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NASCE A POMPEI L’OASI « VERGINE DEL SORRISO » – CENTRO PER IL BAMBINO E LA FAMIGLIA « GIOVANNI PAOLO II »

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NASCE A POMPEI L’OASI « VERGINE DEL SORRISO »

SABATO L’INAUGURAZIONE DELLA PRIMA OPERA DEL CENTRO PER IL BAMBINO E LA FAMIGLIA « GIOVANNI PAOLO II »

POMPEI, 04 DICEMBRE 2013 (ZENIT.ORG) GIOVANNA ABBAGNARA

Sabato 7 dicembre, vigilia dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, verrà inaugurata a Pompei l’Oasi Vergine del Sorriso, la prima opera del nascente Centro per il Bambino e la Famiglia Giovanni Paolo II. Il 7 ottobre 2003 Giovanni Paolo II, in visita pastorale al Santuario di Pompei, concluse il suo discorso con queste parole: “Siate “operatori di pace”, sulle orme del Beato Bartolo Longo, che seppe unire la preghiera all’azione, facendo di questa Città mariana una cittadella della carità. Il nascente Centro per il bambino e la famiglia, che gentilmente mi si è voluto intitolare, raccoglie l’eredità di questa grande opera”. Oggi il sogno diventa realtà. Vengono spalancate le porte della prima casa di accoglienza grazie alla disponibilità di una coppia di sposi della Fraternità di Emmaus, Alfredo e Roberta Cretella che insieme ai cinque figli e l’ultima in arrivo tra pochi giorni, hanno scelto di lasciare la loro casa per condividere la loro quotidianità con i più piccoli. Un carisma, quello della preghiera che si intreccia con la carità, che è uno dei pilastri fondamentali di questo giovane movimento ecclesiale nato intorno agli anni ’90 per opera di un sacerdote, don Silvio Longobardi e che oggi vede la presenza di altre Oasi, oltre che in Italia, anche in Burkina Faso e in Ucraina. Un’attenzione particolare alla famiglia nata sotto l’impulso del magistero di Giovanni Paolo II che si concretizza in una attenta azione culturale e in una generosa condivisione quotidiana grazie alla disponibilità di tante famiglie. “Abbiamo lasciato la nostra casa per iniziare questa avventura di carità, spinti dal desiderio di rispondere ad un invito di Dio. L’eucarestia quotidiana e la concreta condivisione con i nostri amici della Fraternità di Emmaus sono la nostra forza” affermano trepidanti ma sereni Alfredo e Roberta e aggiungono: “quando abbiamo incontrato l’arcivescovo di Pompei, Mons. Tommaso Caputo, ci ha condotti davanti al quadro della Madonna di Pompei, da poco restaurato e lì ci ha benedetti. Da quel momento sappiamo che Maria accompagna e guida i nostri passi”. Una scelta, quella della famiglia Cretella, che pone l’accento sul protagonismo dei laici nella Chiesa, in piena continuità con il pensiero e l’opera del beato Bartolo Longo che scelse di restare laico e in prima persona consumò la sua vita nel servizio alla Chiesa attraverso la preghiera e la carità. La presenza di una piccola cappellina con Gesù Eucarestia all’interno dell’Oasi Vergine del Sorriso sottolinea maggiormente che il servizio sgorga limpido dalla preghiera e dall’ascolto. Solo in ginocchio si impara ad amare l’altro e a servirlo. Con grande gioia S.E. Mons. Caputo, che ha seguito e ha fortemente voluto l’apertura di questa prima opera, ha salutato l’evento: “Con la Casa Famiglia Oasi Vergine del Sorriso, affidata alla Fraternità di Emmaus, diamo il via al « Centro per il Bambino e la Famiglia Giovanni Paolo II », nuova realtà di accoglienza, sorta tra le antiche mura delle « Case Operaie », per proseguire il cammino tracciato dal nostro fondatore, il Beato Bartolo Longo, con il suo stesso spirito di carità e di servizio, perché Pompei risponda sempre più alla sua vocazione: essere una cittadella dell’amore, aperta a tutti, senza discriminazioni e dove nessuno si senta escluso ». Anche il Sindaco di Pompei, Claudio D’Alessio, che ha seguito per conto della Regione i lavori di ristrutturazione del Centro, ha dichiarato: “Siamo felici di aver contribuito alla realizzazione di un’opera di accoglienza in linea con le tradizioni della nostra Città. Tradizioni dettate dai principi di solidarietà, accoglienza e carità tramandate dal fondatore della Valle di Pompei, il Beato Bartolo Longo”. L’inaugurazione verrà preceduta da una celebrazione eucarestica, presieduta dall’arcivescovo di Pompei, che si celebrerà presso la Cappella Bartolo Longo alle ore 17.30.

LA CRISI DELL’UTILITARISMO – NELL’ULTIMA ASSEMBLEA DEL CONSIGLIO PERMANENTE DELLA CEI (28 GENNAIO 2013),

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LA CRISI DELL’UTILITARISMO

SENZA ATTENZIONE ALLA PERSONA ED ECONOMIA DEL DONO NON SI ESCE DALLA CRISI. COMMENTO ALLA PROLUSIONE DEL CARDINALE ANGELO BAGNASCO

ROMA, 03 FEBBRAIO 2013 (ZENIT.ORG). CARMINE TABARRO | 185 HITS

NELL’ULTIMA ASSEMBLEA DEL CONSIGLIO PERMANENTE DELLA CEI (28 GENNAIO 2013), NOTEVOLE LA QUALITÀ DEL LUNGO INTERVENTO DEL CARDINALE ANGELO BAGNASCO.

In particolare il suo riferimento all’etica della vita come fondamento dell’economia: la «bioeconomia».
Questo termine richiama i concetti di «biopolitica», o anche di «biodiritto», che oggi tanto spazio trovano nei programmi politici di tutti gli schieramenti, in Italia come all’estero.
In questo passaggio storico, sviluppare e diffondere il concetto di bioeconomia e fondamentale. Difatti, l’attuale crisi prima che finanziaria ed economica è una crisi antropologica e valoriale.
Una cultura, come afferma il cardinale che rischia di sacrificare il capitale umano al «primato economicista».
Questa affermazione del Presidente della CEI (in piena continuità con la Dottrina Sociale della Chiesa), rileva la necessità di mettere in discussione il sistema, perché ha mostrato l’assoluta inadeguatezza e insostenibilità, morale e pratica.
Il merito dell’Arcivescovo di Genova è di aver avuto il coraggio di proporre questioni precise e dettagliate con una carica di forte originalità.
Dire che oltre alla biopolitica e al biodiritto si deve parlare anche di bioeconomia è gettare un sasso nello stagno melmoso, pieno di ideologie, conflitti d’interessi e luoghi comuni.
Il cardinale difatti ha affermato che non tutti i modelli di economia di mercato sono amici della persona umana e della società umana. Certo, all’economia di mercato non c’è alternativa. Ma alcuni modelli sono più compatibili di altri con la Dottrina sociale della Chiesa.
Bagnasco citando la Caritas in veritate afferma che «la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica».
Questo è il tema centrale. Affrontare la questione sociale vuole dire fissare l’attenzione sulle cause più profonde della crisi, e non solo sugli effetti.
Il presidente della CEI richiama alle proprie responsabilità chi vuole far credere che, superata la fase acuta della crisi, si potrà tornare alla finanza creativa e all’egoismo irrazionale, esattamente come prima. Ma è un’illusione, e va detto con forza.
L’assunto antropologico basato sul presupposto dell’individualismo egoista, dell’auto-interesse materialista e dell’utilitarismo riduzionista sostenendo che il capitalismo finanziario anarchico possa regolare se stesso, non ci permetterà di superare la crisi né di costruire un futuro più solido.
In altre parole non ci sarà ripresa fino a che il capitale umano verrà alimentato da una cultura che esalta solo “il successo e la ricchezza facile”.
In altre parole se non incentiviamo il lavoro e ricostruiamo il capitale del bene comune nella sua integralità non potranno essere contrastate le derive sui temi della vita, della famiglia, del matrimonio, e sarà difficile limitare gli aborti, l’eutanasia, l’economicismo, il mercatismo ecc. 

Su questi temi, troppo spesso anche i cattolici sono stati condizionati dalla cultura maggioritaria e dal modello dominante. Ci si è illusi poter ottenere in cambio qualche misura in più per aiutare i poveri o le famiglie. Ma si tratta di surrogati culturali e politici, non della cura del male di cui soffre la società italiana e occidentale.
In questa fase il mondo cattolico deve avere il coraggio e la volontà di elaborare un pensiero che mostri gli errori della cultura dominante fondata sulla visione individualista, auto-interessata, relativista.
Non basta difendere in maniera ideologica la legge naturale: è compito nostro riuscire a mostrare le ragioni teoriche e pratiche per cui la legge naturale è superiore all’assunto individualista e auto interessato. Anche su questo il cardinale Bagnasco ha centrato il problema.
Per quanto riguarda il modello di sviluppo economico, secondo il presidente della CEI, bisogna cambiare.
Dobbiamo investire in una economia che metta al centro la persona non solo nel momento della distribuzione della ricchezza, ma anche nel modo in cui è prodotta. Oggi non basta più pagare un giusto salario ai lavoratori o dare le ferie: il processo produttivo non deve essere umiliante per la persona e per la sua dignità. Il concetto di sviluppo umano integrale è legato a tre fattori: Pil, beni socio-relazionali, e beni spirituali.
La strada che ci indica il cardinale Bagnasco è quella di far crescere il prodotto interno lordo evitando di sacrificare le altre due componenti.
In nome dell’utile, non è bene sfruttare i lavoratori, inquinare l’ambiente, mettere slot-machine nelle scuole, oppure lavorare la domenica.
Attraverso l’etica della vita e la bioeconomia dobbiamo privilegiare un modello di sviluppo che consideri i beni relazionali, i servizi alla persona, i beni intangibili (la fiducia) i beni comuni.
Il modello fondato solo sul consumismo egoistico (sempre più alimentato con il debito) di beni privati è un sistema che non è più sostenibile.
Non possiamo mettere sullo stesso piano gli interessi economicistici con i valori non negoziabili.
Non si può accettare il principio che ti dò più soldi, ma in cambio tu rinunci a realizzare il tuo potenziale umano. Che senso ha avere un reddito maggiore se poi l’organizzazione del lavoro ti impedisce di essere genitore? Di poter fare e stare in famiglia? di far nascere e assistere i figli?

Publié dans:ATTUALITÀ, CEI |on 2 avril, 2013 |Pas de commentaires »

« L’UE È QUALCOSA DI PIÙ DI UN’AREA DI LIBERO SCAMBIO »

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« L’UE È QUALCOSA DI PIÙ DI UN’AREA DI LIBERO SCAMBIO »

Il saluto di benvenuto di monsignor Ambrosio all’Incontro sulle questioni sociali del CCEE

ROMA, martedì, 4 settembre 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo il salute di benvenuto di monsignor Gianni Ambrosio, vescovo di Piacenza-Bobbio e vice-presidente della COMECE, tenuto nel corso dell’Incontro sulle questioni sociali promosso dalla Commissione Caritas in Veritate del CCEE, in corso a Nicosia (Cipro).
***
Rivolgo il mio cordiale saluto all’arcivescovo Mons. Youssef Soueif, al cardinale Angelo Bagnasco, ai confratelli vescovi e a tutti voi.
È inevitabile partire dalla crisi economica globale che da ormai quattro anni colpisce con particolare violenza le economie della zona-euro. La crescita smisurata dei debiti sovrani, soprattutto nei Paesi dell’Europa meridionale e la conseguente perdita di fiducia degli investitori nei confronti dell’economia di alcuni Paesi sono i fattori che rendono problematica la situazione che l’Unione Europea (UE) si trova ad affrontare. Se fino ad un anno e mezzo fa, erano solo alcuni i Paesi in grande difficoltà, oggi la crisi mette in evidenza l’ormai stretta interdipendenza tra le economie dei Paesi dell’Unione.
La consapevolezza di questa stretta interconnessione tra gli Stati membri ha portato gli attori istituzionali europei a considerare la necessità di un maggiore coordinamento delle politiche economiche a livello comunitario, cercando di tenere insieme gli obiettivi di rigore di bilancio, di crescita economica, di creazione di posti di lavoro. Per questo sono state adottate norme i cui obiettivi sono principalmente tre: un’agenda economica rafforzata su cui vi sia una maggiore sorveglianza da parte degli organi comunitari, interventi per garantire la stabilità dell’euro in cambio di piani di riforma economica, misure per contrastare la speculazione finanziaria.
Nel vertice europeo del 28-29 giugno 2012, il presidente Herman van Rompuy ha presentato il programma di lavoro del Consiglio europeo fino al 2014. Senza addentrarci nell’esame del documento, emergono due priorità. Per il futuro dell’Unione economica e monetaria (UEM), appare necessaria una maggior integrazione nel settore bancario e nell’ambito del bilancio. Per quanto concerne la crescita e il lavoro, un nuovo Patto costituirà un quadro appropriato per un’azione incisiva in vista dei cinque grandi obiettivi dell’UE (lavoro, ricerca-sviluppo-innovazione, cambiamento climatico e energia, educazione e scuola, povertà e esclusione sociale). In rapporto a queste priorità, appare quanto mai proficua una discussione approfondita sulle negoziazioni bilaterali e multinazionali che sono in corso.
In questo contestola COMECEè impegnata per rendere concreta la promozione della coesione sociale in Europa. Innanzi tutto la salutare presa di coscienza dell’interdipendenza deve sospingere l’UE a ritrovare la sua unità di fondo perché anche l’attività economica, al pari di qualsiasi altra dimensione dell’agire umano, non si realizza mai in un vuoto morale o in base ad alcune regole, ma sempre e solo all’interno di un determinato contesto culturale: queste matrici culturali debbono essere riconosciute e apprezzate.
La COMECEcon la Dichiarazione Una comunità europea di solidarietà e di responsabilità (2011) ha voluto ricordare ai responsabili della politica economica europea che l’Europa è molto più dell’euro e che le soluzioni motivate da considerazioni di breve periodo portano inevitabilmente a una politica economica di corto respiro. Partendo dal Trattato di Lisbona (2007), in cui si dichiara che l’UE si pone “l’obiettivo di un’economia sociale di mercato competitiva”,la COMECE ha offerto il proprio contributo per una visione di lungo periodo, che riguarda in particolare quell’orizzonte di valori che possono sostenere ed esprimere “una comunità di solidarietà e di responsabilità”. L’UE è qualcosa di più di un’area di libero scambio e di reciproche convenienze economiche. Questo “di più” non solo non può andare perduto, ma diventa ancor più necessario per superare l’attuale crisi, se non si vuole rischiare che l’orizzonte europeo smarrisca ogni attrattiva per i suoi cittadini. La Dichiarazione non intende solo ricordare le matrici di fondo dell’attività economica ma intende anche mostrare la vitalità dell’economia sociale di mercato. Inoltrela Dichiarazione evidenzia il fatto che i valori che ispirano l’economia sociale di mercato corrispondono ai grandi principi della Dottrina sociale della Chiesa.
Segnalo infine che la Segreteria della COMECE e i suoi partenaires ecumenici hanno elaborato una Posizione comune su Il ruolo degli attori di Chiesa nella politica di coesione europea. In questo documento, pubblicato il 12 luglio 2012, si fa presente che la politica regionale è l’espressione concreta della solidarietà all’interno dell’UE: proprio il fatto che il processo di unificazione viene messo a dura prova, si esige un impegno più determinato per “promuovere la coesione economica, sociale e territoriale e la solidarietà fra gli Stati membri” (Trattato dell’UE). Per i cristiani, afferma il documento, “la solidarietà è la naturale espressione della loro fede”.

Publié dans:ATTUALITÀ |on 4 septembre, 2012 |Pas de commentaires »

Il monaco buddhista Shingon, Shobo Habukawa, racconta il suo incontro con il fondatore di CL e la loro comune ricerca dell’Infinito

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« LA MIA AMICIZIA CON DON GIUSSANI VA OLTRE LA MORTE »

Il monaco buddhista Shingon, Shobo Habukawa, racconta il suo incontro con il fondatore di CL e la loro comune ricerca dell’Infinito

di Luca Marcolivio
RIMINI, martedì, 21 agosto 2012 (ZENIT.org) – Al suo ingresso nella sala B7 di Riminifiera, è stato accolto da un caloroso applauso. Il volto e la voce di Shobo Habukawa sono ormai familiari al pubblico del Meeting al quale il monaco buddhista Shingon, Abate del Muryoko-in Temple, ha partecipato per la prima volta nel 1988.
Il convegno Homo religiosus è stata l’occasione per celebrare i venticinque anni del primo incontro tra Habukawa e don Luigi Giussani. L’amicizia tra l’esponente del buddhismo Shingon e il fondatore di Comunione e Liberazione non fu soltanto un fulgido esempio di dialogo interreligioso ma soprattutto un intenso percorso comune di due uomini di culture tra loro lontane ed assai diverse, eppure felicemente convergenti nella ricerca dell’infinito.
La tavola rotonda è stata l’occasione per invitare il pubblico del Meeting a visitare la mostra Il Koyasan. La montagna sacra del Buddhismo Singon Mikkyo che don Giussani ha tanto amato.
Come ha sottolineato la presidente del Meeting, Emilia Guarnieri, quello dell’homo religiosus è da sempre “un tema forte del Meeting”. Homines religiosi per eccellenza sono stati sia don Giussani che il reverendo Habukawa, non tanto perché rappresentanti dei rispettivi cleri, quanto per la loro profonda attenzione alla natura dell’uomo e alla sua incapacità di limitarsi alle realtà “orizzontali”.
Come rammentato dalla presidente del Meeting, Habukawa considera il suo incontro con don Giussani, avvenuto presso il monastero del Monte Koya, il 28 giugno 1987, come un momento spartiacque della propria vita. “Don Giussani mi ha sempre parlato del mistero e lui stesso è segno del mistero presente”, dichiarò anni fa il monaco giapponese.
Assente giustificato all’incontro è stato il cardinale belga Julien Ries. Ricevuta all’età di 92 anni, la porpora cardinalizia da papa Benedetto XVI, lo scorso febbraio, durante l’ultimo concistoro, Ries, professore emerito all’Università di Lovanio, è considerato il maggiore studioso vivente di antropologia della religione.
Ospite di ben 17 edizioni del Meeting negli ultimi 30 anni, il porporato belga è ancora chiamato affettuosamente il “professor Ries” dagli habitués della kermesse riminese.
In un filmato proiettato al convegno di ieri pomeriggio, il cardinale Ries ha spiegato in termini sintetici la natura dell’homo religiosus, ovvero di colui che “qualunque sia il contesto storico in cui è immerso, crede all’esistenza di una realtà assoluta, il Sacro, che trascende questo mondo ma si manifesta e, così facendo, lo santifica e lo rende reale”.
L’homo religiosus, ha spiegato l’antropologo, diventa tale quando entra in contatto “con un evento che gli mostra la trascendenza”. Un tipo umano, dunque, agli antipodi con l’uomo a-religioso – specifico di quest’epoca – incapace di prestare attenzione alle realtà fondamentali sull’esistenza umana e sul creato.
Ries ha anche reso omaggio alla figura di don Giussani, individuando nel Meeting di Rimini, “una delle più grandi risposte al ‘68”, anche per le virtù carismatiche dello stesso Giussani, “per la sua fede, per come comunicava la fede e per la sua attenzione ai giovani”.
Il reverendo Habukawa ha ringraziato il pubblico della calorosa accoglienza con un inchino e con un breve saluto in italiano: “Buonasera, vi ringrazio”. Ha poi rievocato l’esperienza del Meeting di Tokyo dello scorso ottobre e, soprattutto, “i 25 anni dell’amicizia tra Italia e Giappone”, con riferimento al suo primo incontro con don Giussani.
L’amicizia con il fondatore di Comunione e Liberazione, dura da un quarto di secolo, ha spiegato Habukawa, perché “sovrasta la morte”. Un tratto comune tra questi due uomini di paesi e culture lontanissimi è proprio la convergenza con il pensiero del fondatore del buddhismo Shingon, Kobo-Daishi, che invitava a “osservare tutte le cose con la massima e più profonda attenzione”.
Di Giussani, il monaco buddhista giapponese apprezzava a sua volta, l’inclinazione alla “apertura del cuore a tutte le cose”, che sta a significare che “io esisto con tutto l’universo”. È in questi termini che l’uomo diventa religioso: quando sviluppa, “una tenerezza, un amore per tutto ciò che esiste”, ha spiegato Habukawa.
Il rapporto dell’uomo con l’infinito, tema dell’attuale edizione del Meeting, è riscontrabile nel Mistero che si annida in ogni singolo fenomeno dell’universo, a partire, ad esempio, dal susseguirsi delle stagioni, ha aggiunto il monaco Shingon.
Habukawa ha poi raccontato dell’interesse che don Giussani mostrò per la statua di Kannon, la divinità che, con le sue mille braccia, realizza la salvezza di tutti gli esseri umani. Secondo il sacerdote di Desio, quel simulacro faceva comprendere ai cristiani cosa fosse la misericordia di Dio.
Ha chiuso il ciclo di interventi don Stefano Alberto, professore di introduzione alla teologia all’Università Cattolica di Milano. Al pubblico del Meeting, don Alberto ha raccontato altri episodi dell’amicizia tra il fondatore di CL e il monaco del Monte Koya.
Quando Habukawa andò a Milano a far visita all’amico sacerdote, al momento del congedo, a mani giunte, si sporse dal finestrino dell’auto che lo riaccompagnava in aeroporto, senza mai distogliere lo sguardo da don Giussani. Quest’ultimo, poi, disse commosso: “Se quest’uomo fosse nato duemila anni fa, al tempo di Gesù, sarebbe stato uno degli apostoli”.
Don Alberto ha poi riflettuto sulle sfide dell’homo religiosus di oggi: l’alternativa, in tal senso, è tra “la chiusura della ragione nei confronti della realtà in un mondo auto-costruito” e “l’apertura alla totalità del reale fino al riconoscimento del Tu-che-mi-fai”.
Per usare le parole di Benedetto XVI, durante la sua visita al parlamento tedesco dello scorso settembre, la vera urgenza è quella di “tornare a spalancare la finestra del bunker della ragione positivista che impedisce la consapevolezza della dipendenza dall’infinito”.
“A noi il senso religioso serve per accorgersi che, nel Mistero che si fa uomo, tutto diventa interessante”, ha poi concluso il teologo.
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Publié dans:ATTUALITÀ, TEMI INTERESSANTI |on 21 août, 2012 |Pas de commentaires »

« DIO FORTIFICA OGNI BATTEZZATO, CATTOLICO O ORTODOSSO »

http://www.zenit.org/article-32133?l=italian

« DIO FORTIFICA OGNI BATTEZZATO, CATTOLICO O ORTODOSSO »

Il discorso dell’Arcivescovo Józef Michalik, Presidente della Conferenza Episcopale Polacca, al primo incontro con Kirill I, Patriarca di Mosca e di tutta la Russia

di Don Mariusz Frukacz

VARSAVIA, venerdì, 17 agosto 2012 (ZENIT.org) – “Le Chiese e le nazioni hanno bisogno di ‘insegnanti’ che predichino e vivano secondo la verità libera dalla colorazione ideologica. Hanno bisogno della verità del Vangelo predicata in amore. Il primo Insegnante della Chiesa è Gesù Cristo, che non ha evitato di porre alcuni quesiti difficili. I tempi odierni richiedono coraggiosi testimoni e profeti che vedono le minaccie e portano al mondo la potenza di Dio, mostrando la salvezza nella conversione in Cristo unico Salvatore dell’uomo”.
È stato questo il cuore del discorso dell’Arcivescovo Jozef Michalik, Presidente della Conferenza Episcopale Polacca, rivolto al Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, Kirill I, durante la riunione delle gerarchie della Chiesa Cattolica in Polonia e della Chiesa Ortodossa, svoltosi ieri, giovedì 16 agosto, presso la Sede del Segretariato dell’Episcopato Polacco in Varsavia.
“Se oggi il Patriarca della Chiesa Ortodossa Russa – ha aggiunto l’Arcivescovo – la grande Chiesa di oltre mille anni di storia, dei grandi santi e dei martiri, vuole insieme con la Chiesa cattolica in Polonia, indirizzare un messaggio pastorale ai fedeli di entrambe le Chiese e a tutte le persone di buona volontà, questo passaggio diventa una grande testimonianza della fede” .
Esso, ha proseguito, “non è solo un gesto, ma una preoccupazione comune per il mondo in cui viviamo, per confermare la fedeltà al Vangelo e all’etica, cioè alla vita di fede secondo la legge di Cristo”.
Il Presidente della Conferenza Episcopale Polacca ha rimarcato che la Chiesa Ortodossa in Russia è “fedele alla sua predicazione del Vangelo di Cristo, ama il suo popolo e lo difende coraggiosamente dal pericolo della modernità mal intesa, dal progresso liberale” e da tutte quelle situazioni “dove manca la sensibilità della presenza di Dio”.
Monsignor Michalik ha voluto ricordare, inoltre, che “i vescovi della Chiesa Cattolica in Polonia stanno cercando onestamente di discernere i segni dei tempi, e con tutta la devozione si sforzano di soddisfare le raccomandazioni del Magistero pontificio, che si riflettono nella preoccupazione corrente per la nuova evangelizzazione.”
Ha poi affermato: “Amando la nostra Chiesa, amiamo il rapporto esistenziale con la nazione, la Patria e l’Europa. E nello spirito di responsabilità per l’anima di una nazione, diamo vita ad una nuova era che offre la possibilità di trovare, oggi, nuove motivazioni per riaffermare le nostre radici cristiane e conferma che la fonte della nostra dignità e del nostro potere sono nella potenza di Dio, che ci ha dato il Suo Figlio e Salvatore, e fortifica tutti i battezzati, cattolici e ortodossi, con il dono dello Spirito Santo”.
“Che gioia – ha esclamato in conclusione il presule – che oggi possiamo pregare insieme Gesù Cristo, che ci assicura la Sua presenza, dove due o tre sono riuniti nel suo nome » (cfr Mt 18, 20). Quindi l’augurio finale: “Che possiamo svogere questa preghiera per tutta l’umanità insieme con Maria Madre di Dio, e che questa unione con Cristo nella preghiera sia una fonte di speranza per completare i nostri compiti”.

Publié dans:Arcivecovi e Vescovi, ATTUALITÀ |on 17 août, 2012 |Pas de commentaires »

Quelli che vogliono aggiornare Cristo (Inos Biffi – O.R.)

dal sito: 

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/194q04a1.html

DA: L’OSSERVATORE ROMANO

L’ortodossia e il rinnovamento nella Chiesa

Quelli che vogliono aggiornare Cristo

di Inos Biffi

L’ortodossia, cioè il Credo cristiano nella sua integrità, è il fondamento e la condizione dell’esistenza stessa della Chiesa. Questa perderebbe la propria identità, se qualche verità del Credo si annebbiasse nell’incertezza o fosse rimossa o trascurata. La prima missione che sta a cuore alla Chiesa è la piena fedeltà alla Parola di Dio, autorevolmente espressa e proposta dalla stessa Chiesa.
Verso le formulazioni della fede non è raro riscontrare una diffidenza e reazione, ma è perché vengono fraintese, quasi riducessero e impoverissero tale Parola, frantumandola in enunciazioni astratte, prive di vita. Se è vero che nessun linguaggio umano riesce a esprimerne adeguatamente il contenuto, che solo nella visione beatifica sarà immediatamente percepito, è altrettanto indubbio che i simboli di fede coi loro articoli e le definizioni della Chiesa col loro rigore, grazie all’opera dello Spirito, mediano infallibilmente la Rivelazione. E proprio questa sta a cuore alla Chiesa, quale sua prima e insostituibile missione, in ogni tempo.
Già Paolo raccomandava a Tito di insegnare « quello che è conforme alla sana dottrina » (Tito, 2, 1), mentre, esortando Timoteo ad annunciare la Parola, gli prediceva:  « Verrà un giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina » (2 Timoteo, 4, 2-3). D’altronde lui stesso si preoccupava di essere in sintonia con gli altri apostoli.
Oggi qua e là si reagisce quando si sente parlare di « eresia », non considerando che, se l’eresia non è possibile, vuol dire che non esiste neppure la Verità e tutto si stempera in una materia cristiana confusa e informe. Quando, al contrario, la fede ha degli oggetti precisi e non interscambiabili.
In questa trasmissione lo sguardo della Chiesa è sempre volto soltanto al Signore, che le affida il Vangelo:  non a quello che una determinata cultura potrebbe gradire o approvare, e non limitatamente a quegli aspetti su cui si possa essere d’accordo e consenzienti dopo un accogliente dialogo. Non è fuori luogo sottolineare che il Verbo si è fatto carne non per istituire un disteso e lusinghiero dialogo con l’uomo, ma per creare e manifestare in sé l’unica immagine valida e riconoscibile dell’uomo. A prescindere da Gesù Cristo semplicemente non c’è l’uomo conforme al progetto divino. Per non equivocare si potrebbe aggiungere che Gesù Cristo non va mai « aggiornato », perché è Lui il perenne e insuperabile Aggiornamento, che include in sé ogni tempo, quello presente, quello passato e quello futuro. Siamo noi che invece, per non perdere l’ »attualità », ci dobbiamo aggiornare a Lui, siamo noi che, per essere veri credenti, ci dobbiamo aggiornare al Credo cristiano in sé inalterato e inaggiornabile.
Un rinnovamento nella Chiesa passa sempre e imprescindibilmente da un lucido annunzio anzitutto dell’assolutezza di Gesù Cristo, che rappresenta « il mistero di Dio Padre » (Colossesi, 2, 2). Del resto, i concili più importanti e impegnativi furono quelli dedicati all’ortodossa proposizione del mistero di Cristo, della identità di Gesù di Nazaret:  concili dottrinali e quindi, nel significato più alto, concili pastorali. A cominciare da Nicea.
La storia della Chiesa mostra con innegabile evidenza che una ripresa della condotta evangelica si innesta sempre su una energica riproposizione dell’ortodossia. Si pensi al Concilio di Trento, che fu prima di tutto un concilio dottrinale – sul peccato originale, sulla giustificazione, sui sacramenti – a cui seguì un meraviglioso rifiorire di vita e di santità cristiana.
La Riforma aveva colto, e giustamente stigmatizzato, comportamenti antievangelici nella Chiesa del suo tempo. Solo che alla base del risanamento pose un aggiornamento dell’ortodossia di fatto consistente in eresie, che spezzavano la comunione con la Tradizione. Si pensi alla negazione del sacerdozio ministeriale, alla contestazione del sacrificio della Messa, alla negazione di alcuni sacramenti, al carattere ecclesiale dell’intepretazione della Scrittura. Sarebbe illuminante far passare analiticamente alcuni punti dell’ortodossia da riannunciare con vigore. Ma, prima di singoli dogmi, pare urgente la riproposizione del senso del « mistero », che sostiene tutto il Credo. La Parola di Dio manifesta il disegno, iscritto nell’intimo della Trinità e conoscibile soltanto per la condiscendenza divina e per la sua « narrazione » avvenuta in Cristo. Credere significa affidarsi a questa « narrazione » e quindi accogliere e annunciare un « altro mondo », il mondo invisibile e duraturo. Secondo quanto afferma Paolo:  « Noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne » (2 Corinzi, 4, 18).
Lo smarrimento della « sensibilità al soprannaturale », razionalizzando il dogma, dissolve la fede; deteriora e dissipa l’evangelizzazione; altera e svuota la missione della Chiesa, che Cristo ha fondato come testimonianza della Grazia, e per il raggiungimento non del benessere e del fine terreno dell’umanità, ma della beatitudine eterna. Né per questo il Vangelo trascura o sottovaluta l’esistenza temporale dell’uomo, solo che questa esistenza, fragile e transitoria, è considerata nella sua destinazione e riuscita gloriosa.
Ovviamente, la conseguenza di un tale smarrimento è l’estinzione della teologia. A proposito del senso del mistero vengono in mente, e appaiono di sorprendente attualità, le luminose pagine che il più grande teologo dell’Ottocento, Joseph Matthias Scheeben, purtroppo dimenticato dall’esile riflessione dei nostri giorni, dedica nel primo capitolo de I misteri del cristianesimo, l’opera dogmatica a sua volta più originale e profonda dell’epoca:  « Quello che ci affascina è l’apparizione di una luce che ci era nascosta. I misteri pertanto devono essere verità luminose, splendide », che « si sottraggono al nostro sguardo per soverchia maestà, sublimità e bellezza ».
E anche andrebbe letto, specialmente da chi si sta formando nei seminari, l’ultimo capitolo dell’opera di Scheeben, quello sulla teologia, « la scienza dei misteri », appoggiata tutta « al Lògos di Dio ».
L’ortodossia, quindi, con le sue verità « visibili » agli « occhi illuminati del cuore » (Efesini, 1, 18):  ecco la condizione imprescindibile per un annunzio fedele del Vangelo e un rinnovamento nella Chiesa.

(L’Osservatore Romano 25 agosto 2010)  

Publié dans:ATTUALITÀ, Cardinali, Teologia |on 28 janvier, 2011 |Pas de commentaires »

Echi dall’Iraq crocifisso

dal sito:

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Echi dall’Iraq crocifisso

di Robert Cheaib

ROMA, lunedì, 15 novembre 2010 (ZENIT.org).- Quando si tratta di bambini che muoiono in nome di un’ideologia che crede di fare la volontà di Dio uccidendo lattanti, giovani incinte, sacerdoti e anziani, un giornalista cristiano non può essere professionale se non professa il suo sdegno, e se non cerca di essere, non solo eco indifferente dei fatti, ma voce che fa la differenza; di essere voce di chi la voce non ce l’ha più perché il suo grido è stato soffocato dalla violenza e annegato dalle lacrime.
Tante persone vorrebbero dare una mano ai cristiani perseguitati in Iraq, ma spesso si trovano senza mezzi o senza idee. La preghiera è senz’altro fondamentale, ma la preghiera vera si corona con la concretezza. Per questo, l’edizione araba di ZENIT ha deciso di dare voce a persone coinvolte da vicino nel dramma iracheno, per sentire da loro non tanto le grida di disperazione, ma le proposte di speranza e gli echi di una risurrezione possibile per i cristiani crocifissi dell’Iraq.
Per tutelare la privacy e la sicurezza delle persone che abbiamo interpellato, nonché dei loro familiari in Iraq, abbiamo preferito riportare le iniziali dei cognomi.

Il ruolo dei media

Il sacerdote iracheno Albert N., amico e collega di studio dei padri Thaer e Wassim, ci ha scritto: «Come cristiano e iracheno io chiedo a tutti di impegnarsi per far sentire in tutto il mondo la voce dei cristiani iracheni usando l’autorità dei mezzi di comunicazione, perché i nostri mezzi propri sono limitati e poveri, e abbiamo veramente bisogno di un mezzo mediatico forte e multilingue per far giungere la nostra voce e il nostro grido alle autorità governative internazionali».
Ha inoltre spiegato che quello che si conosce delle sofferenze dei cristiani in Iraq è soltanto una goccia in un oceano. I loro drammi non si limitano certamente alla strage della chiesa di Saydet Al-Najat. Per questo ha invitato a rendere noti «tutti i violenti omicidi, eccidi, persecuzioni e rapimenti ai quali i cristiani sono esposti quotidianamente» senza attirare i riflettori dei media. Ed ha insisto nel dire che quest’opera è una «testimonianza necessaria alla verità, l’unica capace di salvare il mondo»gli iracheni in diaspora
Un’altra lettera ci è pervenuta dal sacerdote libanese padre Antonio F., che da diversi anni aiuta i rifugiati iracheni, musulmani e cristiani, in Monte Libano. Il sacerdote ci ha chiesto di attirare l’attenzione non solo sui cristiani presenti in Iraq, ma anche sui tanti iracheni, cristiani e musulmani, dimenticati da diversi anni in piccole nazioni come il Libano. Dimenticati perché non fanno notizia o scoop, anche se «ammontano a diverse migliaia, e richiedono un reale sostegno materiale e morale». Migliaia di iracheni sono stati accolti nei Paesi confinanti, e nel caso del Libano – come ci ha spiegato padre Antonio – ci sono serie difficoltà nel portare avanti economicamente questo impegno assunto con gratuità e generosità. Pertanto, ha lanciato l’appello alle grandi organizzazioni umanitarie affinché diano una mano alle chiese, ai conventi e alle piccole comunità libanesi che da anni si dedicano ad aiutare i rifugiati iracheni.

Creare futuro

La dottoressa W. W., attivista umanitaria irachena che ha perso nell’ultimo attentato ben sette amici, ha descritto così la situazione: «I cristiani in Iraq sono divisi tra chi vuole resistere e rimanere, e chi ha paura e vuole andarsene perché la situazione è veramente e gravemente precipitata». Ed ha aggiunto: «So che la Chiesa desidera che la gente non emigri, ma la situazione ora è molto più grave del preservare la tradizione e la civiltà cristiane tanto radicate in questa terra… in gioco ci sono le vite di persone e non posso immaginare che la Chiesa, che è madre e maestra, preferisca le pietre alle persone».
Da qui ha invitato tutti i cristiani del mondo, e soprattutto in Occidente, a fare dei passi concreti per creare futuro per i cristiani dell’Iraq, aiutandoli a trasferirsi in altre nazioni: «Sapendo che è utopico chiedere a ogni famiglia in Europa di adottare una famiglia irachena, suggerisco una cosa più pratica: che ogni parrocchia adotti una famiglia cristiana dall’Iraq, per permetterle di ripartire con una vita dignitosa».

Una nuova diffusione della fede

Infine, il monaco Boulos M. ha chiesto alle autorità internazionali e alle comunità cristiane di esigere dalle nazioni islamiche e dai musulmani una denuncia aperta e chiara di questi atti barbarici, ed ha invitato a non rimanere spettatori passivi dinanzi a questo eccidio «perché se lo rifiutano veramente allora lo devono anche denunciare apertamente». E assieme ai passi concreti, ha incoraggiato a elevare lo sguardo verso la nostra speranza cristiana «giacché la Chiesa è iniziata così: dopo la Pentecoste è venuta la persecuzione, e proprio con la persecuzione si è diffusa la Chiesa».
In questo contesto, ha ricordato il Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente tenutosi in Vaticano dal 10 al 24 ottobre scorsi e che è stato paragonato a «una nuova Pentecoste», ed ha aggiunto: «ecco, dopo questa nuova Pentecoste, si ripete lo stesso scenario antico e sopraggiunge la persecuzione. Gioite quindi cari martiri perché il Signore ha ascoltato il grido del vostro sangue che sarà le fondamenta di nuove chiese e il seme di nuovi cristiani».
Ed ha citato un passo ancora attuale di sant’Ignazio d’Antiochia che scrive: «Per gli altri uomini “pregate senza interruzione”. In loro vi è speranza di conversione perché trovino Dio. Lasciate che imparino dalle vostre opere. Davanti alla loro ira siate miti; alla loro megalomania siate umili, alle loro bestemmie opponete le vostre preghiere; al loro errore “siate saldi nella fede”; alla loro ferocia siate pacifici, non cercando di imitarli. Nella bontà troviamoci loro fratelli, cercando di essere imitatori del Signore. Chi più di lui ha sofferto di più l’ingiustizia? Chi come di lui ha avuto più privazioni?». E infine ha concluso dicendo: «Tutto ciò che possiamo fare è mostrare al mondo che l’amore è più forte della spada».

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