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TRA PROMETEO E GIACOBBE – DI GIANFRANCO RAVASI

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TRA PROMETEO E GIACOBBE – DI GIANFRANCO RAVASI

Il termine “sfida” è la negazione della fede cristiana? Una riflessione del prefetto della Biblioteca Ambrosiana

A prima vista il termine “sfida” sembra essere, a livello etimologico, la negazione della fede: non è forse, “dis-fida”, cioè una “fiducia/fede” negata dal prefisso dis che, nella sua matrice greca, indica negatività e ostilità? Dopo tutto, l’hybris, cioè la sfida di Prometeo, reiterata in molte culture, è il tentativo di occupare il trono divino, sostituendosi al Re trascendente. Eppure, la fede – se colta nella sua struttura costitutiva più intima – si rivela anch’essa come sfida, rischiosa ma esaltante. Scriveva il filosofo Sören Kierkegaard: «La fede è la più alta passione dell’uomo. Ci sono forse in ogni generazione uomini che non arrivano fino ad essa. Ma nessuno va oltre». A questo sforzo di giungere al livello vertiginoso del credere noi dedicheremo ora non tanto un’analisi quanto piuttosto una rappresentazione emblematica per quadri o scene, in una sorta di trattazione “impressionistica”.
Come Giacobbe e Davide…
Inizieremo con un notturno: la celebre lotta di Giacobbe, il patriarca ebreo, contro un essere misterioso, identificato dalla tradizione con un angelo, simbolo comunque del divino. Il racconto di Genesi 32, 23-33 vede il protagonista solitario lungo le rive del fiume Jabbok, un affluente orientale del Giordano. Le acque impetuose e la notte sono segno del nulla, del caos, del dramma. «Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora» (32,25). Quando sorge l’alba, Giacobbe avanza zoppicante, ferito all’articolazione del femore, e il suo nome non è più quello tribale di Giacobbe ma è “Israele”, che significa “contende con Dio”: dall’incontro-lotta con Dio non si esce indenni ma trasformati e trasfigurati. L’esperienza di fede consegna alla persona un compito, una missione, una vocazione, per Giacobbe quella di essere il progenitore, il capostipite e l’archetipo di un popolo.
Il credere, perciò, come era accaduto già ad Abramo costretto dal Signore a sacrificargli il figlio Isacco (Genesi 22), non è una pacifica acquisizione di benedizioni, ma è una sorta di incontro-scontro col mistero. Credere è rischio e il suo percorso si snoda su un sentiero d’altura, come lo era il monte Moria per Abramo, o lungo un fiume impetuoso, come accade a Giacobbe. Ma ci sono altre sfide che attendono il credente, dopo la sua lotta con Dio.
Ecco, allora, l’altro quadro che vorremmo evocare. La scena ora è solare: siamo in campo aperto, davanti a una platea di spettatori incuriositi. Si stanno confrontando in un duello due personaggi del tutto antitetici. Da un lato, si erge l’eroe filisteo Golia che enfaticamente è descritto dalla Bibbia – nel racconto del capitolo 17 del primo Libro di Samuele – con un’imponenza di «sei cubiti e un palmo», quasi 2,80 metri, capace di reggere una corazza a piastre di 5000 sicli di bronzo, cioè di una trentina di chili. Dall’altro lato, avanza Davide, un «ragazzo fulvo di capelli e di bell’aspetto», armato solo di una fionda e di cinque ciottoli lisci di fiume.
È l’eterna sfida tra la corpulenza becera e muscolosa dell’arroganza, del potere, della forza bruta contro la bellezza, la delicatezza, l’intelligenza, la verità. A prima vista il confronto sembra essere impari; ma l’esito è alla fine sorprendente perché i valori dello spirito sono ben più resistenti e decisivi e non possono essere piegati dalla mera brutalità quantitativa. Essi partecipano dell’eternità e dell’infinito ed è per questo che è impossibile metterli in gara con realtà che poggiano solo sulla materialità, di sua natura caduca e finita. La fede è un invito permanente a schierarsi dalla parte della “debolezza”, della “fragilità”, del Bello, del Vero, del Giusto, dell’Amore.
«Resistere
nel giorno malvagio»
Ma possiamo procedere oltre, verso un’altra e più inquietante sfida che è ambientata in un interno. Siamo in una sinagoga e Gesù è da poco entrato, creando scompiglio soprattutto in un ebreo fino a quel momento quietamente assiso sul suo scranno. Agitandosi sotto l’irruzione di «uno spirito immondo», egli si mette a urlare: «Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Tu sei venuto a rovinarci! Lo so chi tu sei: il Santo di Dio!». Nella narrazione del capitolo 1 del Vangelo di Marco lo scontro ha il suo acme quando Cristo si rivolge non all’uomo ma allo “spirito immondo” che lo possiede. «Taci! Esci da quest’uomo!». E l’esito è immediato: «Lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui».
In questo episodio di forte tensione è idealmente rappresentata una sfida che non coinvolge solo Cristo ma ogni credente: siamo costantemente posti in conflitto col male morale e metafisico, siamo in perenne confronto con l’oscurità della storia, con l’ombra di Dio, col grumo incandescente della perversione, con la potenza tenebrosa della morte. Per usare un’espressione di Bernanos, siamo spesso «sotto il sole di satana», un sole “nero” che scandisce molti tempi della storia e che ci costringe – come dice san Paolo – ad essere attrezzati con «l’armatura di Dio perché possiamo resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di carne e di sangue, ma contro principati e potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male. Prendiamo, perciò, l’armatura di Dio, perché possiamo resistere nel giorno malvagio e restare in piedi…» (Ef 6,11-13).
Questa, però, non è una sfida che si consuma solo all’esterno, nell’orizzonte e nello scenario della storia. Essa celebra i suoi atti più terribili e subdoli all’interno di noi stessi, nello spazio intimo della libertà. È ciò che Paolo dipinge in modo mirabile nel capitolo 7 della Lettera ai Romani: «Quando voglio fare il bene, è il male che mi è accanto. Aderirei alla legge di Dio ma nelle mie membra vedo un’altra legge che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo». Lo sbocco sembra essere inevitabile e approdare alle sabbie mobili del peccato e della “carne”, come ama dire l’Apostolo.
Forte come
la Morte è l’Amore
In realtà, l’uomo in questa lotta intima non è solitario. La mano di Dio si stende ed effonde in noi «le primizie dello Spirito, così che gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo, perché nella speranza noi siamo stati salvati» (Rm 8,23-24). Il verbo “gemere” è quello delle doglie del parto: siamo, quindi, di fronte a una sfida estrema che non produce morte bensì genera una ri-creazione, una nuova vita, una rinascita, compiuta dalla grazia divina.
È in questa luce che appare l’ultima sfida, l’estrema, quella con la morte che ha il suo emblema nella risurrezione di Cristo, ma che è già anticipata nella proclamazione della donna del Cantico dei Cantici: «Forte come la Morte è l’Amore… Le sue vampe sono ardenti, una fiamma del Signore!» (8,6). Affidandosi ad alcuni passi profetici, san Paolo introduce il duello supremo tra Vita e Morte e ne esalta l’esito finale: «La morte è stata ingoiata per la vittoria./ Dov’è, o morte, la tua vittoria? / Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?
Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!» (1Cor 15,54-57).
La fede si rivela, perciò, come un confronto aperto a tutto campo, che non teme di inoltrarsi anche sui terreni più incerti e ignoti. Come scriveva ancora Bernanos, «la fede è un rischio da correre. È addirittura il rischio dei rischi». Come ha insegnato Pascal, non è, però, una sfida insensata né solitaria. Il suo itinerario è motivato, i suoi risultati sono vigorosi, il suo tracciato è tormentato eppure nitido, il cammino è seguito da una Presenza. La sfida della fede è pesante ma anche gloriosa, è ardua ma anche serena, ed è un’esperienza aperta a tutti, anche a chi è agnostico. È ciò che suggeriva Turoldo in questi versi dei Canti ultimi (Oltre la foresta):

«Fratello ateo, nobilmente pensoso
alla ricerca di un Dio che io non so darti,
attraversiamo insieme il deserto.
Di deserto in deserto andiamo
oltre la foresta delle fedi
liberi e nudi verso
il nudo Essere
e là
dove la Parola muore
abbia fine il nostro cammino

LA BOTANICA NELLA BIBBIA

http://www.kyrieeleison.eu/ora_religione/botanica/botanica_bibbia.htm

LA BOTANICA NELLA BIBBIA

Questo lavoro è stato realizzato dal professor Lorenzo Paolino e dagli studenti dell’istituto tecnico agrario di Firenze che partecipano al progetto « Coltiviamo la Pace »

« Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura sempre » (Is.40,8)

INTRODUZIONE

Quanto qui raccolto é una ricerca a disposizione di chiunque desideri conoscere l’ambiente biblico da un punto di vista botanico. Le piante dei luoghi della Bibbia, il loro uso, la loro origine.
Leggere la Bibbia vuol dire entrare con tutto il nostro essere nella mentalità di colui che scrive, delle persone che hanno prestato la loro mano all’azione dello Spirito di Dio. Persone che sono condizionate dalla storia, dalle culture, dalle tradizioni, dalle tecniche letterarie del loro tempo.
Per fare tutto ciò può servire anche descrivere l’ambiente naturale in cui il popolo d’Israele è chiamato a realizzare la sua storia. Un ambiente vario, si va dal clima tipicamente mediterraneo al deserto, dalle vette dell’Ermon alla valle del Giordano e del Mar Morto che si trova a più di trecento metri sotto il livello del mare, dalla valle del Nilo alle coste del mar Rosso.
Pastorizia ed agricoltura sono le risorse principali dell’epoca biblica. Gli Ebrei apprendono l’agricoltura dai popoli che da secoli abitavano quella terra: i Cananei. Il popolo eletto prima di stanziarsi nella terra di Canaan era prevalentemente nomade e viveva di pastorizia.
Nella Bibbia alcuni simboli di origine mitica, specialmente riguardanti le origini, sono tratti dal mondo vegetale, come l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male. Il mondo vegetale è solidale con la condizione dell’uomo legato alla terra, Is. 61,1. Esso da una parte simboleggia la sua caducità e la sua effimera consistenza, come erba che presto dissecca e viene bruciata e più nulla ne rimane, o come fiore che presto sfiorisce; dall’altra, il rigoglio della vegetazione raffigura la prestanza, la bellezza, il vigore e la fecondità dell’uomo per la ricchezza dei frutti, sia nella vita fisica che in quella morale. Soprattutto la prestanza e il vigore del cedro del Libano, la bellezza e la fruttuosità della palma, lo splendore e l’abbondanza dell’olivo, che da olio pregiato e alimento primario, sono le figure ricorrenti in riferimento a circostanze diverse, e perfino contrarie tra loro, della vita umana.
Al mondo vegetale appartengono i simboli dei profumi. Tra le figure del mondo vegetale e della vita dei campi emergono quelle frequenti per esprimere la storia particolare dei rapporti di Dio con il suo popolo: la vigna, la vite, il seme, il frumento, i rovi e i cardi spinosi, la zizzania, la mietitura, l’agricoltore, i coloni, i lavoratori a giornata, ecc. Sono i simboli che anche Gesù prenderà per l’annuncio del Regno.
La Bibbia è un pozzo di notizie sulla vita che si svolgeva sulle coste del nostro Mediterraneo e nel Medio Oriente. Essa è un libro di storia, la storia di un popolo con il suo Dio. Una storia spesso trasfigurata ma mai fuori dalla verità, dall’esperienza religiosa e dal linguaggio del popolo che vive questa infinita avventura, l’avventura della FEDE.
Dio per comunicare con gli uomini deve usare il loro linguaggio ed è il linguaggio degli Ebrei fino al primo secolo dopo Cristo. Per leggere la Sacra Scrittura non si può prescindere da questo con il rischio di falsare tutto il messaggio di Dio.
Essere Cristiani vuol dire non perdere le radici della nostra fede, l’albero della nostra fede deve avere radici ben piantate nella terra d’Israele; l’ebraismo può benissimo vivere senza cristianesimo; il cristianesimo non può vivere senza ebraismo, senza ebraismo non c’è cristianesimo.
Il materiale sarà un supporto per far conoscere le radici della nostra fede, radici fondate sulla Bibbia, storia di un popolo con il suo Dio, storia che ha ancora da scrivere la parola « fine » se mai si potrà scrivere.

Alberi
Fiori Cereali
Legumi Ortaggi
Erbe Spezie

Il materiale qui raccolto è stato ripreso da:
« Nuovo dizionario di teologia biblica » ed. Paoline
« Le piante nella Bibbia » II parte – Parrocchia si S. Martino a Mensola
« Jkebana » di Jeanne Emard ed. Paoline
« Luoghi biblici per visitatori Cristiani » Ministero del turismo Gerusalemme, Israele

 

Publié dans:BIBBIA: TEMI VARI |on 21 octobre, 2019 |Pas de commentaires »

L’ESODO – L’ALLEANZA TRA DIO E IL POPOLO –

http://comunita-abba.it/?p=15571

L’ESODO – L’ALLEANZA TRA DIO E IL POPOLO –

p. Giuseppe Paparone

L’ALLEANZA TRA DIO E IL POPOLO IL DONO DELLA TORAH
Per entrare in modo sempre più proficuo nel cuore della Rivelazione biblica, è opportuno cogliere una duplice sfumatura.
La Bibbia, da una parte, ci offre un’informazione di tipo conoscitivo e anche una formazione catechetica, sistematica.
Dall’altra, ci introduce nella dimensione spirituale, la più importante e necessaria per entrare in una relazione con Dio che dia pienezza a tutta la nostra esistenza, a tutta la nostra sfera esistenziale: corporea, spirituale, emotiva.
La Scrittura, infatti, non contiene una filosofia che resta circoscritta alla sfera dell’intelletto, ma va letta, considerata, assimilata, in funzione della nostra vita. Diventa qualcosa di molto pratico perché la Bibbia ci fa vedere chi è l’uomo, chi siamo noi, chi è Dio: e ci insegna a vivere realizzando nel nostro presente, nella nostra quotidianità, un’armonia piena..
Questa premessa è importante nel momento in cui si affronta il terzo passaggio del nostro cammino nell’Esodo. Il terzo elemento, infatti, è costituito dal concetto di alleanza.
L’alleanza voluta e stabilita da Dio con il suo popolo, il popolo che Lui ha scelto, è molto più di una nozione teologica, una dimensiona spirituale, un’indicazione normativa: essa rappresenta il DNA dell’ebreo che ha camminato con Mosè e che cammina oggi tra noi.
Ma, questo concetto di alleanza ha avuto la sua evoluzione, il suo compimento finale con Gesù, che con il suo sacrificio, la sua morte e risurrezione ha stabilito la Nuova Alleanza tra il Padre e tutti gli uomini.
L’Eucaristia è il segno sublime di questa alleanza, di cui è memoriale, e questa alleanza è oggi nel DNA di ogni cristiano.
Il tema dell’alleanza rappresenta la parte più estesa del Pentateuco e la troviamo disseminata in tutti gli altri quattro libri. Noi ci soffermiamo solo sui capitoli 19-40 dell’Esodo, l’ultima parte del libro.

Contenuto e struttura di Esodo 19-40
La terza parte dell’Esodo è articolata in quattro nuclei narrativi:
19,1-24: resoconto dell’arrivo del popolo al Sinai e stipula dell’alleanza, la proposta di Dio e le condizioni stabilite.
24,12-31,18: Mosè ritorna sul monte e riceve da Dio tutte le altre prescrizioni riguardanti la vita cultuale del popolo.
32,1-34,35: il vitello d’oro: l’episodio drammatico in cui il popolo, in assenza di Mosè, sente immediato il bisogno di costruirsi un altro dio. Aronne cede e realizza un idolo. Mosè, sceso dalla montagna, trova il popolo in festa, distrugge il vitello d’oro, lo riduce in polvere e lo fa bere a tutto il popolo: segue la strage degli ebrei infedeli. Mosè risale sul monte e riceve una copia della legge su due nuove tavole: è il rinnovamento dell’alleanza.
35,1-40,38: Mosè esegue tutte le prescrizioni ricevute sul monte Sinai riguardanti il culto e il luogo dove deve essere esercitato: il santuario, la tenda sacra.
Tutti questi avvenimenti ci possono aiutare a capire e a vivere meglio il nostro culto cristiano oggi, la nostra fede, il perché Gesù è venuto a rinnovare l’alleanza con l’uomo.

CONSIDERAZIONI SPIRITUALI SULL’ALLEANZA
L’Alleanza con Dio che abbiamo appena considerato è il momento fondante la nostra vicenda umana e spirituale e noi possiamo capire cosa significa essere credenti solo alla luce di questa Alleanza.
Facciamo un passo indietro. Dio era apparso a Mosè, gli aveva rivelato il suo nome, cosa negata a Giacobbe sullo Iabbok, e gli comunica la sua intenzione, il suo progetto: fare del popolo eletto un suo amico speciale, un partner privilegiato.
Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte.(Es 3,12)
Dopo le vicissitudini della fuga dall’Egitto, il popolo è finalmente arrivato al monte Sinai. È molto più di una tappa di viaggio: il popolo di Israele arriva all’appuntamento che Dio ha fissato per lui dall’eternità. È uno dei suoi kairoi, dei tempi sacri di Dio.
Sono i momenti che imprimono alla storia una svolta decisiva, una tappa che trasforma l’esistenza dell’umanità intera. I primi versetti del capitolo 19 offrono la chiave di lettura per comprendere fino in fondo il senso dell’alleanza e di tutte le prescrizioni cultuali e morali che sono alla base della religione ebraico-cristiana.
Leggiamo:
Al terzo mese dall’uscita degli Israeliti dal paese di Egitto, proprio in quel giorno, essi arrivarono al deserto del Sinai. Levato l’accampamento da Refidim, arrivarono al deserto del Sinai, dove si accamparono; Israele si accampò davanti al monte. Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: “Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti”. Mosè andò, convocò gli anziani del popolo e riferì loro tutte queste parole, come gli aveva ordinato il Signore. Tutto il popolo rispose insieme e disse: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!”. Mosè tornò dal Signore e riferì le parole del popolo. Il Signore disse a Mosè: “Ecco, io sto per venire verso di te in una densa nube, perché il popolo senta quando io parlerò con te e credano sempre anche a te”.(Es 19,1-9)
L’introduzione ha un andamento solenne nella sua determinazione spazio-temporale:
Al terzo mese dall’uscita arrivarono in quel luogo fissato da Dio.(Es 19,1)
C’è un tempo e c’è un luogo in cui Dio si manifesta: questo luogo è il deserto, condizione per poterlo incontrare e che porta al silenzio, all’ascolto, alla solitudine, alla quiete del nostro cuore.
In quel luogo, in quel silenzio Dio finalmente può parlare e farsi ascoltare perché, se siamo noi a parlare, Lui non lo può fare.
Bisogna tacere davanti a Dio; la nostra mente è sempre affollata da troppe parole che risuonano sempre in noi, anche se tacciamo con la bocca. È insito in noi il dire sempre a Dio quello che deve fare senza mai ascoltare quello che Lui vuole fare per noi: questo paradosso è anche la nostra tragedia.
Ai piedi del monte il popolo è arrivato perché nel silenzio, nella solitudine è stato chiamato a prendere consapevolezza di chi è Dio in rapporto alla sua esistenza. Ed è lì che il popolo (quindi anche noi), deve prendere una decisione esistenziale chiedendosi chi è veramente Dio per lui e chi è lui per Dio.
voi stessi avete visto ciò che ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquila e vi ho fatti venire fino a me.(Es 19,4)
Tutto quello che Dio ha fatto fino a quel momento per il popolo è funzionale a quello che avverrà dopo. Tutto quello che il popolo ha ricevuto è stato un dono immeritato, da Abramo in poi. Questo dono immeritato è arrivato fino a noi oggi, nel Battesimo, dono di Grazia del tutto immeritato.
Attenzione: adesso Dio vuole fare al popolo un altro dono straordinario, una cosa inaudita, impensabile e nemmeno desiderata: Dio vuole istituire con Israele una relazione particolare. Vuole che quel popolo diventi suo amico, segno della sua luce e santità, un riferimento visibile, concreto per l’umanità intera:
oi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché è mia tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa.(Es 19,5-6)
Ecco il progetto di Dio per il suo popolo: non una “semplice” fuga dall’Egitto per entrare nella terra promessa, ma diventare, bensì, suo collaboratore e amico, sua proprietà e porzione privilegiata.
Ma ogni rapporto di amicizia è un rapporto d’amore che, per realizzarsi pienamente, ha bisogno della nostra accoglienza, della nostra adesione.
Quello che Dio poteva fare da solo lo ha fatto.
Ora il popolo deve scegliere.

IL SIMBOLISMO BIBLICO DELLA LUCE E LA SUA VALENZA VOCAZIONALE

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IL SIMBOLISMO BIBLICO DELLA LUCE E LA SUA VALENZA VOCAZIONALE

Giuseppe De Virgilio

Il tema della « luce » rappresenta una categoria centrale della rivelazione biblica. La scelta di collocare in questa prospettiva la realtà della vocazione e la sua dinamica esistenziale consente di poter leggere l’intera esperienza dell’uomo « chiamato da Dio » nel ricco quadro del simbolismo della luce assunto in prima persona da Gesù. Indicheremo quattro aspetti relativi al rapporto tra vocazione e luce, due per l’Antico Testamento e due per il Nuovo Testamento [1]: 1. La « luce » come manifestazione dell’appello di Dio; 2. La « luce » come dono di Dio; 3. Cristo compie la sua missione « luce del mondo »; 4. I credenti, figli della « luce » e discepoli di Cristo [2].

La « luce » come manifestazione dell’appello dí Dio La prima esperienza che l’uomo fa è quella del passaggio cosmico della notte e del giorno, atto costitutivo della creazione (Gen 1,3). La creazione si spalanca davanti ai nostri occhi richiamando il passaggio dalla notte al giorno come un avvicendarsi e quasi un rincorrersi tra vita e morte, luce e tenebra. Così nella riflessione salmica è presentata l’esperienza della vita e della storia cosmica: « Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia » (Sal 19,3; 148,3: sole e luna). La luce esiste come creatura di Dio ed obbedisce al suo coniando (Bar 3,33). Nell’Oriente antico la luce era considerata un elemento di Dio stesso. Similmente nell’Antico Testamento la manifestazione di Dio nel cosmo e nella storia è accompagnata da teofanie nelle quali prevale l’elemento luminoso, simbolo della presenza misteriosa e della potenza salvifica di Jahwe. Tuttavia la stessa narrazione della creazione mostra come Dio si pone al di sopra del dualismo tra luce e tenebre (Is 45,79: io formo la luce e le tenebre…). Si può quindi affermare che la luce è il riflesso della gloria di Dio, è come la veste di cui egli si copre (Sal 104,2), [3] « … il suo splendore è come la luce, bagliori di folgore escono dalle sue mani: raggi escono dalle sue mani » (Ab 3,4). Lo splendore della gloria divina si rivela come « manifestazione di un progetto ». Luce e vocazione sono quindi intimamente uniti dal simbolismo teofanico. Dio sì rivela ad Abramo, nel contesto della celebrazione dell’alleanza, come « forno ardente e fiaccola fumante », che passa tra gli animali divisi e li consuma, realizzando così il patto con il patriarca (Gen 15,17-21). Nella vita di Mosè le teofanie diventano un vero e proprio incontro « vocazionale » a più tappe: all’esordio della sua missione l’angelo di Dio si presenta a Mosè nell’esperienza del roveto ardente (Es 3,1-6), durante il cammino del deserto la presenza di Jahwe sì manifesta attraverso la colonna dì nube e di fuoco (Es 13,21;14,24; Nm 14,14) [4], al Sinai l’incontro con Dio si svolge nel contesto misterioso di una nube luminosa che spinge Mosè a domandare la « visione della gloria » (Es 33,18). Lo splendore della gloria divina brillerà sul volto del Legislatore a tal punto che Mosè dovrà velarsi per comunicare con il popolo (Es 34,29-30) [5]. Anche nell’esperienza dei profeti la rivelazione divina si compie nel simbolismo della luce e del fuoco (cf la simbologia dei racconti di vocazione in Is 6: la gloria luminosa di Jahwe nel tempio; Ez 2-3: la visione del carro di fuoco). All’ interno dell’esperienza profetica spicca la presentazione della figura del messia descritta mediante un simbolismo luminoso e la sua venuta è vista come « giorno di grande luce » per il popolo che camminava nelle tenebre (Is 8,22-9,1). In modo più esplicito nel libro della Sapienza si afferma come la sapienza (hoqmâh) è Dio stesso nella sua gloria, che riflette la luce eterna, superiore ogni altra luce cosmica: « Essa in realtà è più bella del sole e supera ogni costellazione di astri; paragonata alla luce, risulta superiore; a questa, infatti, succede la notte, ma contro la sapienza la malvagità non può prevalere » (Sap 7,29-30). Dio nel suo manifestarsi illumina e coinvolge il cosmo e i singoli personaggi nell’avventura della chiamata. La luce va intesa quindi come aspetto essenziale del simbolismo vocazionale: luce e vocazione appartengono al mistero di Dio che si rivela e si compie nella storia [6].

La « luce » come dono di Dio Un secondo aspetto presente nell’Antico Testamento riguarda il « dono » della luce per l’umanità. A partire dall’atto creativo e dalla descrizione della settimana cosmica che culmina con il giorno sabbatico (Gn 1,1-2,4) la luce non è solo espressione comunicativa dell’opera della creazione di cui segna la temporalità, ma costituisce uno dei doni vitali degli uomini. Infatti essa caratterizza la vita naturale (Sal 38,11; 56,14) e spirituale del mondo (Sal 37,6; 97,11; 112,4) voluto dall’Onnipotente e l’uomo accogliendo questo dono diviene partecipe della luce divina (Sal 36, 10: « È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce »). Tale dono implica la possibilità per ciascun uomo di riflettere e godere della luce della divinità divenuta familiare, significata soprattutto dalla metafora del volto [7]. Benché Dio non sia un uomo (Nm 23, 19) e nessuna creatura possa dare un’idea della sua gloria (Is 40,18; 46,5), nella sua volontà di comunicarsi si immagina che Egli possa esprimere un suo volto, nelle diverse circostanze benevolo (Sal 4,7; 80,4.8.20) o talvolta adirato (Is 54,8; Sal 30,8; 104,29). Nella rilettura antropologica il volto è lo specchio del cuore e di conseguenza la luce del volto di Jahwe riflette la stessa natura misteriosa e trascendente di Dio. In questo senso la metafora del « desiderio del volto di Dio » rivela la perenne tensione che giace nel cuore umano di relazionarsi con il mistero del Trascendente: « Di te ha detto il mio cuore: cercate il suo volto: il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo » (Sal 27,4-5) [8]. Tuttavia vedere il volto luminoso di Dio è un’esperienza mortalmente temibile per l’uomo (Gdc 13,22) a motivo del suo peccato (Is 6,5; Sal 51, 13s.); così quando Mosè chiede sul monte di poter contemplarne la gloria (kabôd), gli viene concesso di vedere la luce gloriosa di Jahwe solo di spalle (Es 33, 18-23). Tale simbologia è applicata all’esperienza vocazionale della sequela: desiderare di vedere il volto di Jahwe significa imparare a seguirlo dovunque egli ci vorrà condurre [9]. Un’ulteriore applicazione della luce intesa come dono di Jahwe è costituito dalla Legge (torâh) considerata « lampada » [10] per i credenti: con il dono della sua legge l’Altissimo rischiara i passi dell’uomo (Prv 6,23; Sal 119,105), lo guida sicuro in mezzo alle tenebre (Gb 29,3), illumina i suoi occhi e lo salva dai pericoli (Sal 13.4: 27,1)[11]. La Legge di Dio, garanzia di alleanza e di libertà, illuminerà tutti i popoli che camminano nelle tenebre (Is 2,5: 6t),3), secondo l’oracolo profetico: « Ascoltatemi attenti, o popoli; nazioni, porgetemi l’orecchio. Poiché da me uscirà la legge. il aio diritto sarà luce dei popoli » (Is 51.4). Il dinamismo simbolico della luce è applicato in modo particolare alla dimensione escatologica e al giudizio finale, che annuncia l’arrivo dell’alba sulla nuova Gerusalemme (Is 60.1 ss.), quando nel giorno meraviglioso splenderà il sole di giustizia (Is 30,26; Mal 3,20) e Dio stesso illuminerà i credenti (Is 60,19s.; Bar 5,9). Senza dubbio la figura veterotestamentaria più significativa per la sua prospettiva vocazionale collegata al simbolismo della luce è quella del « servo sofferente di Jahwe », il quale riceve il mandato di annunciare il dono della salvezza, della giustizia e della pace messianica a tutti i popoli (Is 42,6; 49,6). La vocazione come « luce della vita » trova una delle più profonde applicazioni nella vicenda dell’anonimo personaggio biblico che dona se stesso per la salvezza del suo popolo, diventando « luce delle nazioni ». I quattro carmi del servo sofferente indicano la parabola esistenziale e teologica della vocazione: nel primo carme si presenta il momento della chiamata e del l’elezione-unzione del servo da parte di Dio (Is 42,1-4): nel secondo viene descritta la missione universale del chiamato (Is 49,1-6); nel terzo carine il servo sarà sottoposto al giudizio e alla prova degli uomini, di fronte ai quali dovrà testimoniare la sua fedeltà a Dio (Is 50,4-9); nel quarto carme viene delineato l’esito della sua missione che consiste nel dono totale della vita in riscatto per il suo popolo (Is 52,13-53,12), ma « dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della stia conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità » (Is 53,11). Il simbolismo della luce è qui strettamente congiunto con l’esistenza messianica del servo e con il compimento fedele del progetto di Dio [12]. L’immagine escatologica della luce è infine collegata al giudizio finale secondo il quale gli empi entreranno nelle tenebre eterne, mentre i giusti godranno della piena luce (Sap 3,7, 18,1-4; Dn 12,3). In questa prospettiva il dono escatologico della luce diventa premio eterno per coloro che sono fedeli alla volontà di Dio e partecipano alla realizzazione della salvezza.

Cristo compie la sua missione come « luce del mondo » Le premesse teologiche e i simbolismi indicati nel percorso dell’Antico Testamento permettono di comprendere il valore simbolico della luce che Gesù applica a se stesso in modo particolare nel quarto vangelo [13]: « lo sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita » (Gv 8,12) [14]. L’affermazione è composta di due frasi: la prima « lo sono la luce del mondo » costituisce l’autopresentazione del Signore che richiama la formula del nome di Dio (Es 3,14) e il suo contesto teofanico, evocando la ricchezza simbolica della relazione tra Dio-luce e il mondo (phôs-kosmos) [15]. La seconda parte della rivelazione: « chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita » indica. nella doppia forma negativa e positiva, la condizione del credente che si pone alla sequela del Cristo: l’accoglienza della « luce della vita ». In questo secondo passaggio si coglie un’ulteriore relazione che definisce lo stato esistenziale della vocazione del cristiano: seguire Gesù significa entrare in relazione con il mistero di luce e di vita. L’evangelista ha già anticipato questi temi nel prologo, dove presenta l’incarnazione del Figlio e la sua venuta nel « mondo » come dono di vita e di luce che splende nelle « tenebre » (Gv 1,4-5) [16]. La combinazione luce-vita applicata alla missione di Cristo e ai discepoli si ritrova ancora nel decorso narrativo giovanneo con un’espressione quasi simile, rivolta ai giudei increduli di Gerusalemme: « Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre » (Gv 12,46). In questo importante testo il rapporto tra Gesù-luce con il mondo viene a coincidere con quello tra la sua missione e l’umanità, dove il discepolo che decide si seguirlo rappresenta la figura di ogni credente. Nello stesso contesto, in alcuni versetti prima si ritrova l’accenno alla luce con i medesimi termini (camminare /credere /tenebre): « Gesù allora disse loro: ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce » (Gv 12,35-36). Ugualmente le espressioni sulla luce ritornano in Gv 9,5: « Finché sono nel inondo, sono la luce del mondo »; nel dialogo con Nicodemo, per presentare la missione salvi fica del Figlio: giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio » (Gv 3,19-20); nella decisione di recarsi in Giudea nonostante la minaccia di morte che incombeva su Gesù: « Gesù rispose: « Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se invece uno cammina di notte, inciampa, perché gli manca la luce » (Gv 11,9-10) [17]. Dall’analisi dei testi giovannei evocati risulta chiaro il messaggio inteso nell’affermazione del Cristo, collocato nell’apertura del dibattito con i farisei a Gerusalemme. Egli si rivela con le stesse prerogative di Dio come Figlio unigenito e pone come unica condizione agli uomini che desiderano partecipare alla sua vita, la necessità di « diventare discepoli », figli della luce. È evidente come la categoria della luce, assunta in tutta la sua ricchezza veterotestamentaria dall’evangelista Giovanni, viene impiegata dal Signore per esprimere il valore fondamentale della vocazione dei credenti [18]. Un ulteriore sviluppo dell’applicazione della categoria della luce è dato dalla manifestazione dello Spirito Santo per indicare l’intervento di Dio nella storia della salvezza [19]. Anche nei vangeli sinottici le immagini associate con la luce vengono riprese dal Signore per significare il valore della sua missione di rivelare i misteri di Dio all’umanità. Così nei racconti delle guarigioni di ciechi (Me 8,22-26: cieco di Betsaida; Mc 10,46-52: cieco di Gerico (e paralleli); Gv 9,1-41: cieco di Gerusalemme) [20] si coglie la ricchezza del simbolismo messianico nella relazione liberazione-schiavitù con il binomio luce-tenebre, applicato alla missione stessa del Cristo [21]: « Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore » (Le 4,18-19, cf. Is 61,1-2; Lc 7,22, cf. Is 35,5-6) [22]. Inoltre la metafora della lampada che porta la luce a tutta la casa in Le 11,33 è applicata a Gesù, rivelatore del Padre, mentre in Mc 4,21 (Le 8,16) è usata per spiegare le ragioni del metodo parabolico della predicazione del Cristo: dare luce a quanti nella fede si pongono in ascolto della Parola di salvezza. In modo tutto particolare il simbolismo della luce nell’episodio della trasfigurazione trova un’eccezionale applicazione cristologica, che collega attraverso gli aspetti della scena e l’apparizione dei personaggi il mondo simbolico dell’AT con l’evento pasquale della risurrezione, dove la luce e la vita sono elementi costitutivi dell’evento cristiano e del suo messaggio universale di salvezza [23]. Così nella scena pasquale il compimento della missione di Cristo viene descritto in tutta la sua luminosità (Mt 28,3), che riflette la gloria del Dio e la vittoria della vita sulla morte tenebrosa. In questa prospettiva la riflessione ecclesiale designerà il senso dell’evento pasquale: nel volto del Cristo risorto si riflette la gloria del Padre (2 Cor 4,6; Eb 1,3), la cui luce radiosa è apparsa a Paolo sulla strada di Damasco per chiamarlo alla sequela (At 9,2; 22,6; 26,13). In definitiva Gesù risorto apre all’umanità la « dimora di Dio in una luce inaccessibile » (1 Tm 6,16) e conferma con la sua missione nel inondo la rilevazione del mistero di Dio: « Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato » (1 Gv 1,5-7).

I credenti, figli della « luce » e discepoli di Cristo Un quarto passaggio è rappresentato dalle conseguenze che il messaggio cristiano provoca nella vita e nelle scelte dei credenti. Appare chiaro che nel simbolismo della luce si colloca la proposta rivolta all’uomo e alla sua coscienza: l’appello a mettere in gioco la propria vita sulla decisione di fronte all’alternativa tra la luce e le tenebre. La luce qualifica il « regno di Dio » rivelato e compiuto in Cristo come regno di giustizia e di bene, mentre le tenebre simboleggiano il male e l’empietà derivanti dal potere satanico (cf. 2 Cor 11,14), così come l’Apostolo si esprime rivolgendosi ai corinzi: « Non lasciatevi legare al giogo estraneo degli infedeli. Quale rapporto infatti ci può essere tra la giustizia e l’iniquità, o quale unione tra la luce e le tenebre? Quale intesa tra Cristo e Beliar, o quale collaborazione tra un fedele e un infedele? » (2Cor 6,14-15). L’espressione paolina pone la scelta cristiana di fronte ad un’antitesi: giustizia/iniquità, luce/ tenebre, Cristo/Beliar, fedele/infedele, indicando quale identità dovrà caratterizzare la prassi del credente in Cristo. È Gesù stesso nel vangelo a definire i credenti come « figli della luce » (Le 16,18) che si distinguono per la loro fedeltà dai « figli delle tenebre » e dalla loro scaltrezza [24]. La comunità cristiana è chiamata a realizzare la « santità » di Dio stesso, il quale ha voluto « strappare » gli uomini dal dominio delle tenebre per renderli partecipi della sua luce meravigliosa (1 Pt 2,9). Paolo esprime mirabilmente il progetto del Padre sui credenti: « ringraziando con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio amato, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati » (Col 1,12-13). In definitiva la vocazione dei credenti « alla luce » è un atto gratuito di Dio che si riceve fin dal momento del battesimo, in cui gli uomini illuminati da Cristo risorto (Eh 6,4) sperimentano di non essere più nelle tenebre, ma sentono di essere chiamati a vivere come « figli della luce » (Ef 5,8; cf. 1 Ts 5,5). I discepoli di Cristo sono uomini dalla esistenza interiore luminosa, capaci di rigettare le opere delle tenebre e di rivestire le armi della luce (Rm 13,12), consapevoli della preziosità della comunione con Dio in Cristo Gesù, mediante il vincolo della carità. L’appello di Paolo agli efesini rimane un modello di vita per i discepoli del Signore: « Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente, poiché di quanto viene fatto da costoro in segreto è vergognoso perfino parlare. Tutte queste cose che vengono apertamente condannate sono rivelate dalla luce, perché tutto quello che si manifesta è luce » (Ef 5,8-13). Il discernimento tra i figli della luce e quelli delle tenebre non può che passare attraverso il criterio della comunione con Dio e con i fratelli (1 Gv 2,8I 1), da cui si riconosce se si è nelle tenebre o nella luce. I credenti divenuti discepoli del Risorto riflettono la luce divina di cui sono resi depositari e in quanto tali sono chiamato a vivere la stessa missione del Cristo come « luce del mondo » (Mt 5,14). Per ultimo l’esito della vocazione cristiana segnata dalla virtù della speranza, si compirà nello splendore del regno dei giusti (Mt 13,43), dove nella Gerusalemme celeste, splendente della gloria divina (Ap 21,23). Gli eletti contempleranno il volto di Dio, totalmente illuminati dalla sua intramontabile luce, secondo la profezia dell’Apocalisse: « vedranno la sua faccia e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli » (Ap 22,4-5) [25].

Conclusione L’analisi condotta ha offerto una lettura progressiva del messaggio vocazionale contenuto nel simbolismo della luce. Si ricava una doppia considerazione che si può applicare alla rivelazione biblica della luce: da una parte essa si caratterizza per la sua circolarità, che inizia con l’atto della creazione ed ha il suo epilogo nel compimento escatologico; dall’altra essa trova la sua massima concentrazione nell’applicazione cristologica, con l’autorivelazione di Gesù « luce del mondo ». In entrambe le applicazioni il simbolismo della luce appare fortemente connesso con la riflessione vocazionale. Ciascun credente è chiamato, fin dalla sua nascita, a « venire alla luce » come un progetto da realizzare; nel corso della sua esistenza l’uomo si schiude ad un discernimento che si concretizza in un « vedere la luce »; il fine ultimo della sua esistenza sarà quello di « vivere nella luce ». In definitiva a partire dall’atto creativo di Dio, attraverso i personaggi dell’AT, scopriamo in Cristo la rivelazione piena e definitiva della luce, che siamo chiamati ad accogliere nella nostra vita secondo il progetto del padre in vista della speranza che si compirà nella Gerusalemme del cielo.

NOTE SUL SITO

« LA VITA È DONARE UNA VIA » – VOCAZIONE ALLA VITA RELIGIOSA

http://www.apostoline.it/perscegliere/religiosi/donare_una_via_basti.htm

« LA VITA È DONARE UNA VIA »  – VOCAZIONE ALLA VITA RELIGIOSA

di Gianfranco Basti    “Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. (Gv 14,5-6)

Nell’ultima cena Gesù, istituendo l’Eucarestia, compie il gesto che manifesta il senso, il “perché” profondo di tutta la sua vita. Trasformando la tradizionale preghiera di benedizione sul pane e sul vino della pasqua ebraica nel gesto di consacrazione, del dono di tutta la sua vita al Padre per noi – “Questo è il mio corpo…”, “Questo è il mio sangue…” -Cristo spiega ai suoi apostoli il mistero profondo della sua vita e quindi di tutti coloro che vorranno, come noi, vedere in Cristo il loro modello, appunto la loro via, la loro verità, la loro vita. La vita di Cristo e la vita di coloro che sono di Cristo è una vita chiamata a divenire benedizione, eucaristia – che è poi la traduzione greca del termine “benedizione”, berakah in ebraico -, perché possiede la medesima struttura triadica di ogni preghiera ebraica di benedizione che ha Dio come suo principio e come suo fine. Benedire Dio per l’ebreo significa consacrare, ridonare a Lui i doni che Egli per primo ci ha fatto e che l’uomo ha arricchito del suo personale impegno. Mentre la preghiera del pagano ha l’uomo stesso come principio e fine (io ho bisogno – mi rivolgo a Dio – perché mi esaudisca), la preghiera del pio israelita segue la direzione inversa: Dio nella sua misericordia mi colma di doni – mi scopro ricco dei doni di Dio – a Dio li ridono in rendimento di grazie, in fiducioso abbandono. “Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l’animo in ansia: di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta. Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno” (Lc 12,29-32). Scoprire la propria vocazione significa, così, scoprire la dimensione eucaristica della propria vita, significa scoprire che la nostra vita è dono e che possiamo fare della nostra esistenza un rendimento di grazie a Dio, ridonandola a Lui, in modo personalissimo ed irripetibile. Innumerevoli sono le vie che gli uomini possono percorrere per questo “ritorno al Padre”, innumerevoli quante sono le persone umane, vie tutte nuove ed imprevedibili quanto è sempre nuova ed imprevedibile una vita. Per questo è così facile smarrirsi…   “Io sono la via” Ecco allora risuonare come attualissime per ciascuno di noi le parole di Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”. La risposta di Gesù è un invito alla sequela: “Io sono la via…”. Cristo, la sua vita e il suo modello sono il sommo criterio per giudicare della giustezza della via che ogni battezzato sta percorrendo. Per questo, ogni battezzato che non ha sbagliato strada, che ha saputo seguire Cristo fino in fondo, fino al dono pieno di sé, può divenire modello nel Modello unico che è Cristo per schiere innumerevoli di altri fratelli, attualizzazione nelle diverse epoche della storia dell’unico Vangelo fatto davvero “vita” solo nella vita del Cristo. Tutto il segreto della scelta religiosa è qui. Ogni santo, ogni maestro dello spirito, fondatore di una certa famiglia religiosa, altro non è che un’espressione particolare dell’unica, multiforme ricchezza del Cristo in una certa situazione politica, culturale, sociale, religiosa, in risposta a certe particolari attese, desideri, bisogni dell’umanità e della Chiesa. Ogni famiglia religiosa si caratterizza così per un certo carisma, contemplativo o attivo, caritativo o di annuncio, d’insegnamento o di testimonianza. I carismi sono tanti, tantissimi: non passa anno senza che non se ne aggiungano di nuovi nella Chiesa. Segno della vitalità e creatività dello Spirito indubbiamente. E, nello stesso tempo, possiamo essere certi che ciascuno di essi non fa che evidenziare un aspetto particolarissimo della vita del Cristo. Lui solo è la sintesi dei carismi: Lui solo è stato in pienezza contemplativo e uomo della carità, maestro inarrivabile di verità altissime ed umile servitore dei poveri, martire e profeta, predicatore ed umile operaio… in una parola, il Santo dei santi. Potremmo dire che Cristo ha vissuto così bene ogni dimensione della sua vita umana e divina, che un aspetto soltanto della sua esistenza terrena è capace di riempire e dare un senso alla vita di migliaia di battezzati che si consacrano alla contemplazione, o al servizio della carità, o all’insegnamento, o all’annuncio, o alla condivisione della sorte degli uomini, mediante la loro consacrazione religiosa. I religiosi sono dei battezzati che hanno sentito nella profondità del loro cuore l’unica chiamata ad una sequela radicale del Cristo, attraverso le promesse solenni (o voti) di vivere: la castità evangelica non come nel matrimonio, ma nel dono totale di se stessi al Signore ed alla Chiesa in una famiglia spirituale; di vivere la povertà evangelica non nel modo del laico cristiano, ma nella rinuncia totale ad ogni retribuzione per il lavoro svolto; di vivere l’obbedienza evangelica , non solo nella leale disponibilità ad ogni autorità legittima, sia di origine umana che divina, ma nella rinuncia senza riserve a disporre della propria vita per il bene comune.

Carismi e comunità All’interno di questa comune vocazione, ed a questa comune grazia a vivere il battesimo come sequela radicale del Cristo, ogni religioso si differenzia dall’altro per la scelta di un particolare carisma. Una scelta, beninteso, che non è una sorta di agenzia di collocamento delle diverse generosità. Al contrario, ogni religioso è tale perché è rimasto affascinato da una dimensione particolare della vita del Cristo, e da come un certo fondatore di famiglia religiosa è riuscito ad incarnare nella sua vita questa dimensione, attualizzandola nell’oggi della Chiesa. Ma per la scoperta e la scelta della vocazione religiosa ciò non basta ancora. Come ho potuto notare in molti, ciò che determina in maniera definitiva il riconoscere la volontà di Dio per una persona è quella indicibile – e pure così evidente per chi la vive – sintonia di desideri, prospettive, progetti, affetti, che fa sì che la scelta religiosa sia letteralmente una scelta per vivere l’unica sequela del Cristo dall’interno di una particolare famiglia. Una famiglia “spirituale”, certo, con tutti quei pregi e quei difetti rispetto alla famiglia naturale fondata sul matrimonio, che costituiscono la sua peculiarità. Eppure di una vera famiglia si tratta, perché comunità di persone fondata su vincoli altrettanto forti quali quelli di sangue: i vincoli dell’unico Spirito della carità di Cristo che unisce a sé “sponsalmente” ciascuno dei membri che formano questa comunità. Così, in essa, di nuovo come nella famiglia naturale, le persone si sono liberamente riunite insieme al solo fine di perseguire la crescita e la felicità di ciascuno dei membri, attraverso un dono e un servizio alla comunità più grande della Chiesa e dell’umanità. Proprio per questa continuità ed insieme questa peculiarità del religioso rispetto al battezzato laico, e della famiglia religiosa rispetto a quella naturale, non è raro trovare affiancate a molte famiglie religiose, forme di vita consacrata – si pensi, per esempio, ai cosiddetti “terz’ordini” – di persone e di intere famiglie che, pur vivendo in pienezza il battesimo nello stato laicale, condividono lo stesso carisma di servizio e di sequela. In questo modo, la vita religiosa raggiunge il suo culmine. Essa infatti si specifica proprio come la vocazione a vivere profeticamente la via di una particolare sequela del Cristo, aprendo la strada ad una moltitudine di fratelli chiamati a condividere in tanti modi la medesima passione per il Vangelo e per il Regno. Per convincersene, si pensi solo a cosa è significato il movimento francescano per la Chiesa dall’inizio di questo secondo millennio o la testimonianza di Madre Teresa di Calcutta per la Chiesa ed il mondo alla fine di questo stesso millennio… I religiosi profeticamente indicano agli altri battezzati una molteplicità di modi per fare della propria vita un’eucarestia di lode e di dono, secondo uno stile e delle modalità particolari, eppure mossi dall’unica carità del Cristo che ci “urge” dentro. “Un acqua viva grida dentro di me: ‘vieni al Padre’ ”: così il martire e vescovo Ignazio descriveva nel II sec. “la voce” di questa carità. Molte sono le vie per questo “ritorno al Padre”. Esse però convergono nell’unica via che è Cristo stesso, perché è la medesima carità ad averle ispirate, affinché solo la Chiesa nella sua interezza divenga sempre più e meglio, icona, immagine viva ed autentica del Cristo nella storia degli uomini e del mondo. (da “Se vuoi”)

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ANDARE ALLA SCRITTURA COME PELLEGRINI

Lacordaire *

Henry Lacordaire (1802-1861) era un giovane avvocato di sicuro avvenire quando si presentò a san Sulpizio nel 1824: tre anni dopo fu ordinato sacerdote. Insieme a Lamennais fu implicato nella questione del modernismo, ma si sottomise con totale docilità al magistero della Chiesa. Nel 1839 entrò nell’Ordine dei Predicatori. Dotato di eccezionali qualità oratorie, di una delicatissima sensibilità e di una vera passione per le realtà della fede, divenne celebre per le sue prediche a Notre-Dame di Parigi. Di lui si può dire che realizzò in pieno la parola dell’apostolo, annunziando la dottrina evangelica «opportune et importune», spinto com’era dalla carità di Cristo. Se, istruiti progressivamente dalla Chiesa, animati dal suo soffio vitale, noi entriamo ,con cuore docile nel tempio stesso della verità quale Dio l’ha costruito, e cioè nella Scrittura, troveremo nelle sue profondità molte ombre, dovremo chinare il capo di fronte a certi brani, e certe sublimità faranno quasi venir meno la nostra intelligenza. Ma, sostenuti dalla Chiesa stessa, nostra infallibile compagna, cammineremo di chiarezza in chiarezza sotto il firmamento della parola sacra, rallegrandoci con essa nei disegni dell’eternità che si scoprono ai nostri occhi, ammirando via via Gesù Cristo che si avvicina, aspettando lo con i patriarchi, vedendolo venire con i profeti, salutandolo sull’arpa dei cantori dei salmi. E infine, sulla soglia del tempio celeste, egli ci apparirà con tutto il peso della sua gloria e della sua morte, vittima predestinata della riconciliazione delle anime e spiegazione suprema, mediante tutto quello che è stato, di tutto quello che adesso è. Questa visione di Gesù Cristo non costituisce da sola il lungo ordito dei libri santi, ma vi si trova come intrecciata ai grandi eventi del mondo. Il cristiano sa riconoscervi la mano della Provvidenza, li vede condotti da leggi di giustizia e di bontà. In questa luce egli si rende conto della successione degli imperi, del sorgere e decadere di popoli famosi. Capisce che il caso non esiste e neanche la fatalità, ma che tutto si svolge sotto il duplice impulso della libertà dell’uomo e della sapienza di Dio. Questa visione della storia nella verità delle sue cause lo affascina. Vi attinge una comprensione della vita che nessuna esperienza potrebbe dargli, perché l’esperienza rivela solamente l’uomo, mentre la Scrittura rivela contemporaneamente Dio nell’uomo e l’uomo in Dio. Questa rivelazione non si fa sentire solo nelle grandi ore registrate nella Bibbia, ma si trova dovunque. Dio non si allontana mai dalla sua opera. E’ nel campo di Booz, dietro la nuora di Noemi, come è pure a Babilonia, al banchetto di Baltassar. Si siede sotto la tenda di Abramo, quasi viandante stanco del cammino, come scende sulla vetta del Sinai tra le folgori che annunziano la sua presenza. Assiste Giuseppe in carcere, come esalta Daniele nella sua prigionia. Tutto è pieno di lui: i più piccoli particolari della vita di famiglia o del deserto, i ‘nomi, i luoghi, le cose; in un cammino di quaranta secoli, dall’Eden al Calvario, dalla giustizia perduta alla giustizia riacquistata, si possono seguire in questo modo, un passo dietro l’altro, tutti i movimenti della sua tenerezza e tutti i movimenti della sua potenza. E’ possibile ritornare da un tale pellegrinaggio senza sentirsi commossi? E’ possibile, per chi ha seguito queste tracce alla luce della fede, non tornare migliore alla casa della sua esistenza quotidiana? La Bibbia è insieme la rappresentazione drammatica dei nostri destini, la storia primordiale del genere umano, la filosofia dei santi, la legislazione di un popolo prescelto e governato dal suo Dio; è, in un disegno provvidenziale di quattromila anni, la preparazione e il germe di tutto l’avvenire dell’umanità. E’ il deposito delle verità di cui l’umanità ha bisogno, la «magna ‘carta» dei suoi diritti, il tesoro delle sue speranze, la sorgente profonda delle sue consolazioni, la bocca di Dio che parla al suo cuore; e al di sopra di tutto essa è il Cristo Figlio di Dio che le ha dato la salvezza.

* Deuxième leltre à Emmanuel, in Lacordaire et la Parole de Dieu, «Etudes religieuses» 758, La Pensée catholique, Bruxelles 1962 – pp. 66-67.

IL PARADISO CI ATTENDE

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IL PARADISO CI ATTENDE

La Stampa, 19 settembre 2003

Per esprimere la festa che attende l’umanità al compimento della storia, la Bibbia si serve del linguaggio simbolico: un linguaggio aperto, evocativo e allusivo più che descrittivo, un linguaggio rispettoso del mistero, dell’alterità e, in particolare, dell’alterità di Dio. È un linguaggio poetico, e forse solo la creatività poetica può osare dire Dioe cercare di evocarne l’opera. Forse è per questo che la Bibbia si apre con un inno che celebra l’opera creazionale di Dio e si conclude con liturgie che cantano l’opera divina dei nuovi cieli e della nuova terra. E non è forse per questo che ogni intervento di Dio nella storia necessita, una volta riconosciuto e confessato, di una celebrazione, nella quale la musica, il canto, la poesia, la preghiera, la danza… sono i linguaggi che l’uomo utilizza per rispondere a Dio, per lodarlo. Capiamo allora l’importanza non solo del contenutodelle immagini che evocano il Regno celeste, ma anche del modoin cui se ne parla. Ebbene, ilparadiso è certamente l’immagine più nota della beatitudine finale. Nelle parole di Gesù al ladrone crocifisso accanto a lui – “Oggi sarai con me in paradiso!”Luca( 23,43) il significato del paradiso appare già collocato attorno alla figura di Cristo: il paradiso è essere con Cristo e, attraverso lui e in lui, con Dio. Nell’Antico Testamento esso indica il giardino dell’ “in principio” creazionale, cioè il luogo che Dio ha preparato per l’uomo, il luogo della comunione di Dio con l’uomo: un luogo teologicamente posto agli inizi, ma che in realtà profetizza la fine. Con i profeti, Ezechiele prima e poi Isaia, questo luogo arriva a simbolizzare il tempo della speranza escatologica, cioè la restaurazione del popolo: attesa di cui l’apocalittica intertestamentaria accentuerà il carattere proprio degli “ultimi tempi”. Significativamente, questo simbolo fa parte del racconto della creazione, degli eventi del principio, eventi che riguardano ogni uomo, l’umanità tutta. Questo ci dice anzitutto che le pagine della Genesi necessitano non solo di una lettura teologica, ma ancheteleologica: il paradiso arriva a designare il destino a cui tutta l’umanità è chiamata. La comprensione che i padri della chiesa ebbero del racconto creazionale tradusse questo principio in una formula molto efficace: “Dio creò l’uomo e lo pose nel paradiso, cioè in Cristo”. Il giardino della comunione piena e senza ombre con Dio non sta tanto alle spalle dell’uomo quanto davanti a lui. Se la storia è la nostra condizione, il paradiso, il Regno è la nostra vocazione; esso è il dono di Dio che ci attende, piuttosto che la realtà che abbiamo perduto. Non dicono forse i padri orientali: “L’uomo è un essere che ha ricevuto la vocazione di diventare Dio”? Le immagini poi che si accumulano nella testimonianza biblica per evocare questa realtà sono quelle della gioia piena dell’uomo, della pienezza di vita: immagini che evocano il cibo buono e abbondante, l’amore e la convivialità, la pace e la giustizia; immagini che si riferiscono a bisogni umani della sfera affettiva e sessuale, sociale e politica: il cibo, l’amore, l’incontro sessuale, l’amicizia, la convivenza pacifica… Ma trasposte sul piano escatologico, divenute azione universale di Dio nel suo giorno, queste immagini trasfigurano il bisogno in desiderio. E il desiderio, a differenza del bisogno, che resta chiuso nell’oggi, è profetico e aperto al futuro. Ora, queste realtà possono essere desiderate perché sono state promesse dal Dio fedele all’alleanza, dal Dio “amante della vita”, dal Dio compassionevole e misericordioso, longanime e ricco di grazia. Sono immagini tanto semplici quanto universalmente umane: il banchetto, le nozze, la pace tra i popoli, la concordia tra gli animali, tra uomini e bestie feroci… Il profeta Isaia sottolinea la dimensione ludica dell’era escatologica: “Il lattante giocherà sulla buca dell’aspide, il bambino metterà la mano nella buca del serpente velenoso” ( Isaia11,8), e Gesù stesso, quando ricorda la necessità di “diventare come i bambini per entrare nel Regno dei cieli” (cf. Matteo18,3), non indica un’esigenza morale, ma una condizione di stupore meravigliato. Né mi pare senza significato che l’animale con cui il bambino gioca senza aver nulla da temere è il serpente, che per la Bibbia è carico di una valenza negativa particolare, come appare dal racconto iniziale della Genesi. Ebbene: anch’egli è inoffensivo! Anche su di esso si stende, vittoriosa di una vittoria che non schiaccia ma converte e purifica, la regalità di Dio, il suo Regno… Potremmo ancora aggiungere le immagini della vita piena e della luce, dell’abbondanza e della fertilità, ma soprattutto sono significativi gli aspetti dell’eliminazione della morte e della scomparsa delle malattie e delle sofferenze, di tutte quelle realtà che gettano un’ombra di non pienezza, anzi di drammaticità, su ogni festa storica, su ogni festa che celebriamo nei nostri giorni. Aspetti evidentemente universali, che riguardano ogni uomo, ogni creatura: non si tratta di immagini particolarmente “spirituali”, ma umanissime, concrete, vitali. Ciò infatti che queste immagini vogliono esprimere è che la festa che esse intravedono dev’essereuniversale: perché la pasqua, la liberazione attesa, la salvezza invocata è tale solo se è per sempre e per tutti. Nel Nuovo Testamento la festa escatologica si delinea, prima ancora che nell’evento di Pasqua, nella notte della Trasfigurazione, in cui il volto di Gesù cambiò aspetto e divenne luminoso e raggiante. Troviamo in questa scena prefigurato il futuro del mondo, il mondo come Dio lo vede e lo vuole, il mondo che adempie la sua vocazione alla bellezza: se la creazione è stata opera artistica, di bellezza, se la sapienza creatrice era presente come fanciullo alla creazione e danzava davanti a Dio, ebbene questa gioia, questa bellezza, questa festa, questa danza sono la destinazione del mondo. La trasfigurazione, infatti, è mistero di bellezza, di radiosità di volti, di luce sul cosmo; è festa cosmica che, mentre mostra la carne umana di Cristo abitata dalla gloria divina, indica la vocazione di ogni volto, di ogni carne, del cosmo intero. Destinati alla bellezza, noi tutti siamo destinati alla beatitudine perché la bellezza si declina come comunione, universale sì, ma attraverso la comunione con ogni volto, perché ogni volto è immagine del Dio creatore. Mancherebbe qualcosa alla festa se mancasse anche uno solo di questi volti! Enzo Bianchi

LA BELLEZZA DELLA POESIA NELLA BIBBIA – Rav Alberto Sermoneta

http://www.lacittaonline.com/index.php?q=node/346

LA BELLEZZA DELLA POESIA NELLA BIBBIA

di Alberto Sermoneta
rabbino capo della Comunità ebraica di Bologna

È molto difficile parlare del rapporto che c’è tra l’uomo in generale, l’ebreo in particolare e Dio. Sin dai primissimi capitoli della Torah – la parte fondamentale dell’Antico Testamento – si narra dell’istituzione del rapporto tra l’uomo e Dio. Cercherò di trovare una spiegazione dal punto di vista rabbinico, poiché il contenuto del libro di Bloch mi tocca particolarmente da vicino, in quanto studioso del testo della Torah, della Bibbia, dei testi rabbinici e di ciò che riguarda lo scibile ebraico.
Nella Torah troviamo raccontato, sin dalla vita dei primi uomini, il rapporto di amore e timore o terrore nei confronti di Dio da parte degli esseri umani. Analizzando il titolo stesso del libro di Bloch, Dio e la poesia, mi vengono in mente quei brani che si trovano all’interno del testo biblico che sono parte integrante della Bibbia e che l’arricchiscono ancora di più del rapporto già marcato tra Dio e l’oggetto del suo creato, l’essere umano. I brani poetici per eccellenza si distinguono nel testo – dalla metrica, dalla composizione linguistica – rispetto a quelli in prosa.
Il primo esempio di poesia è il racconto che la Torah ci propone, riguardo la Creazione, nel primo capitolo del Genesi. La Creazione, nella sua lettura più poetica, ci fa notare quanto è grande lo sforzo che Dio fa per raggiungere quello scopo che egli stesso si era prefisso prima ancora d’iniziare l’opera creativa. Nel testo di Bloch, troviamo a un certo punto una domanda a proposito del verbo usato per la creazione. Sono le parole con cui comincia il testo biblico: “In principio, Dio ha creato il cielo e la terra”. Fanno molto bene gli esegeti a cercare l’origine più profonda sia delle parole sia dei verbi. Qual è il verbo della creazione? “Creò”: Dio creò il cielo e la terra. Nessuno di noi è in grado di capire se “creò” è la traduzione precisa di quanto dice la Bibbia in ebraico. Infatti, non è la traduzione precisa. I miei maestri mi hanno insegnato che tradurre è tradire. Il testo viene tradito nel momento in cui viene tradotto. Barah significa creare da una materia non esistente, cioè dal nulla. Questa è una caratteristica esclusivamente divina. Poi, andando avanti, troviamo altri verbi che ci fanno pensare alla creazione più umana, quella che noi conosciamo con il termine “creazione”: iozzer, che significa creare da una materia che non ha forma e, quindi, plasmare una figura. L’ultimo verbo della creazione che si trova nel secondo verso del secondo capitolo è asah, che significa fare, portare a termine qualcosa, completare. Questi sono i tre verbi della creazione. Se noi traduciamo tutti e tre con il termine “creare” commettiamo un errore. Dio ha una caratteristica superiore rispetto all’essere umano, cioè quella di creare qualcosa da ciò che non esiste. Questa è poesia, perché noi vediamo come viene scritta e descritta umanamente un’opera che è umanamente impossibile portare a termine. Continuare una certa opera è dato all’uomo come precetto fondamentale per proseguire la creazione ma, nonostante l’inumanità dell’opera, il testo dà un senso umano a questo compito. L’uomo e la donna si sposano per creare una famiglia, costituiscono una casa in funzione dei bisogni di coloro che verranno dopo il matrimonio, cioè i figli. Dio si prefigge di creare il mondo in funzione dell’essere umano. C’è una teoria cabalistica ebraica in cui si suppone che Dio, dopo aver completato la creazione, avesse bisogno di far posto all’uomo per vivere sulla terra e, quindi, si è ritratto da quella che è la sua onnipotenza. Dio non ha una stasi, può essere immanente e trascendente, può essere presente e può essere presente non essendo presente. Sono tante le caratteristiche, ma non è il caso di soffermarsi su di esse, in questa occasione.
Un’altra grande testimonianza della presenza divina nella poesia la troviamo in quella che è considerata la “poesia” per eccellenza. Nell’ebraico biblico, per tradurre il termine poesia, si usa il termine scir o scirah, molto bello anche come assonanza: ricorda un canto, più che una poesia. In fondo, non dimentichiamo che le poesie sono considerate canti per la loro bellezza lirica. La scirah per eccellenza è quella che il popolo ebraico intonò dopo aver attraversato il mar Rosso e che si trova raccontata nel capitolo XV dell’Esodo. Dopo aver definitivamente abbandonato la schiavitù, una schiavitù che non permetteva di dimostrare le proprie ragioni, di mettere in pratica le proprie tradizioni, dopo aver abbandonato tutto ciò, Mosè e i figli d’Israele intonarono questa cantica. Gli esegeti sostengono che la predisposizione alla cantica è qualcosa che viene naturalmente nell’uomo, in una condizione però diversa da quella che egli vive di consueto. Sostengono che le parole dette nel testo biblico, e che iniziano con il verso precedente all’inizio del capitolo XV, si concludono poi con la cantica in questione: “E il popolo ebbe timore del Signore ed ebbe fiducia nel Signore e in Mosè”. La fiducia in Dio e in colui che è stato scelto per essere il suo condottiero provoca al popolo un’ispirazione particolare, divina.
Un’altra scirah la troviamo nel Libro dei Giudici, intonata dal popolo quando sconfigge finalmente, dopo anni di guerre, i Filistei; è la stessa cantica pronunciata da re David nel Libro di Samuele, nel capitolo XXII, quando sconfigge definitivamente i suoi nemici e riesce a scappare dalle mani di Saul che voleva ucciderlo. Vediamo così che nella cantica all’interno del testo biblico c’è sempre un rapporto con Dio, ma è un rapporto indiretto. Dio non è la causa della cantica, è forse qualcosa che sta all’esterno. Non è Dio, ma l’uomo che combatte la guerra e la vince, può essere una guerra fisica ma anche morale, psicologica, e la vince grazie alla fiducia in se stesso e in Dio. O viceversa: avendo fiducia in Dio ritrova la fiducia in se stesso. C’è un bellissimo episodio, che non è di poesia, della guerra contro Amaleck, che ci fa riflettere. Nel capitolo XVII dell’Esodo, il popolo ebraico viene attaccato da questo esercito, è in una condizione particolare, è stanco, ha appena lasciato l’Egitto. Questo esercito attacca il popolo nelle retrovie, dove ci sono donne, bambini e persone malate. Il popolo comincia a perdere la speranza di vincere questo esercito, di vincere Amaleck, il nemico per eccellenza del popolo ebraico. Poi troviamo una cosa strana, che ha quasi dell’inverosimile: Dio comanda a Mosè di salire in cima a una collina per sorreggergli le braccia tenendole con le sue mani. Quando il popolo, alzando gli occhi, vedeva Mosè con le braccia in alto, sconfiggeva Amaleck; viceversa, quando le braccia di Mosè cadevano per la stanchezza, il popolo perdeva. Non è che le braccia di Mosè avessero una forza particolare. Che cosa significa aver le braccia in alto? Le braccia in alto sono il simbolo della presenza: “Io ci sono, sono presente”. E, quindi, gli uomini ritrovano la fiducia in se stessi attraverso la fiducia in Dio, la fiducia in qualcosa che, anche se non si vede, si percepisce. La presenza di Dio all’interno della vita dell’essere umano fa sì che egli possa acquisire la fiducia in se stesso. Questa fiducia ritrovata viene poi espressa nel migliore dei mezzi che l’uomo possa adottare, quello dello studio, della cultura e, quindi, della poesia. La poesia è il mezzo più bello che si possa comprendere per uno studio, una discussione e tutto ciò che può essere cultura e tradizione.
L’espressione divina all’interno della poesia non è altro che un riconoscimento di colui che imprime la fiducia in noi stessi. Se manca la fiducia in noi stessi non possiamo avere nessun tipo di contatto con la società che ci circonda.
In questo libro ci sarebbero molte altre cose su cui ragionare, cose che possono andare, apparentemente, in contrasto con la tradizione ebraica, ma c’è altrettanto della tradizione biblica, rabbinica, cabalistica all’interno di questa espressione poetica del ritrovare il simbolismo della divinità nella poesia stessa.

N. 12 – Dic. 2004

LA SAPIENZA UMANA NEI DETTI DI GESÙ, RINALDO FABRIS (1996)

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=113

LA SAPIENZA UMANA NEI DETTI DI GESÙ

SINTESI DELLA RELAZIONE DI RINALDO FABRIS

Verbania Pallanza, 7 dicembre 1996

La modalità più comune di sapere sapienziale è la piccola sentenza ritmica, nella forma del proverbio, espressione non tanto dell’erudizione quanto dell’amore intelligente.
Gesù si colloca all’interno della tradizione popolare della sapienza. Appare estraneo alla sapienza colta, coltivata a corte o presso il tempio.
L’immagine di un Gesù profeta apocalittico arrabbiato non corrisponde a quanto i vangeli ci trasmettono. Più veritiera è quella di saggio, sapiente, maestro.

Gesù « maestro »
Marco ci presenta Gesù, dopo l’annuncio programmatico del Regno, come un maestro che insegna con autorità (Mc 1,21-22), un’autorità che non gli deriva da titoli di scuola conseguiti. Gesù è un autodidatta, un sapiente carismatico.
Gesù è un terapeuta itinerante, ex falegname, che suscita lo stupore, la meraviglia e anche la reazione stizzita dei suoi compaesani (Mc 6,2-3).
Gesù, al pari di ogni altro essere umano (una malintesa fede nella divinità di Gesù ha messo in ombra questo aspetto) compie tutto il percorso di formazione umana. Il suo sapere è legato alla sua esperienza.
La cultura di Gesù è una cultura popolare, di carattere pratico e induttivo, propria di un artigiano che lavora con le mani. Gesù mostra una grande capacità di leggere in profondità le esperienze umane.
Luca retroproietta nella vicenda storica delle origini la figura del maestro che insegna con autorità e sapienza (Lc 2,39-40; 46-47).

proverbi e sentenze sapienziali
Si trovano soprattutto nel discorso sul monte di Matteo e in quello più breve ambientato in pianura di Luca.
armonia tra interno/esterno
La trasparenza tra interno/esterno costituisce uno dei temi più affascinanti dei vangeli, con l’immagine dell’occhio e della luce o del parlare che viene dalla pienezza del cuore.
Sulla stessa linea si colloca la critica alla purità rituale, esteriore, in favore di una purità interiore, della qualità delle relazioni con gli altri e con Dio.
coerenza e sincerità
Gesù colpisce per la sua libertà e coerenza.
Critica i farisei che pretendono di guidare gli altri senza avere una luce interiore (ciechi guide di ciechi); critica chi scopre la pagliuzza nell’occhio del fratello ma non la trave nel proprio. Si tratta di sentenze che fanno riflettere.
ascoltare e mettere in pratica
Gesù invita a costruire la propria vita su un solido fondamento, come una casa costruita sulla roccia, nell’ascoltare e nel mettere in pratica le sue parole.
valutazione e uso dei beni
L’interesse per la salute, per il corpo, per l’uso dei beni è un problema sapienziale che ha a che fare con il senso del vivere.
Gesù invita a riflettere sull’investimento affettivo: sul cuore che segue il luogo del tesoro e sulla dedizione totale a qualcuno (non si possono servire due padroni).
Gesù invita non a disprezzare i beni (Mt 6,25.27-28) ma a disporli secondo una corretta gerarchia. I beni più importanti, come la salute o la vita, sono beni gratuiti. Vivendoli secondo questa prospettiva si fa esperienza religiosa, si coglie il senso del vivere: vivere con senso di gratitudine, senza crearsi inutili problemi (ad ogni giorno basta la sua pena).

enigmi sapienziali
L’enigma, una sentenza paradossale o oscura, è un invito a riflettere.
La esperienza religiosa non si identifica con un semplice stato emotivo, ma neppure col ragionamento. La tradizione sapienziale privilegia la capacità di riflettere, fa appello alla ragione, ma immergendola in un clima affettivo.
La sapienza non è la fredda filosofia o teologia, non è puro stato emotivo, ma è una riflessione partecipe della vita.
Rispondendo alle critiche rivolte ai suoi discepoli perché non digiunano, Gesù afferma che in tempo di nozze si fa festa, che il vestito nuovo non ha bisogno di toppe, che il vino giovane ha bisogno di otri nuovi. È la chiara affermazione della novità di Gesù: gioia e festa non conciliabili con vecchi modi di pensare e di agire.
Come i bambini che giocano alla festa di nozze o al funerale così è capricciosa la gente che critica Giovanni perché troppo severo e Gesù perché fa festa.
Gesù, a chi lo critica perché non si è sposato, dice che ci sono eunuchi per il regno dei cieli. Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è concesso: la sapienza nasce dalla riflessione sulla vita, ma è anche dono di Dio, è lasciarsi illuminare da Dio che parla attraverso la vita.
similitudini sapienziali
L’esperienza religiosa deve essere vista per poter essere riconosciuta, come la lucerna deve essere messa in alto.
Occorre stare attenti al vecchio rappresentato da Erode e dai farisei (il lievito che corrompe, Mc 8,15).
L’immagine del cammello e della cruna sono usate per parlare della difficoltà di un ricco ad entrare nel regno dei cieli.

detti e similitudini del quarto vangelo
Anche nel quarto vangelo, disseminate qua e là, si trovano espressioni che mostrano il gusto di Gesù per la sentenza che fa riflettere sul senso del vivere, come quelle sul tempio ricostruito in tre giorni, sullo spirito che è come il vento (il modo libero dell’agire di Dio), sui tempi nuovi in cui addirittura chi semina fa tutt’uno con chi miete, sul chicco che deve morire per portare molto frutto, sul legame affettivo tra pastore e gregge, immagine di quello tra Gesù e i discepoli, sulla partenza e sulla morte premessa per una nuova e più profonda relazione (Gv 16,21-22).

conclusione
Gesù riflette sui fatti della vita per cogliere il senso della propria vita e missione, per fare intravedere l’agire di Dio: è un riflettere come un andare dentro le cose per coglierne il senso davanti a Dio.
Il vangelo, la buona notizia del nuovo rapporto tra Dio e gli uomini, è amore intelligente, è sapienza.

DIO È NEI CIELI? – CHRISTIAN CANNUYER

http://disf.org/dio-nei-cieli

DIO È NEI CIELI?

CHRISTIAN CANNUYER

GENNAIO 2002

Partendo dall’affermazione della più nota preghiera cristiana, “Padre nostro che sei nei cieli…”, l’Autore, docente alla Facoltà di teologia dell’Università di Lille e Presidente della Società Belga di Studi orientali, esamina il significato biblico dell’espressione “cielo”, in quanto sede di Dio. Quali rapporti vi sono fra Dio e il cielo, e di quale cielo sta parlando il testo sacro? Per rispondere a queste domande si espone un sintetico quadro delle varie accezioni di questo termine nella Scrittura e dei suoi significati.
Come molte religioni, la Bibbia fa del cielo il dominio di Dio, il suo santuario, il suo regno. Questa collocazione ha attraversato tutto l’immaginario ebraico e cristiano sino a lasciare tracce profonde nella nostra religiosità attuale, malgrado il «disincanto» del cielo cui hanno portato la scienza e l’esegesi moderna: come i cristiani dei primi secoli, non continuiamo a pregare ogni giorno «Padre nostro, che sei nei cieli»?
Prima della creazione Dio Padre circondato da angeli, ms. fr. 50, fol. 13 dello Specchio della storia di Vincent de Beauvais, XV secolo. Parigi, Biblioteca Nazionale di Francia, dipartimento dei Manoscritti.
Nel 1922, il grande storico delle religioni Raffaele Pettazzoni (1883-1959) pubblicò L’essere celeste nelle credenze dei popoli primitivi, in cui metteva in evidenza che, nella maggior parte delle «visioni del mondo» definite primitive, l’immensità del cielo, la sua influenza sulla fertilità del suolo, la sua luce splendente, la sua inaccessibilità avevano portato alla sua personificazione mitica, identificandolo insomma con quell’Essere supremo di cui l’etnologo tedesco Wilhelm Schmidt (1868-1954) aveva creduto di riconoscere l’importanza alle origini del pensiero religioso di una quantità di popoli arcaici.

All’origine del sentimento religioso c’è lo stupore di fronte al cielo?
Mircea Eliade (1907-1986), nel suo Trattato di storia delle religioni, ha cercato di perfezionare questi approcci, mostrando che il cielo, per la sua grandezza, la sua forza, la sua immutabilità, ha potuto all’inizio essere per l’uomo il luogo di un’espressione simbolica della trascendenza, una rivelazione del sacro o del divino (ierofania) offerta allo spirito stupito in modo immediato, non in seguito ad una riflessione speculativa., come avrebbe voluto Schmidt, né di un’affabulazione mitica e prelogica, come affermava Pettazzoni. Per Eliade, questa potenza simbolica della ierofania uranica è un dato primordiale della religiosità. È il motivo per cui gli dèi buoni, eterni, immutabili, e, al di sopra di loro, il più grande, il Creatore, demiurgo o Essere supremo, sono collocati nel cielo, ovvero identificati con esso. Paradossalmente, questi dèi o Essere celesti supremi, onnipotenti e onniscienti. sembrano tanto distanti da scomparire dalla vita quotidiana, dal culto comune, dalla consapevolezza immediata: sono degli dèi «ritirati» o «inattisi» (dei otiosi), in riposo nell’eterno splendore dell’empireo; persino il Dio della Bibbia non si riposa dopo tutta la fatica dei «Sette giorni» della creazione? In numerose religioni «arcaiche», come in Australia o nell’Africa nera, i grandi dèi celesti primordiali cedono il posto a dèi più accessibili, più vicini agli umani, anche più dinamici, attori di una mitologia in crescita e multiforme. Indipendentemente dalla pertinenza delle con conclusioni di Eliade – alle quali certamente oggi si rimprovera un eccesso di dogmatismo e di generalizzazioni affrettate – esse sembrano aver messo il dito su un aspetto dell’esperienza «arcaica» del sentimento «religioso»: il fascino abbagliante di fronte alla bellezza, all’immensità, alla luce incomparabile dell’azzurro. Ciascuno di noi non prova questo a partire dalla sua prima infanzia?

Il Cielo-dio: una credenza universalmente diffusa
Sulle rocce della Val Camonica, in Lombardia, a nord di Brescia, dei graffiti rupestri risalenti al 5000-3000 a.C. rappresentano uomini in preghiera, con le braccia alzate verso il cielo. Non è che un esempio tra gli altri dell’importanza del cielo nelle religioni della preistoria. Parecchie religioni conservano almeno la traccia di un culto antichissimo al Dio cielo o a un Essere supremo che vi risiede: così presso le popolazioni turco-mongoliche dell’Asia centrale, il grande dio nazionale e imperiale Tengri non è altro che il Köke Möngke Tenri, «Eterno Cielo Blu», che è elevato (űze) sovrano e forte (kütch), ma allo stesso tempo inaccessibile e spesso ozioso, al quale solo il khan e i grandi rendono culto. Il caso più conosciuto è quello della Cina dove, a partire dall’VII secolo a.C., la dinastia dei Chou ha formalizzato la religione del «Sovrano dell’ Alto del vasto cielo» (Hao-t’ien Chang-ti), cioè del Cielo stesso (t’ien), di cui l’imperatore era considerato come il Figlio, solo abilitato a venerare il Padre nella capitale, su una collinetta a forma di volta celeste. La nostra stessa parola per dio, dal latino deus, viene dalla radice diu-, dei-, «brillare», che traduce la natura celeste del grande dio comune a tutti gli Indoeuropei e ha dato origine anche al nome del giorno (latino dies, di dove, in italiano, «diurno», o le finali in -di dei nomi dei giorni della settimana); presso i Greci Zeus (al genitivo Dios), e in indo Dyauh-Pitâ (Dio padre), analogo al Dius-pater («dio padre», cioè Jupiter) dei Romani, il dio celeste Diêvas o Dievs delle antiche religioni lituana e lettone, e sino al dio Tyr degli Scandinavi. Georges Dumézil ha ben dimostrato che gli dèi sovrani Varuna e Mitra, che occupano il primo posto nella trifunzionalità del pantheon indoeuropeo, sono in origine degli dèi del cielo. La stessa considerazione vale per il dio supremo degli Iranici, Ahura Mazda, al quale la riforma monoteista di Zarathustra (Zoroastro) conserverà gli attributi di un dio uranico, luminoso, sapiente e bello.

Dei del cielo nel mondo biblico
Più vicino al mondo biblico, c’è bisogno di ricordare che il sumerico dingir, corrispondente all’akkadico ellu, «dio», significa fondamentalmente «ciò che è chiaro, brillante»? Il segno cuneiforme che descrive queste parole rappresenta una stella e ritorna anche nel termine an, «cielo». Il capo supremo del pantheon babilonese, Anu, non è altro che il cielo e il suo tempio principale di Uruk portava il nome di E-an-na, «casa del Cielo».
Presso i Cananei, i Fenici e gli Aramei il titolo di Baal-Šamêm, «signore dei cieli», che appare dal II millennio prima della nostra era, fu attribuito a partire dal IX secolo a.C. ad una divinità suprema considerata sempre più come il Creatore per eccellenza. È probabilmente per lui che Gezabele di Tiro, sposa del re Acab di Israele (874-853), aveva introdotto un culto sul monte Carmelo (1 Re 18). concorrenza che suscitò, come è noto, la feroce opposizione della nobile figura del profeta Elia. In epoca ellenistica questo Baal fu identificato dai Greci con Zeus Hypsistos (Altissimo), e sotto l’epiteto di Theos Hagios Ouranios, «Dio Santo Celeste», fu venerato sino al III secolo della nostra era nel tempio tirio di Qadeš, all’estremo nord della Galilea (Tell Qedeš, 10 chilometri a nord del sito di Hazor).
Certo, il Dio d’Israele ha creato il cielo (Gn 1,1), che testimonia la sua gloria (Sal 19), e l’Antico Testamento abolisce l’uranolatria. D’altra parte, anche i cieli dovranno essere rinnovati dal Creatore alla fine dei tempi (Is 65,17; Ap 21,1; 6,14). Il cielo, nella maggioranza dei testi, rimane considerato come la dimora di Dio o il suo santuario, di dove egli osserva gli uomini (Sal 33,13-14; 102,20; Is 63,15). Dio è il Dio del cielo (Ne 1,4). verso il quale si alzano le braccia quando si prega (Es 9,29; cf anche 2 Cr 30,27). «Io ho visto il Signore seduto sul trono; tutto l’esercito del cielo gli stava intorno, a destra e a sinistra», proclama il profeta Michea, figlio di Yimla, al re Acab, predicendogli la disfatta contro gli Aramei (1 Re 22, 19): alla pari dei Baal cananei, il Dio dell’Antico Testamento è un re celeste circondato da una corte e da un esercito.
Il cielo giunge anche a designare allusivamente Dio in persona: «Levano la loro bocca fino al cielo», dice il salmo 73,9, dei malvagi… E Daniele (4,23) ingiunge al re Nabucodonosor, se vuole conservare la sua regalità, di riconoscere la sovranità del Cielo, cioè quella del Dio Altissimo. A partire dal libro dei Maccabei (scritto verso il 100 a.C.) questa immagine diventerà molto frequente e s’imporrà nel giudaismo (cf 1 Mac 12,15).

Il Dio del cielo nel Nuovo Testamento
La maggior parte di questi concetti sono ripresi nel Nuovo Testamento (cf At 7,49). Dio è il Dio del cielo (ho Theòs lou ouranou: Ap 11,13). «Chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l’abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso», dice Gesù agli scribi e ai farisei ipocriti (Mt 23,22). L’uso di sostituire il nome del cielo a quello di Dio si generalizza; là dove Matteo parla di «regno dei cieli», Luca e Marco usano «regno di Dio» (es. Mc 1,15 e Mt 4,17). Gesù stesso intrattiene col cielo una relazione molto stretta. Figlio del Padre che è nei cieli (Mt 12,50; 18,19), da lì è venuto e li ritornerà. «Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dai cielo», egli confida al fariseo Nicodemo (Gv 3,12-13). È il motivo per cui il cielo stesso riconosce autentica la missione di Cristo aprendosi per lui (Mt 3,6) e mandandogli lo Spirito (Gv 1,32). La risurrezione esalta Gesù nel più alto dei cieli (Eb 4,14; 7,26), dove gli è affidata ogni autorità (Mt 28,1 8), nella Gerusalemme celeste incastonata in uno scrigno cosmico rischiarato da un cielo rinnovato (Ap 3,12; 21,5). Alla fine dei tempi, il Signore «discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti. saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria» (1Ts 4,16-17).
Tuttavia abbastanza presto l’insistenza del monoteismo di Israele sulla trascendenza divina portò a riflettere sui limiti provocati da un’associazione troppo stretta di Dio con lo spazio celeste, soprattutto il «nostro» cielo visibile. Il «cielo di Dio» doveva, evidentemente, trovarsi al di là del firmamento, in altri «cieli» che il nostro. Invitava a concludere in questo senso il fatto che nell’ebraico biblico la parola «cielo» si presenta in genere sotto una forma di plurale irregolare (šâmayim, «i cieli»). Forse sotto l’influsso dell’astronomia babilonese, si giunse a concepire una molteplicità di cieli, l’esistenza di un «cielo dei cieli» (Ne 9,6; Dt 10,14); il salmo 108,5-6 sviluppa l’idea di una grandezza di Dio che sorpassa ampiamente i cieli: «La tua bontà è grande fino ai cieli e la tua verità fino alle nubi. Innalzati, Dio, sopra i cieli, su tutta la terra la tua gloria». E in 1 Re 8,27, la straordinaria preghiera di Salomone, che afferma l’onnipotenza e la trascendenza di Dio, arriva a mettere in discussione qualsiasi «localizzazione» del Creatore, che sia nel Tempio di Gerusalemme o in questi «spazi ultrasiderali»: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita!».

Dio più alto del cielo, Dio fuori del cielo
L’immagine di una molteplicità di cieli per tradurre la trascendenza divina ha conosciuto un grande favore nella letteratura apocalittica ebraica tardiva. Nell’Apocalisse e di Albramo (scritta in ebraico verso la fine del I secolo d.C., ma conservata in antico slavo e in rumeno), il patriarca trasportato al settimo cielo, contempla Dio che vi dirige la creazione, «immagine del cielo e di ciò che contiene». Nella seconda lettera ai Corinzi (12,2). Paolo dice a sua volta di avere conosciuto l’esperienza di un’elevazione sino al «terzo» cielo, immagine del paradiso. Così il cielo in cui Dio sta in trono non è il «nostro» cielo immediato «il più scuro, poiché vede tutte le ingiustizie degli uomini (Testamento di Levi, 3, 1).

Per gli gnostici il cielo è male e non vi si trova Dio
Tra i primi ad aver lanciato un’offensiva ben più radicale contro una collocazione di Dio in cielo si pongono probabilmente gli gnostici. Lo gnosticismo, corrente religiosa nata nel II secolo d.C. in Siria-Palestina e in Egitto, alla periferia del giudaismo e del cristianesimo, si caratterizza per una posizione violentemente anticosmica: il mondo materiale, visibile, è male, è opera di un demiurgo pericoloso, di un falso dio nato da una tragica decadenza in seno al divino stesso. Questo dio ingannatore e malvagio, identificato da numerosi gnostici col Dio ebraico, quello dell’Antico Testamento, è all’origine della chiusura delle anime, particelle della luce divina, nei corpi. Egli abita nel cielo che ha creato e dal quale comanda il cosmo empio per mezzo di «Potenze», gli Arconti, la cui tirannide ricorda l’impietosa autorità delle divinità celesti dell’astrologia mesopotamica. Anche il cielo, che appartiene al creato. non è per gli gnostici che un grottesco surrogato della dimora luminosa del vero Padre, del Pro-principe, del vero Dio di cui il demiurgo nasconde all’uomo l’esistenza presentandosi come il solo Creatore. È in se stesso che l’uomo, grazie alla conoscenza (gnosi) di sé rivelata da un inviato della luce, troverà la propria salvezza, non alzando gli occhi verso il cielo. Nel Vangelo secondo Tommaso, trovato a Nag Harnmadi (Alto Egitto) nel 1946, Gesù presentato in questa qualità di inviato della luce (un Gesù doceta, in apparenza d’uomo, non incarnato, perché l’incarnazione non potrebbe essere che una ripugnante commistione del divino con la materia malvagia), afferma con forza: «Se coloro che vi guidano vi dicono: “Ecco, il regno è nei cieli !“. allora gli uccelli del cielo vi precederanno. Se vi dicono che è nel mare, allora vi precedono i pesci. Ma il regno è dentro e al di fuori di voi. Quando voi vi conoscerete, allora sarete conosciuti e saprete che siete i figli del Padre Vivente» (logion 2). Inoltre, aggiunge il Salvatore, «questo cielo passerà e passeranno quelli che sono al di sopra di lui» (logion 11). In modo che lo spazio celeste accessibile allo sguardo dell’uomo non può in alcun caso essere considerato come dimora del divino. E, tutt’al più, la stamberga dell’aborto demiurgico, il tugurio del Creatore geloso e terribile della Scrittura ebraica.
Rivelando il «Padre nostro che è nei cieli», Gesù, per gli gnostici, invita dunque a scoprire il vero Padre che vive nella luce, che non abita il cielo cosmico, ma nei cieli dei cieli, gli eoni degli eoni che sono evidentemente al di fuori dello spazio. E il motivo per cui taluni testi gnostici. che evocano la liberazione dell’anima che ritorna verso la luce da cui proviene, descrivono questo processo come un’ascensione non verso il «cielo», ma verso una serie di cieli successivi (sino al decimo nell’Apocalisse di Paolo), la cui moltiplicazione tradisce il discredito gettato sul cielo siderale, cosmico, assolutamente lontano dalla trascendenza divina, Vi è in questo una svolta ed un chiaro superamento del tema della pluralità dei cieli dell’apocalittica ebraica. Nemmeno il «settimo» cielo trova grazia agli occhi degli gnostici e L’ipostasi degli Arconti (un altro testo di Nag Hammadi) vi colloca il trono del false «dio delle forze», Sabaoth Per loro, il cielo è decisamente spogliato del prestigio di essere la casa di Dio e il luogo della salvezza dell’uomo.

Oggi, il disincanto verso il cielo?
In questo modo gli gnostici annunciano il «disincanto» o la «demitizzazione» con cui l’esegesi esistenziale del luterano Rudolf Bultmann (1884- 1976) purgherà il cielo cristiano, non vedendovi altro che un’immagine della trascendenza divina legata alle strette costrizioni delle rappresentazioni cosmiche proprie al mondo antico. Gesù, «disceso dal cielo», secondo il simbolo niceno (cf anche Gv 3,13 e 6,51), vi «risale» all’Ascensione per sedere alla destra del Padre (cf Gv 3,13; 6,62; 20,17; Ef 4,9-10): per la fede moderna, si comprende questa affermazione della fede della Chiesa come una metafora che indica l’ingresso di Gesù nella gloria del Padre, un mistero indicibile di cui gli apostoli ebbero un’esperienza che può essere espressa soltanto in maniera simbolica. Il rapimento (analépsis, cf Lc 24,5) o la salita (anábasis, cf Gv 20,17) di Gesù «al cielo», evidente ricordo del viaggio celeste di Elia o di Enoch nell’Antico Testamento, di Esdra, di Baruc, di Mosè, d’Abramo o di Levi negli scritti intertestamentari, è indissociabile dal mistero della sua risurrezione. Esso esprime la sua vittoria sulla morte, la sua intimità col Padre, la promessa all’uomo della vita eterna. Come scrive Leone Magno (papa dal 440 al 461), «L’ascensione di Cristo è dunque la nostra propria elevazione e, là dove in precedenza è andata la gloria del capo, là è chiamata anche la speranza del corpo». Così il cielo, dimora di Dio, diventa per i cristiani speranza e luogo simbolico della salvezza.
Se la scienza moderna ha largamente contribuito a disincantare il cielo, essa ha nello stesso tempo rivelato l’immensità prima impensabile degli spazi intersiderali, dell’universo intergalattico che, oggi forse più ancora di ieri, attraverso la sua misteriosa relazione col tempo, con l’Essere, col divenire, appare come il santuario simbolico del Creatore. È là, nel cuore del mistero dell’essere di cui l’universo conserva la lunga memoria, che noi continuiamo, se non a collocare, perlomeno ad imparare a conoscere il «Padre nostro che è nei cieli».

da “Il cielo nella Bibbia”, ne Il mondo della bibbia, 61 (2002), n. 1, pp. 13-17, tr. dal francese di R. Bertazzoli.

Publié dans:BIBBIA: TEMI VARI, biblica, Teologia |on 18 juin, 2015 |Pas de commentaires »
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