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CHE SIGNIFICA «ACCOGLIERE IL REGNO DI DIO COME UN BAMBINO»?

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CHE SIGNIFICA «ACCOGLIERE IL REGNO DI DIO COME UN BAMBINO»?

Un giorno, delle persone conducono da Gesù dei bambini affinché li benedica. I discepoli vi si oppongono. Gesù s’indigna e ingiunge loro di lasciare che i bambini vadano a lui. Poi disse loro: «Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso» (Marco 10,13-16).
È utile ricordarsi che, un po’ prima, è a questi stessi discepoli che Gesù aveva detto: «A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio» (Marco 4,11). A causa del regno di Dio, hanno lasciato tutto per seguire Gesù. Cercano la presenza di Dio, vogliono far parte del suo regno. Ed ecco che Gesù li avverte che respingendo i bambini, stanno giustamente per chiudere davanti a loro la sola porta d’ingresso a quel regno di Dio tanto desiderato!
Ma che significa «accogliere il regno di Dio come un bambino»? In generale si comprende così: «accogliere il regno di Dio come lo accoglie un bambino». Questo risponde ad una parola di Gesù che troviamo in Matteo: «Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Matteo 18,3). Un bambino si fida senza riflettere. Non può vivere senza fidarsi di chi lo circonda. La sua fiducia non ha nulla di una virtù, è una realtà vitale. Per incontrare Dio, ciò che abbiamo di meglio è il nostro cuore di bambino che è spontaneamente aperto, osa domandare con semplicità, vuole essere amato.
Però si può anche comprendere la frase così: «accogliere il regno di Dio come si accoglie un bambino». In effetti, il verbo greco ha in generale il senso concreto d’«accogliere qualcuno», come si può costatare qualche versetto prima dove Gesù parla d’«accogliere un bambino» (Marco 9,37). In questo caso, Gesù paragona all’accoglienza di un bambino l’accoglienza della presenza di Dio. C’è una connivenza segreta tra il regno di Dio e un bambino.
Accogliere un bambino vuol dire accogliere una promessa. Un bambino cresce e si sviluppa. È così che il regno di Dio non è mai sulla terra una realtà completa, ma piuttosto una promessa, una dinamica e una crescita incompiuta. Poi i bambini sono imprevedibili. Nel racconto del Vangelo, essi arrivano quando arrivano, e a quanto sembra non è al buon momento secondo i discepoli. Tuttavia Gesù insiste che, poiché sono lì, bisogna accoglierli. È così che dobbiamo accogliere la presenza di Dio quando si manifesta, che sia il buono o cattivo momento. Bisogna stare al gioco. Accogliere il regno di Dio come si accoglie un bambino significa vegliare e pregare per accoglierlo quando viene, sempre all’improvviso, a tempo e fuori tempo.

Perché Gesù ha mostrato un’attenzione particolare ai bambini?
Un giorno, i dodici apostoli discutono per sapere chi è il più grande (Marco 9,33-37). Gesù, che ha capito le loro riflessioni, dice loro una parola disorientante che sconvolge e scuote le loro categorie: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti».
Alla sua parola Gesù unisce il gesto. Egli va a prendere un bambino. È forse un bambino che trova abbandonato all’angolo di una strada di Cafàrnao? Lo prende, lo «pone in mezzo» a quella riunione di futuri responsabili della Chiesa e dice loro: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me». Gesù s’identifica con il bambino che ha appena abbracciato. Afferma che «uno di questi bambini» lo rappresenta il meglio, a tal punto che accoglierne uno di loro è come accogliere lui stesso, il Cristo.
Poco prima, Gesù aveva detto questa parola enigmatica: «Il figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini» (Marco 9,31). «Il figlio dell’uomo» è lui stesso, e allo stesso tempo sono tutti i figli d’uomo, cioè tutti gli esseri umani. La parola di Gesù può essere così compresa: «Gli esseri umani sono consegnati al potere dei loro simili». Durante l’arresto e nei maltrattamenti inflitti a Gesù, si verificherà una volta di più, e in maniera drammatica, che gli uomini fanno ciò che vogliono con i loro simili che sono senza difesa. Che Gesù si riconosca nel bambino che è andato a prendere, non è allora motivo di stupore, poiché, così spesso, anche i bambini sono consegnati senza difesa a coloro che hanno potere su di essi.
Gesù mostra un’attenzione particolare ai bambini perché vuole che i suoi abbiano un’attenzione prioritaria per quanti mancano del necessario. Fino alla fine dei tempi, saranno i suoi rappresentati sulla terra. Quel che si farà a loro, è a lui, il Cristo, che lo si farà (Matteo 25,40). I «più piccoli dei suoi fratelli», quelli che contano poco e che si trattano come si vuole perché non hanno potere né prestigio, sono la via, il passaggio obbligato, per vivere in comunione con lui.
Se Gesù ha posto un bambino in mezzo ai suoi discepoli riuniti, è anche affinché essi accettino d’essere piccoli. Lo spiega loro nell’insegnamento che segue: «Chiunque vi darà un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa» (Marco 9,41). Andando sulle strade per annunciare il regno di Dio, anche gli apostoli saranno «consegnati nelle mani degli uomini». Non sapranno mai prima come saranno accolti. Tuttavia anche per coloro che li accoglieranno con un semplice bicchiere d’acqua fresca, senza prenderli molto seriamente, saranno portatori di una presenza di Dio.

Lettera da Taizé: 2006/2

Publié dans:BAMBINI, TAIZÉ |on 3 janvier, 2017 |Pas de commentaires »

LA SANTITÀ DEI BAMBINI

http://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:-gBsgVLXVa0J:www.annunziatine.org/libreria.bg/Tempio%2520dello%2520Spirito%2520-%252022%2520ottobre%25202009%2520-%2520don%2520Ezio%2520Bolis.doc+&cd=10&hl=it&ct=clnk&gl=it

LA SANTITÀ DEI BAMBINI

Parrocchia San Tommaso – Bergamo, 22 ottobre 2009

don Ezio Bolis  

Introduzione 1) Anche i bambini possono essere santi? Sembra una domanda con una risposta scontata, ma quello tra infanzia e santità è un binomio che ha suscitato molti dibattiti nella Chiesa del passato. Le cause di molti servi di Dio sono rimaste ferme per molto tempo proprio a causa della giovane età. Quello dei bambini santi è un argomento trascurato: dopo Domenico Savio, canonizzato a 15 anni, c’è stato un lungo silenzio a riguardo, prima della recente beatificazione di Francesco e Giacinta, i pastorelli di Fatima che al momento della morte avevano quasi 11 e 10 anni. 2) Una figura interessante dal punto di vista spirituale, italiana, è quella della serva di Dio Antonietta Meo (detta Nennolina), morta a Roma il 3 luglio del 1937 a soli 6 anni e mezzo. Le letterine che la bimba indirizzava alle singole persone della Santissima Trinità, piene di strafalcioni, testimoniano la sua profonda esperienza di Dio, sono in qualche modo dei «testi mistici». Scritte da lei stessa o dettate alla mamma e alla sorella, le pagine venivano messe sotto la statua del Sacro Cuore, dove “Gesù passava a leggerle”: così diceva la madre alla piccola Antonietta». La sorella maggiore, Margherita, ricorda come la sorella accettasse la malattia: dall’amputazione della gamba a quella di una costola, raggiunta dalle metastasi. Dormendo, si coricava sul fianco della ferita per “stare con Gesù”, affermando che con la sofferenza avrebbe redento il mondo». Questa capacità di accettare il dolore e offrirlo per la fine della guerra in Africa, come il privarsi delle caramelle per i bambini poveri, fanno di Antonietta un esempio alla portata di tutti. Ella ha saputo leggere ogni momento della sua brevissima esistenza nella forma di un dialogo costante con il Signore. In una delle sue numerose Letterine scrive: «Caro Gesù Eucaristia, ti voglio molto bene! Ma molto!… Gesù, io vorrei queste tre grazie: la prima, fammi santa e questa è la cosa più importante; la seconda, dammi delle anime; la terza, fammi camminare bene, veramente questa non è molto importante…». Figure come questa testimoniano che la santità è possibile a ogni età. Forse altri piccoli testimoni sono nascosti oggi nelle corsie d’ospedale o nelle case. Anche nei più piccoli la santità viene riconosciuta nella loro capacità di vivere in modo straordinario ogni attimo della propria vita ordinaria, soprattutto l’esperienza del dolore. 3) Ma che cosa possono capire della fede i bambini? Possono aderirvi consapevolmente e pienamente? Le testimonianze di bambini come Antonietta, i fratellini di Fatima, Francisco e Giacinta, i ragazzi martiri come Tarcisio, Agnese, Maria Goretti e tanti altri sono molto più eloquenti di molte teorie. 4) Del resto, la Chiesa fin dal V secolo celebra la festa dei santi martiri Innocenti, i bambini fatti uccidere da Erode, come racconta il Vangelo di Matteo. Il loro martirio è considerato dalla liturgia anzitutto come una grazia, un dono gratuito del Signore, prima che un omaggio dell’uomo a Dio. 5) Circa un secolo fa San Pio X abbassò l’età per ricevere la Prima Comunione e concesse, in alcuni casi, il Sacramento anche al di sotto dei sette anni. Egli non a caso affermò profeticamente: «Avremo dei santi bambini!». 6) Agli adulti i santi bambini insegnano a ritornare piccoli: non si tratta di regressione psicologica, ma di recuperare quella infanzia spirituale piena di speranza e di gioia nel dare la propria vita.

1. Qualche spunto dalla Sacra Scrittura La Bibbia ci consegna la storia di alcuni ragazzi che hanno avuto un ruolo importante nella storia della salvezza: Mosè, Samuele, Davide e Daniele. Malgrado i racconti delle loro vicende siano diverse, hanno un elemento in comune: la struttura della «inversione». Tutte queste carriere all’inizio sono segnate dalla debolezza e soltanto per un intervento diretto di Dio, esse cambiano di segno. Comunque tale iniziativa divina non implica affatto la passività umana. 1) Mosè. La storia di Mosè salvato dalle acque (Es 2,1-10) è l’unico elemento che la Bibbia ci dà sulla sua giovinezza. Mosè è un bambino «bello», in tutti i sensi. Quando non può più restare nascosto, la madre lo pone in una cesta, analoga all’arca di Noè, spalmata di bitume, e lo affida alle acque del Nilo. Grazie alla mediazione della sorella, che si presenta alla figlia del faraone per procurare una nutrice a piccolo, egli non soltanto viene salvato dalla morte, ma è elevato a una situazione di privilegio. Trasgredendo l’ordine del padre, la figlia del faraone fa allattare Mosè, lo adotta e in seguito lo introduce a palazzo, imponendogli il nome. Dal libro degli Atti apprendiamo che Mosè fu istruito in tutti gli aspetti della sapienza egiziana (At 7,20-22). Come si vede, la realizzazione dei disegni di Dio ha inizio in modo fragile, si basa su un bimbo debole, minacciato di morte da un monarca onnipotente, sballottato sull’acqua di un fiume immenso, adagiato in una cesta di paglia. E però il disegno salvifico si realizza, nonostante queste premesse lo facciano sembrare impossibile. Il futuro «salvatore» di Israele, colui che guiderà il popolo verso la libertà, è anzitutto un «salvato». Questo racconto offrirà spunti importanti all’evangelista Matteo, per narrare la strage dei bambini Innocenti. Erode prende il posto del faraone; come il re d’Egitto è stato beffato dalle donne, Erode lo è da parte dei Magi. Come Mosè, anche Gesù sfugge alla morte. La storia di Mosè indica che la debolezza di un bimbo non costituisce un ostacolo all’azione di Dio, che anzi se ne serve per compiere il suo piano salvifico. 2) Samuele. Il personaggio di Samuele è molto complesso. Il libro che posta il suo nome ce lo presenta piccolo servo del santuario e, più tardi, sacerdote che sacrifica in diversi luoghi. Egli però è anche designato come giudice e custode del diritto divino, tanto da costituire e deporre i re in nome del Signore. Infine è anche un veggente, consultato per i suoi oracoli sicuri, un profeta conosciuto da Dan a Bersabea. Questa pluralità segna anche gli inizi della sua vita e la sua infanzia. Nel quadro dei primi tre capitoli di 1Sam, si narra la nascita di Samuele e la prima comunicazione che egli riceve da Dio, nel tempio, di notte, mentre assiste il sacerdote Eli. Il racconto della sua nascita contiene tre elementi: la sterilità di Anna, sua madre; il soccorso da parte di Dio, in seguito alla preghiera e al voto di Anna; la nascita e la gratitudine per la grazia della nascita di Samuele. Emerge l’azione di Dio che nel compimento dei suoi disegni supera tutti gli ostacoli naturali. Il racconto della chiamata di Samuele è modellato sul genere delle vocazioni profetiche. Samuele per tre volte sente la voce di Dio e non la riconosce: deve imparare a distinguerla da quella degli uomini. Egli si pone in atteggiamento di ascolto, cioè di obbedienza. Il racconto rimane sullo sfondo di Luca, quando narra la sterilità di Elisabetta; l’annuncio a Zaccaria della nascita di Giovanni Battista avviene anche qui nel tempio. Il tempio è la cornice dentro la quale anche Gesù è presentato per due volte, per il rito dell’offerta e per il pellegrinaggio. Come Samuele, anche Gesù «cresceva gradito a Dio e agli uomini». La vicenda di Samuele dimostra che non è mai troppo presto per ascoltare e imparare a riconoscere la voce del Signore e per rispondere alla sua chiamata. 3) Davide. I racconti che narrano gli inizi di Davide trascurano la nascita e cominciano dall’età della adolescenza. Fin dall’inizio è Dio che conduce il gioco e che ordina a Samuele di ungere come re Davide, preferendolo a tutti i suoi fratelli più grandi e più forti. Egli non ha la loro statura né la loro abilità, ma il Signore «guarda il cuore». Egli viene unto, con un rito che assicura la protezione del Signore. Tra gli altri episodi, certamente importante è la vittoria di Davide contro Golia, riportata senza l’aiuto della pesante corazza, ma con la sola astuzia della fionda, un gioco da ragazzi, cioè con l’aiuto di Dio. Certo, se è il Signore a condurre il corso della storia, si serve però di un uomo che non è strumento passivo, ma vero credente. Dio si serve della debolezza umana, che però non è pura passività. 4) Daniele. La storia richiama le vicende di Davide, ma il contesto è assai più solenne: qui siamo alla corte del potente Nabucodonosor, che ha sconfitto il Regno di Giuda, ha distrutto il tempio e ha deportato i suoi abitanti a Babilonia. Egli si sceglie tra i prigionieri alcuni ragazzi di nobile stirpe per servirsene a corte. Daniele è tra questi. Essi devono superare varie prove, tra le quali quella alimentare. Per non contravvenire alle leggi patrie, Daniele e i suoi compagni mangiano soltanto legumi, senza per questo risentire danni nel fisico, anzi. Altre prove mettono in evidenza l’intelligenza e la sapienza di Daniele. La conclusione è questa: lungi dal nuocere chi la pratica, la fedeltà alla Legge assicura l’aiuto divino che innalza ai più alti incarichi. In tutti questi personaggi, l’infanzia non è un periodo a parte, ma inaugura già la futura missione. Ciò che avviene per Mosè, Samuele, Davide e Daniele, è vero anche per Gesù. È un errore separare e isolare la sua infanzia dal seguito della sua esistenza, quasi avesse un senso autonomo. La Scrittura vede nel bambino anzitutto il futuro adulto. Gesù non fa eccezione: benché passi, come tutti, attraverso le varie fasi dello sviluppo fisico e intellettuale, pratica le virtù dell’infanzia restando sottomesso ai suoi genitori. Ma lo si comprende davvero per l’atto di indipendenza a loro riguardo, quando sceglie già di abitare fuori dalla famiglia, sotto l’autorità del Padre che guiderà la sua intera esistenza e la sua opera.

L’infanzia di Gesù 1) «Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui. […] Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,39-40.51-52). Queste poche frasi dell’evangelista Luca sono le uniche, preziose indicazioni che abbiamo per intuire qualcosa della vita di Gesù, bambino e ragazzo, nei lunghi anni di Nazaret. Esse riflettono la storia di Samuele («E il bambino cresceva davanti al Signore… Il fanciullo cresceva ed era buono presso il Signore e presso gli uomini», 1Sam 2,21.26). 2) La sapienza di Gesù viene sottolineata per due volte e, insieme alla grazia, contraddistingue la sua crescita. Tale sapienza consiste nella visione della realtà secondo la prospettiva di Dio. Il fatto che Gesù cresca e si fortifichi in sapienza, facendo l’esperienza della grazia, significa che, mediante una crescente percezione dell’amore divino, si va compiendo in lui quel processo di configurazione della persona che lo rende sempre più sapiente. Egli è «riempito» di sapienza tramite l’esperienza della grazia: l’allusione è all’azione dello Spirito Santo. È lui che plasma la personalità vivente del Figlio di Dio divenuto uomo. 3) Dobbiamo pensare a Gesù come un bambino molto sensibile e recettivo nei confronti di un ambiente che, pur con i limiti di ogni contesto umano, gli offre un tesoro di spiritualità e di fede. A iniziare da Maria e Giuseppe, persone e istituzioni svolgono nei suoi confronti una vera azione educativa, come avviene per qualsiasi bambino nei primi anni di vita. Tutto questo però custodisce il segreto di una umanità singolare nella quale i processi umani dello sviluppo non sono annullati ma vanno considerati a partire dal fatto che questo bambino è fin dall’inizio il «Santo di Dio». 4) Riferendoci al brano di Gesù che sale al tempio e vi rimane per tre giorni insegnando, rileviamo tre cose che intervengono a plasmare la fede di ogni persona, fin dai primi anni della sua vita: la comunità con le sue tradizioni, il santuario con la preghiera e la liturgia, le Scritture che consentono l’incontro con la Parola di Dio.

2. Com’è la vita spirituale dei bambini? Dio non è per nulla un estraneo nell’esperienza normale dei bambini, che anzi possiedono uno spiccato senso religioso e un vivo interesse per la conoscenza di lui. Essi pongono spesso domande del tipo: chi è? dov’è? cosa fa? Certo, la conoscenza di Dio in questa età avviene non tanto per via intellettiva, quanto per via affettiva. Gli studi di pedagogia e psicologia infantile affermano che la religiosità di un bambino possiede alcuni tratti caratteristici, con i quali l’educazione religiosa deve fare i conti, senza esasperarli né ignorarli. Ecco una presentazione schematica, abbastanza condivisa da chi ha studiato questi temi. 1) L’antropomorfismo: si vedono in Dio gli attributi umani e si concepisce il suo agire secondo le modalità delle attività umane. La rappresentazione di Dio si rapporta in un certo senso all’autorità e al prestigio degli adulti; il bambino immagina Dio secondo un modello umano strutturato sulla base dell’esperienza dei rapporti interpersonali che vive. Questo, per un verso dà la possibilità di fare leva su figure positive e, attraverso le loro vicende, aiuta il bambino a comprendere la figura di Dio; dall’altra c’è il rischio di rimandare a un’idea scadente e banale di Dio. La catechesi deve usare un linguaggio semplice ed essenziale per evitare che il bambino traduca in termini di realismo quello che nella fede ha un valore simbolico. Va evitato sia un insegnamento astratto. 2) L’animismo. Si manifesta sia in forma protettiva che punitiva, attribuendo a fatti, persone, eventi delle funzioni di protezione o di castigo che essi non hanno. Per esempio, una malattia, un incidente, una calamità naturale sono considerati una punizione di Dio. Al contrario, una vincita o un successo sono visti come una sua benedizione. 3) Il magismo. Si guarda a Dio come a un essere dotato di poteri straordinari, in grado di risolvere ogni problema, soprattutto i nostri. Una specie di grande mago o di genio. Certo, è importante pensare a Dio come a colui che ci è accanto per aiutarci, ma è altrettanto necessario non ridurlo alla funzione di rispondere ai nostri bisogni.

3. Quale ricchezza porta con sé l’infanzia? 1) L’età dell’infanzia è un grande dono anche per la comunità cristiana che, sull’esempio di Gesù, non solo accoglie i bambini, ma è chiamata ad alimentare lo stile della piccolezza evangelica: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come un bambino non vi entrerà» (Lc 18,15-17). Lo stesso Figlio di Dio, venendo nel mondo, si è fatto bambino ed è cresciuto in sapienza, età e grazia, davanti a Dio e agli uomini. 2) L’infanzia spirituale può diventare una caricatura quando è confusa con l’infantilismo, l’immaturità del cuore, l’incapacità di padroneggiare gli istinti: essere bambini non significa fare i bambini! San Paolo lo spiega con parole  chiare: «Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi, siate come i bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto a giudizi» (1Cor 14,20). Ci vogliono molti anni per diventare bambini: l’infanzia secondo lo Spirito non è altro che la piena maturità cristiana. 3) Il Battesimo ci rende figli di Dio e l’esistenza cristiana, dall’inizio alla fine, è una vita battesimale, una realizzazione progressiva di questa condizione filiale. Ogni cristiano è chiamato a stare davanti a Dio come un bambino. L’infanzia è l’età in cui ci si affida fiduciosamente. Come non ricordare la proposta forte e convincente di santa Teresa di Gesù Bambino: «Gesù si compiace di mostrarmi l’unica strada che conduce alla fornace divina: questo cammino è l’abbandono del bambino piccolo che si addormenta senza timore tra le braccia di suo padre… Gesù non domanda grandi gesti, ma solo l’abbandono e la riconoscenza». Come bambini. Con la stessa povertà, umiltà e fiducia. Così l’uomo deve guardare a Dio, che è Padre tenero ed esigente. 4) La via della piccolezza si configura come un itinerario di abbandono e di affidamento, nutrito dalla fede verso la Provvidenza; comporta una continua accoglienza della vita come dono; accetta di imparare senza sosta, di aprirsi agli orizzonti della novità e del cambiamento con la forza dell’incanto e dell’entusiasmo. 5) Occorre molto tempo per diventare bambini. L’infanzia spirituale non è altro che la piena maturità cristiana. Lungi dall’essere un ritardo o una regressione, essa è il culmine della vita battesimale, una sapienza limpida e forte che corona la crescita nella fede. 

4. Come favorire la crescita spirituale dei bambini?

Educare alla preghiera

1) La facilità con cui il bambino, ancor prima dei quattro anni, si pone in atteggiamento di preghiera, non è solo dovuta all’apprendimento o all’imitazione, ma è indice di una predisposizione alla fiducia, quasi di un bisogno istintivo di affidarsi a un altro, che è proprio l’anima della preghiera cristiana. 2) Se è vero che la preghiera è esperienza possibile a partire dalla più tenera età, è altrettanto vero che essa va accompagnata. Non si tratta soltanto di insegnare a «dire le preghiere», ma di introdurre il bambino nella relazione con il Signore, offrirgli strumenti per compiere questo atto del tutto personale e intimo, che implica il coinvolgimento della vita. 3) Prima ancora delle formule, occorre creare un «contesto» adatto alla preghiera, un ambiente dove la preghiera non è percepita come qualcosa di raro, ma di familiare. 4) La preghiera del bambino si nutre di gesti semplici, di parole tratte dalla vita quotidiana, di esempi limpidi e costanti. 5) Per scongiurare un accostamento soltanto «mentale» alla preghiera, è bene che essa sia trovi anche espressioni corporee, sia fatta di gesti. 6) La preghiera dei bambini va poi ancorata ai percorsi di «iniziazione cristiana» attraverso una graduale introduzione alla preghiera liturgica, alla partecipazione ai sacramenti e all’Eucaristia in modo particolare. 7) Molto importante è anche l’accostamento alle figure di alcuni santi, pregati come intercessori ma assunti anche come modelli di vita cristiana, amici e compagni di viaggio che hanno cose da dire.

Publié dans:BAMBINI, SANTITÀ |on 28 décembre, 2015 |Pas de commentaires »

PAPA BENEDETTO, MESSAGGIO – I BAMBINI E I MEZZI DI COMUNICAZIONE: UNA SFIDA PER L’EDUCAZIONE (2007)

http://www.totustuus.it/modules.php?name=News&file=article&sid=1748

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER LA 41a GIORNATA MONDIALE DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI , 24.01.2007

I BAMBINI E I MEZZI DI COMUNICAZIONE: UNA SFIDA PER L’EDUCAZIONE

Cari Fratelli e Sorelle,

1. Il tema della 41ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, « I bambini e i mezzi di comunicazione: una sfida per l’educazione », ci invita a riflettere su due aspetti che sono di particolare rilevanza. Uno è la formazione dei bambini. L’altro, forse meno ovvio ma non meno importante, è la formazione dei media.

Le complesse sfide che l’educazione contemporanea deve affrontare sono spesso collegate alla diffusa influenza dei media nel nostro mondo. Come aspetto del fenomeno della globalizzazione e facilitati dal rapido sviluppo della tecnologia, i media delineano fortemente l’ambiente culturale (cf. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Il rapido sviluppo, 3). In verità, vi è chi afferma che l’influenza formativa dei media è in competizione con quella della scuola, della Chiesa e, forse, addirittura con quella della famiglia. « Per molte persone, la realtà corrisponde a ciò che i media definiscono come tale » (Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, Aetatis novae, 4).

2. Il rapporto tra bambini, media ed educazione può essere considerato da due prospettive: la formazione dei bambini da parte dei media e la formazione dei bambini per rispondere in modo appropriato ai media. Emerge una specie di reciprocità che punta alle responsabilità dei media come industria e al bisogno di una partecipazione attiva e critica da parte dei lettori, degli spettatori e degli ascoltatori. Dentro questo contesto, l’adeguata formazione ad un uso corretto dei media è essenziale per lo sviluppo culturale, morale e spirituale dei bambini.

In che modo questo bene comune deve essere protetto e promosso? Educare i bambini ad essere selettivi nell’uso dei media è responsabilità dei genitori, della Chiesa e della scuola. Il ruolo dei genitori è di primaria importanza. Essi hanno il diritto e il dovere di garantire un uso prudente dei media, formando la coscienza dei loro bambini affinché siano in grado di esprimere giudizi validi e obiettivi che li guideranno nello scegliere o rifiutare i programmi proposti (cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio, 76). Nel fare questo, i genitori dovrebbero essere incoraggiati e sostenuti dalla scuola e dalla parrocchia, nella certezza che questo difficile, sebbene gratificante, aspetto dell’essere genitori è sostenuto dall’intera comunità.

L’educazione ai media dovrebbe essere positiva. Ponendo i bambini di fronte a quello che è esteticamente e moralmente eccellente, essi vengono aiutati a sviluppare la propria opinione, la prudenza e la capacità di discernimento. È qui importante riconoscere il valore fondamentale dell’esempio dei genitori e i vantaggi nell’introdurre i giovani ai classici della letteratura infantile, alle belle arti e alla musica nobile. Mentre la letteratura popolare avrà sempre il proprio posto nella cultura, la tentazione di far sensazione non dovrebbe essere passivamente accettata nei luoghi di insegnamento. La bellezza, quasi specchio del divino, ispira e vivifica i cuori e le menti giovanili, mentre la bruttezza e la volgarità hanno un impatto deprimente sugli atteggiamenti ed i comportamenti.

Come l’educazione in generale, quella ai media richiede formazione nell’esercizio della libertà. Si tratta di una responsabilità impegnativa. Troppo spesso la libertà è presentata come un’instancabile ricerca del piacere o di nuove esperienze. Questa è una condanna, non una liberazione! La vera libertà non condannerebbe mai un individuo – soprattutto un bambino – all’insaziabile ricerca della novità. Alla luce della verità, l’autentica libertà viene sperimentata come una risposta definitiva al « sì » di Dio all’umanità, chiamandoci a scegliere, non indiscriminatamente ma deliberatamente, tutto quello che è buono, vero e bello. I genitori sono i guardiani di questa libertà e, dando gradualmente una maggiore libertà ai loro bambini, li introducono alla profonda gioia della vita (cf. Discorso al V Incontro Mondiale delle Famiglie, Valencia, 8 Luglio 2006).

3. Questo desiderio profondamente sentito di genitori ed insegnanti di educare i bambini nella via della bellezza, della verità e della bontà può essere sostenuto dall’industria dei media solo nella misura in cui promuove la dignità fondamentale dell’essere umano, il vero valore del matrimonio e della vita familiare, le conquiste positive ed i traguardi dell’umanità. Da qui, la necessità che i media siano impegnati nell’effettiva formazione e nel rispetto dell’etica viene visto con particolare interesse ed urgenza non solo dai genitori, ma anche da coloro che hanno un senso di responsabilità civica.

Mentre si afferma che molti operatori dei media vogliono fare quello che è giusto (cf. Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, Etica nelle comunicazioni sociali, 4), occorre riconoscere che quanti lavorano in questo settore si confrontano con « pressioni psicologiche e dilemmi etici speciali » (Aetatis novae, 19) che a volte vedono la competitività commerciale costringere i comunicatori ad abbassare gli standard. Ogni tendenza a produrre programmi – compresi film d’animazione e video games – che in nome del divertimento esaltano la violenza, riflettono comportamenti anti-sociali o volgarizzano la sessualità umana, è perversione, ancor di più quando questi programmi sono rivolti a bambini e adolescenti. Come spiegare questo « divertimento » agli innumerevoli giovani innocenti che sono nella realtà vittime della violenza, dello sfruttamento e dell’abuso? A tale proposito, tutti dovrebbero riflettere sul contrasto tra Cristo che « prendendoli fra le braccia (i bambini) e imponendo loro le mani li benediceva » (Mc 10,16) e quello che chi scandalizza uno di questi piccoli per lui « è meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino » (Lc 17,2). Faccio nuovamente appello ai responsabili dell’industria dei media, affinché formino ed incoraggino i produttori a salvaguardare il bene comune, a sostenere la verità, a proteggere la dignità umana individuale e a promuovere il rispetto per le necessità della famiglia.

4. La Chiesa stessa, alla luce del messaggio della salvezza che le è stato affidato, è anche maestra di umanità e vede con favore l’opportunità di offrire assistenza ai genitori, agli educatori, ai comunicatori ed ai giovani. Le parrocchie ed i programmi delle scuole oggi dovrebbero essere all’avanguardia per quanto riguarda l’educazione ai media. Soprattutto, la Chiesa vuole condividere una visione in cui la dignità umana sia il centro di ogni valida comunicazione. « Io vedo con gli occhi di Cristo e posso dare all’altro ben più che le cose esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo di amore di cui egli ha bisogno » (Deus caritas est, 18).

Dal Vaticano, 24 gennaio 2007, Festa di San Francesco di Sales.

BENEDICTUS PP. XVI

Publié dans:BAMBINI, PAPA BENEDETTO - MESSAGGI |on 29 septembre, 2015 |Pas de commentaires »

I BAMBINI E IL PAPA CHE SPIEGA LA FEDE (PAPA BENEDETTO, O.R. 2008)

http://w2.vatican.va/content/osservatore-romano/it/comments/2008/documents/297q01b1.html

I BAMBINI E IL PAPA CHE SPIEGA LA FEDE (PAPA BENEDETTO, O.R. 2008)

La capacità di ascolto di Benedetto XVI appare specialmente nei suoi incontri con i ragazzi e i bambini. Sa ascoltare anche gli adulti, dialogare con i dotti. Con i vescovi, al termine delle udienze generali, parla stando in piedi. Non si atteggia a maestro e professore, piuttosto racconta magnificamente le scoperte maturate nella sua ricerca culturale; sa comunicare la dottrina della fede radicandola nella vita quotidiana.
L’anno scorso il fotografo del nostro giornale ha illustrato bene l’attitudine di Benedetto XVI all’ascolto e al rispetto cogliendolo in attesa ai piedi della scaletta che immette alla finestra del suo appartamento prospiciente piazza San Pietro. La celebre finestra dove si affaccia il Papa e che egli cede ai ragazzi dell’Azione Cattolica una volta l’anno. L’immagine coglie con straordinaria abilità l’istante in cui nella penombra Papa Ratzinger attende che la ragazza finisca di parlare dalla finestra. Attende il suo turno ed è felice nella sua attesa. Benedetto XVI viene definito il Papa teologo, ma a motivo della sua chiarezza e della capacità di enunciare in forme semplici concetti difficili è un grande pedagogo della fede. Perciò è capito dai ragazzini. I bambini non hanno la sensazione che sia un cattivo maestro. E non lo percepiscono neppure come un noioso professore che mortifica la loro voglia di gioia e letizia. I bambini stanano gli adulti antipatici, prepotenti, vanitosi, tediosi, inutilmente esigenti. Provano disagio, non ci stanno volentieri. Si pensi alla scuola per convincersene.
Papa Benedetto nonostante la sua natura schiva fino alla timidezza, con i giovani riesce nel capolavoro educativo che don Bosco chiedeva agli educatori: non solo voler bene ai giovani ma far sì che i giovani si accorgano di essere amati. È piuttosto improbabile che una persona squisita nel tratto e di aperta intelligenza sia poi capace solo di dire dei no o che pensi a una Chiesa arroccata come la migliore Chiesa possibile.
E, in realtà, Benedetto XVI è davvero diverso da come solitamente lo si dipinge in maniera sbrigativa. Lo si può anche presentare come il capro espiatorio di ogni tipo di rivendicazioni nei confronti della Chiesa, ma non si può sostenere a cuor leggero che egli, rispetto al passato recente, abbia alzato barriere con le culture, le religioni, le attese di giustizia e solidarietà. Rispetto ai suoi immediati predecessori vincolati alla realizzazione degli indirizzi conciliari, Benedetto XVI si ritiene non meno vincolato, ma chiede ancora più responsabilità a ognuno dei suoi interlocutori di ogni fede e cultura.
L’andare in profondità comporta infatti un’assunzione di responsabilità maggiore per portare a soluzione i problemi. Benedetto XVI, per cultura e temperamento, va oltre il manierismo di facciata e punta a consolidare il percorso conciliare. Le riforme per restare al servizio della fede della Chiesa devono diventare una forma mentale del popolo di Dio.
Sono rimasto sempre colpito da un esempio che tocca uno dei punti più caldi e dibattuti nei decenni passati nell’ambito della Chiesa cattolica. Ratzinger, che una disinvolta pubblicistica annovera tra gli avversari della teologia della liberazione, è lo stesso che da Papa, ad Aparecida nel cuore dell’America Latina, certifica che « l’opzione preferenziale per i poveri è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci con la sua povertà ». Senza enfasi, il Papa pone così fine, in termini aperti e liberanti, a un lungo e doloroso contenzioso.
Analoghi esempi si possono registrare su grandi tematiche dell’essere cristiani oggi, quali sono considerati il dialogo con gli ebrei e con le altre religioni. Un fronte certamente delicato nel quale Benedetto XVI ha inaugurato la stagione del consolidamento, necessaria dopo il riconoscimento di passate responsabilità di membri della Chiesa.
Nella storia, al momento emozionante delle svolte, segue un tempo più difficile, quello di dare contenuti a queste svolte per rendere il cambiamento un patrimonio comune e condiviso. Fondando l’incontro con l’ebraismo sulla tradizione biblica, Papa Benedetto ha irrobustito in via definitiva la nuova stagione di colloquio con il popolo ebraico sancita dal concilio. La presenza di un rabbino che parla al sinodo dei vescovi, massima espressione di collegialità nella vita ordinaria della Chiesa, può forse non suscitare emozioni, ma segna una tappa storica. Come pure il dialogo approfondito con l’islam. Il recente colloquio in Vaticano dimostra che c’è sostanza oltre l’immagine affascinante della visita alla moschea di Istanbul. Il dialogo tra le religioni posto dentro il dialogo interculturale viene rafforzato e non indebolito.
Nell’ambito civile Benedetto ha messo al centro dei rapporti internazionali il rispetto reale dei diritti umani come opera di giustizia. Ha proposto il disarmo nucleare, l’impiego delle spese degli armamenti per vincere la fame nel mondo, il diritto di cittadinanza e accoglienza al di là dell’origine e della provenienza geografica. Ha chiesto alla Chiesa e ai suoi ministri di rispettare le competenze e le responsabilità della politica, che in ogni Paese deve garantire il bene comune e la giustizia.
Anche sui temi della bioetica, quelli più immediatamente sensibili nella pubblica opinione occidentale, Benedetto XVI ha trattato questioni e aperto domande impegnative per far maturare una comune coscienza condivisa di fedeltà a Dio e all’uomo del nostro tempo. La modernità del Papa sta nel suo saper porre interrogativi di senso alla scienza e alla coscienza. Possono apparire scomodi, a volte, ma non sono mai banali. E mostrano che i suoi occhi scrutano il futuro.
c. d. c.

(L’Osservatore Romano 21 dicembre 2008)

Publié dans:BAMBINI, Papa Benedetto XVI |on 23 septembre, 2015 |Pas de commentaires »

CHE SIGNIFICA «ACCOGLIERE IL REGNO DI DIO COME UN BAMBINO»?

http://www.taize.fr/it_article3268.html

(dedicato al bambino morto sulla spiaggia in Turchia, io non mi sento di mettere la foto)

CHE SIGNIFICA «ACCOGLIERE IL REGNO DI DIO COME UN BAMBINO»?

Un giorno, delle persone conducono da Gesù dei bambini affinché li benedica. I discepoli vi si oppongono. Gesù s’indigna e ingiunge loro di lasciare che i bambini vadano a lui. Poi disse loro: «Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso» (Marco 10,13-16).
È utile ricordarsi che, un po’ prima, è a questi stessi discepoli che Gesù aveva detto: «A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio» (Marco 4,11). A causa del regno di Dio, hanno lasciato tutto per seguire Gesù. Cercano la presenza di Dio, vogliono far parte del suo regno. Ed ecco che Gesù li avverte che respingendo i bambini, stanno giustamente per chiudere davanti a loro la sola porta d’ingresso a quel regno di Dio tanto desiderato!
Ma che significa «accogliere il regno di Dio come un bambino»? In generale si comprende così: «accogliere il regno di Dio come lo accoglie un bambino». Questo risponde ad una parola di Gesù che troviamo in Matteo: «Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Matteo 18,3). Un bambino si fida senza riflettere. Non può vivere senza fidarsi di chi lo circonda. La sua fiducia non ha nulla di una virtù, è una realtà vitale. Per incontrare Dio, ciò che abbiamo di meglio è il nostro cuore di bambino che è spontaneamente aperto, osa domandare con semplicità, vuole essere amato.
Però si può anche comprendere la frase così: «accogliere il regno di Dio come si accoglie un bambino». In effetti, il verbo greco ha in generale il senso concreto d’«accogliere qualcuno», come si può costatare qualche versetto prima dove Gesù parla d’«accogliere un bambino» (Marco 9,37). In questo caso, Gesù paragona all’accoglienza di un bambino l’accoglienza della presenza di Dio. C’è una connivenza segreta tra il regno di Dio e un bambino.
Accogliere un bambino vuol dire accogliere una promessa. Un bambino cresce e si sviluppa. È così che il regno di Dio non è mai sulla terra una realtà completa, ma piuttosto una promessa, una dinamica e una crescita incompiuta. Poi i bambini sono imprevedibili. Nel racconto del Vangelo, essi arrivano quando arrivano, e a quanto sembra non è al buon momento secondo i discepoli. Tuttavia Gesù insiste che, poiché sono lì, bisogna accoglierli. È così che dobbiamo accogliere la presenza di Dio quando si manifesta, che sia il buono o cattivo momento. Bisogna stare al gioco. Accogliere il regno di Dio come si accoglie un bambino significa vegliare e pregare per accoglierlo quando viene, sempre all’improvviso, a tempo e fuori tempo.
Perché Gesù ha mostrato un’attenzione particolare ai bambini?
Un giorno, i dodici apostoli discutono per sapere chi è il più grande (Marco 9,33-37). Gesù, che ha capito le loro riflessioni, dice loro una parola disorientante che sconvolge e scuote le loro categorie: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti».
Alla sua parola Gesù unisce il gesto. Egli va a prendere un bambino. È forse un bambino che trova abbandonato all’angolo di una strada di Cafàrnao? Lo prende, lo «pone in mezzo» a quella riunione di futuri responsabili della Chiesa e dice loro: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me». Gesù s’identifica con il bambino che ha appena abbracciato. Afferma che «uno di questi bambini» lo rappresenta il meglio, a tal punto che accoglierne uno di loro è come accogliere lui stesso, il Cristo.
Poco prima, Gesù aveva detto questa parola enigmatica: «Il figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini» (Marco 9,31). «Il figlio dell’uomo» è lui stesso, e allo stesso tempo sono tutti i figli d’uomo, cioè tutti gli esseri umani. La parola di Gesù può essere così compresa: «Gli esseri umani sono consegnati al potere dei loro simili». Durante l’arresto e nei maltrattamenti inflitti a Gesù, si verificherà una volta di più, e in maniera drammatica, che gli uomini fanno ciò che vogliono con i loro simili che sono senza difesa. Che Gesù si riconosca nel bambino che è andato a prendere, non è allora motivo di stupore, poiché, così spesso, anche i bambini sono consegnati senza difesa a coloro che hanno potere su di essi.
Gesù mostra un’attenzione particolare ai bambini perché vuole che i suoi abbiano un’attenzione prioritaria per quanti mancano del necessario. Fino alla fine dei tempi, saranno i suoi rappresentati sulla terra. Quel che si farà a loro, è a lui, il Cristo, che lo si farà (Matteo 25,40). I «più piccoli dei suoi fratelli», quelli che contano poco e che si trattano come si vuole perché non hanno potere né prestigio, sono la via, il passaggio obbligato, per vivere in comunione con lui.
Se Gesù ha posto un bambino in mezzo ai suoi discepoli riuniti, è anche affinché essi accettino d’essere piccoli. Lo spiega loro nell’insegnamento che segue: «Chiunque vi darà un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa» (Marco 9,41). Andando sulle strade per annunciare il regno di Dio, anche gli apostoli saranno «consegnati nelle mani degli uomini». Non sapranno mai prima come saranno accolti. Tuttavia anche per coloro che li accoglieranno con un semplice bicchiere d’acqua fresca, senza prenderli molto seriamente, saranno portatori di una presenza di Dio.

Lettera da Taizé: 2006/2

UN MEETING DOVE I BAMBINI CONOSCONO E DIALOGANO CON GESÙ

http://www.zenit.org/article-30462?l=italian

UN MEETING DOVE I BAMBINI CONOSCONO E DIALOGANO CON GESÙ

Novecento tra bambini e pre adolescenti giocano, cantano e pregano alla Convocazione nazionale del Rinnovamento nello Spirito

di Antonio Gaspari
RIMINI, lunedì, 30 aprile 2012 (ZENIT.org).- “Non ne posso più è proprio l’ora di chiamare Gesù”, questa la frase scritta su un muro della Fiera di Rimini, in un padiglione dove 900 giovani divisi in tre gruppi dai tre ai cinque anni (baby) , dai sei ai dieci anni (bambini) e dagli undici ai quattordici anni di età (ragazzi), giocano, cantano, pregano, e crescono in amicizia e fraternità, come comunità cristiana.
E’ un iniziativa nata all’interno del Rinnovamento nello Spirito (RnS) nel 1999 come risposta alle necessità delle famiglie dei gruppi e delle comunità del RnS, che da 35 anni si ritrovano annualmente a Rimini.
“All’inizio era un servizio di baby sitter e di intrattenimento dei bimbi e dei ragazzi, poi però ci siamo resi conti di aver iniziato un progetto che è stato provvidenziale”, ha raccontato a ZENIT , Cinzia Torre Paiella- tra le iniziatrici e ideatrice del Meeting (baby, bambini e ragazzi).
Ottanta volontari divisi per gruppi di età, hanno accolto i bambini, le bambine, i ragazzi e le ragazze, e insieme hanno condiviso e portato avanti un percorso di giochi, canti, preghiere e conoscenza del Vangelo.
Si inizia dai piccoli, (3-5 anni) a cui si raccontano storie ispirate e adattate dalla parabole del Vangelo. I bambini ascoltano le storie, le animano, giocano, cantano, ballano e pregano con grande naturalezza e gioia.
Si abituano a vivere tra loro e con gli adulti, percependo che c’è qualcun altro, un Dio buono che gli vuole bene e che li protegge. Il loro rapporto con il trascendente è naturale e condiviso.
Per i bambini e le bambine che frequentano le elementari, le storie, i giochi, i canti e le preghiere sono più animate. C’è un eroe a forma di goccia che si chiama “carismino” di cui si raccontano le storie, anche q ueste ispirate al Vangelo. I canti, studiati ad arte, sono semplici e coinvolgenti. I bambini si muovono e eseguono gesti che danno seguito alle parole. Cominciano ad avere coscienza dell’amicizia, della fratellanza, della comunità che manifesta la gioia.
Pregano e si confessano, scoprendo l’effetto salvifico della comunione. I bambini scrivono con il nastro adesivo sulla proprie maglie, di aver disubbidito, di aver detto bugie, di non aver aiutato chi aveva bisogno, … incontrano il sacerdote che li confessa, il quale li libera dai peccati, togliendogli e buttando via il pezzo di adesivo dove era scritta la mancanza.
“Così – ha spiegato Cinzia – i bambini capiscono bene di essere amati per quello che sono e non per quello che dovrebbero diventare”.
I ragazzi tra gli 11 ed i 14 anni, hanno lavorato per dipingere su un muro le immagini e le scritte che invitano a sviluppare i talenti e cercare Gesù.
I preadolescenti fanno giochi più impegnativi, gare di corsa, canti più sofisticati, preghiere più impegnative, praticano l’adorazione Eucaristica e si aprono alla conversione del cuore raccontando la loro esperienza di vita.
Nell’edizione di questo anno sono circa novecento i partecipanti, 200 i piccoli, 450 quelli tra i sei ed i dieci anni, e 250 i preadolescenti. Cinzia ha detto che la crisi economica ha limitato la partecipazione delle famiglie più numerose, ma l’iniziativa è in crescita continua, con tanti bambini che chiedono di partecipare e famiglie che chiedono di moltiplicare gli incontri a livello locale.
Ottanta sono gli animatori, alcuni con esperienza decennale. Il “Meeting dei baby, bambini e ragazzi” si svolge nelle diverse regioni dove sono presenti gruppi del RnS, con una edizione annuale che si svolge a Rimini.
Le storie, per i diversi gruppi. I testi, le musiche e l’animazione delle canzoni. I giochi con i diversi personaggi. Le preghiere e la pratica dei sacramenti. Tutto viene ideato, studiato e realizzato dal gruppo promotore del RnS.
Alla domanda di ZENIT sul perché non scrivere un manuale con testi, musiche e immagini da utilizzare non solo per i partecipanti al Meeting dei giovani, ma anche nelle parrocchie, Cinzia ha risposto che lo chiedono in tanti e forse il prossimo anno si farà.
“Quella che è iniziata come una risposta ad un esigenza – ha sottolineato Cinzia- è invece diventata una profezia”.
Riflette infatti l’impegno che la Conferenza Episcopale Italiana ha chiesto per far fronte alla “emergenza educativa” ricominciando a diffondere la fede e la conoscenza fin dai primi anni di vita.

Publié dans:BAMBINI |on 2 mai, 2012 |Pas de commentaires »

Ma è questa la scuola italiana?

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25554?l=italian

Ma è questa la scuola italiana?

di padre Piero Gheddo*

ROMA, domenica, 13 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Mi telefona una cara amica di una cittadina vicina a Milano, con 30 anni di insegnamento nelle scuole elementari, per augurarmi Buon Anno e poi continua: “Più vado avanti  e più mi accorgo che di cinque in cinque anni i genitori dei bambini sono sempre più preoccupati di tutto, meno che dell’educazione e dei valori da trasmettere ai loro figli. Quel che importa è che il bambino non torni a casa scontento. Sono sempre pronti a mettere i puntini sulle i, ma educazione zero. Numerosi quelli che prendono la scuola come un parcheggio: io lavoro, il  mio bambino è custodito e basta. Bambini non controllati, non seguiti”.
“A volte mi metto a pulire le loro cartelle e dico al bambino: quand’è l’ultima volta che tua mamma ha guardato dentro alla tua cartella? Tiro fuori manate di carta, disegni stropicciati, senza il materiale che serve. Nella nostra città arriviamo al 45-50% dei bambini non italiani, sono bengalesi, singalesi, equadoregni, peruviani.  Queste famiglie, eccetto qualche caso, ci tengono di più all’istruzione, all’educazione,  chiedono se il bambino è educato, se si comporta bene. E’ duro dirlo, ma molte famiglie italiane non sono così. Gli immigrati fanno più figli e sanno educarli. Sono in condizioni peggiori delle famiglie italiane, ma fanno più figli e ci tengono ad educarli bene. Come fanno? Rinunziano a tante comodità e dimostrano che si può vivere bene anche in una povertà dignitosa”.
“E poi, com’è diventato difficile, anche nelle scuole elementari, fare certi discorsi. Per Natale il parroco voleva venire ad augurare il Buon Natale a tutti. Abbiamo dovuto mandare ai genitori una lettera nella quale chiedevamo se permettevano che il bambino partecipasse a questo saluto. Mamma mia! Ma un augurio o anche la benedizione del sacerdote non ha mai fatto male a nessuno. E ci sono italiani che dicono di no, mentre i genitori stranieri, in genere, rispondono che il loro figlio canta le canzoncine di Natale, partecipa al saluto del sacerdote….. Insomma, non possiamo più fare un passo senza avere il consenso dei genitori in tutto e per tutto”.
“Ci sono ancora delle famiglie italiane che si salvano, ma sono sempre meno. Dieci-vent’anni fa, c’erano mamme che venivano a chiederti notizie del figlio, come faceva, se si comportava bene, chiedevano consiglio; se c’è qualcosa da dire me lo dica pure. Adesso, se la maestra ha scritto un appunto sul quaderno del bambino, perché è già tre volte che viene in classe senza il quaderno, oppure perché per il terzo giorno consecutivo ha picchiato un altro bambino; la mamma viene a chiedermi come mi sono permessa di scrivere quelle cose sul suo tesoro.  Bisogna pesare e soppesare le parole. E’ vero, non bisogna offendere, ma dire lo stesso le cose che devi dire. Perché ci sono delle colleghe che ti dicono: ma chi te lo fa fare? Tu dì che va tutto bene e sei a posto. Ma non è giusto. La maestra non insegna solo delle nozioni, ma educa la personcina di cui ha la responsabilità”.
“Oggi poi  è diventato difficile proporre cose che possano andar bene a tutti. Ad esempio, una volta la IV e la V si ritrovavano, anche fuori dell’orario scolastico, per celebrare la festa del IV novembre, le famiglie ci tenevano; oppure si andava in chiesa all’inizio dell’anno e i bambini venivano tutti. Queste cose non si possono più fare, ma non diamo la colpa al fatto che ci sono stranieri di religione diversa. Non è vero, ci sono italiani che della religione non glie ne importa assolutamente niente e vogliono che il bambino sia educato così”.
“Ricordo che c’era un reduce dalla guerra in Russia che sapeva parlare ai ragazzi. Veniva in classe e raccontava la sua prigionia in Russia, le lunghe camminate sulla neve, la sofferenza della fame e altro. I bambini ascoltavano attenti, con la bocca aperta. Portava in classe i suoi scarponi come li aveva portati dalla Russia, con ancora la terra della Russia attaccata alle suole: un cimelio. Era un racconto educativo. Oggi non si può più fare. I genitori si scandalizzerebbero. I bambini non debbono soffrire di nulla, non possiamo parlare della morte, della sofferenza, i bambini debbono essere sempre contenti. Poi li lasciano allo sbando per ore davanti alla televisione in tenera età. Noi ci accorgiamo dai discorsi che fanno in classe, chiaramente televisivi. I bambini non debbono essere messi a confronto con la realtà, che è anche dolore, malattia, morte! L’importante è che non rompano le scatole ai genitori”.
“Ho ancora presente una bambina egiziana. Mamma e papà  erano due gioielli. La bambina si è presentata in prima elementare e aveva problemi di linguaggio. Il papà chiedeva di  fare il lavoro la notte per sei mesi, in modo da poter accompagnare la bambina due volte alla settimana per la logopedia. Quando gli ho detto che la bambina era curiosa, interessata a tutto e stava migliorando, quell’uomo, che era un armadio, si è messo a piangere. A quest’uomo e a sua moglie, una bellissima signora, ho chiesto se a Natale la bambina poteva cantare le canzoncine di Natale e hanno risposto: ‘Rania canta tutto, anche le canzoni di Natale. Rania deve sapere che ci sono anche le altre religioni’. Ci sono famiglie italiane che non vogliono, sono atee, i loro bambini debbono essere come loro. Nei primi anni che ero in scuola, si faceva la preghierina tutte la mattine, adesso non si può più. Noi insegnanti cattoliche in una scuola laica, abbiamo anche degli insegnanti che sono contro la religione e la Chiesa. Bisogna agire con calma ma una volta abbiamo bisticciato per le canzoncine natalizie”.
“Purtroppo, oggi la maggioranza delle famiglie non sono regolari. Anni fa facevamo fare il compito ‘La mia famiglia’ oppure ‘Mio papà e mia mamma’ e venivano fuori dei bei temini che  commuovevano i genitori. Adesso non si può più perché molte famiglie sono irregolari e si mettono in difficoltà i bambini. Qualcuno viene fuori a dire: ‘Io ho due papà. Il mio papà vero e il mio papà finto’. Una mamma viene a dirmi che si è separata dal marito e mi consegna un foglio del tribunale e dice: se il marito viene a ritirare la bambina, non bisogna dargliela. La società non si rende conto che la separazione e il divorzio lo pagano i bambini. I genitori vogliono il diritto di fare quel che vogliono, ma al diritto del bambino di avere due genitori che si vogliono bene, chi lo rispetta? Quando i genitori si separano o divorziano, i bambini sono quelli che più ci perdono. Crescono male, hanno una ferita psicologica che li accompagnerà tutta la vita”.———-

*Padre Piero Gheddo (www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1973) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l’Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano.

Publié dans:BAMBINI |on 13 février, 2011 |Pas de commentaires »

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