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26 NOVEMBRE: BEATO GIACOMO ALBERIONE SACERDOTE

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26 NOVEMBRE: BEATO GIACOMO ALBERIONE SACERDOTE

San Lorenzo di Fossano, Cuneo, 4 aprile 1884 – Roma, 26 novembre 1971

Giacomo Alberione nacque il 4 aprile 1884 a San Lorenzo di Fossano (Cuneo), da una povera e laboriosa famiglia di contadini. A sette anni sentì la vocazione al sacerdozio. Entrò nel seminario di Bra, ma dopo quattro anni di permanenza una crisi gli fece lasciare il seminario. Nell’autunno del 1900 tornò a indossare l’abito del seminarista, questa volta nel collegio di Alba. Nella notte che segnava il passaggio al nuovo secolo, durante la veglia di adorazione solenne nel Duomo, mentre era inginocchiato a pregare una particolare luce gli venne dall’Ostia, l’invito di Gesù: “Venite ad me omnes…”(Mt 11, 28) lo incitò a fare qualcosa per gli uomini e le donne del nuovo secolo. Il 20 agosto 1914 diede inizio a quella che dapprima si chiamò “Scuola Tipografica Piccolo Operaio”, e successivamente “Pia Società San Paolo”, il primo dei dieci rami della Famiglia Paolina. La morte lo colse a Roma, all’età di 87 anni, il 26 novembre 1971. Il 26 giugno 1996 Giovanni Paolo II ne ha riconosciuto le virtù eroiche dichiarandolo Venerabile.
Martirologio Romano: A Roma, beato Giacomo Alberione, sacerdote, che, sommamente sollecito per l’evangelizzazione, si dedicò con ogni mezzo a volgere gli strumenti della comunicazione sociale al bene della società, facendo dei sussidi per annunciare più efficacemente la verità di Cristo al mondo, e fondò per questo la Congregazione della Pia Società di San Paolo Apostolo.

Paolo VI lo ha definito «una meraviglia del nostro secolo», altri un «industriale del Vangelo». Sicuramente è stato un grande personaggio della storia sociale italiana e della storia della Chiesa. Grazie a lui il mondo cattolico si è affacciato sul mercato dei mass media con strumenti e prodotti culturali competitivi. Don Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina, è stato un genio organizzativo nella caotica e insidiosa giungla della comunicazione sociale.
Alberione fu uomo solo, senza amici. La sua vita fu avvolta da un alone di mistero. Nessuno, credo, è mai riuscito a sollevare tutto il velo che coprì l’identità di quest’uomo, così alieno alle confessioni intime e dalle effusioni spontanee. Anche per questo egli non conobbe amici nel senso comune della parola. Eppure fu sempre ammirato e un suo sorriso era cercato come quello della mamma, così come «le sue lavate di capo, che regalava qualche volta, assumevano il tono di un Savonarola in formato tascabile», come scrisse di lui un suo scomodo quanto appassionato figlio paolino.
Don Alberione nasce, figlio di contadini, in uno squallido stanzone di un rustico a San Lorenzo di Fossano (Cuneo). È il 4 aprile 1884. E morirà il 26 novembre 1971, in una semplice stanzetta dai gusti francescani nella Casa generalizia della Pia Società San Paolo di Roma senza aver riconosciuto il Papa. Paolo VI si era infatti recato al suo capezzale per rendere l’ultimo omaggio a chi aveva fondato, a soli 30 anni, una congregazione religiosa ed ora ne lasciava ben cinque, più quattro istituti aggregati all’Unione Cooperatori Paolini. Nessuno ha ancora lasciato, nella millenaria storia delle congregazioni e degli ordini religiosi, un così alto numero di fondazioni.
Il 26 novembre del 1904 rimane orfano di padre: lo stesso giorno in cui lui morirà. Tra padre e figlio non c’era mai stata intesa, come d’altra parte con il resto della famiglia. Sull’immaginetta stampata in occasione della sua ordinazione sacerdotale fece scrivere: «Quoniam pater meus dereliquit me… Dominus autem suscepit me» («Il padre mi ha abbandonato ma il Signore si è preso cura di me»).
Don Alberione è stato anche uno dei fondatori più longevi della storia della Chiesa. È vissuto 87 anni costantemente proteso a diffondere la Parola. Giacomo preferiva il libro al gioco, così come preferiva il libro alla zappa, con le conseguenti lamentele e i rimbrotti del padre. Leggiamo in un suo scritto di quando aveva vent’anni e già aveva inteso l’essenza della sua missione: «La vera forza reggitrice degli affetti del cuore, motrice del regno invisibile del pensiero, nell’unione intellettuale e morale, individuale e sociale, che scorre in tutti i secoli, che si dilata in tutte le nazioni è la potenza della parola. Parla l’uomo e parla Dio; quello con pochi mezzi manifesta i suoi verbi mentali, questi con mezzi infiniti, come infinito è Egli stesso. Ei parlò stampando il suo verbo nella natura; onde l’uomo studiando la natura studia il Verbo di Dio».
La sua attività pubblicistica inizia nel 1913 con la direzione della «Gazzetta d’Alba». L’anno dopo nasce la Scuola Tipografica Piccolo Operaio, primo nucleo della futura Pia Società San Paolo. Nel 1915 don Alberione dà vita alla prima comunità femminile della Pia Società Figlie di San Paolo.
Gracile nel fisico, don Alberione aveva una volontà granitica. Si svegliava fra le 3 e le 3,15; alle 4,45 celebrava la messa. Verso le 7 raggiungeva il tavolo di lavoro, rispondendo personalmente alle molte lettere che giungevano da tutte le parti del mondo. Antesignano della comunicazione globale, veniva interrotto dalle visite, per le quali, generalmente, non era necessario fissare un appuntamento: si bussava alla sua porta e si entrava. Lavoratore infaticabile, ma anche organizzatore perfetto e manager d’eccezione. Ha scritto «Famiglia Cristiana», sua straordinaria creatura che nacque il 25 dicembre 1931: «L’intuizione di don Alberione non sta tanto nell’aver utilizzato i mezzi più celeri ed efficaci della comunicazione sociale come strumenti di apostolato, quanto nell’aver adottato integralmente il metodo industriale, che si tira dietro, per sua natura, l’obbligo di aggiornamento continuo e la complementarità di molti settori. È l’industria al servizio della Chiesa; è la rinunzia definitiva a un certo tipo di artigianato; è soprattutto la rinunzia all’arrangiamento. Libri, giornali, ecc., oltre che fatti a scopo di bene, devono essere fatti secondo tutte le regole». La professionalità a dispetto del pressappochismo che molta parte della cosiddetta «buona stampa» perseguiva. Ma tali risultati don Alberione li pagò a caro prezzo. Le travagliate vicende sono ampiamente registrate e documentate negli atti della causa di beatificazione che si è aperta nel 1981 e che lo ha già portato, nel 1996, al titolo di venerabile.
Nel 1931 invia i primi missionari all’estero: Brasile, Argentina, Stati Uniti, India, Cina, Giappone e Isole Filippine. Pur maneggiando molto denaro, fra pretese di creditori e saldi di debiti, don Alberione rimane ben ancorato al voto di povertà. Fra le tante definizioni che gli sono state date c’è anche quella di «manager di Dio». Questo piccolo e fragile uomo ha fondato un impero editoriale di dimensioni intercontinentali, sempre con il rosario alla mano e contro tutti. «L’unica sconfitta nella vita», lascia scritto, «è cedere alle difficoltà, anzi l’abbandono della lotta. L’uomo se muore lottando, vince, se abbandona la lotta è un vinto».
Autore: Cristina Siccardi

Giacomo Alberione nasce il 4 aprile 1884 nella cascina delle « Nuove Peschiere » a San Lorenzo di Fossano (Cuneo). Presso la cappella dedicata a San Lorenzo riceve il Battesimo il giorno successivo, 5 aprile. La famiglia Alberione è guidata da papà Michele e benevolmente curata da mamma Teresa Allocco. Ci sono già i fratelli: Giovenale, Francesco, Giovanni; seguiranno la sorellina che morirà entro un anno e l’ultimo fratello Tommaso. Famiglia di poveri contadini, profondamente cristiana e laboriosa, che trasmette ai figli con la fede una forte educazione al lavoro e una fiducia incrollabile nella Provvidenza.
Il progetto di Dio su Giacomo comincia ad evidenziarsi molto presto: in prima elementare, interrogato dalla maestra Rosa Cardona su cosa farà da grande, egli risponde con chiarezza: « Mi farò prete! ».
Seguono gli anni della fanciullezza orientati in questa direzione.
Nella nuova abitazione della famiglia nella regione di Cherasco, parrocchia San Martino, diocesi di Alba, il parroco don Montersino aiuta l’adolescente a prendere coscienza e a rispondere alla chiamata del Signore. A 16 anni Giacomo è accolto nel Seminario di Alba e subito si incontra con colui che gli sarà padre, guida, amico, consigliere per 46 anni: il can. Francesco Chiesa.
Fare « qualcosa » per il Signore e gli uomini del nuovo secolo
Al termine dell’Anno Santo 1900, già fortemente interpellato dall’enciclica di Papa Leone XIII « Tametsi futura », Giacomo asseconda l’invito potente della grazia divina: nella notte del 31 dicembre 1900, che divide i due secoli, sosta per quattro ore in adorazione davanti al SS. mo Sacramento solennemente esposto nella Cattedrale di Alba. Una « particolare luce », come testimonia egli stesso, gli viene dall’Ostia e da quel giorno si sente « profondamente obbligato a far qualcosa per il Signore e per gli uomini del nuovo secolo », « obbligato a servire la Chiesa », con i mezzi nuovi offerti dall’ingegno umano.
E’ in seguito a tale esperienza che don Alberione ricorda senza fine a tutti i suoi figli e figlie: « Siete nati dall’Ostia, dal Tabernacolo! ».
L’itinerario del giovane Alberione prosegue molto intensamente negli anni dello studio della filosofìa e teologia. Il 29 giugno 1907 viene ordinato sacerdote. Segue una breve ma decisiva esperienza pastorale in Narzole (Cuneo), nella parrocchia di S. Bernardo, in qualità di vice parroco. Nei pochi mesi di apostolato pastorale diretto incontra il giovinetto Giuseppe Giaccardo che per lui sarà ciò che fu Timoteo per l’Apostolo Paolo. E sempre a Narzole don Alberione matura una maggior comprensione di ciò che può fare la donna coinvolta nell’apostolato.
Seguono gli anni vissuti nel Seminario ad Alba, dove svolge il compito di Padre Spirituale dei seminaristi maggiori e minori, e d’insegnante in varie materie.
Il giovanissimo sacerdote prega molto, studia, si presta per predicazione, catechesi, conferenze nelle parrocchie della diocesi. Dedica pure molto tempo allo studio, approfondendo particolarmente testi che lo illuminano e lo aggiornano sulla situazione della società civile ed ecclesiale del suo tempo e sulle necessità dell’uomo d’oggi: verso dove cammina questa umanità?
Ma il Signore lo vuole e lo guida in una missione nuova, multiforme nei mezzi e nelle strutture, per predicare il Vangelo a tutti i popoli, nello spirito dell’Apostolo San Paolo: portare gli uomini a Dio e Dio agli uomini, utilizzando i mezzi moderni di comunicazione. Testimoniano tale orientamento due libri di notevole importanza, maturati in quegli anni: « Appunti di teologia pastorale » (1912) e « La donna associata allo zelo sacerdotale » (iniziato nel 1911 e pubblicato nel 1915).
Maggior luce e maggior comprensione per un nuovo passo avviene nel 1910, quando don Alberione prende coscienza che la missione di dare Gesù Cristo al mondo deve essere assunta e realizzata da persone consacrate: « Le opere di Dio si fanno con gli uomini di Dio », amerà ripetere spesso.
La missione si concretizza: evangelizzare con i mezzi moderni
Per obbedire a Dio e alla Chiesa, il 20 agosto 1914, mentre a Roma muore il santo pontefice Pio X, ad Alba don Alberione dà inizio alla « Famiglia Paolina » con la fondazione della Pia Società San Paolo. Tutto avviene in forma semplice e dimessa: don Alberione si sente strumento di Dio, mosso dalla pedagogia divina che ama « iniziare sempre da un presepio », nel silenzio e nel nascondimento.
La famiglia umana – alla quale don Alberione si ispira – è composta di… fratelli e sorelle. Don Alberione è ben consapevole del ruolo importante che la donna, esercita nel « fare del bene » a gloria di Dio e per la salvezza dei fratelli. La prima donna che segue don Alberione è una ragazza ventenne di Castagnito (Cuneo): Teresa Merlo. Con il suo contributo, Alberione dà inizio alla congregazione delle Figlie di San Paolo (1915). Lentamente, ma decisamente, tra difficoltà di ogni genere, la « Famiglia » si sviluppa, le vocazioni maschili e femminili aumentano, l’apostolato si delinea e prende forma.
Nel 1918 (dicembre) avviene una prima partenza (quante ne seguiranno?) di « figlie » verso Susa: inizia una coraggiosa storia ricca di fede e di giovanile entusiasmo, che genera anche uno stile caratteristico, denominato « alla paolina ».
È abbastanza semplice seguire la cronologia di questi anni: ma quanto cammino, quanto progresso! Dio è presente e dà segni evidenti che è Lui solo a volere la Famiglia Paolina.
Però, nel luglio 1923 una nube oscura sembra troncare sul nascere tutti i sogni. Don Alberione si ammala gravemente; e il responso dei medici non lascia speranze. Ma ecco che, contrariamente ad ogni previsione, don Alberione riprende miracolosamente il cammino: « San Paolo mi ha guarito », commenterà in seguito. Da quel periodo appare nelle cappelle Paoline la scritta che in sogno o in rivelazione il Divin Maestro rivolge al Fondatore: « Non temete – Io sono con voi – Di qui voglio illuminare – Abbiate il dolore dei peccati ».
Nel 1924 prende vita la seconda congregazione femminile: le Pie Discepole del Divin Maestro, per l’apostolato eucaristico, sacerdotale, liturgico. A guidarle nella nuova vocazione don Alberione chiama la giovane Orsola Rivata.
Intanto don Alberione, sempre bruciato dallo « zelo » per le anime, va individuando le forme più rapide per raggiungere con il messaggio evangelico ogni uomo, soprattutto i lontani e le masse. Intuendo che, accanto ai libri, un mezzo molto efficace poteva risultare la pubblicazione di periodici, eccolo …buttarsi massicciamente in questa forma di apostolato. Nel 1912 era già nata la rivista Vita Pastorale destinata ai parroci, al fine « che ogni pastore sia un Pastor Bonus, modellato sopra Gesù Cristo… »; adesso (1931) nasce Famiglia Cristiana, rivista settimanale con lo scopo di alimentare la vita cristiana delle famiglie. Seguiranno: La Madre di Dio (1933), « per svelare alle anime le bellezze e le grandezze di Maria »; Pastor bonus (1937), rivista mensile in lingua latina, nella quale si trattavano problemi di cura pastorale e venivano offerte profonde meditazioni biblico-teologiche; Via, Verità e Vita (1952), rivista mensile per la conoscenza e l’insegnamento della dottrina cristiana; La Vita in Cristo e nella Chiesa (1952), con lo scopo di far « conoscere i tesori della Liturgia, diffondere tutto quello che serve alla Liturgia, vivere la Liturgia secondo la Chiesa… ». Don Alberione pensa anche ai ragazzi: per loro fa pubblicare Il Giornalino.
Si pone pure mano alla costruzione del grandioso Tempio a San Paolo, prima chiesa dedicata a una delle devozioni fondamentali della Famiglia Paolina. Seguiranno i due Templi a Gesù Maestro (Alba e Roma) e il Santuario alla Regina degli Apostoli (Roma).
Don Alberione si preoccupa di guidare, formare, orientare fratelli e sorelle precedendoli nella vita – vocazione – missione paolina.
Da Alba al mondo: come Paolo sempre in cammino
Nel 1926 si concretizza la fondazione della prima Casa « filiale » a Roma, seguita negli anni successivi da molte fondazioni in Italia e all’Estero.
Intanto cresce l’edificio spirituale: si segue con una maggiore comprensione e quindi più facilmente l’insegnamento del « Primo Maestro » sulla « devozione » fondamentale e qualificante: « Gesù Maestro e Pastore, Via e Verità e Vita », sulla devozione a Maria Madre, Maestra e Regina degli Apostoli; e sulla devozione a San Paolo, che ci specifica nella Chiesa e per cui siamo « i Paolini ».
La meta che il Fondatore indica a tutti e che vuole sia assunta come il primo « impegno » è la conformazione piena a Cristo: accogliere tutto il Cristo Via e Verità e Vita in tutta la persona, mente, volontà, cuore, forze fisiche. Orientamento codificato in un volumetto composto intorno agli anni ’30 e al quale dà il titolo paolino: « Donec formetur Christus in vobis ».
Nell’ottobre 1938 don Alberione fonda la terza congregazione femminile: le Suore di Gesù Buon Pastore o « Pastorelle », destinate all’apostolato pastorale diretto in ausilio ai Pastori.
La seconda guerra mondiale (1940-1945) segna una battuta d’arresto; ma il Primo Maestro, forzatamente fermo a Roma, non si arresta nel suo itinerario spirituale. Mentre attende il ritorno di condizioni migliori per operare, egli va accogliendo in misura sempre più radicale la luce di Dio in un clima di adorazione e contemplazione ogni giorno crescente.
Frutto di tale attitudine adorante sono gli scritti che il Fondatore continua a regalare ai suoi figli, tutti di grande rilievo per la Famiglia Paolina. Ricordiamo solo la « Via humanitatis » (1947), altissima rilettura del cammino dell’umanità in ottica mariana (« per Mariam, in Christo et in Ecclesia »), e quello che è il suo sogno incompiuto: il Progetto di un’enciclopedia su Gesù Maestro (1959).
Per don Alberione l’attività piena riprende alla fine del 1945, con i grandi viaggi intorno al mondo, allo scopo di incontrare e confermare fratelli e sorelle. Rimane « folgorato » dall’Oriente (India, Cina, Filippine…): le moltitudini, i miliardi di persone… Ma quanti conoscono Gesù Cristo? « Mi protendo in avanti! Non pensare a quel che si è fatto, ma piuttosto a quanto rimane da fare ».
Gli anni 1950-1960 sono gli anni d’oro del consolidamento della Famiglia Paolina: tutto fiorisce con vocazioni, fondazioni, edizioni, iniziative molteplici, impegno nella formazione, nello studio, nella povertà.
Nel 1954 si celebra il quarantesimo di fondazione, documentato in un volume pubblicato nella circostanza: « Mi protendo in avanti ». E’ esattamente in questa occasione che don Alberione riesce a vincere la sua naturale ritrosia nel parlare di se stesso e consegna ai suoi figli lo scritto che sarà pubblicato con il titolo: « Abundantes divitiae gratiae suae » e che viene considerato ora come la « storia carismatica della Famiglia Paolina ».
Con la fondazione della quarta congregazione femminile: l’Istituto Regina degli Apostoli per le vocazioni (Suore Apostoline), dedite all’apostolato vocazionale (1959) e con gli Istituti aggregati: San Gabriele Arcangelo, Maria SS.ma Annunziata, Gesù Sacerdote, Santa Famiglia, si completa il grande « albero » della Famiglia Paolina, pensata e voluta da Dio.
Don Alberione è ora la guida di circa diecimila persone, inclusi pure i Cooperatori Paolini, tutte unite tra loro dallo stesso ideale di santità e di apostolato: l’avvento di Cristo, Via, Verità, Vita, nelle anime e nel mondo, mediante gli strumenti della comunicazione sociale.

Dalla Chiesa del Concilio a quella celeste
Negli anni 1962-1965 il Primo Maestro è protagonista silenzioso, ma molto attento del Concilio Vaticano II, alle cui quattro « sessioni » partecipa quotidianamente con vivo impegno. Giorno di particolare giubilo è il 4 dicembre 1963, in cui viene emanato il Decreto conciliare « Inter Mirifica » sugli strumenti della comunicazione sociale da assumersi come mezzi di evangelizzazione. Egli così commentò: « Ora non potete più avere dubbi. La Chiesa ha parlato ». E ancora: « Vi ho dato il meglio. Se avessi trovato qualcos’altro di meglio, ve lo darei ora, ma non l’ho trovato ».
Nel frattempo, non mancano tribolazioni e sofferenze al padre comune. Tra le più acute, la morte dei suoi primi figli e figlie. Il 24 gennaio 1948 torna al padre don Timoteo Giaccardo, che egli considera « fedelissimo tra i fedeli ». Quindi, il 5 febbraio 1964, don Alberione è colpito da un nuovo, profondo dolore per la morte della Prima Maestra Teda (Teresa Merlo), la donna che non dubitò mai e vide in Lui l’Uomo trasmettitore della Volontà di Dio. In quell’occasione don Alberione non si preoccupò di nascondere le lacrime.
Ormai verso la fine del cammino terreno, si può affermare che il segreto di tanta multiforme attività fu la sua vita interiore, per la quale egli realizzò l’adesione totale alla Volontà di Dio, e compì in sé la parola dell’Apostolo San Paolo: « La mia vita è Cristo ». Il Cristo Gesù, in particolare il Cristo Eucaristico, fu la grande, l’unica passione di don Alberione: « La nostra pietà è in primo luogo eucaristica. Tutto nasce, come da fonte vitale, dal Maestro Divino. Così è nata dal tabernacolo la Famiglia Paolina, così si alimenta, così vive, così opera, così si santifica. Dalla Messa, dalla Comunione, dalla Visita, tutto: santità e apostolato ».
Il Venerabile don Giacomo Alberione rimase sulla terra 87 anni. Compiuta l’opera che il Padre Celeste gli aveva dato da fare, il 26 novembre 1971, lasciò la terra per prendere il suo posto nella Casa del Padre. Le ultime ore di don Alberione furono confortate dalla visita e dalla benedizione del Papa Paolo VI, che non nascose mai la sua ammirazione e venerazione per don Alberione. Ad ogni membro della Famiglia Paolina è oltremodo cara la testimonianza che volle lasciare il Papa Paolo VI, nella memorabile Udienza concessa al Primo Maestro e a una folta rappresentanza di membri della Famiglia Paolina, il 28 giugno 1969 (il Primo Maestro aveva 85 anni): « Eccolo: umile, silenzioso, instancabile, sempre vigile, sempre raccolto nei suoi pensieri, che corrono dalla preghiera all’opera, sempre intento a scrutare i « segni dei tempi », cioè le più geniali forme di arrivare alle anime, il nostro Don Alberione ha dato alla Chiesa nuovi strumenti per esprimersi, nuovi mezzi per dare vigore e ampiezza al suo apostolato, nuova capacità e nuova coscienza della validità e della possibilità della sua missione nel mondo moderno e con i mezzi moderni. Lasci, caro Don Alberione, che il Papa goda di codesta lunga, fedele e indefessa fatica e dei frutti da essa prodotti a gloria di Dio ed a bene della Chiesa ».
Il 25 giugno 1996 il Santo Padre Giovanni Paolo II firma il Decreto con il quale vengono riconosciute le virtù eroiche e il conseguente titolo di Venerabile.
E’ stato beatificato da Papa Giovanni Paolo II a Roma il 27 aprile 2003.

Autore: Don Luigi Valtorta, ssp – Postulatore Generale

 

Publié dans:Beati, Santi |on 25 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

RIFLESSIONI SUL SANTO NATALE – Don Arcangelo Tadini

http://www.verolanuova.com/lucesalelievito/donarcangelotadini/Scritti/tadscrit10.html

Don Arcangelo Tadini        

proclamato Beato il 3 ottobre 1999 da Giovanni Paolo II

da, Sermones,
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Archivio Suore Operaie, Botticino Sera
(AI: Sermones, ASO Botticino Sera)
Scritti e Omelie
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RIFLESSIONI SUL SANTO NATALE

Omelia

 A differenza di tutti gli altri bambini che non possono fissare il luogo della loro nascita, Gesù se Io scelse e molti anni prima Io fece predire dai Profeta Michea: Betlemme. Questa predizione ci reca grande meraviglia: e come può non esser tale mentre tutti sappiamo che a Nazareth e non a Betlemme fu annunziato il grande mistero dell’incarnazione, che a Nazareth e non a Betlemme abitava la fortunata donna che doveva darlo alla luce? Come poteva dunque avverarsi questa profezia, come compirsi questo vaticinio? Nelle mani del Signore tutto è grande, tutto è sublime.
Aveva in quel tempo Cesare Augusto, imperatore romano, emanato un editto col quale comandava che tutti i sudditi dell’imperatore si portassero alla capitale, alla città da dove traevano origine per dare il loro nome. Questo comando colpiva anche i Santi Sposi Maria e Giuseppe, e siccome discendevano entrambi dalla stirpe di Davide che era di Betlemme, così essi dovettero portarsi in questa città per darvi il loro nome Sorpresi dalla notte, non avendo ormai più tempo di ritornare a Nazareth si diedero a cercare alloggio per Betlemme; ma mentre per i ricchi e i grandi della terra erano preparati grandi palazzi, ricche sale, per la Madre di Dio e per il suo custode non vi era dove posare capo.
Preoccupati e dolenti dovettero mettersi in viaggio, uscire dalla città e ricoverarsi in una stalla; qui si compì il tempo per il quale Maria doveva dare alla luce il suo Divin Infante e in quella notte stessa nacque al mondo Gesù: il Salvatore del mondo. E quale grande nuova ammirazione! In quale condizione si mostra al suo regno il sovrano dominatore dell’universo! Attorno a lui non ha che un semplice artigiano e una povera donna occupata a coprirlo con fasce. Il suo palazzo consiste in una stalla sordida ed infetta, ed invece di assidersi sopra un trono giace sopra una umile mangiatoia.
Ma, perché o Signore non compariste al mondo quale possente monarca, circondato di splendore, rivestito di maestà? Perché non sceglieste come madre una regina della terra, e come vostro custode un grande del mondo? Oh Gesù mio io v’intendo. Vi siete fatto accessibile a tutti nascendo in una capanna e qui con la più amorosa abiezione preparaste per le nostre povere anime un’accoglienza degna della misericordia di un Dio venuto proprio tra noi per la salute di tutti.
Ah miei cari corriamo tutti, corriamo a Betlemme, corriamo alla scuola di Gesù col sincero desiderio di approfittare dei suoi insegnamenti. In queste sere che precedono la sua comparsa soave nel mondo, affacciamoci assidui alla culla di questo divino Infante ansiosi di imparare da lui la via che sicuri ci conduce al cielo.
E voi o buon Maestro, dateci un cuore attento e pieno di fede affinché vi ascoltiamo; un cuore umile e docile affinché pronti ai vostri voleri facciamo qui in terra sempre la vostra volontà, per avervi in cielo nostra consolazione e nostro premio.
Appena nacque il Salvatore, appena si compì il grande Mistero dell’incarnazione del Verbo, il cielo subito venne a rivelarlo alla terra. Un angelo appositamente mandato da Dio agli uomini porta una notizia sì straordinaria. Ma a chi annunzia per primi questo grande avvenimento?
Andrà forse nei palazzi di Betlemme a scuotere il sonno dei grandi dei secolo, usciti come Gesù dalla stirpe di Davide, e recherà ad essi l’annunzio che dal loro sangue è nato il Salvatore? Andrà egli a trovare i maestri in Israele, i dottori della legge e accennerà loro che è finalmente compiuta l’attesa delle genti, e che, nel tempo segnato dai profeti, il liberatore d’Israele sì sovente promesso e tanto desiderato per sì lungo tempo è ora comparso? Non già, ma uomini semplici e grossolani, che con la custodia dei loro gregge sostentavano meschinamente la vita, questi sono quelli che la divina Provvidenza scelse a primi contemplatori di tale avvenimento. A questi poveri e semplici pastori, prima d’ogni altro, gli angeli scesi apposta dal cielo fanno sentire quel dolce comando: « andate a Betlemme ». Questo per indicare a noi che per essere ammessi alla scuola di Gesù bisogna avere un cuore semplice e distaccato dalle cose della terra.
E’ infatti la semplicità quello che rende l’uomo veramente grande. La semplicità quella che adorna di nuovo pregio le virtù, quella che aggiunge ai sommi ingegni nuovo splendore. E’ per la semplicità appunto che questi poveri uomini meritano di poter essere i primi a attirare sopra di sé gli sguardi dei cielo. Gesù li chiama a sé con trasporti d’amore, vola alle loro braccia, riceve i loro affetti, si lascia abbracciare, baciare e in essi trova le sue delizie e le sue consolazioni.
Oh Gesù caro noi vi intendiamo, l’affetto disordinato alle ricchezze, ai piaceri e agli onori del mondo è come uno spinaio che soffoca nel nostro cuore il seme prezioso della vostra santa parola. Che faremo noi miserabili che ci vediamo sì pieni di attacchi terreni? Ah Signore noi non potremo che istantaneamente pregarvi con Sant’Agostino: « bruciate, tagliate tutto ciò che in noi vi dispiace e mette ostacolo al vostro santo amore, distaccateci dal mondo amareggiando tutti i suoi diletti, deh fate insomma che noi abbiamo a sentire il bisogno di rivolgerci a voi, perché sciolti da ogni legame d’amor terreno, siamo disposti e pronti a seguire i vostri divini insegnamenti. »
Prostriamoci adunque con la faccia per terra e domandiamo a questo nostro buon maestro una vera umiltà e semplicità di cuore. Baciamo la soglia beata di questo umile presepio e qui, prima di passare innanzi, deponiamo ogni pensiero di propria stima, ogni desiderio ed ogni amore di lode, di comparsa, di fasto e preghiamo Gesù che per la sua infinita misericordia ci renda quali dobbiamo essere prima d’accostarci alla sua culla: cioè compresi dei sentimento del nostro niente, della nostra miseria e dei bisogno estremo che abbiamo di essere istruiti da lui.
E voi o caro Gesù, mandateci per carità un raggio del vostro lume che ci faccia capire bene chi noi siamo e chi voi siete, a ciò possiamo amare voi e odiare noi stessi; in questo consiste la vera scienza della salvezza, che voi venite ad insegnarci.
Poniamoci o cari a considerare, in questa sera, attentamente la povertà di Gesù. E questa sia la prima lezione che noi impariamo dall’amabile Maestro e Bambino. Chi direbbe mai al vederlo in sì meschino albergo, ricoperto appena di poveri panni, mal difeso contro i rigori della stagione, chi direbbe che Egli è il Re dei re, ed il Signore dei dominanti? Come riconoscere in questo stato di miseria e di abiezione il Sovrano dominatore dell’universo, il Re della gloria, l’Ente supremo al cui cospetto tutti gli altri esseri s’umiliano e si annientano? Non poteva egli nascere in un luogo meno disagiato? Avere, nascendo, quel che non manca ai più poveri… un tetto che lo ripari, un po’ di fuoco che lo riscaldi, una culla su cui adagiarsi? « Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli hanno i loro nidi; ed il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo. » Ma e perché tutto questo? Vedeva bene Gesù Cristo di quanto ostacolo ai conseguimento dei Paradiso sarebbe stato per le anime nostre io sregolato amore dei beni presenti, ci volle dare l’esempio di una povertà, di uno spogliamento così universale, così che, almeno in parte, imitandolo arrivassimo a conseguire i beni eterni. Oh quanto ci dobbiamo confondere nel vedere l’amoroso Salvatore ridotto in questo stato!
La nudità, lo squallore, la miseria che lo circonda ci tuonano al cuore quei « guai » terribile che egli ha minacciato a coloro che vorranno mettere la loro consolazione nelle cose dei mondo; quella nudità e quella miseria ci predica di tenere il cuore distaccato da tutto perché possiamo liberamente servirlo ed amarlo. Quella miseria ci dice che sono beati i poveri di spirito perché di loro è il Regno dei Cieli … Difatti che cosa è mai davanti a Dio tutto lo splendore della terra? La ricchezza o la miseria, lo splendore o l’umiliazione, sono un nulla davanti a Lui. Egli stima più la povertà che tutte le ricchezze del mondo, come dice San Paolo « ogni cosa di terra io stimo fango e sozzura per guadagnarmi Gesù Cristo. » li santo profeta Davide considerando con profetico lume la povertà di Gesù Cristo uscì in questa bella esclamazione:  » Beato chi ha cura del mendico e del povero ».
Dateci lume o Bambino amato affinché intendiamo la lezione salutare della vostra estrema povertà e fateci capire bene come dobbiamo imitarla nelle circostanze particolari della nostra vita… Sentite o Gesù mio quel che proponiamo di fare e benedite con la vostra grazia questi nostri proponimenti. Per amore alla vostra santa povertà noi ci studieremo di servire gli altri in quel che potremo; ci mostreremo sempre contenti di tutto ricevendo tutto come elemosina dalla benefica mano della vostra Provvidenze, senza desiderare né più né meno di quello che ci darete voi. Non permettete mai che il falso splendore delle prosperità terrene ci abbagli e ci faccia perdere di vista la strada che guida al cielo. Imprimeteci bene nel cuore che i beni del mondo non sono beni per noi se non in quanto ci possono servire a guadagnare altri beni non caduchi, mediante le buone opere di carità.
Immaginiamoci o cari di vedere il Divin Pargoletto tremare di freddo su poca paglia; immaginiamoci che Egli ci stenda la fredda sua manina per chiederci qualche soccorso. Ditemi, non vi sentireste forzati a spargere anche tutto il vostro sangue per sopperire al minimo dei suoi bisogni? Orbene in questa sera il Bambino Gesù ci domanda che noi abbiamo a sopportare in pace la povertà che a Lui piacque di mandarci, che l’abbiamo a sopportare per amor suo.
Si, o divino In fante, noi d’ora innanzi stimeremo e adoreremo col più profondo ossequio dello spirito la vostra santa povertà, proponiamo di cercarla più che potremo in noi stessi, di rispettarla, compatirla e soccorrerla nei poveri che la rappresentano.
Consideriamo, in questa sera, la promessa che Gesù fa a quelle anime che avranno imparato dal suo esempio l’amore alla povertà e ai poveri. Giacché il santo Profeta Davide dopo di aver detto « Beato chi ha cura del mendìco e del povero » aggiunge: « nel giorno cattivo lo libererà il Signore ». Cosa sia questo giorno cattivo tutti lo intendiamo, i Santi ce lo dissero più volte, è il giorno della morte e per questo giorno appunto il Signore promette la sua speciale assistenza. Si vede proprio non esservi cosa che renda tanto tranquilla e consolante la morte, quanto il distacco sincero dalle cose del mondo e l’esercizio costante delle opere della misericordia. Queste ispirano all’anima una gran fiducia nella bontà di quel Dio che deve essere nostro giudice avendo egli promesso d’usare misericordia ai misericordiosi. E il distacco da ogni cosa terrena ci libera anticipatamente dal maggior affanno che rechi la morte, cioè il dover lasciare tutto. Conviene dunque privarsi volentieri di qualche cosa per amore di Gesù…. Fosse pure una cosa assai cara all’amor proprio, come quell’ornamento, quel comodo, quel diletto, per averlo propizio nel giorno terribile della morte.
Verrà presto o cari per tutti l’ora della morte, per alcuni di noi questa è l’ultima novena del Natale, è l’ultima volta che trattiamo Gesù come Bambino. Presto lo dovremo vedere coi nostri occhi giudice severo, presto lo dovremo sentire pronunciare quella irrevocabile sentenza o di condanna o di premio eterno. Questo spaventevole istante verrà per me e verrà anche per voi. Certo molti di noi l’anno venturo non ci saranno, passati da questa all’altra vita avranno già abbandonato il mondo, saranno entrati nell’eternità. Pensiamo o cari, riflettiamo seriamente. La morte ci sta sempre davanti e noi vi andiamo sempre più avvicinando… E allora che faremo dei beni della terra? Ah, quante più saranno le cose da noi amate in vita, tanti più saranno i nostri tormenti in morte. Gran dire! Tutti i beni del mondo non potranno allora servire ad altro che a affliggerci: e noi ci affanniamo tanto per averli?
Benedetta la povertà del mio Gesù che fa beato il cuore! Intendiamolo adunque che è una vera pazzia l’amare i beni presenti: Gesù solo è un bene vero, un bene eterno. Se attenderemo ad amare Lui solo ci sentiremo felici nel stringerlo povero e crocifisso per amor nostro sul letto di morte e benediremo il momento in cui, per grazia di Gesù, ci saremo distaccati da ogni cosa terrena. Benediremo le privazioni che avremo fatte per soccorrerlo nella persona dei poveri, e con una ineffabile speranza ci prepareremo ad udire da Lui quelle consolanti parole: « venite o benedetti dal Padre mio, venite a possedere il Regno che vi è preparato, poiché io ebbi fame e voi mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere. » Che invito di Paradiso! O Regno eterno! Merita bene di essere guadagnato, con la perdita d’ogni caduco bene del mondo.
Alla nascita di Gesù Salvatore gli angeli del Paradiso, a schiere, a coppie discesero sulla terra per invitare gli uomini a far festa, a rallegrarsi per un sì fausto avvenimento. Ma in mezzo al comune tripudio Gesù solo nel silenzio di una spelonca sospira e piange. Qual è il motivo di queste lacrime? Ecco che Gesù stesso ce lo dice per bocca del suo Profeta: « il mio dolore è sempre innanzi a me ». Senti o anima cristiana? Gesù non può togliere lo sguardo dal quadro doloroso delle umane ingratitudini e piange per dolore e compassione di noi miserabili. Gesù ha sempre presenti allo spirito tutti i peccati, piange la perdizione eterna di tante anime, piange le loro segrete miserie… gli errori e le passioni che le accecano, … i piaceri e le tentazione che le seducano, i pravi abiti che le trascinano all’inferno. Gesù piange al vedere il disprezzo della sua legge e della sua grazia, la dimenticanza dei beni eterni, l’amore disordinato alle cose presenti, l’impero del peccato e del demonio, … la falsa pace nella quale viviamo, sebbene peccatori, sebbene ì bisognosi di penitenza e di lacrime per ottenere misericordia! Ma forse Gesù vede in noi anche al presente qualche cosa che lo fa piangere. Ah, forse noi stessi siamo la più amara cagione delle sue lacrime e del suo dolore.
Si fa piangere Gesù commettendo il peccato, o mettendosi nell’occasione prossima di commetterlo. E avremo cuore ancora di far piangere Gesù? E non ci risolveremo a finirla una buona volta col peccato? Ah se le lacrime di Gesù non ci commuovono, diciamolo pure, pure noi abbiamo in petto un cuore di macigno e dobbiamo temere di essere caduti nella più terribile ostinazione di peccato. Se così fosse, quanto maggior bisogno avremmo della misericordia del santo Bambino, quanta necessità di pregarlo perché lasci cadere la rugiada celeste delle sue lacrime sull’arida terra del nostro povero cuore, affinché si intenerisca alla vista delle sue pene. L’aspetto d’una persona afflitta e piangente muove naturalmente a pietà e desiderio di poterla in qualche modo consolare. E noi non sentiremo il desiderio di consolare Gesù? Farlo cessare dal piangere e asciugare le sue lacrime? Sono i nostri peccati e i peccati di tutti gli uomini che lo fanno piangere e penare: lo sappiamo.. e perché non vorremmo dunque detestare e odiare questi maledetti peccati, fuggire le occasioni che ce lo fanno commettere?
Sì, o amabile Gesù, noi ve lo promettiamo questa sera qui davanti a voi, e la nostra promessa la manterremo a qualunque costo. Dovessimo perdere la vita, noi non vi faremo spargere lacrima alcuna per l’avvenire. Ci prostreremo nelle prossime feste ai piedi del vostro Ministro e là dolendoci di vero cuore domanderemo perdono di tutti i nostri peccati e di quelli ancora che furono commessi dagli altri per colpa nostra. E voi, o amabile Redentore, fate che unendo le nostre lacrime alle vostre esse valgano a cancellare tutte le nostre ingratitudini, e renderci mondi e puri agli occhi vostri.
Oh! Quale consolazione sarà per noi il poter dire con San Tommaso: « Divin Bambinello abbracciatemi affinché noi piangiamo insieme. Voi per amore verso di me, io per amor vostro. Voi mi convertirete e io vi possederò; voi vi consolerete con me e io mi con foderò con voi. »

Oh quale dolcezza, qual bene!
Bandite dunque da noi, caro Gesù, tutti i fallaci godimenti della terra, affinché sospirando e piangendo in questa vita meritiamo la bella sorte di vedervi e possedervi per tutta l’eternità.
Mancherei ad una grande necessità, mi parrebbe di fare un insulto al Dio Bambino se lasciassi passare questa sacra novena in preparazione alla solennità del Natale, senza dirvi almeno due parole sopra la potenza e insieme la dolcezza del nome di Gesù. Purtroppo lo sento, io sono incapace, fallirò certo nel mio intento. Ma e perché non ho io la lingua d’un serafino per lodare ed encomiare questo sì gran bel Nome? Perché non ho io la mente ed il cuore e l’ingegno capace di tributargli quell’omaggio eterno di riverenza che gli si conviene? Gesù! Oh Nome sopra tutti i nomi degno solo di Colui che lo porta! Questo è il nome augusto dell’Unigenito Figlio di Dio, nome che merita perciò riverenza e onore, esso è la letizia degli angeli ed il terrore dell’inferno. Al suono di questo santo Nome, ogni ginocchio si piega nel cielo e negli abissi. Oh potenza, oh grandiosità di questo nome di Gesù che è il nome di un Dio Salvatore! Nessun altro al mondo potrà essere degno di un tal nome, poiché nessuno potrà mai fare quello che ha fatto Gesù.
Dacché Adamo con la sua disubbidienza si ribellò a Dio, le porte del Paradiso si chiusero e più non si sarebbero aperte se Gesù non avesse patito. Noi eravamo schiavi del demonio, condannati alla pena eterna dell’inferno e nessuno fuorché Dio stesso poteva cancellare questo terribile decreto con una soddisfazione adeguata. Se tutte le creature si fossero poste mediatrici di pace fra Dio e l’uomo, non avrebbero potuto ottenerci il perdono. Se tutti gli spiriti beati si fossero offerti in sacrificio d’espiazione per noi, non avrebbero potuto placare la divina giustizia giustamente sdegnata contro di noi. Per salvarci ci voleva Gesù: cioè un Salvatore divino che prendesse sopra di sé il carico dei nostri peccati e si assoggettasse a pagarne la pena. Oh la possanza adunque del nome di Gesù.
Andavano al tempio gli apostoli Pietro e Giovanni per farvi orazione ed un certo uomo infermo dalla sua nascita stava alla porta del tempio domandando elemosina. Vedendo entrare Pietro e Giovanni stese loro la mano sperando di ricevere qualche cosa. Ma Pietro disse « io non ho né argento né oro, quel che ho te lo do. » Lo prese per mano e gli disse. « Nel nome di Gesù alzati e cammina. » Si rassodarono le sue gambe e saltando entrò nel tempio lodando l’onnipotenza del nome di Gesù. Ed era ben giusto poiché egli in forza di questo Nome Santissimo aveva ottenuto la salute, e noi cristiani salvati per virtù di questo Nome cosa faremo? Noi dobbiamo aver viva confidenza in Gesù, domandare e sperare tutto per i meriti di Gesù. Quando ci sentiamo tentati invochiamo Gesù, quando ci vediamo deboli ed afflitti chiamiamo Gesù. Ogni pensiero della nostra mente, ogni palpito del nostro cuore, ogni respiro della nostra vita porti questa dolce impronta « viva Gesù ». Esso sarà quanto il dire: « Viva il Padre, viva l’Amico, viva lo Sposo dell’anima! »
Misuriamo infatti l’altezza e la gloria del dono di Dio e insieme la distanza infinita che c’è tra Lui e noi poveri vermiciattoli della terra, e poi pensiamo che un Dio sì grande per essere nostro Salvatore ha dovuto abbassarsi alla forma di Servo. Non basta: « si è fatto obbediente sino alla morte e alla morte di Croce » cioè alla morte più obbrobriosa che ci potesse essere. Non basta ancora: si è quasi annientato agli occhi nostri nascondendosi sotto le povere specie sacramentali per essere nostro compagno, nostro cibo e nostra vittima fino alla consumazione dei secoli. Ditemi, poteva Egli fare di più? E vi sarebbe sulla terra chi potrebbe fare altrettanto?
Gesù, come voi vi siete donato tutto a noi, noi ci doneremo tutto a voi. Il nostro cuore sia vostro perché voi vi stampiate in mezzo il vostro Nome, affinché il mondo, i demoni e le creature non abbiano a rubarvelo mai più. Scrivete Gesù nella nos fra mente perché si ricordi sempre di voi. Scrivete Gesù sulla nostra bocca affinché volentieri parli di voi, scrivete Gesù su tutte le mie opere, affinché per sola gloria del vostro nome le cominci e le compia.

Viva adunque Gesù in eterno; sia sempre lodato e ringraziato il Santissimo Nome di Gesù.
Molte sono ancora le istruzioni che ci dà Gesù Bambino. Tutte ci sarebbero di estrema necessità, ma il tempo ci manca, già siamo giunti all’ultimo giorno della novena. Perciò questa sera impareremo da Gesù la virtù della santa umiltà come quella che racchiude in sé tutte le altre. Come quella che Gesù pose a fondamento della sua celeste dottrina. Immaginiamoci dunque che Egli stesso ci dica al cuore quelle dolci parole « impara da me ad essere umile di cuore ». Che gloria sarà per noi imparare da Gesù! Egli ci dice: « impara da me » affinché abbiamo a concepire una stima altissima della santa umiltà, vedendola praticata in modo sì eminente dal nostro Maestro divino. Guarda o anima cristiana come Gesù confonde la superbia del mondo: « impara da me » Egli dice, non a far miracoli, non a predicare, non a comandare, ma ad essere umile di cuore.
Anche noi applichiamoci d’ora innanzi con ogni studio ad acquistare questo tesoro nascosto della santa umiltà di cuore. Umiltà di cuore che ci faccia amare una vita abbietta e nascosta agli occhi degli uomini, e ci renda chiaro abbassarci a tutti, sottometterci a tutti e ricevere volentieri da Gesù qualunque umiliazione. Quando pure fossero le maggiori umiliazioni di questo mondo non potrebbero confrontarsi con quelle che abbracciò Gesù per amor nostro. Egli è Dio che si abbassa e noi siamo povere creature. Egli è santo e noi siamo peccatori. A Lui è dovuto ogni onore e gloria in cielo e in terra, e noi meritiamo ogni obbrobrio a questo mondo e nell’inferno per i nostri peccati. Procuriamoci dunque questa umiltà del cuore che nasca in noi dalla sincera convinzione del nostro nulla e della nostra miseria.

AI: « Sermones », ASO Botticino

Publié dans:Beati, NATALE 2012 |on 20 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

Don Gnocchi, sulle vette della carità

dal sito:

http://www.famiglieperaccoglienza.it/?idPagina=832&Titolo=Don%20Gnocchi,%20sulle%20vette%20della%20carit%E0

Il « prete degli alpini », la cui opera per l’infanzia sofferente ha segnato la storia del dopoguerra, sarà proclamato beato il 25 ottobre. La celebrazione al Duomo di Milano

Don Gnocchi, sulle vette della carità

di Stefano Zurlo, ilsussidiario.net, giovedì 10 settembre 2009

« …Assiste alla morte dell’Uomo, calpestando il ghiaccio sconfinato della Russia. Torna a casa deciso a caricarsi sulle spalle il dolore innocente dei bambini feriti e abbandonati. È il genio del cristianesimo: trasformare la morte in vita, la disperazione in speranza, la barbarie in civiltà… »                                      

Lo beatificheranno il 25 ottobre, ma in una nicchia starà senz’altro scomodo. Don Carlo Gnocchi non era un santino, semmai, alla sua maniera, sul lato della carità, uno dei protagonisti del miracolo italiano. Solare, ottimista, gran lavoratore, con quella positività tutta lombarda che sin dai tempi dell’Illuminismo intreccia terra e cielo e coniuga gli ideali dell’anima con i bisogni del corpo.                            

La storia di don Carlo è dunque quella di un prete coraggioso, ardimentoso, quasi temerario che scopre di avere addosso una vocazione particolare, quella per i mutilatini, e scommette tutto su quell’intuizione. Sono paradossalmente gli anni della guerra quelli in cui matura l’idea di occuparsi degli ultimi fra gli ultimi, le piccole e incolpevoli vittime dell’odio, i bambini che sono saltati sulle bombe e sui residuati bellici. Insomma, quello di Carlo è un percorso controcorrente: va in guerra come cappellano degli Alpini, osserva tutto il male quasi irredimibile del conflitto, assiste alla morte degli uomini e dell’Uomo, calpestando il ghiaccio sconfinato della Russia. Torna però a casa non ripiegato su se stesso, ma deciso a caricarsi sulle spalle il dolore innocente di quei bambini feriti, umiliati e abbandonati al loro destino. È il genio del cristianesimo: trasformare la morte in vita, la disperazione in speranza, la barbarie in civiltà. O, se si preferisce, costruire sul dolore, dove tutti gli altri pensano che non ci sia più nulla da fare. Come ha fatto Cristo in croce.                                      

Il resto è la storia prodigiosa delle opere create freneticamente nell’arco di poco più di dieci anni, dal 1945 al 1956, quando don Carlo muore prematuramente. Il suo ragionamento è evangelicamente semplice: ai mutilatini è stato tolto molto, molto dev’essere restituito. L’importante è non abbandonarsi ad una carità alla vecchia maniera, fra paternalismo e fioretti. No, ci vuole altro. Medicine. Riabilitazione. Studio. Giochi. La prospettiva di creare tante famiglie e di tornare nella società. Mai, mai piangersi addosso e maledire la sorte. Don Carlo diventa per tanti piccoli sfortunati un padre e l’espressione non ha alcuna retorica per centinaia di bambini che erano stati parcheggiati, spesso da famiglie poverissime, in istituto.

Lui li segue uno ad uno, per loro va a battere cassa presso le grandi famiglie della borghesia ambrosiana, per loro tesse una fitta trama di rapporti politici che lo portano a Roma, da Andreotti e De Gasperi. Con loro va in udienza da Pio XII e al papa, che vorrebbe farlo vescovo, replica con garbata fermezza: «Santità, la ringrazio ma se mi lascia con i miei ragazzi sarei anche più contento».                                 

La vocazione è diventata una missione. Il cappellano si rivela un grande uomo. In altre parole, un santo. Anticonformista fino all’ultimo giorno. Muore donando le cornee con un gesto di amore e libertà che supera i divieti della legge, che all’epoca proibiva i trapianti, e i dubbi dei teologi moralisti, divisi sul punto. Lui è oltre. A ben guardare, avanti. Già in cielo. Ma ben saldo sulla terra, dove le sue opere avranno dopo la sua morte una grande fioritura.                                     

Ai suoi funerali in Duomo, il cardinal Montini, futuro Paolo VI, chiama al microfono un mutilatino che inventa la più bella delle prediche: «Ciao, prima ti chiamavo don Carlo, adesso ti chiamo San Carlo». Sono in centomila ad applaudire.

Speriamo che la beatificazione spinga i milanesi e gli italiani a togliere la polvere dall’immagine di don Carlo Gnocchi.

Publié dans:Beati |on 25 octobre, 2009 |Pas de commentaires »

Giovanni Paolo II ai partecipanti della Fondazione « Don Carlo Gnocchi »

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/2002/november/documents/hf_jp-ii_spe_20021130_don-carlo-gnocchi_it.html

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PARTECIPANTI AL PELLEGRINAGGIO

DELLA FONDAZIONE « DON CARLO GNOCCHI »

Sabato, 30 novembre 2002
 

Signori Cardinali,
Cari Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Carissimi Fratelli e Sorelle!

1. È per me motivo di grande gioia accogliervi quest’oggi nel contesto delle celebrazioni per il centenario della nascita di don Carlo Gnocchi, e del cinquantesimo della Fondazione sgorgata dal suo cuore di insigne « prete educatore e imprenditore della carità », come ebbe a definirlo il Cardinale Carlo Maria Martini, aprendo nel 1987 il processo di beatificazione. Grazie per la vostra visita, che mi offre l’occasione di manifestare sincero apprezzamento per il benemerito servizio che rendete a quanti si trovano in difficoltà.

Vi saluto tutti con affetto: ospiti, dirigenti, operatori, volontari, ex allievi ed amici della grande famiglia spirituale di don Carlo Gnocchi, senza dimenticare l’Associazione Nazionale Alpini e l’Associazione Nazionale Donatori Organi, particolarmente legate alla figura e all’opera di questo zelante sacerdote. Saluto i rappresentanti degli Istituti religiosi maschili e femminili voluti da don Gnocchi e il Presidente della Fondazione, Mons. Angelo Bazzari, che ringrazio per i devoti sentimenti che ha voluto esprimere a nome vostro. Saluto la giovane ospite del Centro di Milano, che si è fatta interprete di tutti gli ospiti della Fondazione. Un deferente pensiero rivolgo al Sindaco di Milano e alle altre autorità civili e militari, che hanno voluto essere presenti a questo incontro.

2. Il servo di Dio don Carlo Gnocchi, « padre dei mutilatini », fu educatore di giovani sin dall’inizio del suo ministero sacerdotale. Conobbe gli orrori della seconda guerra mondiale quale cappellano volontario prima sul fronte greco-albanese e, in seguito, con gli alpini della Divisione « Tridentina », nella campagna di Russia. Si prodigò con eroica carità verso i feriti e i moribondi, e maturò il disegno di una grande opera destinata ai poveri, agli orfani e agli sventurati.

Nacque così la Fondazione Pro Juventute, attraverso la quale egli moltiplicò iniziative sociali ed apostoliche a favore dei tanti orfani di guerra e piccoli mutilati per lo scoppio di ordigni bellici. La sua generosità si spinse oltre la morte, sopravvenuta il 28 febbraio del 1956, mediante il dono delle sue cornee a due ragazzi non vedenti. Fu un gesto precorritore, se si considera che in Italia il trapianto d’organi non era ancora regolato da provvedimenti legislativi.

3. Carissimi Fratelli e Sorelle! Le celebrazioni giubilari vi hanno permesso durante quest’anno di approfondire ancor più le ragioni del vostro impegno nella società e nella Chiesa. Dalla riabilitazione e integrazione sociale dei mutilatini di guerra siete oggi passati a gestire diversificate attività a favore di ragazzi, adulti e anziani non autosufficienti. Rispondendo, inoltre, ai nuovi bisogni emergenti nella società, avete aperto le vostre case a malati oncologici terminali. Non avete al tempo stesso trascurato di investire nella ricerca scientifica, curando la formazione professionale per disabili attraverso scuole e corsi in varie regioni d’Italia.

4. « Restaurare la persona umana » è il principio che continua ad ispirarvi, in fedeltà allo spirito di don Carlo Gnocchi. Egli era convinto che non basta assistere il malato; occorre « restaurarlo », promuovendolo attraverso pertinenti terapie atte a fargli recuperare la fiducia in se stesso. Se ciò esige un aggiornamento tecnico e professionale, domanda ancor più un costante supporto umano e soprattutto spirituale. « Condividere la sofferenza – amava ripetere questo insigne pedagogo sociale – è il primo passo terapeutico; il resto lo fa l’amore ».

E fu proprio l’amore il segreto di tutta la sua vita. In ogni sofferente vedeva Cristo crocifisso, tanto più se si trattava di individui fragili, piccoli, indifesi. Comprese che la luce capace di dar senso al dolore innocente dei bambini viene dal mistero della Croce. Ogni mutilatino era per lui « una piccola reliquia della redenzione cristiana e un segnale che anticipa la gloria pasquale ».

5. Carissimi Fratelli e Sorelle! Continuate a seguire le orme di questo indimenticabile maestro di vita. Come lui, siate buoni samaritani per quanti bussano alla porta delle vostre case. Il suo messaggio rappresenta oggi una singolare profezia di solidarietà e di pace. Servendo infatti gli ultimi e i piccoli in modo disinteressato, si contribuisce a costruire un mondo più accogliente e solidale.

Quasi tutti i vostri centri di ricupero e riabilitativi sono dedicati alla Vergine. Sia Lei – la Madre della speranza, a cui don Gnocchi si rivolgeva con filiale devozione – a sostenervi e a guidarvi verso nuovi traguardi di bene.

Io vi assicuro la mia preghiera, mentre di cuore benedico voi qui presenti e quanti compongono la grande famiglia della « Fondazione don Carlo Gnocchi ».

Publié dans:Beati, Papa Giovanni Paolo II |on 25 octobre, 2009 |Pas de commentaires »

Milano si prepara alla beatificazione di don Carlo Gnocchi

dal sito:

http://www.zenit.org/article-19999?l=italian

Milano si prepara alla beatificazione di don Carlo Gnocchi

Il sacerdote soccorse centinaia di vittime della Seconda Guerra Mondiale

di Carmen Elena Villa

MILANO, mercoledì, 21 ottobre 2009 (ZENIT.org).- La piazza del Duomo di Milano sarà lo scenario della beatificazione di don Carlo Gnocchi (1902-1956), ispiratore della Fondazione che porta il suo nome e che presta il proprio servizio in 28 centri in Italia a uomini e donne con handicap, anziani, malati di cancro e persone in stato vegetativo.

La cerimonia si celebrerà alle 10.00 del 25 ottobre e sarà presieduta dall’Arcivescovo di Milano, il Cardinale Dionigi Tettamanzi, contando sulla presenza di monsignor Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi e inviato di Papa Benedetto XVI alla cerimonia.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, don Gnocchi si offrì come cappellano volontario degli alpini che combattevano.

E’ anche ricordato come un eroe della solidarietà nei confronti delle vittime della guerra. Lo chiamavano “padre dei mutilatini” e degli orfani dei combattenti, visto che il centro da lui creato provvedeva alla riabilitazione di quanti soffrivano a livello fisico le conseguenze del conflitto.

Le sue parole sono ancora di enorme attualità nel XXI secolo: “Prima che la crisi politica o economica, c’è una crisi morale, anzi, una crisi metafisica. Come tale investe più o meno attualmente tutti i popoli, perché tocca l’uomo e il suo problema esistenziale”, scriveva nel 1946.

ZENIT ha parlato con il postulatore della causa di beatificazione di don Gnocchi, padre Rodolfo Cosimo Meoli F.S.C, che ha spiegato come la sua vita continui ad avere grande eco nel mondo odierno.

Come visse la sua infanzia don Carlo?
P. Rodolfo Cosimo Meloli: Fu un’infanzia attraversata da grandi lutti: suo padre morì di silicosi nel 1907, quando Carlo aveva soltanto 5 anni. Due anni dopo morì suo fratello Mario per meningite. L’altro fratello Andrea, il primogenito, sarà portato via dalla tubercolosi nel 1915. Carlo resta solo con la madre Clementina Pasta. Lei è donna coraggiosa e, nonostante sia costretta a vivere in condizioni difficilissime, non solo non perde la fiducia in Dio, ma arriva a pregare così: « Due miei figli li hai già presi, Signore; il terzo te l’offro io, perché tu lo benedica e lo conservi sempre al tuo servizio ».

In queste circostanze, come si rese conto della sua chiamata al sacerdozio?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: La madre giocò senz’altro un ruolo fondamentale; la grazia di Dio e la frequenza alle attività parrocchiali fecero il resto. Ci fu poi la corrispondenza alle ispirazioni della grazia, fatto tutto personale questo, di cui Don Carlo ha dato ampie prove per tutto il corso della sua vita”.

Quali sono state le sue virtù principali?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: Più che « delle virtù » parlerei « della virtù »: la carità, che tutte le racchiude e le nobilita. Carità fatta attenzione, tenerezza, compassione, accoglienza, disponibilità…

Come decise di creare la fondazione « Pro Iuventute »?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: Era andato in guerra come cappellano volontario. « Un prete non può non stare dove si muore! », diceva. Poi la tragica esperienza della ritirata di Russia fece maturare in lui il disegno concreto di provvedere all’assistenza degli orfani dei suoi alpini e delle tante altre piccole vittime innocenti di ordigni bellici. « Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i suoi poveri. E’ questa la mia ‘carriera’ », scriveva a un suo cugino. La prima istituzione da lui creata era denominata « Pro Infanzia Mutilata » (1947), divenuta « Fondazione Pro Iuventute » nel 1952.

Qual è lo scopo di questa fondazione?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: L’opera sorse con lo scopo di soccorrere i « mutilatini di guerra ». Poi, nel corso degli anni e soprattutto con la graduale scomparsa dei mutilatini, l’opera di don Carlo ha progressivamente ampliato le attività assistenziali. Oggi nei Centri della Fondazione sono accolti pazienti con ogni forma di disabilità, pazienti che hanno bisogno di interventi e cure riabilitative, anziani non autosufficienti e malati oncologici in fase terminale.

In che modo la sua testimonianza può illuminare i sacerdoti in questo Anno Sacerdotale?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: Don Carlo è il volto moderno della santità. Ha saputo interpretare in modo superlativo la sua vocazione: quella di essere luce, sostegno, conforto e speranza per tutti quelli che incontrava. La sua vita si è consumata per il bene degli altri. E’ stato l »alter Christus » che ieri, oggi, sempre è chiamato ad essere ogni sacerdote. Consiglierei a tutti la lettura meditata dei suoi scritti e delle sue lettere”.

Perché è importante la sua testimonianza per il XXI secolo e per la difesa della dignità umana?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: Penso perché ha messo al centro della sua azione l’uomo, gli uomini, tutti gli uomini, la forza vitale dell’amore, il sogno della fraternità e della solidarietà universale, senza pregiudizi e senza preclusioni.

Papa Giovanni XXIII

Papa Giovanni XXIII dans Beati papagiovxxiii02

http://web.tiscali.it/papagiovanni23/

Publié dans:Beati |on 11 octobre, 2007 |Pas de commentaires »

MEMORIA LITURGICA DEL BEATO GIOVANNI XXIII

posto la memoria liturgica di Papa Giovanni XXIII celebrata l’anno scorso, la metto oggi perché il Papa viene ricordato l’11 ottobre, giorno di apertura del Concilio.Vaticano II, dal sito:

http://www.vatican.va/roman_curia/secretariat_state/card-bertone/2006/documents/rc_seg-st_20061011_john-xxiii_it.html 

CONCELEBRAZIONI EUCARISTICA
NELLA MEMORIA LITURGICA DEL BEATO GIOVANNI XXIII 

OMELIA DEL CARDINALE TARCISIO BERTONE 

Altare di san Girolamo, Basilica Vaticana
Mercoledì, 11 ottobre 2006
  

Il messaggio di Papa Giovanni XXIII è anche oggi di un’attualità straordinaria. La sua vita, i suoi discorsi e i suoi gesti ci portano al cuore della fede e al cuore dell’impegno cristiano. 

Come sappiamo, una delle decisioni più importanti di Papa Giovanni fu quella di convocare il Concilio Ecumenico Vaticano II, che fu inaugurato l’11 ottobre 1962 qui in questa Basilica di San Pietro. Io ero presente (anzi per una circostanza fortuita fui io a organizzare la distribuzione ai Padri Conciliari dei primi documenti del Concilio « sub peculiari secreto »!) e ricordo tutto il dipanarsi della giornata fino alla straordinaria conclusione in Piazza San Pietro, sotto i raggi della luna. 

Potremmo rievocare tanti episodi e insegnamenti di Papa Giovanni, ma io intendo riprendere oggi alcuni pensieri che possono giovare alla nostra vita personale ed al nostro rinnovamento spirituale. 

La Chiesa per lui ha un volto materno: il suo compito è quello di avere « braccia aperte per ricevere tutti ». È una « casa per gli altri » che « vuol essere di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri, come la fontana del villaggio », senza distinzione di razza o religione. 

La sua santità e la sua saggezza umana è espressa tanto bene in quello che è chiamato « il decalogo della quotidianità di Papa Giovanni XXIII »:  

1) Solo per oggi, cercherò di vivere alla giornata (in senso positivo), senza voler risolvere il problema della mia vita tutto in una volta. 

2) Solo per oggi, avrò la massima cura del mio aspetto: vestirò con sobrietà; non alzerò la voce; sarò cortese nei modi; non criticherò nessuno; non pretenderò di migliorare o disciplinare nessuno tranne me stesso. 

3) Solo per oggi, sarò felice nella certezza che sono stato creato per essere felice non solo nell’altro mondo, ma anche in questo. 

4) Solo per oggi, mi adatterò alle circostanze, senza pretendere che le circostanze si adattino tutte ai miei desideri. 

5) Solo per oggi, dedicherò dieci minuti del mio tempo a qualche lettura buona, ricordando che come il cibo è necessario alla vita del corpo, così la buona lettura è necessaria alla vita dell’anima. 

6) Solo per oggi, compirò una buona azione e non lo dirò a nessuno. 

7) Solo per oggi, farò almeno una cosa che non avrei gusto di fare, e se mi sentirò offeso nei miei sentimenti, farò in modo che nessuno se ne accorga. 

8) Solo per oggi, mi farò un programma: forse non lo seguirò a puntino, ma lo farò. E mi guarderò da due malanni: la fretta e l’indecisione. 

9) Solo per oggi, crederò fermamente, nonostante le apparenze, che la buona provvidenza di Dio si occupa di me come di nessun altro esistente al mondo. 

10) Solo per oggi, non avrò timori. In modo particolare non avrò paura di godere di ciò che è bello e di credere alla bontà. Posso ben fare, per dodici ore, ciò che mi sgomenterebbe se pensassi di doverlo fare per tutta la vita. 

In conclusione: un proposito totalitario: « Voglio essere buono, oggi, sempre, con tutti »

Così potremmo realizzare l’auspicio che Papa Giovanni formula per ogni cristiano: « Ogni credente, in questo mondo, deve essere una scintilla di luce, un centro di amore, un fermento vivificatore nella massa: e tanto più lo sarà, quanto più, nella intimità di se stesso, vive in comunione con Dio ». 

Publié dans:Beati |on 11 octobre, 2007 |Pas de commentaires »

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