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I SALMI DEI MALATI (LUCIANO MANICARDI)

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I SALMI DEI MALATI (LUCIANO MANICARDI)

Pubblicato da Fausto Ferrari

All’interno del Salterio vi sono alcuni Salmi pronunciati da uomini malati.

All’interno del Salterio vi sono alcuni Salmi pronunciati da uomini malati. Vi possiamo annoverare almeno i Salmi 6; 38; 41; 88; 102; 143; ma troviamo accenni a situazioni di malattia in diversi altri Salmi (p. es., Sal 107, 17-22) e, ovviamente, a una vasta gamma di situazioni di sofferenza: fisica, psichica, morale. Generazioni di credenti hanno trovato in queste preghiere le parole per dire la propria, personale situazione di sofferenza e malattia, e ancora oggi noi vi troviamo un autentico magistero per « dirci nella malattia », per dire la nostra sofferenza davanti a Dio, per dare voce a collera e rabbia, a protesta e ribellione, e per dar forma di invocazione e di supplica ad angoscia e speranza.
Il Salterio, in effetti, presenta una ricca varietà di « linguaggi della sofferenza », estremamente preziosa per noi che di fronte alla sofferenza e al dolore siamo sempre più nell’afasia, nell’incapacità di tradurre verbalmente le emozioni e i sentimenti che ci traversano e sconvolgono, e così siamo privati del primo, fondamentale ed elementare passo per assumere la malattia, per viverla. E in questo modo rischiamo solo di subirla o di delegare alla tecnica e a personale specialistico la sua gestione. La malattia pone l’uomo in stato di invocazione. E questa è verbale e corporea. È grido (Sal 69,4; 142,2), è domanda (di guarigione, come in Sal 6,3 o semplicemente e più radicalmente di senso, come nel tenebroso Salmo 88), è protesta che chiede conto a Dio («Perché?»: Sal 22,2; «Fino a quando?»: Sal 13,2-3), è dialogo interiore di chi, in una drammatica lotta con se stesso, cerca di integrare il pesante vissuto di sofferenza (Sal 42,5.12; 43,5), è lamento (Sal 5,2), è pianto (Sal 6,7-9). Coinvolgendo tutte le fibre dell’uomo, il pianto è un linguaggio particolarmente efficace e veridico. Dice un testo rabbinico: «La preghiera è fatta in silenzio, il grido ad alta voce, ma lacrime sorpassano tutto».
Chi prega, infatti, nei Salmi, e particolarmente nelle situazioni di malattia, è il corpo stesso. L’esperienza di malattia costringe l’uomo a prendere coscienza del proprio corpo. Mentre esprime la propria sofferenza, l’orante dei Salmi dice anche il proprio corpo: il senso di disarticolazione, consunzione o bruciore delle ossa dovuto alla febbre che priva di forza il malato impedendogli di stare in piedi e costringendolo all’orizzontalità che anticipa la morte. Gli occhi che si consumano nel patire, per il troppo piangere, o la vista che abbandona il malato che rischia la cecità, angosciano l’orante che si sente privato dell’integrità della vita.
L’orante parla della gola, canale attraverso cui passa il respiro, e sovente dichiara di trovarsi nell’angoscia, nella tsarà, cioè, nel soffocamento, nella situazione di mancanza di respiro, oltre che nell’aridità di chi soffre la sete. Sofferenza psichica e dolore fisico sono intrecciati e le espressioni salmiche mantengono una valenza simbolica che manifesta l’uomo malato come totalità sofferente. La situazione di disfacimento del proprio essere è espressa parlando del cuore, sede dell’energia vitale e organo centrale e misterioso della vita, che si scioglie e viene meno. La carne in cui non c e più nulla di sano, i fianchi che ardono infiammati, il ventre torturato dalla pena, le mani e le braccia infiacchite, sono frammenti del discorso con cui l’orante cerca di ritrovare davanti a Dio l’unità vitale infranta dalla malattia.
Pregare i Salmi manifesta dunque un aspetto liberante che «consiste nel vivere le parole del testo assumendole in se stessi. Occorre lasciarsi trascinare dal loro realismo; noi non oseremmo mai pronunciare spontaneamente queste parole perché sono troppo forti, perché ci implicano troppo. I Salmi sono la possibilità di rimettere piede in un mondo censurato; sono la possibilità di poter ‘parlare’ ciò di cui abbiamo preso l’abitudine di non parlare più. Perché non vogliamo riconoscere che siamo in un corpo che ci lega, ci limita, a volte perfino ci schiaccia, ma che è il nostro unico luogo di verità, la nostra sola possibilità di esistenza e di espressione veramente umana, veramente personale» (Matthieu Collin). E i Salmi ci ricordano che è l’orante è un corpo orante: «Il fragile strumento della preghiera, l’arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Sembra che per il salmista tutto si giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all’anima, ma al contrario, perché l’anima non si esprime e non traspare se non nel corpo. Il Salterio è la preghiera del corpo. Anche la meditazione vi si esteriorizza prendendo il nome di « mormorio », « sussurro ». Il corpo è il luogo dell’anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. È il corpo stesso che prega: « Tutte le mie ossa diranno: Chi è come te, Signore? » (Sal 35,10)» (Paul Beauchamp).
E poiché il corpo è il libro del tempo, la tavoletta su cui il tempo incide la propria traccia, ecco che l’orante malato sente con particolare angoscia e drammaticità il passare del tempo: in Sal 102 si esprime un uomo che, nel pieno delle forze, a metà della sua vita, si sente strappato prematuramente alla vita da un male che lo consuma inesorabilmente giorno dopo giorno. Di fronte a lui il tempo cosmico (i monti, il cielo), che era prima di lui e che sarà dopo di lui, e soprattutto il tempo di Dio, colui «i cui anni non hanno fine» e a cui egli si rivolge chiedendo che «presto» intervenga: il suo tempo, infatti, sta per scadere… Le notti insonni, l’alba che non spunta mai, il tempo lunghissimo perché abitato dal dolore, ma anche l’angoscia del finire inesorabile della vita, la rapidità con si srotola il gomitolo del tempo, sono le contrastanti sensazioni che vive il Salmista nella sua malattia.
Nei Salmi le espressioni sono troppo generiche perché si possa risalire alla precisa malattia che affliggeva l’orante, ma soprattutto il salmista più che parlare di malattie, parla di morte che invade la sfera della vita, che fa incursioni nell’esistenza di un uomo. Là dove c’è debolezza e malattia, là è attiva la morte, così che in certi Salmi l’orante si presenta come un morto, come un uomo finito, già posto nella fossa (cfr. Sal 88). Se la vita è relazione, tutto ciò che è sentito come minaccia alla pienezza delle relazioni è letto come opera della morte. La morte appare così come una potenza nemica che irrompe nella vita di un uomo: siamo di fronte a una concezione della morte incomparabilmente più ricca rispetto a quella moderna che è fisica, puntuale, legata allo spegnimento di alcune funzioni biologiche vitali. Per la Bibbia anche mancanza di libertà e peccato, malattia e oppressione, angoscia e privazione di diritti, sono forme di « morte nella vita ». La supplica, dunque, linguaggio dell’uomo nella malattia e nella non pienezza di vita, tende sempre a mutarsi in lode, che è il linguaggio della relazione piena e serena con Dio, è linguaggio della vita («Non i morti, infatti, ma i viventi lodano il Signore»: Sal 115,17-18).
Ma forse, l’elemento che più colpisce all’interno dei Salmi è il rapporto spesso posto, da diversi punti di vista, fra malattia e peccato. Il malato chiede perdono a Dio e il peccatore spesso si presenta come un malato. Né si tratta di mera e grossolana applicazione della teoria della retribuzione, per cui la malattia sarebbe il castigo del peccato commesso.
Il nesso fra malattia e peccato è profondo psicologicamente: nella malattia, l’orante è condotto quasi inconsciamente a correlare la propria finitezza al senso di colpa. Ma nella Bibbia e nei Salmi tale correlazione ha a che fare con il problema del senso della malattia, del messaggio che in essa è insito e indica al credente vie e forme per affrontarla e per farla rientrare all’interno della propria esperienza umana e di fede. Questo legame, del resto, non è specifico della rivelazione biblica, ma è elemento comune ad altre culture e tradizioni religiose.
Legando la malattia al peccato (ed entrambe queste realtà hanno in comune il fatto di essere dei mali) la Bibbia rende leggibile, comprensibile e dominabile anche la malattia, che per l’uomo biblico poteva invece essere un non senso. Il Dio che ha potere sul male e sul peccato, il Dio capace di perdono, è anche capace di liberare dalla malattia e di guarire: in questo modo quel potenziale assurdo che è la malattia, viene rimessa nella mani del Signore della vita e recuperata al senso, dunque alla vivibilità e sopportabilità. All’orante è data infatti la forza di combattere che viene dal poter nutrire una speranza. Dio, infatti, cantano i Salmi, «perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie» (Sal 103,3).

(da l’Ancora, 11, 2003)

Publié dans:BIBBIA. A.T. SALMI |on 11 février, 2020 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – UDIENZA GENERALE – Salmo 126 (2011)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20111012.html

BENEDETTO XVI – UDIENZA GENERALE – Salmo 126 (2011)

Piazza San Pietro
Mercoledì, 12 ottobre 2011

Cari fratelli e sorelle,

nelle precedenti catechesi abbiamo meditato su alcuni Salmi di lamento e di fiducia. Quest’oggi vorrei riflettere con voi su un Salmo dalle note festose, una preghiera che, nella gioia, canta le meraviglie di Dio. È il Salmo 126 – secondo la numerazione greco latina 125 -, che celebra le grandi cose che il Signore ha operato con il suo popolo e che continuamente opera con ogni credente.
Il Salmista, a nome di tutto Israele, inizia la sua preghiera ricordando l’esperienza esaltante della salvezza:

«Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia» (vv. 1-2a).

Il Salmo parla di una “sorte ristabilita”, cioè restituita allo stato originario, in tutta la sua precedente positività. Si parte, cioè, da una situazione di sofferenza e di bisogno a cui Dio risponde operando salvezza e riportando l’orante alla condizione di prima, anzi arricchita e cambiata in meglio. È quello che avviene a Giobbe, quando il Signore gli ridona tutto quanto aveva perduto, raddoppiandolo ed elargendo una benedizione ancora maggiore (cfr Gb 42,10-13), ed è quanto sperimenta il popolo d’Israele ritornando in patria dall’esilio babilonese. E’ proprio in riferimento alla fine della deportazione in terra straniera che viene interpretato questo Salmo: l’espressione “ristabilire la sorte di Sion” è letta e compresa dalla tradizione come un “far tornare i prigionieri di Sion”. In effetti, il ritorno dall’esilio è paradigma di ogni intervento divino di salvezza perché la caduta di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia sono state un’esperienza devastante per il popolo eletto, non solo sul piano politico e sociale, ma anche e soprattutto sul piano religioso e spirituale. La perdita della terra, la fine della monarchia davidica e la distruzione del Tempio appaiono come una smentita delle promesse divine, e il popolo dell’alleanza, disperso tra i pagani, si interroga dolorosamente su un Dio che sembra averlo abbandonato. Perciò, la fine della deportazione e il ritorno in patria sono sperimentati come un meraviglioso ritorno alla fede, alla fiducia, alla comunione con il Signore; è un “ristabilimento della sorte” che implica anche conversione del cuore, perdono, ritrovata amicizia con Dio, consapevolezza della sua misericordia e rinnovata possibilità di lodarLo (cfr Ger 29,12-14; 30,18-20; 33,6-11; Ez 39,25-29). Si tratta di un’esperienza di gioia straripante, di sorrisi e grida di giubilo, talmente bella che “sembra di sognare”. Gli interventi divini hanno spesso forme inaspettate, che vanno al di là di quanto l’uomo possa immaginare; ecco allora la meraviglia e la letizia che si esprimono nella lode: “Il Signore ha fatto grandi cose”. È quanto dicono le nazioni, ed è quanto proclama Israele:

«Allora si diceva tra le genti:
“Il Signore ha fatto grandi cose per loro”.
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia» (vv. 2b-3).

Dio fa meraviglie nella storia degli uomini. Operando la salvezza, si rivela a tutti come Signore potente e misericordioso, rifugio dell’oppresso, che non dimentica il grido dei poveri (cfr Sal 9,10.13), che ama la giustizia e il diritto e del cui amore è piena la terra (cfr Sal 33,5). Perciò, davanti alla liberazione del popolo di Israele, tutte le genti riconoscono le cose grandi e stupende che Dio compie per il suo popolo e celebrano il Signore nella sua realtà di Salvatore. E Israele fa eco alla proclamazione delle nazioni, e la riprende ripetendola, ma da protagonista, come diretto destinatario dell’azione divina: «Grandi cose ha fatto il Signore per noi»; “per noi”, o ancor più precisamente, “con noi”, in ebraico ‘immanû, affermando così quel rap­porto privilegiato che il Signore intrattiene con i suoi eletti e che troverà nel nome Immanuel, “Dio con noi”, con cui viene chiamato Gesù, il suo cul­mine e la sua piena manifestazione (cfr Mt 1,23).
Cari fratelli e sorelle, nella nostra preghiera dovremmo guardare più spesso a come, nelle vicende della nostra vita, il Signore ci ha protetti, guidati, aiutati e lodarlo per quanto ha fatto e fa per noi. Dobbiamo essere più attenti alle cose buone che il Signore ci dà. Siamo sempre attenti ai problemi, alle difficoltà e quasi non vogliamo percepire che ci sono cose belle che vengono dal Signore. Questa attenzione, che diventa gratitudine, è molto importante per noi e ci crea una memoria del bene che ci aiuta anche nelle ore buie. Dio compie cose grandi, e chi ne fa esperienza – attento alla bontà del Signore con l’attenzione del cuore – è ricolmo di gioia. Su questa nota festosa si conclude la prima parte del Salmo. Essere salvati e tornare in patria dall’esilio è come essere ritornati alla vita: la liberazione apre al sorriso, ma insieme all’attesa di un compimento ancora da desiderare e da domandare. È questa la seconda parte del nostro Salmo che suona così:

«Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia.
Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni» (vv. 4-6).

Se all’inizio della sua preghiera, il Salmista celebrava la gioia di una sorte ormai ristabilita dal Signore, ora invece la chiede come qualcosa ancora da realizzare. Se si applica questo Salmo al ritorno dall’esilio, questa apparente contraddizione si spiegherebbe con l’esperienza storica, fatta da Israele, di un ritorno in patria difficile, solo parziale, che induce l’orante a sollecitare un ulteriore intervento divino per portare a pienezza la restaurazione del popolo.
Ma il Salmo va oltre il dato puramente storico per aprirsi a dimensioni più ampie, di tipo teologico. L’esperienza consolante della liberazione da Babilonia è comunque ancora incompiuta, “già” avvenuta, ma “non ancora” contrassegnata dalla definitiva pienezza. Così, mentre nella gioia celebra la salvezza ricevuta, la preghiera si apre all’attesa della realizzazione piena. Per questo il Salmo utilizza immagini particolari, che, con la loro complessità, rimandano alla realtà misteriosa della redenzione, in cui si intrecciano dono ricevuto e ancora da attendere, vita e morte, gioia sognante e lacrime penose. La prima immagine fa riferimento ai torrenti secchi del deserto del Neghev, che con le piogge si riempiono di acqua impetuosa che ridà vita al terreno inaridito e lo fa rifiorire. La richiesta del Salmista è dunque che il ristabilimento della sorte del popolo e il ritorno dall’esilio siano come quell’acqua, travolgente e inarrestabile, e capace di trasformare il deserto in una immensa distesa di erba verde e di fiori.
La seconda immagine si sposta dalle colline aride e rocciose del Neghev ai campi che i contadini coltivano per trarne il cibo. Per parlare della salvezza, si richiama qui l’esperienza che ogni anno si rinnova nel mondo agricolo: il momento difficile e faticoso della semina e poi la gioia prorompente del raccolto. Una semina che è accompagnata dalle lacrime, perché si getta ciò che potrebbe ancora diventare pane, esponendosi a un’attesa piena di incertezze: il contadino lavora, prepara il terreno, sparge il seme, ma, come illustra bene la parabola del seminatore, non sa dove questo seme cadrà, se gli uccelli lo mangeranno, se attecchirà, se metterà radici, se diventerà spiga (cfr Mt 13,3-9; Mc 4,2-9; Lc 8,4-8). Gettare il seme è un gesto di fiducia e di speranza; è necessaria l’operosità dell’uomo, ma poi si deve entrare in un’attesa impotente, ben sapendo che molti fattori saranno determinanti per il buon esito del raccolto e che il rischio di un fallimento è sempre in agguato. Eppure, anno dopo anno, il contadino ripete il suo gesto e getta il suo seme. E quando questo diventa spiga, e i campi si riempiono di messi, ecco la gioia di chi è davanti a un prodigio straordinario. Gesù conosceva bene questa esperienza e ne parlava con i suoi: «Diceva: “Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa» (Mc 4,26-27). È il mistero nascosto della vita, sono le meravigliose “grandi cose” della salvezza che il Signore opera nella storia degli uomini e di cui gli uomini ignorano il segreto. L’intervento divino, quando si manifesta in pienezza, mostra una dimensione prorompente, come i torrenti del Neghev e come il grano nei campi, evocatore quest’ultimo anche di una sproporzione tipica delle cose di Dio: sproporzione tra la fatica della semina e l’immensa gioia del raccolto, tra l’ansia dell’attesa e la rasserenante visione dei granai ricolmi, tra i piccoli semi gettati a terra e i grandi cumuli di covoni dorati dal sole. Alla mietitura, tutto è trasformato, il pianto è finito, ha lasciato il posto a grida di gioia esultante.
A tutto questo fa riferimento il Salmista per parlare della salvezza, della liberazione, del ristabilimento della sorte, del ritorno dall’esilio. La deportazione a Babilonia, come ogni altra situazione di sofferenza e di crisi, con il suo buio doloroso fatto di dubbi e di apparente lontananza di Dio, in realtà, dice il nostro Salmo, è come una semina. Nel Mistero di Cristo, alla luce del Nuovo Testamento, il messaggio si fa ancora più esplicito e chiaro: il credente che attraversa quel buio è come il chicco di grano caduto in terra che muore, ma per dare molto frutto (cfr Gv 12,24); oppure, riprendendo un’altra immagine cara a Gesù, è come la donna che soffre nelle doglie del parto per poter giungere alla gioia di aver dato alla luce una nuova vita (cfr Gv 16,21).
Cari fratelli e sorelle, questo Salmo ci insegna che, nella nostra preghiera, dobbiamo rimanere sempre aperti alla speranza e saldi nella fede in Dio. La nostra storia, anche se segnata spesso da dolore, da incertezze, da momenti di crisi, è una storia di salvezza e di “ristabilimento delle sorti”. In Gesù, ogni nostro esilio finisce, e ogni lacrima è asciugata, nel mistero della sua Croce, della morte trasformata in vita, come il chicco di grano che si spezza nella terra e diventa spiga. Anche per noi questa scoperta di Gesù Cristo è la grande gioia del “sì” di Dio, del ristabilimento della nostra sorte. Ma come coloro che – ritornati da Babilonia pieni di gioia – hanno trovato una terra impoverita, devastata, come pure la difficoltà della seminagione e hanno sofferto piangendo non sapendo se realmente alla fine ci sarebbe stata la raccolta, così anche noi, dopo la grande scoperta di Gesù Cristo – la nostra vita, la verità, il cammino – entrando nel terreno della fede, nella “terra della fede”, troviamo anche spesso una vita buia, dura, difficile, una seminagione con lacrime, ma sicuri che la luce di Cristo ci dona, alla fine, realmente, la grande raccolta. E dobbiamo imparare questo anche nelle notti buie; non dimenticare che la luce c’è, che Dio è già in mezzo alla nostra vita e che possiamo seminare con la grande fiducia che il “sì” di Dio è più forte di tutti noi. E’ importante non perdere questo ricordo della presenza di Dio nella nostra vita, questa gioia profonda che Dio è entrato nella nostra vita, liberandoci: è la gratitudine per la scoperta di Gesù Cristo, che è venuto da noi. E questa gratitudine si trasforma in speranza, è stella della speranza che ci dà la fiducia, è la luce, perché proprio i dolori della seminagione sono l’inizio della nuova vita, della grande e definitiva gioia di Dio.

I SALMI NELLA LITURGIA DELLE ORE

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I SALMI NELLA LITURGIA DELLE ORE

22 marzo 2019
Il canto dei salmi faceva parte della liturgia ebraica del tempio e della sinagoga, e per osmosi naturale e` entrato a far parte anche della liturgica cristiana. La liturgia cristiana si pone infatti in continuita` con la liturgica ebraica, anche se in sostanziale novita`.

di fr Raffaele Quilotti OP, docente di Liturgia

Il canto dei salmi faceva parte della liturgia ebraica del tempio e della sinagoga, e per osmosi naturale e` entrato a far parte anche della liturgica cristiana. La liturgia cristiana si pone infatti in continuita` con la liturgica ebraica, anche se in sostanziale novita`. In continuita` perche´ molti elementi della liturgia ebraica sono stati assunti nella celebrazione cristiana; in novita` perche´ il centro della liturgia cristiana e` il mistero del Cristo: noi celebriamo la sua persona, la sua opera, la sua pasqua, usufruendo per la celebrazioni anche di gesti e testi, acclamazioni, termini ebraici e aramaici (amen, alleluia, sabaoth, hosanna…) gia` della liturgia del tempio, di quella sinagogale e personale.
Il “Salterio”
I salmi giunti fino a noi sono 150, raccolti in un libro biblico chiamato salterio. Salterio e` il nome di uno strumento musicale: i salmi si cantavano accompagnati da strumenti musicali che ne davano il ritmo e l’intonazione. Questo ci dice gia` che i salmi sono dei canti poetici e che vanno cantati, un po’ come tutti i poemi antichi. Cantati in modo diretto, cioe` tutto di seguito, o a cori alterni, o cantati da un solista, o in modo responsoriale tra salmista e ritornello dell’assemblea (cf. Principi e Norme per la Liturgia delle Ore [=PNLO], nn. 121-123).
“E` risaputo che i salmi (cf. i nn. 103-120, che inviterei a rileggere) sono strettamente connessi con la musica; lo dimostra la tradizione sia giudaica che cristiana. In verita` alla piena comprensione di molti salmi contribuisce non poco il fatto che essi vengano cantati o almeno siano sempre considerati in questa luce poetica e musicale. Pertanto, se e` possibile, e` da preferirsi questa forma, almeno nei giorni e nelle Ore principali, e secondo il carattere proprio dei salmi. I diversi modi di eseguire la salmodia sono descritti ai nn. 121-123 (di PNLO). La loro varieta` non deve essere dettata tanto da circostanze esterne, quanto piuttosto, dal diverso genere di quei salmi che ricorrono nella medesima celebrazione. Secondo questo criterio i salmi sapienziali e storici si prestano forse meglio a essere ascoltati, mentre, al contrario, quelli di lode e di rendimento di grazie comportano per se´ il canto in comune. Quel che conta piu` di tutto e` che la celebrazione non si leghi a schemi rigidi e artificiosi, non obbedisca solo a norme puramente formali, ma risponda allo spirito autentico dell’azione che si compie. Il primo scopo da raggiungere e` infatti quello di formare gli animi all’amore per la preghiera genuina della Chiesa e di rendere gioiosa la celebrazione della lode di Dio (cf. Sal 146)” (PNLO, nn. 278- 279).
Composizione del salterio
Nella composizione del salterio i salmi non si susseguono in modo casuale ma sono raccolti seguendo un ordine: si inizia con la scelta di vita (salmo 1: Beato l’uomo che non segue) e si conclude con la glorificazione di Dio con canti e tutti gli strumenti musicali (salmo 150: Lodate il Signore nel suo santuario). Il salterio si suddivide in cinque libretti che terminano ognuno con due Amen: “Amen, Amen”(1-41; 42-72; 73-89; 90-1l6; 107-150). Il salterio e` come un libro che va letto da cima a fondo progressivamente, e cosi` veniva pregato, con una lettura continua. Questa impostazione di fondo e` stata conservata grosso modo anche nell’ultima riforma della Liturgia delle Ore.
Distribuzione generale dei salmi nella LO
Tuttavia nella distribuzione dei salmi si e` tenuto conto (del resto come gia` in passato) anche delle Ore del giorno, dei giorni della settimana, nonche´ di particolari feste e periodi dell’anno liturgico. Per questo, ad esempio, a Compieta ci sono dei salmi adatti alla sera prima di andare a dormire; alle lodi mattutine e ai vespri, nonche´ per i salmi invitatori, le scelte sono diverse. Gli stessi criteri si applicano anche agli inni delle varie Ore e dei giorni. Possiamo dunque distinguere: i salmi invitatori, il salmi di Lodi, i salmi di Vespro, i salmi di Compieta, i salmi per l’Ufficio di lettura o mattutino, i salmi della domenica (pasquali), i salmi del venerdi` (penitenziali), i salmi del sabato (storici e sapienziali). Ne riparliamo.
Da dove partire
La nuova forma della liturgia delle Ore (LO) conseguente alla riforma liturgica del concilio Vaticano II, ha come punto di partenza iniziale la Sacrosanctum Concilium, che tratta della Liturgia delle Ore al cap. IV. L’Ufficio divino, nn. 83-101. Il capitolo inizia dal valore teologico della LO, opera di Cristo e della Chiesa (nn. 83-85), e prosegue sulla sua dimensione pastorale (nn. 86-87). Da qui l’esigenza di una riforma per adeguare questa celebrazione alle mutate condizioni odierne (nn. 88-89). Il n. 89 chiedeva un numero minore di salmi per il Mattutino (Ufficio di Lettura), la soppressione dell’Ora di Prima e per la Compieta la scelta di salmi piu` appropriati per la fine della giornata. Il n. 91 parla della distribuzione dei salmi, tenendo presente che deve essere una celebrazione accessibile a tutti i fedeli (anche laici), con celebrazioni piu` brevi (numero dei salmi); da qui l’apertura anche all’uso delle lingue vive (n. 101). Su questi criteri di fondo e` stata pensata una nuova struttura della LO, che si snodi in uno spazio di tempo piu` lungo di una settimana (n. 91). La commissione incaricata si e` messa subito all’opera ma prima di arrivare ad una struttura definitiva condivisa ci sono voluti sei anni. Alla fine il ritmo della Liturgia delle Ore si snoda su quattro settimane, con tre salmi (o tre parti di salmi) per ogni Ora del giorno, eccetto Compieta che ha un salmo solo (eccetto la prima Compieta della domenica e la compieta del mercoledi` che ne hanno due, perche´ brevi). I salmi piu` lunghi furono divisi in due o tre parti, mentre il lungo salmo 118 conservo` le sue 22 parti, quante le lettere dell’alfabeto ebraico. Per le Ore minori (facoltative: Terza, Sesta e Nona) si ricorse ai brevi salmi “graduali”, cioe` i salmi che gli ebrei pregavano salendo in pellegrinaggio a Gerusalemme (119-127).
Due tipi di salmi difficili
Due tipi di salmi da tempo facevano difficolta`: i salmi imprecatori e i salmi storici, che sembravano poco adatti ad una preghiera, soprattutto evangelica (soprattutto i primi).
I salmi imprecatori (57, 82, 108, ma numerosi versetti anche in altri salmi) erano salmi o espressioni psicologicamente difficili da comprendere in ambito evangelico, in bocca a Cristo, in quanto sono preghiere che invocano la vendetta di Dio e la maledizione sugli avversari, mentre Gesu` chiedeva di perdonare anche i nemici e pregare per i persecutori. Il bellissimo e nostalgico salmo 136: Sui fiumi di Babilonia la` sedevamo piangendo al ricordo di Sion, si conclude con una crudelissima invettiva contro la citta` nemica: beato chi afferrera` i tuoi piccoli e li sfracellera` contro la pietra. Come pregare questi versetti da parte di persone non preparate a leggere e capire il genere letterario dei salmi? Eppure anche questi salmi sono Parola di Dio e Gesu` li ha pregati. In ogni caso si e` deciso di tralasciare questi salmi o questi versetti (i monaci invece, giustamente, li hanno mantenuti).
I salmi storici (77, 104, 105) sono quei salmi che ripercorrono la storia del popolo ebreo. Che senso possono avere nella preghiera dei cristiani? Hanno senso nel fatto che essi ripercorrono le opere salvifiche di Dio, che avranno il loro coronamento nella morte e resurrezione di Gesu`, nella pasqua di Gesu`. Per questo motivo questi salmi storici sono stati riservati al sabato (di Avvento e Natale, Quaresima e Pasqua), come introduzione alla domenica (PNLO, n. 130).
Cantici biblici e evangelici
ai 150 salmi, nel tempo erano subentrati nella preghiera cristiana della LO anche altri Cantici presenti in altri libri biblici dell’AT, e negli stessi vangeli (Benedictus, Magnificat, Nunc. dimittis). Il numero del Cantici biblici fu completato in modo che ogni giorno delle quattro settimane avesse un suo cantico dell’AT alle Lodi; si aggiunsero poi 9 cantici presi dai libri del NT da recitarsi settimanalmente nei Vespri (questi ultimi cantici sono una novita`) e si e` conservata la recita quotidiana dei tre cantici evangelici per Lodi, Vespri e Compieta.
Assegnazione dei salmi nelle varie celebrazioni del giorno
(PNLO, nn. 126-135 sui salmi; 136-139 sui Cantici)
Cio` premesso ci chiediamo con quali criteri sono stati scelti giorno per giorno i salmi e i cantici. Forse questo ci aiutera` a pregare meglio le varie Ore del giorno. Teniamo presente che il canto dei salmi c’e` anche nella Liturgia delle Parola della liturgia eucaristica, come salmi responsoriali o canti (antifone) di ingresso.
1. Salmi invitatori (PNLO, nn. 34-36).
Essi hanno il compito di introdurre alla preghiera del giorno, sono un invito a cantare le lodi di Dio, ad ascoltare la sua voce, aspettando il riposo del Signore. Si cantano o si recitano al mattino, come prima preghiera, in forma responsoriale.
Il tradizionale salmo invitatorio, introduttivo alla preghiera, e` il salmo 94, Venite applaudiamo al Signore, un invito solenne a lodare ringraziare, adorare, ascoltare; l’ascolto esige una risposta.
A questo salmo ne sono stati aggiunti altri tre. Il salmo 99, Acclamate al Signore voi tutti della terra; e` simile al salmo 94; tutto pervaso di gioia per l’incontro col Signore, nostro creatore e nostro pastore. Il salmo 66, Dio abbia pieta` di noi e ci benedica; tre brevi strofe con un ritornello di alleluia; esprime l’anelito che il regno di Dio si estenda a tutti i popoli. Infine il salmo 23, Del Signore e` la terra e quanto contiene; un salmo che esprime le condizioni ideali per entrare davanti al Signore; una esortazione ad allargare le porte perche´ entri il Signore a regnare nel nostro cuore.
2. Salmi a Lodi mattutine, Vespri e Compieta (PNLO, nn. 37-54.84ss. 136-139).
a) Le Lodi mattutine. Sono stati scelti tre salmi, in crescendo come importanza. Il primo salmo e` inerente all’ora del mattino, un salmo legato alla luce. Il secondo e` un cantico dell’AT. Complessivamente i Cantici del VT sono 26, alcuni presi dalla tradizione, altri dall’Ufficio monastico. I cantici delle lodi delle domeniche sono ripetuti. Il terzo salmo infine e` il vero canto di lode; e` il piu` importante e solenne dei tre, e lo deve essere anche nel tono.
b) Vespri. Per questa preghiera si sono scelti dei salmi piu` semplici, a partire dal salmo 109 (l’ultima parte del salterio, che sono salmi di lode). Come terzo canto e` stato scelto un cantico del NT, il piu` importante dei tre. Complessivamente sono 9 i cantici del NT, presi in prevalenza dal libro dell’Apocalisse. Ai Vespri delle domeniche nel tempo di quaresima, il cantico alleluiatico di Apocalisse 19 (Alleluia. Salvezza gloria e potenza) e` stato sostituito da 1Pt 2, 21-24 (Cristo pati` per voi). Inoltre per l’Epifania e la Trasfigurazione si e` ricorso a 1Tm 3,16 (Cristo si manifesto` nella carne).
c) Compieta. Per questa Ora prima del sonno (non della sera) sono stati scelti dei salmi di fiducia in Dio, con la possibilita` di pregare tutti i giorni i salmi della domenica, in particolare il salmo 90: Tu che abiti al riparo dell’Altissimo, un salmo di abbandono in Dio.
La preghiera dei salmi viene aiutata dal titolo proprio del salmo e dalle antifone, che ne mettono a fuoco alcuni aspetti. Si voleva riprendere anche l’uso antico della orazioni salmiche, che sono un interpretare il salmo in senso cristologico, ma l’intento non ha trovato molto seguito (nn. 110-120).
Salmi nelle celebrazioni settimanali e nelle solennita` e feste
a) Salmi secondo i giorni della settimana. Per tradizione si e` tenuto conto anche dei giorni della settimana, in particolare della domenica, la cui celebrazione inizia con i primi vespri, la quale ha una dimensione spiccatamente pasquale. Sarebbe lungo enumerare tutti i salmi della domenica, settimana per settimana. Alleniamoci a scoprire in questi salmi la dimensione pasquale. Anche il mattutino del sabato risente talvolta della attrazione della domenica. Uguale attenzione si e` dato al venerdi`, con una dimensione penitenziale. Alle Lodi del venerdi` c’e` sempre il salmo 50 (Pieta` di me o Dio) e nell’Ora media della 3a settimana il salmo 21 (Dio mio, Dio mio, perche´ mi hai dimenticato).
b) Salmi nelle solennita` e feste. Pensiamo in particolare alle solennita` di Natale, Epifania, Pasqua (Triduo pasquale), Ascensione e Pentecoste, sulle quali c’era gia` stata molta attenzione anche in passato. Uguale lavorio per i Comuni: Dedicazione, Beata Vergine Maria, apostoli, martiri, confessori e dottori, vergini, santi e sante, e per l’Ufficio dei defunti. Una qualche differenziazione c’e` anche tra le solennita` e le feste: piu` curate, nella forma d’insieme, le prime. La scelta di un salmo e` suggerita da qualche suo versetto particolare, spesso nella tradizione latina o nella traduzione italiana. Cambiando la traduzione (gli agganci) talvolta si e` cambiato anche il salmo.
In ambito domenicano pensiamo alle solennita` e alla feste del nostro calendario: san Domenico, san Tommaso, santa Caterina da Siena, sant’Alberto Magno (non so se sara` possibile mantenere questo grado anche nel nuovo Ordinamento del Calendario domenicano, in attesa di approvazione da parte della Congregazione per il culto).
Vorrei inserire qui una riflessione riguardo la celebrazione dei confessori e dottori, finora uniti insieme in un medesimo formulario. Essere confessori (pastori: vescovi, sacerdoti e diaconi) e essere dottori, sono due cose diverse, perche´ possono essere dottori anche dei cristiani non insigniti del sacramento dell’Ordine (esempio delle donne). Questo portera`, penso, in futuro, a qualche ulteriore distinzione. In ogni caso, anche riguardo gli insigniti del sacramento dell’Ordine, mi sembra piu` importante essere vescovi e sacerdoti che dottori. Perche´ esser dottori evidenzia un ministero particolare, quello profetico, rispetto ai ministero pastorale che include tre funzioni: sacerdotale, profetico e regale. Naturalmente queste considerazioni, in concreto, dipendono dal carattere particolare dei singoli confessori, se sono stati piu` grandi nel ministero pastorale o in quello magisteriale. Nell’Ordine domenicano si e` dato naturalmente piu` importanza al fatto di essere dottori che essere vescovi, ma teologicamente non e` cosi` (mi sembra). Ulteriori riflessioni sui salmi porteranno forse a preferire alcuni di essi piuttosto che altri. La Liturgia non e` mai un tutto fisso.

Conclusione
Concludo citando un testo della bella Introduzione alla Liturgia delle Ore, che mi sembra significativo, proprio sui salmi.
“Nella Liturgia delle Ore la Chiesa prega in gran parte con quei bellissimi canti, che i sacri autori, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno composto nell’Antico Testamento. Per la loro stessa origine, infatti, essi hanno una capacita` tale da elevare la mente degli uomini a Dio, da suscitare in essi pii e santi affetti, da aiutarli mirabilmente a render grazie a Dio nelle circostanze prospere, da recare consolazione e fermezza d’animo nelle avversita`.
I salmi, tuttavia, non offrono che un’immagine imperfetta di quella pienezza dei tempi che apparve in Cristo Signore e dalla quale trae il suo vigore la preghiera della Chiesa. Pertanto puo` talvolta accadere che, pur concordando tutti i cristiani nella somma stima dei salmi, trovino tuttavia qualche difficolta`, nello stesso tempo in cui cercano di far propri nella preghiera quei canti venerandi.
Ma lo Spirito Santo, sotto la cui ispirazione i salmisti hanno cantato, assiste sempre con la sua grazia coloro che eseguono tali inni con fede e buona volonta`. E` tuttavia necessario che ciascuno, secondo le sue possibilita`, si procuri «una maggiore formazione biblica, specialmente riguardo ai salmi». Inoltre si deve arrivare ad assimilare bene il modo e il metodo migliore per pregarli come si conviene” (PNLO, cap. III, nn. 100-102).
Riferimenti-base per approfondire il discorso
- La Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium (=SC), nn. 83-101 (dic. 1964)
- La Costituzione apostolica di Paolo VI Laudis Canticum, per la promulgazione del rinnovato Ufficio divino (nov. 1970).
- Principi e norme per la Liturgia delle Ore (=PNLO, Introduzione alla LO) (aprile 1971). Qui vedere in particolare il cap. II. La santificazione del giorno ossia le varie Ore liturgiche (nn. 34 ss), e il cap. III. I diversi elementi della Liturgia delle Ore: I. I salmi (nn. 100-109); III. Il modo di Salmodiare (121-15); IV Criteri di distribuzione dei salmi nell’Ufficio (nn. 126-135); V I cantici dell’Antico e Nuovo Testamento (nn. 136-139); cap. V. Riti da osservare…: II. Il canto nell’Ufficio (nn. 267-284, in particolare, nn. 278-279).
- Lo studio di IOSEPH PASCHER, Il Nuovo ordinamento della salmodia nella Liturgia romana delle Ore, in: AA.VV., Liturgia delle Ore, Quaderni di Rivista Liturgica, n. 14, Elledici, Torino-Leumann, 1972, pp. 161- 184, uscito a commento subito dopo la riforma. Il presente articolo deve molto a questo studio.

(il testo e` apparso nel fascicolo 1, 2019 di Dominicus)

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BENEDETTO XVI – UDIENZA GENERALE – IL « GRANDE HALLEL » SALMO 136 (135)

https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20111019.html

BENEDETTO XVI – UDIENZA GENERALE – IL « GRANDE HALLEL » SALMO 136 (135)

Piazza San Pietro

Mercoledì, 19 ottobre 2011

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei meditare con voi un Salmo che riassume tutta la storia della salvezza di cui l’Antico Testamento ci dà testimonianza. Si tratta di un grande inno di lode che celebra il Signore nelle molteplici, ripetute manifestazioni della sua bontà lungo la storia degli uomini; è il Salmo 136 – o 135 secondo la tradizione greco-latina.
Solenne preghiera di rendimento di grazie, conosciuto come il “Grande Hallel”, questo Salmo è tradizionalmente cantato alla fine della cena pasquale ebraica ed è stato probabilmente pregato anche da Gesù nell’ultima Pasqua celebrata con i discepoli; ad esso sembra infatti alludere l’annotazione degli Evangelisti: «Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi» (cfr Mt 26,30; Mc 14,26). L’orizzonte della lode illumina così la difficile strada del Golgota. Tutto il Salmo 136 si snoda in forma litanica, scandito dalla ripetizione antifonale «perché il suo amore è per sempre». Lungo il componimento, vengono enumerati i molti prodigi di Dio nella storia degli uomini e i suoi continui interventi in favore del suo popolo; e ad ogni proclamazione dell’azione salvifica del Signore risponde l’antifona con la motivazione fondamentale della lode: l’amore eterno di Dio, un amore che, secondo il termine ebraico utilizzato, implica fedeltà, misericordia, bontà, grazia, tenerezza. È questo il motivo unificante di tutto il Salmo, ripetuto in forma sempre uguale, mentre cambiano le sue manifestazioni puntuali e paradigmatiche: la creazione, la liberazione dell’esodo, il dono della terra, l’aiuto provvidente e costante del Signore nei confronti del suo popolo e di ogni creatura.
Dopo un triplice invito al rendimento di grazie al Dio sovrano (vv. 1-3), si celebra il Signore come Colui che compie «grandi meraviglie» (v. 4), la prima delle quali è la creazione: il cielo, la terra, gli astri (vv. 5-9). Il mondo creato non è un semplice scenario su cui si inserisce l’agire salvifico di Dio, ma è l’inizio stesso di quell’agire meraviglioso. Con la creazione, il Signore si manifesta in tutta la sua bontà e bellezza, si compromette con la vita, rivelando una volontà di bene da cui scaturisce ogni altro agire di salvezza. E nel nostro Salmo, riecheggiando il primo capitolo della Genesi, il mondo creato è sintetizzato nei suoi elementi principali, insistendo in particolare sugli astri, il sole, la luna, le stelle, creature magnifiche che governano il giorno e la notte. Non si parla qui della creazione dell’essere umano, ma egli è sempre presente; il sole e la luna sono per lui – per l’uomo – per scandire il tempo dell’uomo, mettendolo in relazione con il Creatore soprattutto attraverso l’indicazione dei tempi liturgici.
Ed è proprio la festa di Pasqua che viene evocata subito dopo, quando, passando al manifestarsi di Dio nella storia, si inizia con il grande evento della liberazione dalla schiavitù egiziana, dell’esodo, tracciato nei suoi elementi più significativi: la liberazione dall’Egitto con la piaga dei primogeniti egiziani, l’uscita dall’Egitto, il passaggio del Mar Rosso, il cammino nel deserto fino all’entrata nella terra promessa (vv. 10-20). Siamo nel momento originario della storia di Israele. Dio è intervenuto potentemente per portare il suo popolo alla libertà; attraverso Mosè, suo inviato, si è imposto al faraone rivelandosi in tutta la sua grandezza ed, infine, ha piegato la resistenza degli Egiziani con il terribile flagello della morte dei primogeniti. Così Israele può lasciare il Paese della schiavitù, con l’oro dei suoi oppressori (cfr Es 12,35-36), «a mano alzata» (Es 14,8), nel segno esultante della vittoria. Anche al Mar Rosso il Signore agisce con misericordiosa potenza. Davanti ad un Israele spaventato alla vista degli Egiziani che lo inseguono, tanto da rimpiangere di aver lasciato l’Egitto (cfr Es 14,10-12), Dio, come dice il nostro Salmo, «divise il Mar Rosso in due parti […] in mezzo fece passare Israele […] vi travolse il faraone e il suo esercito» (vv. 13-15). L’immagine del Mar Rosso “diviso” in due, sembra evocare l’idea del mare come un grande mostro che viene tagliato in due pezzi e così reso inoffensivo. La potenza del Signore vince la pericolosità delle forze della natura e di quelle militari messe in campo dagli uomini: il mare, che sembrava sbarrare la strada al popolo di Dio, lascia passare Israele all’asciutto e poi si richiude sugli Egiziani travolgendoli. «La mano potente e il braccio teso» del Signore (cfr Deut 5,15; 7,19; 26,8) si mostrano così in tutta la loro forza salvifica: l’ingiusto oppressore è stato vinto, inghiottito dalle acque, mentre il popolo di Dio “passa in mezzo” per continuare il suo cammino verso la libertà.
A questo cammino fa ora riferimento il nostro Salmo ricordando con una frase brevissima il lungo peregrinare di Israele verso la terra promessa: «Guidò il suo popolo nel deserto, perché il suo amore è per sempre» (v. 16). Queste poche parole racchiudono un’esperienza di quarant’anni, un tempo decisivo per Israele che lasciandosi guidare dal Signore impara a vivere di fede, nell’obbedienza e nella docilità alla legge di Dio. Sono anni difficili, segnati dalla durezza della vita nel deserto, ma anche anni felici, di confidenza nel Signore, di fiducia filiale; è il tempo della “giovinezza”, come lo definisce il profeta Geremia parlando a Israele, a nome del Signore, con espressioni piene di tenerezza e di nostalgia: «Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in terra non seminata» (Ger 2,2). Il Signore, come il pastore del Salmo 23 che abbiamo contemplato in una catechesi, per quarant’anni ha guidato il suo popolo, lo ha educato e amato, conducendolo fino alla terra promessa, vincendo anche le resistenze e l’ostilità di popoli nemici che volevano ostacolarne il cammino di salvezza (cfr vv. 17-20).
Nello snodarsi delle «grandi meraviglie» che il nostro Salmo enumera, si giunge così al momento del dono conclusivo, nel compiersi della promessa divina fatta ai Padri: «Diede in eredità la loro terra, perché il suo amore è per sempre; in eredità a Israele suo servo, perché il suo amore è per sempre» (vv. 21-22). Nella celebrazione dell’amore eterno del Signore, si fa ora memoria del dono della terra, un dono che il popolo deve ricevere senza mai impossessarsene, vivendo continuamente in un atteggiamento di accoglienza riconoscente e grata. Israele riceve il territorio in cui abitare come “eredità”, un termine che designa in modo generico il possesso di un bene ricevuto da un altro, un diritto di proprietà che, in modo specifico, fa riferimento al patrimonio paterno. Una delle prerogative di Dio è di “donare”; e ora, alla fine del cammino dell’esodo, Israele, destinatario del dono, come un figlio, entra nel Paese della promessa realizzata. È finito il tempo del vagabondaggio, sotto le tende, in una vita segnata dalla precarietà. Ora è iniziato il tempo felice della stabilità, della gioia di costruire le case, di piantare le vigne, di vivere nella sicurezza (cfr Dt 8,7-13). Ma è anche il tempo della tentazione idolatrica, della contaminazione con i pagani, dell’autosufficienza che fa dimenticare l’Origine del dono. Perciò il Salmista menziona l’umiliazione e i nemici, una realtà di morte in cui il Signore, ancora una volta, si rivela come Salvatore: «Nella nostra umiliazione si è ricordato di noi, perché il suo amore è per sempre; ci ha liberati dai nostri avversari, perché il suo amore è per sempre» (vv. 23-24).
A questo punto nasce la domanda: come possiamo fare di questo Salmo una preghiera nostra, come possiamo appropriarci, per la nostra preghiera, di questo Salmo? Importante è la cornice del Salmo, all’inizio e alla fine: è la creazione. Ritorneremo su questo punto: la creazione come il grande dono di Dio del quale viviamo, nel quale Lui si rivela nella sua bontà e grandezza. Quindi, tener presente la creazione come dono di Dio è un punto comune per noi tutti. Poi segue la storia della salvezza. Naturalmente noi possiamo dire: questa liberazione dall’Egitto, il tempo del deserto, l’entrata nella Terra Santa e poi gli altri problemi, sono molto lontani da noi, non sono la nostra storia. Ma dobbiamo stare attenti alla struttura fondamentale di questa preghiera. La struttura fondamentale è che Israele si ricorda della bontà del Signore. In questa storia ci sono tante valli oscure, ci sono tanti passaggi di difficoltà e di morte, ma Israele si ricorda che Dio era buono e può sopravvivere in questa valle oscura, in questa valle della morte, perché si ricorda. Ha la memoria della bontà del Signore, della sua potenza; la sua misericordia vale in eterno. E questo è importante anche per noi: avere una memoria della bontà del Signore. La memoria diventa forza della speranza. La memoria ci dice: Dio c’è, Dio è buono, eterna è la sua misericordia. E così la memoria apre, anche nell’oscurità di un giorno, di un tempo, la strada verso il futuro: è luce e stella che ci guida. Anche noi abbiamo una memoria del bene, dell’amore misericordioso, eterno di Dio. La storia di Israele è già una memoria anche per noi, come Dio si è mostrato, si è creato un suo popolo. Poi Dio si è fatto uomo, uno di noi: è vissuto con noi, ha sofferto con noi, è morto per noi. Rimane con noi nel Sacramento e nella Parola. E’ una storia, una memoria della bontà di Dio che ci assicura la sua bontà: il suo amore è eterno. E poi anche in questi duemila anni della storia della Chiesa c’è sempre, di nuovo, la bontà del Signore. Dopo il periodo oscuro della persecuzione nazista e comunista, Dio ci ha liberati, ha mostrato che è buono, che ha forza, che la sua misericordia vale per sempre. E, come nella storia comune, collettiva, è presente questa memoria della bontà di Dio, ci aiuta, ci diventa stella della speranza, così anche ognuno ha la sua storia personale di salvezza, e dobbiamo realmente far tesoro di questa storia, avere sempre presente la memoria delle grandi cose che ha fatto anche nella mia vita, per avere fiducia: la sua misericordia è eterna. E se oggi sono nella notte oscura, domani Egli mi libera perché la sua misericordia è eterna.
Ritorniamo al Salmo, perché, alla fine, ritorna alla creazione. Il Signore – così dice – «dà il cibo a ogni vivente, perché il suo amore è per sempre» (v. 25). La preghiera del Salmo si conclude con un invito alla lode: «Rendete grazie al Dio del cielo, perché il suo amore è per sempre». Il Signore è Padre buono e provvidente, che dà l’eredità ai propri figli ed elargisce a tutti il cibo per vivere. Il Dio che ha creato i cieli e la terra e le grandi luci celesti, che entra nella storia degli uomini per portare alla salvezza tutti i suoi figli è il Dio che colma l’universo con la sua presenza di bene prendendosi cura della vita e donando pane. L’invisibile potenza del Creatore e Signore cantata nel Salmo si rivela nella piccola visibilità del pane che ci dà, con il quale ci fa vivere. E così questo pane quotidiano simboleggia e sintetizza l’amore di Dio come Padre, e ci apre al compimento neotestamentario, a quel “pane di vita”, l’Eucaristia, che ci accompagna nella nostra esistenza di credenti, anticipando la gioia definitiva del banchetto messianico nel Cielo.
Fratelli e sorelle, la lode benedicente del Salmo 136 ci ha fatto ripercorrere le tappe più importanti della storia della salvezza, fino a giungere al mistero pasquale, in cui l’azione salvifica di Dio arriva al suo culmine. Con gioia riconoscente celebriamo dunque il Creatore, Salvatore e Padre fedele, che «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Nella pienezza dei tempi, il Figlio di Dio si fa uomo per dare la vita, per la salvezza di ciascuno di noi, e si dona come pane nel mistero eucaristico per farci entrare nella sua alleanza che ci rende figli. A tanto giunge la bontà misericordiosa di Dio e la sublimità del suo “amore per sempre”.
Voglio perciò concludere questa catechesi facendo mie le parole che San Giovanni scrive nella sua Prima Lettera e che dovremmo sempre tenere presenti nella nostra preghiera: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente» (1Gv 3,1). Grazie.

 

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BENEDETTO XVI -UDIENZA SALMO 123 – (2005)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2005/documents/hf_ben-xvi_aud_20050622.html

BENEDETTO XVI -UDIENZA SALMO 123 – (2005)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 22 giugno 2005

Salmo 123
Il nostro aiuto è nel nome del Signore
Vespri – Lunedì 3a settimana

1. Ecco davanti a noi il Salmo 123, un canto di ringraziamento intonato da tutta la comunità orante che eleva a Dio la lode per il dono della liberazione. Il Salmista proclama in apertura questo invito: «Lo dica Israele!» (v. 1), stimolando così tutto il popolo a innalzare un grazie vivo e sincero al Dio salvatore. Se il Signore non si fosse schierato dalla parte delle vittime, esse con le loro forze limitate sarebbero state impotenti a liberarsi e gli avversari, simili a mostri, le avrebbero dilaniate e stritolate.
Anche se si è pensato a qualche evento storico particolare, come la fine dell’esilio babilonese, è più probabile che il Salmo voglia essere un inno inteso a ringraziare il Signore per gli scampati pericoli e ad implorare da Lui la liberazione da ogni male.
2. Dopo l’accenno iniziale a certi «uomini» che assalivano i fedeli ed erano capaci di «inghiottirli vivi» (cfr vv. 2-3), due sono i momenti del canto. Nella prima parte dominano le acque dilaganti, simbolo per la Bibbia del caos devastatore, del male e della morte: «Le acque ci avrebbero travolti; un torrente ci avrebbe sommersi, ci avrebbero travolti acque impetuose» (vv. 4-5) L’orante prova ora la sensazione di trovarsi su una spiaggia, miracolosamente salvato dalla furia impetuosa del mare.
La vita dell’uomo è circondata dall’agguato dei malvagi che non solo attentano alla sua esistenza ma vogliono distruggere anche tutti i valori umani. Il Signore si erge, però, a tutela del giusto e lo salva, come si canta nel Salmo 17: «Stese la mano dall’alto e mi prese, mi sollevò dalle grandi acque, mi liberò da nemici potenti, da coloro che mi odiavano… Il Signore fu mio sostegno; mi portò al largo, mi liberò perché mi vuol bene» (vv. 17-20).
3. Nella seconda parte del nostro canto di ringraziamento si passa dall’immagine marina a una scena di caccia, tipica di molti Salmi di supplica (cfr Sal 123,6-8). Ecco, infatti, l’evocazione di una belva che stringe tra le sue fauci una preda, o di una rete di cacciatori che cattura un uccello. Ma la benedizione espressa dal Salmo ci fa comprendere che il destino dei fedeli, che era un destino di morte, è stato radicalmente mutato da un intervento salvifico: «Sia benedetto il Signore, che non ci ha lasciato in preda ai loro denti. Noi siamo stati liberati come un uccello dal laccio dei cacciatori: il laccio si è spezzato e noi siamo scampati» (vv. 6-7).
La preghiera diviene qui un respiro di sollievo che sale dal profondo dell’anima: anche quando cadono tutte le speranze umane, può apparire la potenza liberatrice divina. Il Salmo si può, quindi, concludere con una professione di fede, entrata da secoli nella liturgia cristiana come premessa ideale di ogni nostra preghiera: «Adiutorium nostrum in nomine Domini, qui fecit caelum et terram – Il nostro aiuto è nel nome del Signore; Egli ha fatto il cielo e la terra» (v. 8). In particolare l’Onnipotente si schiera dalla parte delle vittime e dei perseguitati «che gridano giorno e notte verso di lui» e «farà loro giustizia prontamente» (cfr Lc 18,7-8).
4. Sant’Agostino dà di questo Salmo un commento articolato. In un primo tempo, egli osserva che questo Salmo è adeguatamente cantato dalle «membra di Cristo che hanno conseguito la felicità». Quindi, in particolare, «lo hanno cantato i santi martiri, i quali, usciti da questo mondo, sono con Cristo nella gioia, pronti a riprendere incorrotti quegli stessi corpi che prima erano corruttibili. In vita subirono tormenti nel corpo, ma nell’eternità questi tormenti si cambieranno in ornamenti di giustizia».
Però, in un secondo tempo, il Vescovo di Ippona ci dice che anche noi possiamo cantare questo Salmo nella speranza. Egli dichiara: «Siamo anche noi animati da sicura speranza e canteremo nell’esultanza. Non sono infatti estranei a noi i cantori di questo Salmo… Pertanto, cantiamo tutti in unità di cuore: tanto i santi che posseggono già la corona quanto noi che con l’affetto ci uniamo nella speranza alla loro corona. Insieme desideriamo quella vita che quaggiù non abbiamo ma che non potremo mai avere se prima non l’abbiamo desiderata».
Sant’Agostino ritorna allora alla prima prospettiva e spiega: «Ripensano i santi alle sofferenze che hanno incontrate, e dal luogo di beatitudine e di tranquillità dove ora si trovano guardano al cammino percorso per arrivarvi; e, siccome sarebbe stato difficile conseguire la liberazione se non fosse intervenuta a soccorrerli la mano del Liberatore, pieni di gioia esclamano: ‘Se il Signore non fosse stato con noi’. Così inizia il loro canto. Non hanno detto nemmeno da che cosa siano scampati, tanto grande è la loro esultanza» (Esposizione sul Salmo 123, 3: Nuova Biblioteca Agostiniana, XXVIII, Roma 1977, p. 65).

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IN ALTO LO SGUARDO! A TE CHE ABITI NEI CIELI. SALMO 123

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IN ALTO LO SGUARDO! A TE CHE ABITI NEI CIELI. SALMO 123

BY ROBERTO TADIELLO

27 FEBBRAIO 2016

Il quarto salmo della raccolta «I canti delle ascensioni» è caratterizzato dalla fiducia e contiene un motivo di supplica. L’orante pellegrino, che si trova in una situazione di costante umiliazione, si rivolge direttamente a Dio, elevando fiducioso i suoi occhi a Lui, come suo padrone e Signore. A nome della comunità lo supplica insistentemente (v. 3) perché si nuova a pietà del suo popolo, oggetto di scherno e di disprezzo da parte di nemici vanitosi e superbi (v. 4).

Dopo il titoletto («Canto delle ascensioni. Di Davide»), il salmo si suddivide in un’introduzione (v. 1b), cui segue la descrizione dell’atteggiamento di fiducia con l’immagine dei servi e della serva (v. 2) e una supplica finale con motivazione (vv. 3-4).

1 Canto delle salite. Di Davide.
A te alzo i miei occhi,
a te che siedi nei cieli.
2 Ecco, come gli occhi dei servi
alla mano dei loro padroni,
come gli occhi di una schiava
alla mano della sua padrona,
così i nostri occhi al Signore nostro Dio,
finché abbia pietà di noi.
3 Pietà di noi, Signore, pietà di noi,
siamo già troppo sazi di disprezzo,
4 troppo sazi noi siamo dello scherno dei gaudenti,
del disprezzo dei superbi.

Occhi al cielo
I vv. 1b-2 sono costruite sull’immagine degli occhi e della mano. Le parole «a te levo i miei occhi» con cui la preghiera si apre descrivono l’atteggiamento dell’orante biblico, come ad esempio nel Sal 121,1 («Alzo gli occhi verso i monti») oppure in Dan 13, 35 dove si dice che Susanna ingiustamente condannata, «piangendo alzò gli occhi al cielo, con il cuore pieno di fiducia nel Signore». Il gesto di alzare gli occhi è immagine della preghiera che sale a Dio. Il Salmo inizia, quindi, con un vortice ascensionale dello sguardo che è allegoria di una misteriosa elevazione spirituale, dal momento che i cieli sono considerati la sede della divinità. Qui il Signore non è nominato espressamente, ma in segno confidenziale l’orante gli si rivolge col pronome personale: «a Te». Dio per chi prega non è mai un estraneo! Il Signore viene tuttavia ben identificato dalle parole seguenti: Egli è colui che «abita nei cieli», sede del suo trono. Letteralmente Dio è invocato: «o mio abitante nei cieli». La confidenza della preghiera rasenta quasi il possesso da parte dell’orante di Dio e dice tutta l’intimità di relazione.
L’immagine degli occhi alzati per noi frequentatori dei vangeli ci riporta alla memoria i gesti simili compiuti da Gesù. Egli varie volte ha levato gli occhi al cielo per pregare; in particolare nella prima moltiplicazione dei pani e dei pesci raccontataci da Matteo: «Prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione…» (Mt 14, 19 e passi paralleli). Gesù anche in altre occasioni ha elevato gli occhi al cielo come ad esempio nella guarigione di un sordomuto (Mc 7,3), prima della risurrezione di Lazzaro (Gv 17,1) a cui fa poi seguire la seguente preghiera: «Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Il gesto di elevare gli occhi manifesta in Gesù la sua profonda relazione e comunione con il Padre che lo ha mandato. Ancora una volta la preghiera scaturisce e si nutre dell’intimità dell’orante con Dio.
La mano protesa
Nel v. 2 il salmista specifica il significato del gesto dell’elevare gli occhi: è un atteggiamento di fiducia e di supplica perseverante. Lo fa ricorrendo ad un’altra metafora, questa volta con protagonisti i servi e i padroni, probabilmente desueta nel nostro immaginario, ma carica di significato nell’immaginario biblico. L’atteggiamento di implorazione e di fiducia, espresso dagli occhi, è paragonato a quello dei servi verso il loro padrone o di una schiava verso la sua padrona. Essi stanno attendendo un beneficio dalla mano del padrone o della padrona. Fuori dall’immagine, la mano è quella di Dio, che nella mentalità biblica, crea, protegge, benedice ed edifica. Ciò che viene ribadito è l’atteggiamento di fiducia che l’orante deve assumere, ma anche quello dell’insistenza, proprio perché, come il servo insiste verso il suo padrone per avere il necessario per vivere, così l’orante nei confronti di Dio. Lo stesso Gesù, ce lo ricorda l’evangelista Luca, invitava i suoi discepoli a pregare con perseveranza, anche rischiando di diventare importuni (Lc 11,5-10) e pregare continuamente senza stancarsi mai: «[Gesù] disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi…» (18,1.5).
Il secondo versetto si chiude con l’espressione: «finché abbia pietà di noi». Il salmista fa capire finalmente il motivo suo e quello della comunità di tanta insistenza nell’atteggiamento di supplica: essi si aspettano che Dio si muova a compassione per loro.
La richiesta diventa esplicita nei vv. 3-4 dove, con un imperativo, l’orante, non più solo ma con la comunità dei credenti, chiede «pietà di noi», di «avere pietà». La richiesta è insistente, dato che il verbo «avere pietà» è ripetuto per ben tre volte. Tale richiesta, che solo nel salterio ricorre più di venti volte, sarà ripresa nel Nuovo Testamento dai vari personaggi evangelici: i due ciechi (Mt 9,27), la donna cananea (Mt 15,22), l’epilettico (Mt 17,14), i due ciechi di Gerico (Mt 20,30), i dieci lebbrosi (Lc 17,13), il pubblicano nel tempio (Lc 18,13). La sua formulazione classica si trova nel racconto della guarigione del cieco di Gerico, quando «costui, al sentire che c’era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”. Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”» (Mc 10,47-48). L’invocazione diventerà poi la preghiera del cuore del pellegrino russo ed entrerà nella liturgia con l’espressione «Kyrie eleison».
Una vita controcorrente
La ripetizione nel salmo esprime l’intensità della preghiera. La motivazione è l’abbondanza di scherni da parte dei nemici, fino a raggiungere il colmo. Colpisce la descrizione della sazietà (vv. 3-4) a cui il giusto è ora sottoposto «ingozzato da troppi insulti, con la gola sazia di sputi e di scherni» (Turoldo). L’orante subisce gli scherni dei gaudenti e il disprezzo dei superbi (v. 4). I primi sono gli spensierati che si sentono tranquilli e che assumono un atteggiamento indifferente nei riguardi di Dio, arrivando a sfidarlo con arroganza (cf. Is 5,19). I superbi sono gli orgogliosi e i presuntuosi che umiliano i poveri e i giusti, oggetto di predilezione particolare da parte di Dio. Ne consegue che Egli non può restare indifferente (cf. Sal 42,10-11; 43,2). Il Nuovo Testamento applicherà il versetto a Gesù. Egli, servo per amore, e fedele alla volontà di Dio Padre, proprio per compiere questa volontà accetta liberamente di sottoporsi a scherni e disprezzo nella sua vita pubblica (Lc 10,16; 16,14; Gv 8,59), ma soprattutto nella passione (cf. Mt 27,29.39.41). Gli stessi cristiani furono e sono scherniti come testimonia la lettera agli Ebrei (11,36), la seconda di Pietro (3,3) e la lunga storia della chiesa di cui fa parte la nostra stessa attualità.
Il salmo non nasconde che alle volte la mano di Dio, a causa dei nemici, può diventare pesante, ma anche in questa pesantezza è un mano di padre che corregge i suoi figli. San Pio da Pietralcina così ne parla in una sua lettera: «Vi esorto poi nella dolce carità di Cristo a tranquillizzare il vostro spirito per riguardo a ciò che dovrà avvenirmi […]. Ad ogni modo vivete in pace con voi stesso, sapendo che il vostro avvenire è disposto da Dio con ammirabile bontà pel vostro bene: a voi non rimane che rassegnarvi a ciò che Dio vorrà disporre di voi e benedire quella mano che alle volte sembra respingervi, ma che in realtà è la mano di questo sí tenerissimo Padre che non respinge mai, sibbene, chiama, abbraccia, carezza e se tal volta percuote, ricordiamoci che è sempre la mano di un padre» (Epistolario IV, pp 187-198).

 

Publié dans:BIBBIA, BIBBIA. A.T. SALMI |on 26 mars, 2019 |Pas de commentaires »

CAMMINANDO CON IL « CUSTODE DI ISRAELE » SALMO 121

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CAMMINANDO CON IL « CUSTODE DI ISRAELE » SALMO 121

Pino Stancari

Il nostro amico è partito. Si è messo sulla strada attuando la sua decisione.
Il Salmo 121 ci aiuta ad accompagnare colui che ormai è diventato pellegrino nel corso del suo distacco dall’ambiente nel quale stava tanto male, quell’ambiente al quale pure appartiene e dal quale distaccarsi non è stato facile.
Ora affronta strade nuove. Ha nostalgie e ripensamenti, non mancano incertezze. Dinanzi a lui ci sono anche orizzonti nuovi: («Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto?». Così inizia il Salmo.

SALMO 121

1 Canto delle ascensioni.
Alzo gli occhi verso i monti:
da dove mi verrà l’aiuto?

2 Il mio aiuto viene dal Signore,
che ha fatto cielo e terra.

3 Non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenterà il tuo custode.

4 Non si addormenterà,
non prenderà sonno,
il custode d’Israele.

5 Il Signore è il tuo custode,
il Signore è come ombra che ti copre,
e sta alla tua destra.

6 Di giorno non ti colpirà il sole,
né la luna di notte.

7 Il Signore ti proteggerà da ogni male,
egli proteggerà la tua vita.

8 Il Signore veglierà su di te,
quando esci e quando entri,
da ora e per sempre.

Il capo alzato, il timore, la commozione

Ha camminato a testa bassa, ora alza gli occhi.
Ha guardato i sassi della strada, ha cercato di interpretare l’avanzare delle ore nel corso della giornata in base all’inclinazione dell’ombra. A testa bassa: è un tempo di ripensamento interiore, per lui. Comunque la sua avanzata procede ed egli è risoluto.
Questo suo atteggiamento di ferma intraprendenza è confermato dal gesto di alzare il capo. Un gesto da sottolineare.
Un altro pellegrino, il pellegrino per antonomasia – Gesù – alzerà gli occhi per guardare innanzi a sé mentre sale a Gerusalemme. Nel Vangelo più volte viene notato questo gesto proprio nei riguardi di Gesù. Si dice spesso: «Alzati gli occhi» o «Alzato lo sguardo al cielo».
Così il pellegrino alza il capo: dinanzi a lui l’orizzonte è chiuso: una catena di montagne. La visione per certi versi l’intimorisce. Sono montagne che devono essere affrontate, scalate e superate. Ci sono queste che si vedono e poi altre ancora: quante bisognerà affrontarne per raggiungere la montagna su cui è edificata Gerusalemme?
Insieme con il timore – si noti – c’è un senso di commozione. Da quando si è messo in viaggio tutte le montagne che si notano all’orizzonte e che egli ha buoni motivi per considerare una fatica in più sulla sua strada, tutte acquistano per lui il valore esemplare, didattico, di una conferma a riguardo della meta verso la quale è incamminato: se questa montagna in vista non è ancora quella di Gerusalemme è comunque una montagna; essa è momentaneamente occasione di fatica in più, ma assicura che non sono fuori strada. Comunque io sono indirizzato verso una montagna.
Timore ed entusiasmo si confondono.
Il pellegrino non può più volgersi indietro, non può contare su appoggi rassicuranti e situazioni nuove lo attendono: mai percorso questo territorio, mai affrontata questa regione, mai visitate queste montagne… Ecco il timore. Ed ecco, insieme, l’entusiasmo: «È proprio vero, questa montagna di oggi mi parla già della montagna verso cui sono orientati i miei passi; imparo a scrutare l’orizzonte e preparo il mio sguardo alla visione che – immancabilmente – si manifesterà ai miei occhi.
Solo, eppure stretto in un abbraccio
Il pellegrino è sempre più solo, lontano dall’ambiente solito. Quanto tempo durerà il suo viaggio?
Il Salmo ci aiuta a partecipare a quel ripensamento che occupa il cuore del pellegrino, alla sua commozione, intensissima nonostante sia priva di riscontri sensibili; una commozione che sostiene il suo entusiasmo di viandante: «Il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto cielo e terra».
Mai come oggi quest’uomo si è reso conto di essere accompagnato. Eppure oggi è solo.
Si lamentava di essere straniero: da quando si è messo in viaggio è più straniero che mai. Ha abbandonato quella terra in cui era straniero e che pure era la sua terra. Chi incontra per la strada è sconosciuto, pericoloso; deve guardarsi da tutti e scrutare gli orizzonti e gli imprevedibili incroci. Eppure proprio adesso il pellegrino scopre di essere accompagnato. Una presenza invisibile, indefinibile e indecifrabile.
Parla di «cielo e terra». Avanza sulla superficie del mondo e avverte di essere stretto in un abbraccio: sotto il cielo e sulla terra. Il cielo è chinato su di lui e la terra lo sostiene.
Quelle montagne di cui si parlava prima, che danno insieme timore e speranza, acquistano un significato simbolico particolarmente persuasivo: sono elemento di congiunzione tra cielo e terra. Dovranno essere scalate e superate con fatica, ma confermano l’attualità dell’abbraccio che il Signore onnipotente concede mediante la docilità di tutte le creature, che si dispongono in modo da rendergli praticabile il viaggio.
L’universo intero, creatura di Dio, gli fa compagnia e il Creatore stesso gli concede questa misteriosa solidarietà con tutte le creature che stanno tra cielo e terra: un sasso nel quale urti col piede, la pioggia che ti sorprende allo scoperto, coloro che incontri lungo il percorso, ogni creatura, in prima istanza forse temuta come una possibile minaccia e poi riconosciuta come dono insostituibile, ed apprezzata. Sono tutti doni preparati provvidenzialmente allo scopo di rendere possibile un viaggio carico di entusiasmo.
Mai così solo e mai così in comunione. Tanto è vasto l’orizzonte, così è grande la presenza del Signore, mediata da una corona consolante di elementi che accompagnano il pellegrino nel viaggio, lo benedicono e custodiscono.
Dal monologo al dialogo
Il Salmo si divide nettamente in due sezioni. La prima è quella che abbiamo letto (vv. 1-2), la seconda si ha nei versetti seguenti.
C’è un evidentissimo salto grammaticale tra le due sezioni. Nella prima il pellegrino parla in prima persona singolare; nella seconda interviene un’altra voce, in terza persona: «Non lascerà vacillare il tuo Piede…».
C’è un salto. Nella prima sezione il pellegrino riflette tra sé e sé, si incoraggia. Nella seconda una voce si rivolge a lui, una voce esterna che commenta il significato della presenza di Dio e la fedeltà dell’ opera svolta dal Signore per chi è in viaggio. Un commentatore interviene, un osservatore esterno che dialoga con lui.
Il passaggio dal monologo al dialogo è importante. Una esperienza di meditazione solitaria si apre al dialogo con un’altra voce: un altro viandante si avvicina, qualcuno cammina con lui. Una voce che viene da lontano. Potrebbe essere una sapienza antica, ricordi che emergono dal fondo della coscienza.
Man mano che prosegue il nostro personaggio riesce ad oggettivarsi. In un primo momento è molto preso dal bisogno di dirsi le sue cose, e questo è comprensibile, ma quanto più procede tanto più si accorge che qualcun’altro gli sta parlando.
Assume allora un atteggiamento di ascolto ed emerge allora, con evidenza incontestabile, la presenza di Dio. L’attenzione si concentra, con precisione ed onestà, dove la presenza di Dio si manifesta.
Preoccupato di sé e dei suoi progressi il pellegrino scopre che la presenza del Signore si impone. Monologava ed ora ascolta.
Non sappiamo chi sta ascoltando, ma importa poco. Si aprono spazi nuovi, insondati, nel segreto del cuore. Dio domina e tutto ruota intorno a lui. Ogni vicenda si trasforma in vera e propria contemplazione di colui che in segreto è presente, colui che sconosciuto – è il Signore.
Ricordiamo come il nostro personaggio prima di partire fosse ansiosamente aggrappato al nome indicibile di Dio. Ora avviene che da quando si è messo in viaggio – anche se ancora non ha raggiunto la meta – già incontra il Signore vivente: per il semplice fatto che è in cammino. Già aderisce alla presenza viva di colui che è Signore. La meta forse è lontana, ma il Signore è presente adesso e qui.
Il Signore è il tuo custode
La seconda sezione del Salmo è caratterizzata dalla ripetizione per sei volte di espressioni derivanti dal verbo shamar, custodire. È un tipico verbo del vocabolario pastorale: Shomèr è il custode.
Nella nostra traduzione questo insistente ritorno non appare: per tre volte appare l’espressione «custode», nei vv. 7-8 si parla di protezione e veglia. In ebraico è sempre la stessa radice. Per sei volte si insiste sullo stesso concetto: «Il Signore è il tuo custode… ».
Se si guarda all’ultimo versetto del Salmo 119 si ascoltano queste parole: «Come pecora smarrita vado errando; cerca il tuo servo… » (Sal 119, 176). Per tutto questo lungo Salmo noi abbiamo ascoltato i belati di una pecora smarrita!
Il pastore è già in cammino, alla ricerca. Ora egli è qui.
Gli stessi ostacoli, pesi e drammi sono strumento di cui il Signore si serve per dimostrare che, con pazienza e fedeltà, accompagna il fedele. Egli è così il Signore della tua vita, della tua storia e della storia del popolo e dell’umanità.
Questa sezione del Salmo si divide in tre strofe brevissime con un crescendo nel riconoscimento della presenza pastorale del Signore.
La prima sono i vv. 3-4: «Non lascerà vacillare il tuo piede… ».
Ecco: i singoli momenti di incertezza vedono un suo intervento occasionale, puntuale e momentaneo, fino a quell’essere permanentemente chinato sul pellegrino per cui veglia mentre egli dorme.
Si incontra il Signore nei diversi momenti del viaggio. Questi momenti si infittiscono fino a dare la sensazione di una presenza continuata: la veglia del Signore su di te. n rapporto con il Signore è qui ancora estrinseco. Interviene in singoli momenti e stabilisce un rapporto di vigilanza incessante dal di fuori.
Seconda strofa (vv. 5-6): «… il Signore è come ombra che ti copre…».
Il rapporto si fa più discreto e impalpabile, eppure è più intenso, profondo e interiore. Siamo accarezzati da Lui. Non è solo colui che stende intorno una cintura di protezione. È colui che ti vela, aderisce a te, ricalca la tua fisionomia, penetra in te, ti attraversa e sonda, giunge alla tua profondità interiore. Così è ombra. Un’ombra che protegge. Non perché tiene lontani i raggi del sole e della luna, ma perché penetra e abita in te. Anche una goccia di sudore sotto il sole parla di Lui e un fremito nella notte fa altrettanto.
Ricordiamo Maria, Madre del Signore. Ricordiamo qui l’ombra che la copre.
Dio trova piccole crepe nascoste per entrare in te, anche interstizi che tu nascondi. È una presenza insieme forte e delicata, fedele e paziente. Così è il tuo custode.
Terza strofa (vv. 7-8): «Il Signore ti proteggerà da ogni male…».
Un crescendo, ancora. Qui si dà risalto all’impegno con cui si esprime la libertà di un uomo in cammino. Egli «esce ed entra», espressione che l’evangelista Giovanni usa per parlare della vita delle pecore guidate dal Signore (Gv 10,1-5). È un impegno che suppone armonia e chiarezza interiore, l’intraprendenza di una scelta. Colui che custodisce non è solo colui che interviene da fuori o ti riempie di sé: è colui che suscita in te l’energia di una imprevedibile libertà, motivo di stupore per te stesso. Avanzi e riposi, esci ed entri e sei mosso sempre da una libertà che scaturisce nell’intimo del tuo cuore e dispiega energie nuove. In ogni momento della vita è così.
In ogni momento, per tutti
Questi ultimi versetti sono segnati da espressioni complementari: «il sole… la luna», «la notte… il giorno», !’ingresso… l’uscita, «da ora… per sempre». La presenza di questi binomi conferisce al Salmo un ritmo ondulatorio, oscillatorio: è il dondolio della vita. n viaggio ha un custode nelle salite e nelle discese. I singoli momenti sono sempre occasione preziosa per riconoscere la presenza di lui. Egli è il Dio della vita.
Il ritmo così conferito da un sapiente poeta a questi versi richiama il movimento naturale quando si culla un bambino. Dio culla il suo fedele. Con sapienza e discrezione, con la disinvoltura di chi lo sa fare: gesto naturale e pur così capace di esprimere il segreto della vita.
Sono solo otto versetti, ma densissimi.
La nostra storia coinvolge uno scenario più ampio e drammatico. L’orizzonte si amplia: per la prima volta, nel v. 4, si parla di «Israele». Si dice al pellegrino che il suo custode è «il custode di Israele». Colui che è custode del singolo è custode di un popolo.
Il pellegrino riscopre la sua appartenenza al popolo, alla sua storia. E anche l’universo intero è sacramento della pastorale provvidenza del Signore: tutte le creature ed ogni tempo sono coinvolti nell’amore di Dio. Così riscopre di appartenere a Lui, creatore dell’universo e del popolo. Il viandante può già adorare e benedire: il Signore verso il quale gridava nell’angoscia è chinato su di lui. Ora impara a riconoscerlo ed amarlo: impara davvero a camminare.

Publié dans:BIBBIA. A.T. SALMI |on 21 mars, 2019 |Pas de commentaires »

SALMO 26, 1-6 – FIDUCIA IN DIO – GIOVANNI PAOLO II

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Vita%20Spirituale/04-05/10-Salmo_26.html

SALMO 26, 1-6 – FIDUCIA IN DIO – GIOVANNI PAOLO II

Il Salmo 26 viene distribuito dalla Liturgia in due diversi brani. La prima parte di questo dittico poetico e spirituale (cf vv. 1-6) viene pregata ai Vespri del mercoledì della 1a settimana e ha come sfondo il tempio di Sion, sede del culto di Israele. Infatti il Salmista parla esplicitamente di «casa del Signore», di «santuario» (v. 4), di «rifugio, dimora, casa» (cf vv. 5-6). Anzi, nell’originale ebraico questi termini indicano più precisamente il «tabernacolo» e la «tenda», ossia il cuore stesso del tempio, dove il Signore si svela con la sua presenza e la sua parola. Si evoca anche la «rupe» di Sion (cf v. 5), luogo di sicurezza e di rifugio, e si allude alla celebrazione dei sacrifici di ringraziamento (cf v. 6).
Se, dunque, la liturgia è l’atmosfera spirituale in cui è immerso il Salmo, il filo conduttore della preghiera è la fiducia in Dio, sia nel giorno della gioia, sia nel tempo della paura.

Una lotta simbolica
La prima parte del Salmo, che ora meditiamo, è segnata da una grande serenità, fondata sulla fiducia in Dio nel giorno tenebroso dell’assalto dei malvagi. Le immagini usate per descrivere questi avversari, che sono il segno del male che inquina la storia, sono di due tipi. Da un lato, sembra che ci sia un’immagine di caccia feroce: i malvagi sono come belve che avanzano per ghermire la loro preda e straziarne la carne, ma inciampano e cadono (cf v. 2). Dall’altro lato, c’è il simbolo militare di un assalto compiuto da un’intera armata: è una battaglia che divampa impetuosa seminando terrore e morte (cf v. 3).
La vita del credente è spesso sottoposta a tensioni e contestazioni, talora anche a un rifiuto e persino alla persecuzione. Il comportamento dell’uomo giusto infastidisce, perché risuona come un monito nei confronti dei prepotenti e dei perversi. Lo riconoscono senza mezzi termini gli empi descritti dal Libro della Sapienza: il giusto «è diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti; ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita è diversa da quella degli altri, e del tutto diverse sono le sue strade» (Sap 2,14-15).

Il Dio della vita
Il fedele è consapevole che la coerenza crea isolamento e provoca persino disprezzo e ostilità in una società che sceglie spesso come vessillo il vantaggio personale, il successo esteriore, la ricchezza, il godimento sfrenato. Tuttavia egli non è solo e il suo cuore conserva una sorprendente pace interiore, perché – come dice la splendida «antifona» d’apertura del Salmo – «il Signore è luce e salvezza, è difesa della vita» del giusto (Sal 26,1). Egli ripete continuamente: «Di chi avrò paura?… Di chi avrò timore?… Il mio cuore non teme… Anche allora ho fiducia» (vv. 1.3).
Sembra quasi di ascoltare la voce di San Paolo che proclama: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Rm 8,31). Ma la quiete interiore, la fortezza d’animo e la pace sono un dono che si ottiene rifugiandosi nel tempio, ossia ricorrendo alla preghiera personale e comunitaria.

Sorgente della pace
L’orante, infatti, si affida alle braccia di Dio e il suo sogno è espresso anche da un altro Salmo (cf 22,6): «Abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita». Là egli potrà «gustare la dolcezza del Signore» (Sal 26,4), contemplare e ammirare il mistero divino, partecipare alla liturgia sacrificale ed elevare le sue lodi al Dio liberatore (cf v. 6). Il Signore crea attorno al suo fedele un orizzonte di pace, che lascia al di fuori lo strepito del male. La comunione con Dio è sorgente di serenità, di gioia, di tranquillità; è come entrare in un’oasi di luce e di amore.
Il nostro rifugio
Ascoltiamo ora, a sigillo della nostra riflessione, le parole del monaco Isaia, di origini sire, vissuto nel deserto egiziano e morto a Gaza verso il 491. Nel suo Asceticon egli applica il nostro Salmo alla preghiera nella tentazione: «Se vediamo i nemici circondarci con la loro furbizia, cioè con l’accidia, sia che indeboliscano la nostra anima nel piacere, sia perché non conteniamo la nostra collera contro il prossimo quando agisce contro il suo dovere, oppure se aggravano i nostri occhi per portarli alla concupiscenza, o se vogliono condurci a gustare i piaceri della gola, se rendono per noi come un veleno la parola del prossimo, se ci fanno svalutare la parola altrui, se ci inducono a far differenze tra i fratelli dicendo: “Questi è buono, quest’altro è cattivo”: se dunque tutte queste cose ci circondano, non perdiamoci di coraggio, ma gridiamo piuttosto come Davide con cuore fermo dicendo: “Signore, protettore della mia vita!” (Sal 26,1)» (Recueil ascétique, Bellefontaine 1976, p. 211).

Giovanni Paolo II / L’Osservatore Romano, 22-03-2004

BENEDETTO XVI – SALMO 129 – Dal profondo a te grido

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2005/documents/hf_ben-xvi_aud_20051019.html

BENEDETTO XVI – SALMO 129 – Dal profondo a te grido

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 19 ottobre 2005

Primi Vespri – Domenica 4a settimana

1. È stato proclamato uno dei Salmi più celebri e amati dalla tradizione cristiana: il De profundis, così chiamato dal suo avvio nella versione latina. Col Miserere, esso è divenuto uno dei Salmi penitenziali preferiti nella devozione popolare.
Al di là della sua applicazione funebre, il testo è prima di tutto un canto alla misericordia divina e alla riconciliazione tra il peccatore e il Signore, un Dio giusto ma sempre pronto a svelarsi «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato» (Es 34,6-7). Proprio per questo motivo il nostro Salmo si trova inserito nella liturgia vespertina del Natale e di tutta l’ottava del Natale, come pure in quella della IV domenica di Pasqua e della solennità dell’Annunciazione del Signore.
2. Il Salmo 129 si apre con una voce che sale dalle profondità del male e della colpa (cfr vv. 1-2). L’io dell’orante si rivolge al Signore dicendo: «A te grido, o Signore». Il Salmo poi si sviluppa in tre momenti dedicati al tema del peccato e del perdono. Ci si rivolge innanzitutto a Dio, interpellato direttamente con il «Tu»: «Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi potrà sussistere? Ma presso di te è il perdono; perciò avremo il tuo timore» (vv. 3-4).
È significativo il fatto che a generare il timore, atteggiamento di rispetto misto ad amore, non sia il castigo ma il perdono. Più che la collera di Dio, deve provocare in noi un santo timore la sua magnanimità generosa e disarmante. Dio, infatti, non è un sovrano inesorabile che condanna il colpevole, ma un padre amoroso, che dobbiamo amare non per paura di una punizione, ma per la sua bontà pronta a perdonare.
3. Al centro del secondo momento c’è l’«io» dell’orante che non si rivolge più al Signore, ma parla di lui: «Io spero nel Signore, l’anima mia spera nella sua parola. L’anima mia attende il Signore più che le sentinelle l’aurora» (vv. 5-6). Ora fioriscono nel cuore del Salmista pentito l’attesa, la speranza, la certezza che Dio pronuncerà una parola liberatrice e cancellerà il peccato.
La terza ed ultima tappa nello svolgimento del Salmo si allarga a tutto Israele, al popolo spesso peccatore e consapevole della necessità della grazia salvifica di Dio: «Israele attenda il Signore, perché presso il Signore è la misericordia e grande presso di lui la redenzione. Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe» (vv. 7-8).
La salvezza personale, prima implorata dall’orante, è ora estesa a tutta la comunità. La fede del Salmista si innesta nella fede storica del popolo dell’alleanza, «redento» dal Signore non solo dalle angustie dell’oppressione egiziana, ma anche «da tutte le colpe». Pensiamo che il popolo della elezione, il popolo di Dio siamo adesso noi. Anche la nostra fede ci innesta nella fede comune della Chiesa. E proprio così ci dà la certezza che Dio è buono con noi e ci libera dalle nostre colpe.
Partendo dal gorgo tenebroso del peccato, la supplica del De profundis giunge all’orizzonte luminoso di Dio, ove domina « la misericordia e la redenzione », due grandi caratteristiche del Dio che è amore.
4. Affidiamoci ora alla meditazione che su questo Salmo ha intessuto la tradizione cristiana. Scegliamo la parola di sant’Ambrogio: nei suoi scritti, egli richiama spesso i motivi che spingono a invocare da Dio il perdono.
«Abbiamo un Signore buono che vuole perdonare a tutti», egli ricorda nel trattato su La penitenza, e aggiunge: «Se vuoi essere giustificato, confessa il tuo misfatto: un’umile confessione dei peccati scioglie l’intrico delle colpe… Tu vedi con quale speranza di perdono ti spinga a confessare» (2,6,40-41: SAEMO, XVII, Milano-Roma 1982, p. 253).
Nell’Esposizione del Vangelo secondo Luca, ripetendo lo stesso invito, il Vescovo di Milano esprime la meraviglia per i doni che Dio aggiunge al suo perdono: «Vedi quanto è buono Iddio, e disposto a perdonare i peccati: non solo ridona quanto aveva tolto, ma concede anche doni insperati». Zaccaria, padre di Giovanni Battista, era rimasto muto per non aver creduto all’angelo, ma poi, perdonandolo, Dio gli aveva concesso il dono di profetizzare nel canto: «Colui che poco prima era muto, ora già profetizza», osserva sant’Ambrogio, «è una delle più grandi grazie del Signore, che proprio quelli che l’hanno rinnegato lo confessino. Nessuno pertanto si perda di fiducia, nessuno disperi delle divine ricompense, anche se lo rimordono antichi peccati. Dio sa mutar parere, se tu sai emendare la colpa» (2,33: SAEMO, XI, Milano-Roma 1978, p. 175).

 

SALMI A CURA DI ENZO BIANCHI

http://ora-et-labora.net/bibbia/bianchi.html

SALMI A CURA DI ENZO BIANCHI

IL CONTENUTO

Il Salterio si presenta suddiviso in cinque libri scanditi da una dossologia finale; il Quinto libro è concluso da una piccola collezione di Salmi (dal 146 al 150), detti alleluyatici perché hanno come titolo l’espressione «Lodate il Signore» (halelûyah), che fungono da dossologia conclusiva non solo del Quinto libro ma dell’intero Salterio (dal greco psaltérion, lo strumento a corde che accompagnava i Salmi).
Questa antica suddivisione, risalente almeno al Il secolo a.C. ma probabilmente più antica, riproduce la suddivisione in cinque libri della Torah (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) e sottolinea l’autorevolezza dei Salterio: anch’esso è una Torah! La dossologia finale di ciascun libro si accompagna a una beatitudine che troviamo all’interno di ognuno dei Salmi che chiudono i cinque libri: 41,2; 72,17; 89,16; 106,3; 146,5 (all’inizio della collezione alleluyatica conclusiva dei Salterio). Il doppio registro della «beatitudine dell’uomo» e della «lode di Dio» scandisce così ciascuno dei libri dei Salterio. Ma si può dire di più: visto che i Salmi 1 e 2 costituiscono il «prologo» dell’intero Salterio e sono racchiusi dal concetto della beatitudine dell’uomo (1,1; 2,12), e visto che i Salmi 146-150, che costituiscono l’epilogo laudativo del Salterio, sono interamente pervasi dalla lode di Dio, è l’intero libro dei Salterio a essere racchiuso – secondo un tipico procedimento stilistico della letteratura ebraica detto «inclusione» -dal doppio registro della beatitudine dell’uomo e della lode di Dio. li Salterio è cosi un libro dell’uomo e di Dio, un libro teandrico, che indica all’uomo la via della felicità affermando che questa si compie nella lode di Dio: nei Salmi 146-150 la radice hll, «lodare», ricorre ben 31 volte e il Salmo 145, che di fatto è l’ultimo del corpo del Salterio – essendo i Salmi 146-150 l’epilogo – è, come recita la sua soprascritta al versetto 1, una «lode», una tehillâ.
La testimonianza di un popolo che sapeva pregare. Il Salterio è forse il libro biblico più particolare. Si tratta di una raccolta di 150 componimenti poetico-religiosi, differenti per autore, data di composizione, ambiente di origine, tonalità letteraria, lunghezza, modalità di composizione. Accanto al brevissimo Salmo 117 con i suoi due soli versetti, vi è il maestoso Salmo 119 composto da ben 176 versetti. Vi sono Salmi «studiati a tavolino», redatti da capo a fondo con l’elaborato ricorso ad artifici letterari raffinati, come il già ricordato 119; altri, invece, mostrano le tracce e il peso della storia nella stratificazione letteraria di cui sono portatori, come il Salmo 68, costituito da un nucleo originario antichissimo che celebrava una vittoria militare all’epoca dei giudici, da una successiva «rilettura» che lo ha adattato al tempo della monarchia di Giuda, e infine dall’intervento con glosse e ampliamenti di una terza «mano» nell’epoca postesilica. Tutto ciò rende impossibile parlare di una teologia dei Salmi compatta e unitaria.
Tuttavia tali componimenti hanno in comune il fatto di essere preghiere, di essere le parole che hanno retto il dialogo fra Israele e il suo Dio. È con questa prospettiva particolare che essi si collocano all’interno della struttura teologica centrale con cui Israele ha letto il proprio rapporto con Jhwh: «l’alleanza». I Salmi costituiscono la risposta di Israele alla parola di Dio, al suo intervento nella storia: essi sono «preghiere», e la «teologia del Salterio», se cosi si può dire, è essenzialmente una teologia della preghiera biblica. Questa preghiera conosce una grande quantità di inflessioni e modulazioni, parallela all’estrema diversità delle situazioni esistenziali e storiche: il Salterio è preghiera nella vita e nella storia, anzi, è storia e vita messe in preghiera. Esso può dunque essere giustamente considerato la migliore «Scuola di preghiera» in quanto tende a unificare vita e preghiera, storia e preghiera: esso insegna che «la preghiera è vivere alla presenza di Dio». Anche in una prospettiva cristiana, la quale ha al suo centro l’incarnazione e individua la storia e il mondo come il luogo della risposta a Dio, essi restano la preghiera per eccellenza: la Liturgia delle ore, vale a dire la preghiera ufficiale della chiesa, è intessuta essenzialmente di Salmi e afferma la sostanziale irrinunciabilità dei Salmi per la chiesa. E non sarebbe difficile mostrare come le grandi tematiche che attraversano la preghiera salmica (la confessione del nome salvifico di Dio, il riconoscimento della fraternità che lega i credenti nel Signore, la preghiera per l’avvento dei suo Regno, la confessione di peccato e la richiesta di perdono ecc.) sfociano quasi come in un compendio nella preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli, il Padre nostro (cf. E. Beaucamp, Israël en prière. Dès Psaumes au Notre Père, Cerf, Paris 1985). Né si deve dimenticare che i Salmi, essendo pregati in tutte le confessioni cristiane, sono preghiera «ecumenica» per eccellenza.
I Salmi sono lode di Dio. I Salmi attestano che i due polmoni della preghiera biblica sono «la supplica» e «la lode». O forse, meglio, la lode e la supplica. Infatti, la lode costituisce l’orizzonte inglobante di tutta la preghiera di Israele. «La lode non è soltanto una « forma letteraria » all’interno del Salterio; la lode di Dio risuona in tutti i Salmi ed è pronunciata anche de profundis, dal profondo dell’angoscia. Lodare Dio: questa è la peculiarità di Israele, poiché nella lode è espresso il riconoscimento che il popolo di Dio è consapevole di essere « semplicemente dipendente » dal suo Dio e, al tempo stesso, che deve se stesso e tutto ciò che ha ricevuto e riceve alla bontà di Dio creatore. La lode è quindi la risposta tipica di Israele» (H. J. Kraus, Teologia dei Salmi, Paideia, Brescia 1989, p. 109). La supplica implica sempre la lode (perché la lode è anzitutto confessione di fede nel nome di Dio e questo è sempre presente nelle suppliche, anche le più disperate, come invocazione del volto e dei nome che solo può salvare) e la supplica tende sempre alla lode, com’è ben visibile nei Salmi di supplica che terminano con tonalità di lode (cf. le due parti dei Salmo 22, la prima sotto il segno dell’angoscia – versetti 2-22 – e la seconda impregnata di gioia e di esultanza – versetti 23-32; si veda anche l’espressione «ancora lo celebrerò! » dei levita esiliato che si esprime con tono di lamento in Salmi 42-43). Così, sebbene le suppliche siano il genere di preghiera più presente nel Salterio, si comprende il nome di «Lodi» (Tehillîm) che la tradizione ebraica ha attribuito all’insieme del libro. L’intersecarsi di questi diversi registri di preghiera e di atteggiamenti davanti a Dio (domanda e ringraziamento, lamento ed esultanza, grido angosciato e fiducia, lacrime e risa) dice l’intrinsecità del rapporto fra lode e supplica: « Quando ho levato il mio grido a lui, / la mia bocca già cantava la sua lode» (66,17).
I Salmi sono preghiera personale e collettiva. L’interscambio colto a proposito della lode e della supplica riguarda anche la dimensione personale e collettiva della preghiera del Salterio. Spesso queste dimensioni sono compresenti ìn uno stesso Salmo (cf. 22; 51; 130): a volte forse perché l’orante è il re, dunque una personalità corporativa che abbraccia in sé il destino del popolo, altre volte forse perché un Salmo originariamente individuale è stato rimaneggiato in senso collettivo per meglio adattarlo alla preghiera comunitaria. In ogni caso, al di là delle spiegazioni di dettaglio, va rilevato che la dimensione teologica dell’alleanza implica una intrinsecità fra «io» e «noi». Nei Salmi di ringraziamento l’orante invita i presenti al tempio a unirsi alla sua lode nella piena coscienza che il beneficio che il Signore gli ha procurato gli è stato ottenuto non grazie ai propri meriti, ma alla propria appartenenza al popolo con cui Dio ha stretto alleanza (cf. 34,4); la supplica dell’orante che invoca il perdono dei proprio peccato in vista della propria restaurazione personale e della propria riammissione alla presenza di Dio è seguita dall’invocazione a Dio per la ricostruzione delle mura di Gerusalemme e la ripresa del culto al tempio (51,3-19 e 20-21). La stessa utilizzazione comunitaria e liturgica di Salmi composti da un individuo fa sì che « io » del singolo e «io» di Israele si collochino in situazione di circolarità e non di esclusione. In ogni caso, il fatto che le preghiere contenute nel Salterio siano destinate a essere cantate e musicate indica che esse trovavano nella liturgia il loro luogo di destinazione. La qual cosa non ha impedito che divenissero testi usati anche nella pietà personale. Il Salterio tuttavia lascia trasparire numerose situazioni liturgiche, rituali e cultuali in cui venivano utilizzati i Salmi: processioni (48,13-15; 68,25-26; 118,26-27), pellegrinaggi (84; la collezione dei 15 Canti delle salite, espressione presente nelle soprascritte dei Salmi 120-134), sacrifici (50,23; 66,13-15; 116,17 ecc.), liturgie di ingresso al tempio (15; 24), benedizioni sacerdotali (115,14-15; 118,26; 128,5; 134,3), oracoli (12,6; 60,8-10; 81,7-17).
I Salmi sono musica e gestualità. Il riferimento a numerosi strumenti musicali (cf. 150,3-5) mostra l’estrema vivezza di queste liturgie: strumenti a corda (arpa, lira, cetra), fiati (flauti, liuti, oboe), corni (sia naturali che artificiali, cioè di bronzo o rame o argento), e poi cimbali, tamburi, campanelle… Ma lo strumento per eccellenza della preghiera salmica, e biblica in genere, è il corpo: «Il fragile strumento della preghiera, l’arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Sembra che per il salmista tutto si giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all’anima, ma al contrario perché l’anima non si esprime e non traspare se non nel corpo. Il Salterio è la preghiera del corpo. Anche la meditazione vi si esteriorizza prendendo il nome di « mormorio », « sussurro ». Il corpo è il luogo dell’anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. È il corpo stesso che prega: « Tutte le mie ossa diranno: Chi è come te, Signore? » » (P. Beauchamp, « La prière à l’école des Psaumes », in O. Odelain – R. Séguineau, Concordance de la Bible. Les Psaumes, Desclée de Brouwer, Paris 1980, P. XVII). Ecco dunque che il corpo si esprime nella preghiera inginocchiandosi (95,6), levando in alto le mani (141,2), protendendo in avanti le mani (143,6), sciogliendo le membra in danze (149,3), battendo le mani (47,2), prostrandosi faccia a terra (29,2), alzando gli occhi verso l’alto in segno di supplica (123) ecc. È cosi che i Salmi strappano la preghiera ai rischi di cerebralità e la presentano come linguaggio globale, di tutto l’uomo.
I Salmi sono poesia. Questa totalità di espressione dell’uomo trova la sua più adeguata manifestazione nella forma poetica: non bisogna dimenticare che i Salmi sono poesia e che pertanto la musicalità e il ritmo, le assonanze e le allitterazioni, cosi come tutti gli altri elementi stilistici della poetica ebraica che compongono la trama dei Salmi, sono essenziali per penetrarli, o meglio, per lasciarsene penetrare. Senza addentrarsi nella grande ricchezza della poetica ebraica, basti qui ricordare che la regola fondamentale della poesia ebraica si basa sul fatto che la lingua ebraica è accentuale, regolata dall’accento tonico distribuito fra pause e cesure. Ogni parola ha un accento su cui cade il tono della voce nel canto o nella recitazione, e il ritmo si adatta al carattere proprio di ciascun Salmo: i Salmi sapienziali, meditativi, avranno più frequentemente un ritmo pacato e disteso di 3+3 accenti (per esempio 1); le suppliche hanno spesso il ritmo detto qinâ («lamento»), un ritmo strozzato di 3+2 accenti che riproduce il parlare sincopato di chi è preso da singhiozzi e pianto (42-43). Tuttavia molti Salmi non presentano affatto una regolare struttura ritmica o per la lunga e stratificata storia letteraria che li ha prodotti, o per le corruzioni e lacune che si possono essere prodotte nel corso della tradizione manoscritta.
Altra regola essenziale della poesia ebraica è quella del «parallelismo»: un concetto è ripetuto una o più volte con parole diverse, con espressioni variate, per ottenere lo scopo di una adeguata interiorizzazione. I Salmi delle salite (120-134), tutti databili all’epoca postesilica – eccetto il Salmo 132, di origine più antica – sono redatti facendo ricorso al procedimento della «ripetizione»: una stessa parola o espressione è ripetuta più volte per aiutare la memorizzazione del testo, tra l’altro sempre molto breve (tranne, ancora, il Salmo 132). Si trattava infatti di componimenti che dovevano essere recitati durante il pellegrinaggio a Sion (detto «la salita», poiché a Gerusalemme, data la sua collocazione geografica, «si sale»: cf. Vangelo secondo Marco 10,33), e dunque dovevano essere semplici, adatti a tutti i livelli della popolazione, e facilmente memorizzabili.
Al «parallelismo sinonimico» (6,2) si affianca il «parallelismo antitetico», in cui un’idea è rafforzata dal suo contrario: «Gli uni contano sui carri, gli altri sui cavalli; / noi invochiamo il nome di Jhwh nostro Dio; / quelli si piegano e cadono, / noi restiamo in piedi e siamo saldi» (20,8-9).
Il « parallelismo sintetico » si riferisce a un concetto che, espresso nel primo membro di un versetto, viene completato dal secondo: « La volontà del Signore è luminosa / dà trasparenza allo sguardo » (1 9,9cd).
Il «parallelismo ascendente» mostra il continuo e progressivo accrescimento dell’idea fondamentale espressa: «Riconoscete a Jhwh, figli di Dio, / riconoscete a Jhwh gloria e potenza / riconoscete a Jhwh la gloria del suo nome» (29,1-2a).
Preghiera di tutto l’uomo, i Salmi rivelano la grande quantità di linguaggi che può esprimere la relazione con il Signore. Il sussurro, il brusio sommesso della meditazione (1,2), i singhiozzi e le lacrime del pianto del supplice (6,7-8; 56,9), la protesta nei confronti di un agire di Dio che non si riesce a comprendere («Perché, Signore?», 88,15), il silenzio (65,2), il grido e l’urlo (22,6; 61,2; 69,4), l’invettiva (58; 83,10ss), il lamento (5,2), la riflessione e il dialogo interiore (4,5; 42,6.12; 43,5; 73,16), il riso incontenibile della gioia straripante (126,2). Ogni linguaggio rinvia a una situazione esistenziale e storica che l’orante cerca di leggere davanti a Dio.
La molteplicità di situazioni e di atteggiamenti espressa nei Salmi si riflette sulla variegata gamma di generi letterari presenti nel Salterio che di seguito analizzeremo. Occorre però dapprima premettere che in realtà molti Salmi presentano una tale mescolanza di generi al loro interno che risulta quasi impossibile rinchiuderli in una sola griglia. Così il 36 combina il registro sapienziale con quello della supplica; il 52 contiene elementi sapienziali, ma anche i toni dell’invettiva e della requisitoria, del lamento personale e del ringraziamento; il 75 può essere annoverato tra i ringraziamenti, benché vi emerga la tematica della regalità di Jhwh e presenta elementi liturgico-profetici; il 95 e il 115 sembrano tradire un’origine liturgica senza che sia possibile specificare il tipo di liturgia; il 125 unisce il tono della supplica a quello della fiducia; il 126 è un Salmo di ringraziamento che diviene lamentazione e supplica; il 129 vede coabitare in sé i toni della supplica, della fiducia e del ringraziamento… E questo, che potrebbe essere verificato su molti altri Salmi, da un lato dice la precarietà dell’attribuzione di un Salmo a un determinato genere (mentre spesso si tratta piuttosto di giudicare la preponderanza di un tono rispetto a un altro), dall’altro attesta che i Salmi riflettono anzitutto la complessità e la non linearità della vita e della storia più ancora che la regolarità ingessata di forme e moduli letterari rigidi.

N.B.: Questo testo è solo una piccola parte dell’introduzione ai Salmi
curata da Enzo Bianchi e riportata nel volume citato più sopra.

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