sam 4,5; 1Re 8,10-12).

Indegnità e purificazione del profeta (vv. 5-7) A questa esperienza Isaia reagisce con una confessione di indegnità: «E dissi: Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, JHWH degli eserciti» (v. 5). Di fronte al Dio santo, l’uomo non può far altro che confessare il suo limite: Isaia si sente solidale con il peccato di tutto il popolo, e lo vede come focalizzato nelle labbra, in quanto impedisce loro di rivolgere a Dio la lode che gli compete. Alla confessione di Isaia fa seguito la sua purificazione: «Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e mi disse: Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua iniquità e il tuo peccato è espiato» (vv. 6-7). Con questo gesto simbolico si vuole significare che Dio ha il potere di perdonare il peccato: l’uomo, se sa riconoscere il suo limite, è salvo e può cominciare una vita nuova.

Missione (vv. 8-13) E di fatti Isaia, dopo che è stato purificato, avverte la chiamata di Dio: «Poi io udii la voce di JHWH che diceva: Chi manderò e chi andrà per noi?» (v. 8a). Mentre il peccato fa sì che l’uomo si chiuda in se stesso, nei suoi desideri egoistici, la purificazione lo rende capace di ascoltare la voce di JHWH che esprime il desiderio di mandare qualcuno a Israele. La reazione di Isaia è immediata: «E io risposi: Eccomi, manda me!». La vocazione comprende dunque due movimenti: quello di Dio che si rivolge all’uomo e quello dell’uomo che si mette liberamente a sua disposizione. A questo punto viene affidato a Isaia un compito da svolgere: «Va’ e riferisci a questo popolo: Ascoltate, ma senza comprendere, guardate, ma senza conoscere» (v. 9). Gli israeliti non vengono chiamati da Dio «mio popolo» ma, con un senso di profondo distacco, «questo popolo». Il messaggio assegnato a Isaia è espresso mediante due verbi all’imperativo, «ascoltate» (šime’û) e «guardate» (re’û), rafforzati ciascuno mediante la ripetizione della stessa radice all’infinito assoluto (ascoltate bene; guardate bene). Ciascuno di essi è seguito da un verbo all’imperfetto preceduto dalla congiunzione we e dall’avverbio negativo al, con significato iussivo (‘al tabînû, non comprendete, ‘al teda’û, non conoscete): Dio comanda dunque agli israeliti di compiere con grande intensità una duplice azione, che metaforicamente significa l’obbedienza al messaggio che egli invia loro, ma sapendo già in partenza che i loro sforzi sono destinati all’insuccesso. Il profeta riceve poi un compito ulteriore: «Rendi insensibile il cuore di questo popolo, appesantisci i suoi orecchi e acceca i suoi occhi» (v. 10a). Il comando di Dio viene espresso mediante tre verbi all’imperativo causativo: «rendere insensibile» (dalla radice saman, essere grasso) il cuore del popolo, «appesantire» (dalla radice kabad, essere pesante) i suoi orecchi e «accecare» (dalla radice ša’a', essere cieco) i suoi occhi. Se si prescinde dalla vocalizzazione masoretica, questi verbi potrebbero essere letti come futuri, prima persona singolare (io renderò insensibile il cuore, appesantirò gli orecchi, accecherò gli occhi…). A questi tre comandi fa seguito una proposizione finale: «affinché non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore» (v. 10b). In questa frase la congiunzione finale negativa pen (affinché non) regge tre verbi all’imperfetto, i quali hanno per soggetto il popolo e riprendono in ordine chiastico i precedenti imperativi: il profeta deve esplicitamente impedire che il popolo veda, ascolti e comprenda. Infine la frase finale viene prolungata mediante altri due verbi retti dalla stessa congiunzione pen: «(affinché) non si converta e non sia guarito» (v. 10c). Il profeta deve dunque far sì che il popolo si indurisca proprio perché non si converta (šûb, ritornare, convertirsi) e non sia guarito (rafa’). Ciò significa che JHWH non è disponibile ad accettare una conversione in extremis che comporterebbe la guarigione del popolo perché non ritiene più che essa sia possibile. Il messaggio assegnato a Isaia rientra nella tematica biblica riguardante la ribellione del popolo nei confronti del suo Dio: quando trasgredisce i suoi comandamenti, Israele manifesta un atteggiamento interiore, analogo alla perdita di funzionalità delle facoltà più importanti, cioè il cuore, la vista e l’udito. L’indurimento del cuore indica il blocco delle facoltà interiori, l’accecamento sottolinea maggiormente la mancanza di conoscenza, mentre la sordità riguarda soprattutto l’opposizione della volontà: in pratica però le diverse immagini vengono a coincidere (cfr. Ger 5,21; Ez 12,2). In Is 6,9-10 subentra però una sfumatura nuova: non è il popolo a indurirsi, a diventare sordo o cieco, ma è Dio stesso che, per mezzo del suo profeta, produce in esso questo stato d’animo. Questa idea riappare in altri due testi: Dt 29,1-3 e Is 29,10 nei quali la colpa del popolo si tramuta in una pena comminata da Dio stesso, come era avvenuto per il faraone, che di fronte al comando di lasciar partire Israele si era indurito (Es 7,13.14; 8,15; 9,35 ecc.), ma al tempo stesso era stato indurito da JHWH (Es 4,21; 7,3; 9,12 ecc.), il quale aveva così potuto dimostrare di essere più potente di lui (Es 10,1; 14,4.17). La stessa reazione di rifiuto è stata provocata da Dio nei cananei (Dt 2,30; Gs 11,20), nei figli di Eli (1Sam 2,25) e nel re Roboamo (1Re 12,15).

Di fronte a una prospettiva così terribile Isaia domanda: «Fino a quando?». La risposta è drastica: fino a che le città siano devastate, le case senza abitanti, la campagna deserta e desolata. JHWH scaccerà la gente finché ne resti solo ne resti solo una decima parte e anche questa sarà preda della distruzione (vv. 11-13a). La totalità della rovina viene paragonata a quella di una quercia o a terebinto che sono caduti e dei quali non resta che il ceppo. Ma le ultime parole contengono un messaggio di speranza: «progenie santa sarà il suo ceppo» (v. 13b). Anche se JHWH «ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe» Isaia continua ad avere fiducia in lui (cfr. Is 8,17). Egli infatti un giorno darà al suo popolo la vista e l’udito e rinnoverà il suo cuore (Is 32,2-4). Ma è dubbio che in questo contesto Isaia abbia voluto esprimere questa speranza perché le ultime parole del v. 13 mancano nei LXX e potrebbero rappresentare un’aggiunta posteriore

Linee interpretative Il modo in cui Isaia presenta la sua chiamata si ispira al modello classico delle vocazioni bibliche (manifestazione divina, sgomento dell’uomo cosciente della sua inadeguatezza, segno, missione). Il carattere contraddittorio della missione affidata al profeta si comprende supponendo che egli, dopo un certo periodo di predicazione, sia giunto alla conclusione che la sua opera è destinata al fallimento a causa dell’ostinazione del popolo. In questa situazione però il profeta, illuminato da Dio, scopre che Dio stesso permette questo indurimento, anzi vuole portarlo alle sue estreme conseguenze per farla finita con il popolo peccatore e per ricominciare da capo la sua opera salvifica. Egli comprende allora che il suo ruolo è proprio quello di spingere il popolo verso il suo tragico destino, annunziandogli insistentemente un messaggio che è già stato rifiutato in partenza. In altre parole il suo invito alla conversione provocherà quasi sicuramente un ulteriore indurimento degli ascoltatori, ma non per questo si sente autorizzato a tacere, perché ormai l’unica speranza è che Dio ricominci da zero la sua opera salvifica.

 

“QUALE UTILITÀ RICAVA L’UOMO DA TUTTO L’AFFANNO PER CUI FATICA SOTTO IL SOLE?” – (QUOÈLET)

http://www.gliscritti.it/approf/varie/qoelet.htm

“QUALE UTILITÀ RICAVA L’UOMO DA TUTTO L’AFFANNO PER CUI FATICA SOTTO IL SOLE?”

Uno sguardo d’insieme sul Qoèlet di Carlo Ancona

Il Prologo del Qoèlet apre con una domanda:

Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole? (Qo 1,2-3) Tale domanda ritornerà nello scritto varie volte, come la questione che non dà pace a Qoèlet, a causa della quale non smette di ricercare, osservare e considerare la realtà della vita per trovare una risposta. Ora Qoèlet è un saggio (12,9) e come tale, secondo la concezione sapienziale ebraica, è capace di uno sguardo lucido sulla realtà, di uno sguardo che sa cogliere il punto di vista di Dio sulla vita e di trarne degli insegnamenti. Ebbene Qoèlet dopo aver posto tale sguardo sul mondo afferma con forza: che vantaggio ne viene da tutta la fatica spesa per essere saggio (1,17), per fuggire l’empietà (8,10ss), ricercare la gioia (2,2), comportarmi bene (6,8)? Non ne viene niente in cambio, non c’è alcun vantaggio/profitto, gli empi spesso guadagnano di più, sembrano vivere meglio (8,14), l’egoista e l’avaro prosperano, il saggio fa la stessa fine dello stolto (2,15), non tutti gli uomini giusti hanno una vita piena o in pace (7,15; 9,2), alla fine nessuna fatica che l’uomo compie sotto il sole è in grado di cambiare il corso delle cose (1,15) poiché tutto è vanità. Ecco che, quindi, come un ritornello viene ripetutamente affermato:

Non c’è di meglio per l’uomo che mangiare e bere e godersela nelle sue fatiche (cfr. Qo 2,24-25; 3,12; 3,22; 5,17; 8,15; 9,7; 9,9; 11,9). Una risposta di questo tipo appare scandalosa presa così come suona, sembra quasi indirizzare l’uomo ad una ricerca del piacere come fuga da un destino ineluttabile nei confronti del quale non ha armi, una visione estranea al messaggio biblico ed evangelico; eppure il testo è chiaro e questa specie di ritornello viene più volte ribadito all’interno del libro che resta comunque un libro canonico, contenente la Parola di Dio. Come affrontare il problema? Conviene ricordare che nei testi sacri le contraddizioni e/o le incongruenze, lungi dall’essere semplici errori o sviste, ad una lettura approfondita risultano spesso gravide di significato. Nel caso in questione il cardine attorno a cui far ruotare la nostra discussione è proprio la domanda posta da Qoèlet:

Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole? Più avanti nel testo pone la stessa domanda utilizzando le categorie del vantaggio (Qo 2,15; 3,9; 5,15; 6,8), a volte si chiede quale profitto ne ha l’uomo (Qo 2,22) o ancora, riferito alla ricerca della gioia: a che giova? (Qo 2,2) Il punto di rottura con la realtà nel libro non sembra essere nelle risposte (che sono in gran parte difficilmente confutabili) ma nella domanda. La domanda così formulata fa riferimento ad un rapporto Dio-uomo alterato e falso e ad una visione distorta della realtà. Vantaggio, utilità, profitto sono categorie che svelano un’idea di Dio come di un padre-padrone che possiede le cose buone, sono Sue e le elargisce solo a chi vuole, anzi a chi si comporta secondo le regole da Lui imposte che vengono così a configurare un sistema di vita competitivo in cui alcuni sono in vantaggio, più buoni, più meritevoli rispetto ad altri. In questa visione Dio possiede tali cose e gli uomini devono comportarsi in un determinato modo (essere buoni), chiedere insistentemente con la preghiera con offerte e promesse tali doni per sperare di riceverne alcuni. Alla base di questo rapporto con Dio c’è una mentalità « commerciale », di scambio tipo « do ut des » in cui l’uomo cerca di comprare favori da Dio con buone azioni (non è questo il meccanismo che sottende talvolta la comprensione dei fioretti o di una certa impostazione dell’ascesi in generale?). Quindi l’uomo per avere la salute, la gioia, il successo, la pace, per riuscire nelle sue imprese, per avere una discendenza, ecc, deve osservare i comandamenti, deve pregare, fare sacrifici ed offerte (pensiamo alla nostra preghiera se non è in radice spesso intrisa di questa mentalità pagana!). Questa sembra essere la visione del rapporto Dio-uomo nella quale nasce il libro del Qoélet. In tale contesto, una domanda del genere non può che avere una risposta consona con quella che da l’Autore: se cerchi un vantaggio non lo avrai! D’altronde tale affermazione ha le caratteristiche evangeliche che Gesù proclama quando descrive il rapporto tra il Padre e l’uomo con le « scandalose » parabole del figliuol prodigo (Lc 15,11ss) o degli operai dell’ultima ora (Mt 20,1ss): né il figlio maggiore né gli operai della “prima” ora avranno un vantaggio per la loro fatica rispetto al figlio minore o a gli operai dell’ “ultima” ora appunto (ma non per questo non avranno tutto comunque, anche se non è un tutto che li porrà in vantaggio rispetto ai fratelli). Se già nell’AT tale mentalità “commerciale” nei riguardi di Dio, che vede un punto nodale nel sacrificio (il sacrificio di animali da compiersi al Tempio) viene criticata, essa viene completamente scardinata da Gesù che mostra di non essere venuto nel mondo a modificare l’oggetto di questo rapporto sacrificale con Dio (nel senso che prima si sacrificava qualcuno o qualcosa e da Gesù in poi sono io a sacrificarmi, compiendo determinate azioni o « buone azioni »), ma ad abolire il sacrificio, a dichiarare nullo questo rapporto di scambio con il Padre e riportarlo alla verità primordiale già affermata fin dalla creazione in Genesi (Gen 3), la gratuità dell’Amore (Giovanni mostra bene tale concetto quando nella purificazione del Tempio descrive Gesù che caccia non solo i mercanti ed i cambiavalute ma anche tutti gli animali che servivano per i sacrifici, cfr.Gv 2,14-16). Il problema serio è di capire che con Dio non si può avere questo atteggiamento, non possiamo cercare di rubargli l’amore che Lui vuole donarci, dobbiamo invece renderci conto della realtà di questo mondo (che la Bibbia proclama contro la mentalità di questo mondo): che tutto proviene da Dio, che la realtà è una benedizione di Dio, che noi viviamo perché investiti continuamente e costantemente (con una fedeltà a noi sconosciuta) da questa benedizione piena che ci permette di vivere (a tutti, buoni e cattivi, cfr. Mt 5,45ss), tutto riceviamo da Dio e gratuitamente (cfr Rm 11,33ss) solo per amore, un amore che ci previene e sorpassa. Questo amore gratuito che è alla base della realtà in cui viviamo scardina dalle fondamenta qualsiasi mentalità commerciale nel rapporto con Dio e determina una inevitabile, cruda ma vera risposta negativa alla domanda di Qoèlet: quale vantaggio ne ho? Nessuno! Non possiamo pensare di faticare (leggi amare) per averne un profitto; l’amore o è libero e gratuito o non è amore! Se Qoèlet nel porre le domande è influenzato da una mentalità che distorce la realtà, tuttavia nella visione critica della vita mostra la sua saggezza ed anche riconoscendo con una enorme sincerità intellettuale che non vengono particolari vantaggi sugli altri dalle fatiche che l’uomo compie sotto il sole, sapientemente afferma che questa fatica è riconosciuta da Dio, è fatta davanti a Dio e gradita a Dio, in questa fatica ci sono già i suoi doni, c’è già la benedizione di Dio (e non contro gli altri o rispetto agli altri) e soprattutto che dobbiamo saperne godere appieno oggi, concretamente, è un dono, una benedizione per la nostra vita e deve essere accolta per renderla bella e piacevole (2,24ss; 3,13; 5,18; 9,7ss):

Non c’è di meglio per l’uomo che mangiare e bere e godersela nelle sue fatiche; ma mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio. Difatti, chi può mangiare e godere senza di lui? (Qo 2,24-25) Così tra le righe del Qoèlet emerge un inno alla gioia con un ammonimento per coloro che non sapranno goderne appieno:

Stà lieto, o giovane, nella tua giovinezza, e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua gioventù. Segui pure le vie del tuo cuore e i desideri dei tuoi occhi. E sappi (però) che su tutto questo Dio ti convocherà in giudizio (Qo 11,9) (La traduzione CEI vede la presenza di un avversativo – « però » – che manca in traduzioni più recenti, cfr L. Mazzinghi. La Sapienza di Israele, Oscar Mondadori, Milano 2000). Questa gioia nasce dal riconoscere i doni di Dio sulla nostra vita e pone l’uomo nella dimensione che più gli è propria, quella della festa e del ringraziamento:

Và, mangia con gioia il tuo pane, bevi il tuo vino con cuore lieto, perché Dio ha gia gradito le tue opere. In ogni tempo le tue vesti siano bianche e il profumo non manchi sul tuo capo. Godi la vita con la sposa che ami per tutti i giorni della tua vita fugace, che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua sorte nella vita e nelle pene che soffri sotto il sole (Qo 9,7-9). Se Qoèlet tiene costantemente un occhio fisso sulla terra, ai beni materiali che dobbiamo imparare a godere sotto il sole, l’altro occhio è sempre rivolto al cielo, a Dio. La cifra teologica che usa il Qoèlet per rendere questo saper godere alla presenza di Dio, sotto il suo sguardo, è quella del Timore di Dio che non è mai il terrore ma semplicemente la percezione della Sua presenza accanto a noi, del Suo sguardo benevolo su di noi (Qo 3,14; 5,6; 7,18; 8,12; 12,13).

Conclusione del discorso, dopo che si è ascoltato ogni cosa: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l’uomo è tutto. (Qo 12,13) Con queste precisazioni le affermazioni che dà il Qoèlet appaiono meno scandalose ed anzi ci ricordano che il saper godere della vita davanti a Dio, dei doni che continuamente riceviamo da Lui, ci avvicinerà alle leggi che la sua Sapienza ha imposto a questo mondo e non potrà che farci compiere un passo in più nella Verità.

In ogni tempo le tue vesti siano bianche e il profumo non manchi sul tuo capo.

BACIO – ENZO BIANCHI

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BACIO – ENZO BIANCHI

Il primo tema del Cantico è quello della genesi dell’amore: amore ancora sconosciuto ma invocato: « mi baci con i baci della sua bocca » o anche « Mi bacerà con i baci della sua bocca ». In queste parole che dominano l’inizio del canto e continuano a vibrare nei versi seguenti, vi è un desiderio, un impeto di passione, un grido istintivo: l’amata chiede dei baci: « Io chiedo, io supplico, io insisto, mi baci con i baci della bocca » Il primo tema del Cantico è quello della genesi dell’amore: amore ancora sconosciuto ma invocato: « mi baci con i baci della sua bocca » o anche « Mi bacerà con i baci della sua bocca ». In queste parole che dominano l’inizio del canto e continuano a vibrare nei versi seguenti, vi è un desiderio, un impeto di passione, un grido istintivo: l’amata chiede dei baci: « Io chiedo, io supplico, io insisto, mi baci con i baci della bocca » (S.Bernardo, Sermone IX,2 sul Cantico). Questo grido è una preghiera a Dio che mandi finalmente il Messia: « Ti scongiuro – pare dire la sposa – perché finalmente tu lo mandi a me, sì che egli non mi parli più per mezzo dei suoi servi, angeli o profeti, ma venga proprio lui e mi baci con i baci della sua bocca, cioè infonda nella mia bocca le parole della sua bocca ed io lo ascolti parlare o lo veda insegnare – in che modo si compia la profezia di Isaia: Non un inviato né un angelo, ma il Signore stesso salva » (Origene, Commento al Cantico dei Cantici).  Ma c’è anche un atto di fede, una confessione, una certezza proclamata: l’amore è già una realtà presente e l’Amata è sicura che l’Amante la bacerà col bacio della sua bocca. Il trionfo finale dell’amore è così assicurato ed è frutto della fede: solo la fede infatti genera l’amore e l’amore è un atto di fede. In questo versetto c’è la chiave per capire la prima dinamica del Cantico: la genesi dell’ amore. Il tema del bacio che qui ricorre è un tema importante nella Scrittura e nella tradizione biblica. Il midrash dice che quando il Santo – benedetto egli sia – terminò di dialogare con l’anima di Mosè che si rifiutava di lasciare il servo di Dio, egli allora prese l’anima di Mosè « con un bacio della sua bocca ». Sicché « Mosè, servo del Signore, morì la nel paese di Moab sulla bocca del Signore ».  Mosè non era morto quando aveva visto Dio faccia a faccia (Es 33,11), ma muore quando Dio lo bacia. Il bacio è infatti il massimo della comunicazione, è il segno della massima comunione ed esprime un amore senza fine. La sposa del Cantico invoca i baci di Dio, dello sposo, del Messia, perché sa che essi possono farla rimanere per sempre con lui in un amore eterno: non confesserà forse che l’amore è più forte della morte, più inflessibile dello Sheol? (8,5-7): il bacio allora è l’introduzione all’ »al di là » e il mezzo per appartenere a Dio anche nella morte. Certo il bacio è una metafora: con essa si esprime ciò che non è raccontabile, che non è spiegabile se non attraverso questa immagine; il bacio è contatto che sovente mostra una intimità più grande dell’unione sessuale e comunque è sempre il sacramento, il segno dell’amore più grande; è, secondo la tradizione ebraica il gesto di massima comunione.  Lo Zohar si domanda: « Perché mai Salomone ha voluto introdurre espressioni di amore tra il mondo di Dio e quello degli uomini e ha usato, iniziando la lode all’amore tra di loro, il termine « Mi baci! »? Invero si è già spiegato, e così è in realtà, che non esiste amore tra due che aderiscono l’un l’altro se non nel bacio ed il bacio si dà con la bocca, che è la sorgente del soffio e il luogo da cui esso esce. Quando si baciano l’un con l’altro i soffi aderiscono questi a quelli e diventano una sola cosa. Allora l’amore è uno! » (Zohar Terumà). Ancora Zalman Schneur, poeta ebreo russo, ben esprime questo peso del bacio nella tradizione ebraica: « Mia colomba, tu non sai come ci baciamo noi ebrei. Fino a che, petto contro petto, nessuno dei due sappia qual è il suo cuore né distingua il cuore dell’altro. Materia e corpo sono spariti. Non resta che un soffio e un’anima: non esistono più parole, solo esiste il parlare della pupilla degli occhi ». Non dovrebbe essere difficile neanche per noi capire il valore altissimo di comunione che il bacio rappresenta. Certo non si può dare neppure all’amplesso sessuale un valore, se questo non è siglato e suggellato dal bacio: solo nel bacio si rende epifanico anche l’amplesso sessuale. Ne dà prova la prassi della prostituzione che campa del congiungimento genitale ma difficilmente lascia posto al bacio. Non a caso la peccatrice mostra il suo amore per Gesù baciandolo, a differenza di chi, come il fariseo, lo ha incontrato ma non lo ha baciato. « Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi » (Lc 7,45). Ugualmente Giuda con un bacio tradisce il Signore, lo consegna ai malfattori; ma il suo bacio d’inganno non genera amore, anzi lo porta a non credere più all’ amore, tanto è vero che pur pentito egli va ad impiccarsi, si ritira e rinuncia alla vita (Mt 27,3-10). Atto di fede o atto di morte, il bacio è il sacramento della fede nell’amore. Per questo deve essere segno caratteristico dei cristiani: « Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo » (Rom 16,16); « Salutatevi l’un l’altro con bacio di carità » (1 Pt 5,14); e i cristiani si dovranno salutare con un bacio santo, en philémati haghìo.  E in Cristo il bacio diviene sacramento per tutta l’umanità, risposta al desiderio che tiene nel gemito tutte le genti: « Il bacio è segno dell’amore: il popolo dell’Alleanza non diede a Dio il bacio perché si rifiutò di amarlo attraverso l’amore dopo averlo servito nel timore. Per questo attraverso la voce della sposa sta scritto del Redentore nel Cantico dei cantici: « Mi baci con il bacio della sua bocca » (1,1) »… « I pagani, chiamati alla salvezza, non cessano di baciare le orme del Redentore perché sospirano continuamente d’amore per lui » (Gregorio Magno, Omelia XXXI,6).  Secondo la tradizione ebraica, « Dio ha parlato con noi faccia a faccia, come un uomo che bacia il proprio amico » (Targum Shir Ha-Shirim), ed è detto anche che « le parole della legge furono date attraverso un bacio » (Cantico Rabba).   La sposa in questo primo dialogo mostra il suo desiderio ma anche fa un atto di fede: « Io lo so: – pare dire – egli mi bacerà con i baci della sua bocca! »   Tratto da: Lontano da chi? di Enzo Bianchi   (L’autore) Enzo Bianchi, scritti vari – autore: Enzo Bianchi

SALOMONE, POLITICO E UOMO SAGGIO – RAVASI

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APPUNTI SU SALOMONE E LA REGINA DI SABA

SALOMONE, POLITICO E UOMO SAGGIO

testo di Mons. Gianfranco Ravasi

Salomone era morto da almeno 900 anni quando ad Alessandria d’Egitto fu composto il libro della Sapienza di cui si legge nell’odierna liturgia domenicale un brano (6,12-16). Eppure la tradizione non ha avuto esitazioni nell’attribuire al celebre re d’Israele anche quest’opera scritta in greco, così come a lui fu assegnata la paternità del cantico dei cantici (1,1) e di Qohelet-Ecclesiaste (1,1), testi da collocare secoli dopo il regno del figlio di Davide. Allo stesso Salomone fu ricondotto l’intero libro dei Proverbi (1,1), anche se alcune parti dell’opera hanno riferimenti ad autori diversi: in questo scritto è possibile, però, che qualche raccolta di detti e aforismi possa essere sorta proprio durante il governo salomonico. Certo è che Salomone nella storia ebraica è rimasto per eccellenza come l’emblema del sapiente, anzi, «egli superò la saggezza di tutti gli orientali e tutta la saggezza d’Egitto», celebrato dalla Bibbia come autore di «3.000 proverbi e 1.005 poesie», capace di dissertare di botanica e di zoologia (1Re 5,9-13). Ma la sua figura è legata soprattutto alla politica interna, estera e religiosa. Egli era nato dall’amore di suo padre Davide per la bellissima Betsabea, sposata in modo tutt’altro che corretto (2Samuele 11-12). Il suo nome in ebraico evocava la parola shalòin, “pace, benessere, prosperità”, mentre il secondo nome era Iedidià, ossia “prediletto del Signore” (2Sarnuele 12,25). La sua successione sul trono paterno era stata travagliata perché di mezzo c’era un altro pretendente, Adonia, figlio di Davide e di un’altra sua moglie, Agghìt. Ma una volta assunto il potere, Salomone s’era rivelato un abilissimo capo di Stato. Fu lui a dare al regno unito una struttura amministrativa e ad aprire una vivace politica internazionale, affidata a un’efficace rete di rapporti conimerciali con Africa, Asia, Arabia, e soprattutto col colosso economico vicino, la Fenicia, in particolare col re di Tiro, Hiram. Fu quest’ultimo a concedergli assistenza tecnica durante l’attuazione della maggiore delle grandi opere messe in cantiere da Salomone, quella dell’edificazione del tempio di Gerusalemme, impresa durata sette anni, e del palazzo reale che di anni ne richiese ben tredici. Una flotta notevole, allestita con l’aiuto dei Fenici, permetteva uno scambio commerciale fruttuoso: la base più importante era nell’attuale golfo di AqabaEilat e questo rivelava anche l’estensione territoriale del regno che, tra l’altro, era stato costellato di città-deposito e di fortezze. Solo la frontiera settentrionale era stata ridimensionata col cedimento di 20 città della Galilea al potente vicino, il re Hiram, così da poter mantenere con lui buone relazioni, essendo necessaria a Israele sia la tecnologia sia il materiale da costruzione (il legname) fenicio. La grandeurdi Salomone era esaltata anche dalla cura dell’immagine: in questa linea si spiega il suo sterminato harem che la Bibbia, un po’ enfaticamente, quantifica in 700 mogli e 300 concubine, provenienti da varie nazionalità, a suggello di una serie di contatti politici, diplomatici ed economici. A questo proposito un evento che certamente creò grande emozione fu la visita di Stato della regina di Saba, l’attuale Yemen, un’operazione anche pubblicitaria per esaltare la reggia, il governo, la prosperità del regno salomonico (i Re 10,1-10), espressione di scambi non solo commerciali ma anche culturali. Non mancarono, però, scontri bellici, come attestano le campagne contro un piccolo regno edomita nell’attuale Giordania e contro una città-Stato di Siria, Zoba. Ma non tutto era perfetto: anche all’interno covava un sordo rancore da parte di al- culli strati sociali contro l’eccessiva imposizione fiscale che colpiva le classi più deboli. Fu un funzionano statale, Geroboamo, a iniziare un movimento di ribellione, sedato da Salomone, ma destinato alla sua morte a esplodere, dando il via attorno al 930 a.C. a una divisione del regno unito ebraico in due Stati antagonisti.

TROVATO IL PALAZZO DELLA REGINA DI SABA La Regina di Saba, bellissima e ricchissima, si innamorò di re Salomone, da cui ebbe un figlio, Menelik, che da adulto invase e conquistò il paese della madre, distruggendo il magnifico palazzo dove la regina abitava e ricostruendolo rivolto verso la stella Sirio – la più luminosa dopo la Stella Polare e facente parte della costellazione Canis Major – che, secondo la mitologia egiziana, rappresentava la divinità Sothis.  Secondo la tradizione etiopica, da Menelik discendono tutti i 225 re e imperatori dell’Etiopia.  Un gruppo di archeologi tedeschi ha annunciato di aver trovato ad Axum, in Etiopia, non solo i resti del palazzo della leggendaria regina che fece girare la testa anche al re Salomone, ma anche il luogo dove fu conservata l’Arca dell’Alleanza di cui parla anche la Bibbia.  I resti del palazzo della regina di Saba, risalente al decimo secolo avanti Cristo – secondo quanto ha reso noto un comunicato dell’università di Amburgo – sono stati scoperti in primavera sotto i ruderi di un altro edificio costruito da un re cristiano. Riferimenti alla regina di Saba sono presenti, oltre che nella Bibbia, anche nel Corano e nel Kebra Nagast, il Libro della Gloria dei Re dell’Etiopia. «Sulla base della datazione temporale, dell’orientamento e dei dettagli che ho scoperto, sono sicuro che è il palazzo (della regina di Saba)» ha detto il prof . Helmut Ziegert dell’Istituto archeologico universitario di Amburgo ai giornalisti. Gli archeologi tedeschi sono inoltre convinti che su un altare colà ritrovato, rivolto verso la stella Sirio, sia rimasta per lungo tempo l’Arca dell’Alleanza. Secondo la Bibbia essa era una cassa in legno di acacia rivestita d’oro e riccamente decorata, la cui costruzione fu ordinata da Dio a Mosè. Considerata il segno visibile della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, in essa erano conservate le Tavole dei dieci comandamenti, che Mosè aveva ricevuto sul monte Sinai, il bastone di Aronne e un recipiente con la manna, il cibo divino miracolosamente inviato da Dio agli ebrei nel deserto, in modo da salvarli dalla morte per fame. Ziegert intorno all’altare ha trovato 17 doni sacrali, recipienti e vasellame che secondo i ricercatori sono una prova della grande importanza dell’altare, mantenutasi nei secoli. La tradizione etiopica vuole che un seguace di Menelik durante una visita del giovane al padre Salomone abbia portato via dal Tempio di Gerusalemme l’Arca con le leggi bibliche e da allora essa sia conservata segretamente nella Chiesa di S.Maria di Sion a Axum. Secondo altre saghe, l’Arca sarebbe scomparsa quando nel 586 a.C Gerusalemme fu saccheggiata dai conquistatori babilonesi. L’Arca ha ricevuto nuova popolarità dal successo del film «I Predatori dell’Arca Perduta» (1981), con Harrison Ford nei panni di Indiana Jones. Le ricerche nella città sacra di Axum erano cominciate nel 1999, per fare chiarezza sulle origini dell’Etiopia e della Chiesa ortodossa etiope. Secondo altre fonti, il palazzo della regina di Saba sarebbe a Marib, in Yemen.

PREGHIAMO IL SALMO 6

http://www.srifugio.it/salmi_penitenziali_novembre12.php

PREGHIAMO IL SALMO 6

C’è un cielo stellato, blu intenso e nitido, come possono essere nitide certe notti nel deserto dove il giorno e la sera splendono di luce vivida nell’aria pura. Un grande fuoco illumina il centro delle tendopoli, i visi dei pastori, dei musicanti e del loro re.
Si scorge tutto intorno il profilo rossastro delle tende; qui più tardi sarà silenzio e tutti riposeranno.
Le greggi calme attendono, e sognano i pascoli di domani. C’è pace. L’uomo di tremila anni fa sta in silenzio a contemplare. Poi, prima singolarmente e poi a più voci, nasce un canto: l’ebreo ispirato parla al suo Dio, e parla di Dio. Arpe melodiose risuonano nell’atmosfera rarefatta, mentre un inno di lode e di ringraziamento si diffonde nell’aria bruna.
La notte avanza. Il re e la sua tribù, appagati, prendono sonno presso i loro giacigli. C’è chi veglia accanto al fuoco. Il nemico è lontano: Dio protegge l’ebreo fiducioso.
E’ l’immagine che vedo con l’occhio dell’intuizione. Mi piace questo quadro sereno, incantato, quasi perfetto, che mi ispira la lettura di alcuni salmi, tanto da sentirmi partecipe di tanta grazia.
Gli inni, intanto, cantati per secoli e mandati a memoria, passano da generazione a generazione, fino a quando la scrittura ne sancirà l’eternità.
L’uomo poeta, capace di sentire il suo animo, e in esso di fare silenzio, giunge alla parola autentica, che è rivelazione. Nel silenzio c’è la gestazione di questa parola eterna e sempre portatrice di verità; Parola piena di forza e carica di efficacia.
Ecco perché ancora oggi i salmi riescono ad emozionarci e ci trasmettono il senso del divino. La parola dei salmisti è parola ispirata, che proviene dal silenzio, che è Dio, in attesa che il mistero trinitario, mille anni dopo, ci riveli il Verbo, la Parola da essi già profetizzata.
L’uomo poeta, anche da peccatore, sa parlare al suo Dio, che si svela nel suo animo, nella sua coscienza, e racconta… Racconta di vittorie sul male, e di cadute di cui si lamenta e si pente. Egli parla di persecuzioni e di nemici, parla di colpe di cui si è macchiato e chiede clemenza e misericordia, perdono e rigenerazione.
Egli è certo che Dio lo ascolterà; il Signore mosso a pietà, ascolterà il canto del dolore del suo figlio debole e pentito.
Nel Salterio, composto da 5 libri, sono contenuti 150 salmi, di cui sette sono lamentazioni raccolte da S. Agostino, sotto il nome di “Salmi penitenziali” (6;32;38;51;102;130;143) .
Il Santo, sul letto di morte, fece appendere, di fronte al suo letto, i salmi penitenziali e pare non cessasse mai di recitarli.
Propongo la lettura del salmo penitenziale N° 6 (Libro I) e aggiungo in calce un breve commento, ripreso letteralmente dal libro: “I Salmi – preghiera e poesia” – di Benedetto Piacentini Ed. Paoline.
Dada

SALMO 6

1 Al maestro del coro. Per strumenti a corda. Sull’ottava.
Salmo. Di Davide.

2 Signore, non rimproverarmi nella tua ira,
non castigarmi nel tuo furore.
3 Abbi pietà di me, SIGNORE, perché sono abbattuto;
risanami, SIGNORE, perché tremano le mie ossa
4 e l’anima mia è sconvolta assai,
ma tu, SIGNORE, fino a quando?
5 Ritorna, SIGNORE, libera l’anima mia,
salvami per la tua misericordia.
6 Nessuno tra i morti ti ricorda.
Chi nello Sheol può darti lode?
7 Mi sono estenuato per il lungo lamento,
ogni notte inondo il mio giaciglio,
bagno con le mie lacrime il mio letto.
8 Si sono consumati per il dolore i miei occhi,
invecchiano in mezzo a tutti i miei avversari.
9 Allontanatevi da me voi tutti operatori di iniquità,
perché ha dato ascolto, il SIGNORE,
alla voce del mio pianto,
10 ha dato ascolto il SIGNORE, alla mia supplica,
il SIGNORE accoglie la mia preghiera.
11 Siano confusi e sconvolti assai tutti i miei nemici,
si volgano indietro, confusi, all’istante.

Divisione del testo

Il salmo si divide in 11 versetti e si può suddividere in 3 parti:
vv 2-6: lamentazione con invocazione del nome di Dio.
vv.7-8 descrizione della pena interiore vissuta dal salmista.
vv. 9-11 imprecazione contro i nemici.

vv 2-6: L’orante è cosciente che esiste un rapporto tra la sua colpa e la persecuzione che subisce (v. 2) e si appella alla misericordia di Dio per essere salvato dai nemici (v.5). Con gli imperativi di apertura (“non punirmi”; “non castigarmi”) il salmista si rivolge a Dio in atteggiamento filiale chiedendogli di non superare una certa misura nella correzione e di liberarlo dalla morte (v.6). L’imperativo”ritorna!” (v.5) esprime una richiesta affinché Dio dall’ira passi alla pietà e dalla correzione alla liberazione. In questa parte del salmo l’orante si rivolge a Dio in seconda persona invocandolo cinque volte con il nome proprio (il tetragramma; vv.2-3 [2*] -4-5).
vv. 7-8: In questa sezione il salmista parla delle sue sofferenze in prima persona: la notte non arreca riposo mentre l’angoscia e il dolore si aggravano ancor più; il pianto è continuo e le lacrime inondano il suo letto (v. 7). Rispetto alla descrizione dei vv. 3-4 il dolore descritto qui è più profondo e interiore, è vissuto nell’intimo dell’orante nel silenzio notturno e rimane nascosto a tutti.
vv. 9-11: Il dialogo sommesso con Dio viene accolto come una preghiera. Il salmista è sicuro che la sua supplica e il suo pianto saranno ascoltati e perciò si rivolge ai suoi avversari con un imperativo: “Allontanatevi da me, voi tutti operatori di iniquità!”. I quattro imperfetti che chiudono il salmo possono esprimere un auspicio ma anche la certezza della sconfitta del nemico. Il salmista non chiede la morte dei suoi rivali ma il fallimento dei loro propositi (v.11); il tema della disillusione dei nemici è perciò ripetuto nella finale del salmo.

ASCOLTARE E VEDERE, NELL’ANTICO TESTAMENTO (DA RINO FISICHELLA)

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ASCOLTARE E VEDERE, NELL’ANTICO TESTAMENTO (DA RINO FISICHELLA)

Scritto da Redazione de Gliscritti: 29 /04 /2009 -

(da R. Fisichella, Introduzione alla teologia fondamentale, Piemme, Casale Monferrato, 1992, pp. 67-69)

L’Antico Testamento, legge l’evento della rivelazione alla luce di un intervento libero, sovrano e potente di Dio. L’espressione privilegiata per esprimerlo è «parola di Jahvè». Per l’uomo biblico, infatti, nonostante si dia il «vedere» e «guardare» Jahvè, si fa tuttavia maggior affidamento all’«ascoltare» la sua voce. Anche un semplice sguardo all’uso terminologico mostra con evidente chiarezza questa posizione privilegiata: il verbo: akoúo nei LXX è usato circa 1080 volte contro le 520 circa di oráo. È peculiare di Israele l’entrare in rapporto con Jahvè attraverso la categoria della parola; a differenza del mondo greco dove, invece, domina la componente visiva. Se i Greci, quindi, sono stati il popolo dell’occhio per la loro insistenza alla contemplazione, gli Ebrei sono stati, invece, il popolo dell’ascolto; «vedere Jahvè» avrà sempre per loro una componente metaforica. Una concezione visiva di Dio è per il popolo ebraico una realtà tanto inusuale quanto inaudita. In quei rarissimi casi in cui se ne parla, viene comunque mantenuto il riserbo totale. Anche nel caso di Mosé, in cui vi era tutto l’interesse apologetico per evidenziare il suo rapporto confidenziale con Jahvè, a tal punto da giungere ad affermare che questi parlava con Jahvè «faccia a faccia», come un amico parla con un amico; l’autore sacro, tuttavia, sente il dovere di correggere questa impostazione avvertendo che Jahvè gli passò davanti mostrando solo le sue spalle, «perché non si può vedere Dio e restare in vita» (Es 33,20; Is 6,5). Tanto è eccezionale il vedere Dio, quanto è invece comune l’«ascoltare la sua voce». Anche nei casi espliciti di teofanie, quali 1 Sam 3,1-21 e Is 6,1-7, l’accentuazione è data, poi, all’ascolto. La religione veterotestamentaria è la religione della «parola», ma come per ogni linguaggio, la prima reazione al «dire» non è un altro dire, ma il silenzio e l’ascolto. «Shema Israel» resterà sempre nella storia del popolo come l’emblema costitutivo nel suo rapportarsi al Signore. Questo fa comprendere ugualmente che l’ascolto non è conseguenza di una passività; è, piuttosto, segno di una libera scelta di chi si pone nella dimensione coerente con la rivelazione del mistero. La «parola» rivelata ispira, dirige e determina la storia di un popolo attraverso le vicende tipiche del suo formarsi come popolo e dell’organizzarsi come tale. Dai Patriarchi ai Giudici, dalla monarchia al profetismo, l’azione rivelativa di Dio è onnipresente e onnicomprensiva: nulla nella storia di questo popolo può essere posto fuori dall’orizzonte di questa azione, pena l’incomprensibilità della storia stessa e l’inesistenza del popolo come tale. La Torah stessa, è pensata e interpretata come «parole» che vengono dall’Alleanza; anzi tutta la legge sarà denominata con «la parola» (cfr. Dt 28,69; 30,14; 32,47). Attraverso la «parola di Jahvè», Israele conosce chi è Dio perché per il mondo semitico la parola quasi in nulla si distingue da colui che la pronuncia. Il valore noetico che essa possiede permette così di conoscere la realtà stessa; i pensieri e gli affetti, le intenzioni e i propositi… tutto ciò che costituisce la persona è facilmente confluibile nella sua parola. Essa, nel momento in cui viene posta in atto, attualizza ciò che pronuncia (Gn 1,3); il Dio veritiero è il Dio che parla in modo fedele e che tiene fede alla parola promessa.

PROFILI BIBLICI : NOÈ, COLUI CHE CAMMINA CON DIO

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PROFILI BIBLICI : NOÈ, COLUI CHE CAMMINA CON DIO

di don Vincenzo Lopasso | luglio-agosto 2013

Noè è menzionato nei capitoli 6-9 del libro della Genesi che raccolgono tradizioni differenti su un’inondazione di carattere universale. Sebbene altri testi antichi, provenienti da vari Paesi vicini a Israele, narrino che nei primordi dell’umanità sia esistito un diluvio di questo tipo, di esso non c’è alcuna prova archeologica. Il diluvio esprime il giudizio divino sull’uomo. Tale giudizio coinvolge anche il mondo e le cose create, perché essi risentono negativamente del peccato dell’uomo. Dio, con il diluvio, riporta le cose allo stato primigenio, quando non c’era distinzione tra le acque che stavano sopra il firmamento e quelle che si trovavano sotto di esso, e quando sulla terra non esisteva ancora l’asciutto (Gen 1,6-7.9-10). I racconti sul diluvio evidenziano il rapporto esistente tra giudizio e salvezza. Dio promette che non punirà mai più la creazione a causa del peccato dell’uomo (Gen 8,21). Tale promessa ha il carattere di un giuramento ed è eterna. Dio la realizzerà senza premettere alcuna condizione, in modo unilaterale e gratuito (9,8-17). Il segno di tale promessa è l’arcobaleno sulle nubi: chiunque guarderà l’arcobaleno, concepito come un arco da guerra a riposo, potrà ricordarsi che Dio non manderà più sulla terra acque tali da distruggerla completamente, come avvenne ai tempi di Noè. Nel Nuovo Testamento (Prima lettera di Pietro, 3,13-24) si vede nel battesimo un’opera di distruzione analoga a quella avutasi con il diluvio: in entrambi i casi essa porta a una nuova creazione e alla salvezza. Il Vangelo di Matteo si spinge ancora più in là parlando di Gesù come Figlio dell’uomo in rapporto al diluvio (24,39) e nel contesto del racconto del battesimo nel Giordano (Mt 3,13-17; 24,39): in entrambi i casi le acque rappresentano il passaggio a una nuova creazione. Perciò per i Padri della Chiesa Noè che sopravvive al diluvio anticipa Gesù Cristo che si leva dal Giordano e dal sepolcro, quale vincitore del peccato e della morte. Noè  scampa al giudizio per la sua giustizia. Genesi 6,9 lo definisce «uomo giusto ed integro tra i suoi contemporanei e camminava con Dio» (cfr 2Pt 2,5). Egli è un personaggio tipico anche per altri aspetti. Innanzitutto, essendo il primo uomo dopo il diluvio, è legato strettamente alla terra, come lo era stato Adamo. Questi, dopo il peccato, per punizione, è costretto a lavorare il suolo, mentre questo, per colpa sua, produce «spine e cardi» (3,18). Noè è detto «uomo della terra» o «coltivatore del suolo» (9,20). La sua nascita era stata salutata dal padre Lamech come segno di consolazione da parte del Signore per il suolo che era stato maledetto (5, 29). Da qui il nome Noè, dalla radice «consolare». In secondo luogo, Noè ha la missione di preservare la vita. Come Adamo, è padre dell’umanità, di quella nata dai suoi figli dopo il diluvio. Egli dovrà ospitare nell’arca una coppia di ogni animale (7,2) e la sua stessa famiglia (6,18), in modo che la vita possa continuare in futuro. Inoltre dovrà procurare  loro il necessario nutrimento (6,21). Quest’attenzione alla vita si registra anche dopo il diluvio, quando Dio lo benedice assieme ai suoi figli con le stesse parole con le quali aveva benedetto la prima coppia: «Siate fecondi e moltiplicatevi» (1,28; 9,1);  prescrive di non mangiare gli animali con il sangue (9,4), ed esige che la vita umana sia inviolabile, perché appartiene a lui (9,6). Questi racconti sono di grande attualità, perché aiutano a cogliere il rapporto esistente tra etica e ambiente, tra violazione della legge di Dio e rispetto della natura. Mostrano come il peccato, di qualsiasi genere, produca i suoi effetti negativi non solo sulla collettività umana, ma anche sull’ambiente naturale in cui si vive. Essi aiutano a comprendere il giudizio divino come parte di un unico progetto che Dio realizza per la salvezza degli uomini e della creazione.

PAPA GIOVANNI PAOLO II – SALMO 117 (NELL’ANGOSCIA HO GRIDATO AL SIGNORE…)

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PAPA GIOVANNI PAOLO II – SALMO 117 (NELL’ANGOSCIA HO GRIDATO AL SIGNORE…)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì 5 dicembre 2001

Salmo 117/118, Canto di gioia e di vittoria Lodi Domenica 2a Settimana (Lettura: Sal 117, 1-2.19-20.22.24).

Celebrate il Signore, perché è buono; perché eterna è la sua misericordia.

Dica Israele che egli è buono: eterna è la sua misericordia. Lo dica la casa di Aronne: eterna è la sua misericordia. Lo dica chi teme Dio: eterna è la sua misericordia.

Nell’angoscia ho gridato al Signore, mi ha risposto, il Signore, e mi ha tratto in salvo. Il Signore è con me, non ho timore; che cosa può farmi l’uomo? Il Signore è con me, è mio aiuto, sfiderò i miei nemici.

E’ meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nell’uomo. E’ meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nei potenti.

Tutti i popoli mi hanno circondato, ma nel nome del Signore li ho sconfitti. Mi hanno circondato, mi hanno accerchiato, ma nel nome del Signore li ho sconfitti. Mi hanno circondato come api, come fuoco che divampa tra le spine, ma nel nome del Signore li ho sconfitti. Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, ma il Signore è stato mio aiuto.

Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza. Grida di giubilo e di vittoria, nelle tende dei giusti: la destra del Signore ha fatto meraviglie, la destra del Signore si è innalzata, la destra del Signore ha fatto meraviglie. Non morirò, resterò in vita e annunzierò le opere del Signore.

Il Signore mi ha provato duramente, ma non mi ha consegnato alla morte.

Apritemi le porte della giustizia: voglio entrarvi e rendere grazie al Signore. E’ questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti.

Ti rendo grazie, perché mi hai esaudito, perché sei stato la mia salvezza. La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo; ecco l’opera del Signore: una meraviglia ai nostri occhi. Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo in esso.

Dona, Signore, la tua salvezza, dona, Signore, la vittoria! Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Vi benediciamo dalla casa del Signore; Dio, il Signore è nostra luce. Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare.

Sei tu il mio Dio e ti rendo grazie, sei il mio Dio e ti esalto. Celebrate il Signore, perché è buono: perché eterna è la sua misericordia.

1. Quando il cristiano, in sintonia con la voce orante di Israele, canta il Salmo 117 che abbiamo appena sentito risuonare, prova dentro di sé un fremito particolare. Egli trova, infatti, in questo inno di forte impronta liturgica due frasi che echeggeranno all’interno del Nuovo Testamento con una nuova tonalità. La prima è costituita dal v. 22: « La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo ». Questa frase è citata da Gesù, che la applica alla sua missione di morte e di gloria, dopo aver narrato la parabola dei vignaioli omicidi (cfr Mt 21, 42). La frase è richiamata anche da Pietro negli Atti degli Apostoli: « Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati » (At 4, 11-12). Commenta Cirillo di Gerusalemme: « Uno solo diciamo il Signore Gesù Cristo, affinché la filiazione sia unica; uno solo diciamo, perché tu non pensi che ve ne sia un altro… Infatti è chiamato pietra, non inanimata né tagliata da mani umane, ma pietra angolare, perché colui che avrà creduto in essa non rimarrà deluso » (Le Catechesi, Roma 1993, pp. 312-313). La seconda frase che il Nuovo Testamento desume dal Salmo 117 è proclamata dalla folla nel solenne ingresso messianico di Cristo in Gerusalemme: « Benedetto colui che viene nel nome del Signore! » (Mt 21, 9; cfr Sal 117, 26). L’acclamazione è incorniciata da un « Osanna » che riprende l’invocazione ebraica hoshiac na’, « deh, salvaci! ». 2. Questo splendido inno biblico è collocato all’interno della piccola raccolta di Salmi, dal 112 al 117, detta lo « Hallel pasquale », cioè la lode salmica usata dal culto ebraico per la Pasqua e anche per le principali solennità dell’anno liturgico. Il filo conduttore del Salmo 117 può essere considerato il rito processionale, scandito forse da canti per il solista e per il coro, sullo sfondo della città santa e del suo tempio. Una bella antifona apre e chiude il testo: « Celebrate il Signore perché è buono, eterna è la sua misericordia » (vv. 1.29). La parola « misericordia » traduce la parola ebraica hesed, che designa la fedeltà generosa di Dio nei confronti del suo popolo alleato e amico. A cantare questa fedeltà sono coinvolte tre categorie di persone: tutto Israele, la « casa di Aronne », cioè i sacerdoti, e « chi teme Dio », una locuzione che indica i fedeli e successivamente anche i proseliti, cioè i membri delle altre nazioni desiderosi di aderire alla legge del Signore (cfr vv. 2-4). 3. La processione sembra snodarsi per le vie di Gerusalemme, perché si parla delle « tende dei giusti » (cfr v. 15). Si leva, comunque, un inno di ringraziamento (cfr vv. 5-18), il cui messaggio è essenziale: anche quando si è nell’angoscia bisogna conservare alta la fiaccola della fiducia, perché la mano potente del Signore conduce il suo fedele alla vittoria sul male e alla salvezza. Il poeta sacro usa immagini forti e vivaci: gli avversari crudeli sono paragonati ad uno sciame d’api o a un fronte di fiamme che avanza riducendo tutto in cenere (cfr v. 12). Ma la reazione del giusto, sostenuto dal Signore, è veemente; per tre volte si ripete: « Nel nome del Signore li ho sconfitti » e il verbo ebraico evidenzia un intervento distruttivo nei confronti del male (cfr vv. 10.11.12). Alla radice, infatti, c’è la destra potente di Dio, cioè la sua opera efficace, e non certo la mano debole e incerta dell’uomo. Ed è per questo che la gioia per la vittoria sul male si apre ad una professione di fede molto suggestiva: « Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza » (v. 14). 4. La processione sembra essere giunta al tempio, alle « porte della giustizia » (v. 19), cioè alla porta santa di Sion. Qui si intona un secondo canto di ringraziamento, che è aperto da un dialogo tra l’assemblea e i sacerdoti per essere ammessi al culto. « Apritemi le porte della giustizia: entrerò a rendere grazie al Signore », dice il solista a nome dell’assemblea processionale. « È questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti » (v. 20), rispondono altri, probabilmente i sacerdoti. Una volta entrati si può dar voce all’inno di gratitudine al Signore, che nel tempio si offre come « pietra » stabile e sicura su cui edificare la casa della vita (cfr Mt 7, 24-25). Una benedizione sacerdotale scende sui fedeli, che sono entrati nel tempio per esprimere la loro fede, elevare la loro preghiera e celebrare il culto. 5. L’ultima scena che si apre davanti ai nostri occhi è costituita da un rito gioioso di danze sacre, accompagnate da un festoso agitare di fronde: « Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare » (v. 27). La liturgia è gioia, incontro di festa, espressione dell’intera esistenza che loda il Signore. Il rito delle fronde fa pensare alla solennità ebraica delle Capanne, memoria del pellegrinaggio di Israele nel deserto, solennità nella quale si compiva una processione con rami di palme, mirto e salice. Questo stesso rito evocato dal Salmo si ripropone al cristiano nell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, celebrato nella liturgia della Domenica delle Palme. Cristo è osannato come « figlio di Davide » (cfr Mt 21, 9) dalla folla che, « venuta per la festa… prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele! » (Gv 12, 12-13). In quella celebrazione festosa che, però, prelude all’ora della passione e morte di Gesù, si attua e comprende in senso pieno anche il simbolo della pietra angolare, proposto in apertura, acquisendo un valore glorioso e pasquale. Il Salmo 117 rincuora i cristiani a riconoscere nell’evento pasquale di Gesù « il giorno fatto dal Signore », in cui « la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo ». Col Salmo essi possono quindi cantare pieni di gratitudine: « Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza » (v. 14); « Questo è il giorno fatto dal Signore, rallegriamoci ed esultiamo in esso » (v. 24).  

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