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Autobiografia di un rivoluzionario: Torna il romanzo-capolavoro di Chesterton: “Uomovivo”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-19780?l=italian

Autobiografia di un rivoluzionario

Torna il romanzo-capolavoro di Chesterton: “Uomovivo”

di Paolo Pegoraro*

ROMA, mercoledì, 7 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Continua la primavera italiana di Chesterton. Dopo la riedizione di L’uomo eterno (Rubbettino), fuori commercio da oltre 70 anni, le doppie nuove traduzioni del San Francesco d’Assisi e del San Tommaso d’Aquino (Mursia, Lindau, Fede&Cultura), torna finalmente il suo romanzo-capolavoro: Uomovivo (Morganti, pp. 251, € 15). Era riapparso nel 1997 per Piemme nella traduzione, pure pregevole ma ormai stagionata (1933), di Emilio Cecchi.

In questa nuova versione di Paolo Morganti la preoccupazione filologica è ben presente fin dal titolo – l’originale è Manalive, cioè proprio Uomovivo – finora tradotto con Le avventure di un uomo vivo. E dire che lo stesso Chesterton dava grande importanza a questo soprannome del suo protagonista, tanto da precisare: «dovete scriverlo tutto attaccato, oppure lui si arrabbia davvero».

Ma chi è, dunque, questo “Uomovivo”? È Innocent Smith, vitale come una scimmia, fisico colossale e testa piccola, che compare d’improvviso in una locanda dove un pugno di giovani inquilini spreca la propria esistenza nell’indecisione. Smith è bufera umana. Al suo passaggio, folle e smisurato, avvengono episodi inspiegabili: improvvise proposte di matrimonio, furti, rapimenti e pistolettate a chi non festeggia il proprio compleanno.

L’onda di avvenimenti anomali preoccupa le autorità e alla pensione viene improvvisato un processo surreale per capire chi è Innocent Smith. Un rivoluzionario, uno «che ha spezzato le consuetudini, ma ha conservato i comandamenti», come vuole la difesa? Oppure – come sostiene l’accusa – uno che «ha lasciato nel mondo, dietro di sé, una lunga scia di sangue e di lacrime», un «grande diavolo fantastico» da rinchiudere in una fortezza protetta da cannoni? Due posizioni inconciliabili, assolute. Da teodicea. E in effetti viene da chiedersi se Innocent Smith non sia in una certa misura una figura tipologica di Cristo, l’unico innocente, che non apre bocca mentre lo processano.

D’altra parte la metafora del processo metafisico – tanto cara a Dostoevskij, Kafka, Lagerkvist o Wiesel – torna spesso nella narrativa di Chesterton (L’uomo che fu giovedì, la conclusione di Il club dei mestieri stravaganti, Quattro candide canaglie,…). Ma i suoi romanzi finiscono con improvvisi proscioglimenti da ogni accusa. Allegre assoluzioni.

Chi è, allora, Innocent Smith? Certamente non il coniuge di Mary Poppins, sua caramellosa caricatura. Perché Smith è innocente, ma non ingenuo. Anzi, è genuino proprio perché non è ingenuo. Cani e bimbi – invocati dal suo avvocato nel finale – sono ingenui, perché non possono scegliere il male; mentre Smith è innocente perché ha conosciuto la malattia nichilista, ma ha optato coraggiosamente per un’altra strada.

Nelle pagine immortali che raccontano la disputa dell’ancora giovane Smith con il suo professore universitario, il pessimista Emerson Eames, si percepisce un’impellenza straordinaria, palesemente autobiografica. Perché Smith prende sul serio la filosofia del suo professore: o, come egli sostiene, la vita è orribile nonsenso, e allora morire è un dono da regalarsi subito; oppure è la filosofia pessimistica a essere un orribile nonsenso, e allora bisogna estirparla con acribia. Provato che, nonostante i suoi roboanti proclami, il professor Eames si aggrappa alla vita quando gli viene puntata addosso una pistola, Innocent si dedicherà con zelo alla seconda missione. Ma le parole che suggellano la sua scelta sono, letteralmente, lapidarie: «Io dovevo provare che lei aveva torto o dovevo morire».

L’innocenza di Smith è stata comprata a caro prezzo. Egli non è irragionevolmente felice perché non ha mai conosciuto la disperazione, ma ragionevolmente entusiasta perché l’ha attraversato a nuoto, guadagnandosi la gioia di vivere bracciata dopo bracciata. «Fino a che non vediamo lo sfondo di tenebra – scriverà Chesterton in Eretici – non possiamo ammirare la luce anche di una sola cosa creata». Solo nel momento in cui ci si rende conto che le cose potrebbero benissimo non esserci, si smette di dare per scontata l’esistenza, nonostante la scandalosa costanza del suo ripetersi.

Il percorso di Smith altro non è che quello dello stesso Chesterton, il quale in gioventù si occupò «superficialmente d’infinite cose» – così nella sua Autobiografia –, perfino di spiritismo. Aveva mille strumenti sparsi attorno a sé, ma inutilizzati; e la sua volontà era paralizzata nello stallo di un’equidistanza intellettualista. L’iconografia classica del melanconico. Anche Chesterton, come Smith, affrontò un duello mortale con la disperazione, ma sconfisse la sua novecentesca “malattia dell’infinito” nel momento stesso in cui incontrò il volto dell’Infinito. E scoprì che esso aveva una faccia umana, naso bocca e due gambe, proprio come l’amabile gente comune, creata a Sua immagine.

Chesterton riconobbe l’Innocente negli occhi dell’uomo comune e volle essere il suo difensore (il cognome “Smith”, cioè “fabbro”, corrisponde al nostro “Rossi”: l’autore ne scrisse una vibrante apologia ancora nel 1905, dieci anni prima di scrivere Uomovivo). Non perché Chesterton fosse polemico di carattere: era piuttosto il mondo che continuava a provocarlo. Proprio non riusciva a stare zitto quando un garbato gentleman, sorseggiando il suo the pomeridiano, si lasciava sfuggire en passant che la vita non vale la pena di essere vissuta, offendendo in un sol colpo l’intero creato e il suo Creatore.

Per questo Chesterton potrà scrivere, ne L’osteria volante: «Trovare e combattere il male è il principio di ogni allegria». “L’eterna rivoluzione” è il titolo di uno dei capitoli più vibranti del suo saggio Ortodossia (1908). Ecco la fonte della sua inesauribile vis comica la quale, prima che essere comica, è soprattutto vis: un atto di rivolta, un’insurrezione, una reazione. Un motto di spirito, cioè un movimento provocato nelle acque di un’anima stagnante. Allegrezza e coraggio, epica contentezza, un giocoso senso di sfida: ecco il connubio chestertoniano vincente. Ma mai l’uno senza l’altro: mai l’infinita burletta che riveste un disperato carpe diem, mai l’eroica tragedia di un’inevitabile sconfitta contro il Fato. La sua è la grande risata degli uomini cristiani, come spiega nel poema La ballata del Cavallo Bianco (1911 – appena tradotto in italiano da Raffaelli editore).

Il ritratto più azzeccato dello scrittore fu una caricatura di Thomas Derrick che lo ritrasse come un san Giorgio burlesco, un assurdo Sancho Panza armato non della lancia del «cavaliere dalla triste figura», ma di… una penna. Che è più potente di ogni spada, come ben sapeva san Paolo.

Un’ultima domanda: se Uomovivo è Innocent Smith, e Smith è Chesterton, chi era Chesterton? Domanda affatto scontata se un critico della levatura di Pietro Citati – in un lungo articolo del 1997 recentemente riproposto – arguiva che lo scrittore inglese trovasse noioso il bene ed eccitante il male: quando il suo percorso umano e artistico fu precisamente il contrario, biografia e opere alla mano.

Chesterton, aggiunge Citati, «avrebbe dato la vita, e forse l’anima, per una bella battuta». Ma egli aveva capito, semmai, che una bella battuta poteva salvare una vita, talvolta perfino un’anima. «Una caratteristica dei grandi santi è il loro potere di leggerezza – scriverà in Ortodossia. – La serietà non è una virtù […] È facile esser pesanti, difficile essere leggeri. Satana è caduto per la forza di gravità». Egli si difese dal culto della bella pagina reverendo l’umana emotività di scadenti romanzetti di genere.

Un ultimo appunto. Chesterton, secondo Citati, «condivideva nell’intimo l’idea dei suoi rivali: faceva fatica a non abbracciarla». Egli, ci pare, fu molto più generoso e molto più temerario: abbracciò i suoi rivali, ma sparò a vista alle loro idee. George Bernard Shaw non ebbe avversario più acerrimo né amico più sincero o biografo migliore di lui. H.G. Wells, fustigato per le oltre trecento pagine di L’uomo eterno, inviò un telegramma commosso per la morte del suo nemicoamico.

Chesterton li amò teneramente. Mandava allegramente al diavolo le loro gravi teorizzazioni perché essi, liberati dai macigni dell’ideologia, potessero sollevarsi fino a Dio come palloncini. Prendeva sul serio le loro idee e le proprie, ma non prese mai troppo sul serio se stesso. La beatitudine dell’allegria – così duramente scelta e conquistata – fece di lui un uomo capace di suscitare la simpatia e l’affetto di tutti, anche di chi pensava di essere un suo avversario.
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* Paolo Pegoraro è Caporedattore del mensile “Paulus”. L’articolo sopra riportato è stato pubblicato in versione ridotta sul quotidiano “L’Osservatore Romano”.

Il dottor House, uno spirito religioso alla ricerca della verità

dal sito:

http://www.zenit.org/article-19329?l=italian

Il dottor House, uno spirito religioso alla ricerca della verità

di Carlo Bellieni*
                    

ROMA, mercoledì, 2 settembre 2009 (ZENIT.org).- Molti siti sul web si sono occupati della nostra lettura del fenomeno “House MD”, su cui abbiamo recentemente scritto un breve saggio (House MD: follia e fascino di un cult movie. Cantagalli ed). Anche sul sito dell’American “Journal of Bioethics”, una delle maggiori riviste mondiali di bioetica, se ne parla stupiti, in un articolo (“Dr House is pro-life? Just ask the Vatican”) che così sostiene: “Per il suo rude comportamento, per lo sbraitare ai pazienti, scherzare su chiunque, prendere scorciatoie per fare di tutto per salvare un paziente, e per il suo mantra Tutti mentono, è da escludere che House rientri in una cultura pro-life”[1].

In realtà, nell’articolo dell’Osservatore Romano cui il sito di bioetica si riferisce, non parliamo di un House pro-life (House flirta troppo – spiegavamo – con l’idea di aborto o di eutanasia per annoverarlo tra i pro-life), ma di un livello di House ancora più profondo: l’House religioso e vale la pena di fare una riflessione sproprio su questo fraintendimento.

Come è possibile che House sia religioso, se si dichiara quasi sempre ateo? Come è possibile, se è spesso rude e cattivo? Ecco, domandarsi questo significa non capire cosa è il senso religioso, che non è roba “da buoni”, ma paradossalmente è proprio “roba da cattivi” (il cristiano è invitato sempre a riconoscere – e non formalmente! – di essere più peccatore degli altri).

Questo non è “giustificazionismo” degli errori, ma solo ricordare che il senso religioso è nel cuore di tutti e che certi atteggiamenti lo mostrano chiaramente. Il senso religioso di House è cercare la verità sapendo che una verità c’è e che non è tutto relativo e fatuo. E da questa inquietudine trapelano segni chiari del fatto religioso.

Non a caso House cerca in un episodio di darsi la morte per “vedere” cosa c’è dopo la vita terrena, non a caso fa lunghe chiacchierate con suore o preti, va in Chiesa alla messa di Natale, e cerca disperatamente la verità dei casi che ha di fronte, proprio per la certezza che la verità esiste (mentre la cultura attuale ci insegna che la verità non c’è), e afferma, di fronte ad una bellissima ragazza: “Un corpo così lo può aver scolpito solo Dio” (e all’obiezione “Ma non eri ateo?” risponde: “Si cambia idea”).

Non a caso Chase, l’assistente di House, si riavvicina alla fede, non a caso House dirà frasi del tipo “Ogni vita ha delle qualità” – contraddicendo il culto della “qualità della vita” – e anche: “Serve essere religiosi per riconoscere che un feto è vita?”; e lo vedremo lasciarsi simpaticamente beffare da una ragazza che rappresenta la Vergine in un Presepio vivente.

Non ci stupisce che la cultura di oggi confonda il buono col religioso: si crede che il senso religioso sia un fatto da anime pie e predestinate all’ascesi. Cioè un fatto per pochi che vivono in una dimensione diversa da quella delle persone comuni. House può anche non essere pro-life (cioè “buono”) ed essere in cuor suo religioso, perché il senso religioso non è altro che questo: la certezza che da qualche parte la verità c’è e il desiderio di trovarla. E non è affascinato da una mera curiosità, perché la curiosità non cerca la verità, ama qualcosa che già si è immaginato.

D’altronde dobbiamo dire per onor di verità che tanti segni cosiddetti “pro-life” emergono nella serie TV, dalla manina del feto che sfiora la sua e gli impone di iniziare a chiamarlo “bambino”, ai giudizi contro la droga (paradossali in un tossicodipendente, ma non dimentichiamo che prende stupefacenti non per “fare un viaggio”, ma per vincere il dolore) o all’ironia sulla fecondazione eterologa.

Il libro che abbiamo scritto non è fatto per  “arruolare” House, nessuno ne sente il bisogno, ma per spiegare cosa significa davvero il termine “religioso”, dato che quasi nessuno lo sa più.

Chi lo sapeva bene era paradossalmente proprio chi aborriva la religione: Friederich Nietzsche, proprio perché aveva capito che la religione è fondamentale per l’uomo proprio come la scienza (e infatti ne “La Gaia Scienza” le biasima entrambe proprio perché si basano sulla certezza che la verità c‘è e va cercata).

La ricerca della verità è il primo passo di uno spirito religioso; il passo successivo è la “mendicanza”, cioè la domanda, e anche di questa troviamo segni chiari in House, magari espressa verso pazienti o verso dei sacerdoti, che capiscono e spiegano che House li provoca proprio per essere sconfitto.

La cultura attuale “postmoderna” invece insegna che la verità non esiste, è inutile cercarla, tantomeno domandarla; che anche la scienza deve cedere le armi di fronte al soggettivismo (quello per cui se non mi fa comodo certi esseri umani non sono persone, in barba a tutta l’evidenza scientifica).

Perciò, viva House! Viva lo spirito inquieto che, come nella puntata n. 15 della serie 5 (titolo: “Infedele”), distrugge i cliché costruiti contro i preti della Chiesa cattolica arrivando ad un forte lirismo e ad una potenza mistica. House è lontano dalla visione pro-life, ma è capace di stupore, di riconoscere la verità quando l’incontra; e se ce la fa lui, è possibile anche per noi.

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*Il dott. Carlo Bellieni è dirigente del Dipartimento di Terapia intensiva neonatale del Policlinico universitario « Le Scotte » di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.
[1] For all of his callous attitude, barking at patients, pranks on everyone he knows, cutting corners at every chance to do anything to save a patient, and his mantra « Everybody lies », it turns out that House ultimately fits right into a culture supporting the preservation of life.

Nel 1933, una lettera di Edith Stein al papa predice la Shoah

dal sito:

http://www.nostreradici.it/edith_Shoah.htm

Le Monde rende nota la scoperta di una lettera di Edith Stein a papa Pio XI 
  
1 marzo 2003 – Henry Tincq (trad. per Le nostre Radici di Antonio Marcantonio)
 
Nel 1933, una lettera di Edith Stein al papa predice la Shoah

(Il testo della lettera sul sito, anche sul mio blog: la pagina di San Paolo)

Come si può spiegare il fatto che la Chiesa cattolica sia rimasta così a lungo sorda ad una lettera tanto profetica ed abbia impiegato settant’anni a farla uscire dai suoi archivi? Il 12 aprile 1933, alcune settimane dopo l’insediamento di Hitler al cancellierato, una filosofa cattolica tedesca di origine ebraica trova l’ardire di scrivere a Roma per chiedere a papa Pio XI e al suo segretario di Stato – il cardinale Pacelli, vecchio nunzio apostolico in Germania e futuro Pio XII – di non tacere più e di denunciare le prime persecuzioni contro gli ebrei.

Si tratta della voce di Edith Stein. Nata nel 1891 a Breslavia, convertitasi nel 1922, Edith Stein viene espulsa dall’università nel 1934, prima di entrare nel Carmelo di Colonia. Nell’agosto del 1942, in un convento olandese in cui i suoi superiori la credevano al sicuro, viene arrestata e deportata ad Auschwitz insieme a sua sorella Rosa. Entrambe vengono uccise nei forni crematori immediatamente dopo il loro arrivo. Edith Stein è stata canonizzata da Giovanni Paolo II l’11 ottobre 1998.

Gli storici del Vaticano conoscevano l’esistenza di questa lettera indirizzata al papa nel 1933, ma ne ignoravano il contenuto: lo hanno appreso in séguito alla recente apertura degli archivi del Vaticano riservati al pontificato di Pio XI (1922-1939). La chiaroveggenza con cui Edith Stein testimonia la crudeltà del regime nazista è pari al coraggio del suo intervento: «Si tratta di un fenomeno che provocherà molte vittime. Si può pensare che gli sventurati che ne saranno colpiti non avranno abbastanza forza morale per sopportare il loro destino. Ma la responsabilità di tutto ciò ricade tanto su coloro che li spingono verso questa tragedia, tanto su coloro che tacciono. Non solo gli ebrei, ma anche i fedeli cattolici attendono da settimane che la Chiesa faccia sentire la sua voce contro un tale abuso del Nome di Cristo da parte di un regime che si dice cristiano.»

Ella aggiunge: «L’idolatria della razza, con la quale la radio martella le masse, non è di fatto un’eresia esplicita? (…) Noi temiamo il peggio per l’immagine mondiale della Chiesa se il silenzio si prolungherà ulteriormente.» La notorietà di Edith Stein non era certo allora quella attuale, ma questo documento prova – se ancora ce ne fosse stato bisogno – come la Chiesa, ai più alti livelli, fosse informata delle persecuzioni naziste ed abbia taciuto.
[Tratto da Le Monde del 1 marzo 2003]

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N.B.
“Non si può dimenticare il fermo atteggiamento di Pio XI, che abbandona Roma al momento della visita di Hitler in quella città, né le sue memorabili parole a un gruppo di pellegrini belgi (7 settembre 1938): « Spiritualmente noi siamo semiti”. Tuttavia i giornali italiani e l’ Osservatore Romano, che pubblicarono il suo discorso, non segnalarono questa frase. Così anche la coraggiosa enciclica Mit brennender sorge (1937), citata spesso per la sua condanna del razzismo, non menziona né critica l’antisemitismo come tale. Tuttavia la sua intenzione era conosciuta e quel grande papa resterà nel ricordo del popolo ebraico per il suo comportamento”.
[Fonte: Jochanan Elichaj, Ebrei e cristiani, Edizioni Qiqajon, pp. 45,46]

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Noi aggiungiamo che  la « Mit brennender sorge » fu diffusa e letta in tutte le Chiese di Germania la domenica delle Palme del 1937, a dispetto della Gestapo. Pio XI vi denunciava implicitamente le persecuzioni razziali e nel 1938, durante la visita di Hitler a Roma, egli si ritirò a Castel Gandolfo e fece chiudere i Musei Vaticani. [Nota della Redazione LnR]

Chesterton beato?

dal sito:

http://www.zenit.org/article-18953?l=italian

Chesterton beato?

Paolo Gulisano spiega le virtù dello scrittore britannico

di Antonio Gaspari

ROMA, lunedì, 13 luglio 2009 (ZENIT.org).- Anche in Italia è rimbalzata la notizia secondo cui potrebbe essere avviata la causa di beatificazione di Gilbert Keith Chesterton, lo scrittore inglese inventore del celeberrimo prete-investigatore padre Brown e autore di numerosi testi di narrativa e di saggistica apologetica.

Per saperne di più, ZENIT ha intervistato Paolo Gulisano, vicepresidente della Società Chestertoniana Italiana e autore della prima biografia italiana del grande scrittore, “Chesterton & Belloc-apologia e profezia” (edizioni Ancora).

Chi è che avanza la richiesta di beatificazione?

Gulisano: A proporre la beatificazione di Gilbert Keith Chesterton è stata l’Associazione culturale a lui dedicata, la Chesterton Society, fondata in Inghilterra nel 1974 (in occasione del centenario della nascita del grande scrittore) allo scopo di diffondere la conoscenza dell’opera, del pensiero e della figura di questo straordinario personaggio. Da anni si parla di una possibile causa di beatificazione, e pochi giorni fa, nel corso di un convegno organizzato a Oxford sul tema “La santità di G.K. Chesterton”, a cui hanno partecipato i maggiori esponenti nel campo degli studi chestertoniani, è stato deciso di sostenere questa proposta.

Perché beato?

Gulisano: In molti ritengono che ci sia una chiara evidenza della santità di Chesterton: le testimonianze sul suo conto parlano di una persona di grande bontà e umiltà, un uomo senza nemici, che proponeva la Fede senza sconti ma anche senza scontri, un difensore della Verità nella Carità. La sua grandezza sta anche nel fatto che seppe presentare il cristianesimo ad un pubblico vastissimo, di cristiani e di laici. I suoi libri, da “Ortodossia” a “San Francesco d’Assisi”, da “Padre Brown” a “La sfera e la croce”, sono brillanti presentazioni della fede cristiana testimoniata con chiarezza e coraggio di fronte al mondo.

Secondo le antiche categorie della Chiesa, potremmo definire Chesterton un confessore della fede. Egli non fu soltanto un apologeta, ma anche una sorta di profeta che intravvide con grande anticipo la drammaticità di questioni della modernità come l’eugenetica. Il domenicano inglese Aidan Nichols sostiene che si debba guardare a Chesterton addirittura come possibile ‘padre della Chiesa’ del ‘900.

Quali sono le sue virtù eroiche?

Gulisano: Fede, speranza e carità: queste furono le virtù fondamentali di Chesterton. Inoltre era innocente, semplice, profondamente umile. Pur avendo sperimentato personalmente il dolore, era un cantore della Gioia cristiana. L’opera di Chesterton è una sorta di medicina per l’anima, anzi, più precisamente può essere definita un antidoto. Lo stesso scrittore aveva in realtà usato la metafora dell’antidoto per indicare l’effetto sul mondo della santità: il santo ha lo scopo di essere segno di contraddizione e di restituire sanità mentale a un mondo impazzito.

Qual è il contributo culturale, letterario, morale e di fede che Chesterton ha dato alla società britannica e alla cristianità?

Gulisano: Quando apprese la notizia della morte del grande scrittore, Papa Pio XI mandò, per mezzo del Segretario di Stato Cardinale Eugenio Pacelli, un telegramma di cordoglio in cui si piangeva la perdita di “un devoto figlio della Santa Chiesa, difensore ricco di doni della Fede cattolica”. Era la seconda volta nella storia che un Pontefice attribuiva a un inglese la qualifica di “difensore della fede”. Forse la Segreteria di Stato non si era accorta dell’ironico accostamento, che avrebbe fatto esplodere Gilbert in una delle sue proverbiali risate, ma l’altro inglese era stato Enrico VIII, l’uomo che aveva inferto alla Chiesa in Inghilterra la più grave e profonda ferita. Chesterton cercò di riavvicinare l’Inghilterra, ma anche il mondo, a Dio, alla Fede, alla ragione.

Qual è la sua valutazione in merito all’intera vicenda?

Gulisano: La lettura di Chesterton, sia che si tratti dei romanzi che dei saggi, lascia sempre nel lettore una grande serenità e un sentimento di speranza che scaturisce non certo da una visione della vita irenistica e mondanamente ottimistica (che è in realtà quanto di più lontano dal pensiero di Chesterton, che denuncia dettagliatamente tutte le aberrazioni della modernità), ma dalla cristiana, virile fortezza dell’esperienza religiosa.

La proposta di Chesterton è quella di prendere sul serio la realtà nella sua integrità, a cominciare dalla realtà interiore dell’uomo, e di adoperare fiduciosamente l’intelletto – ovvero il buon senso – nella sua originale sanità, purificato da ogni incrostazione ideologica.

Raramente capita di leggere delle pagine in cui si parla di fede, di conversione, di dottrina, tanto chiare e incisive quanto prive di ogni eccesso sentimentalistico e moralistico. Ciò deriva dall’attenta lettura della realtà di Chesterton, il quale sa che la conseguenza più deleteria della scristianizzazione non è stato il pur gravissimo smarrimento etico, ma lo smarrimento della ragione, sintetizzabile in questo suo giudizio: « Il mondo moderno ha subìto un tracollo mentale, molto più consistente del tracollo morale ».

Di fronte a questo scenario Chesterton sceglie il cattolicesimo, e afferma che esistono almeno diecimila ragioni per giustificare questa scelta, tutte valide e fondatissime ma riconducibili a un unico motivo: che il cattolicesimo è vero, la responsabilità e il compito della Chiesa consistono dunque in questo: nel coraggio di credere, in primo luogo, e quindi di segnalare le strade che conducono al nulla o alla distruzione, a un muro cieco o a un pregiudizio. Un’opera indubbiamente santa, e la santità di Gilbert Chesterton che mi auspico la Chiesa possa riconoscere brilla rifulge già di fronte al mondo.

La conversione di Oscar Wilde

dal sito:

http://www.zenit.org/article-18812?l=italian

La conversione di Oscar Wilde

Intervista allo scrittore e saggista Paolo Gulisano

di Antonio Gaspari

ROMA, martedì, 30 giugno 2009 (ZENIT.org).- Oscar Wilde è fin troppo famoso, ma ben poco conosciuto. L’esteta, il commediografo brillante, l’icona del mondo gay, fu allo stesso tempo un ricercatore inesausto del Bello, del Buono, ma anche e soprattutto di quel Dio che non aveva peraltro mai avversato, dal quale si fece pienamente abbracciare dopo l’esperienza drammatica del carcere.

Wilde arrivò a chiudere il suo itinerario umano in comunione con la Chiesa Cattolica, adempiendo a quello che aveva scritto anni prima: “il Cattolicesimo è la sola religione in cui morirei”.

A rivelare la profonda cattolicità di Wilde è Paolo Gulisano, scrittore e saggista esperto del mondo britannico (è autore di diversi volumi su Tolkien, Lewis, Chesterton e Belloc) che ha appena pubblicato: “Il Ritratto di Oscar Wilde” (Editrice Ancora, pag 190 euro 14).

Si tratta di un ritratto a tutto tondo di Oscar Wilde, che rappresenta tutta la complessa personalità, ne evidenzia tutti gli aspetti, andando alla scoperta degli scenari su cui recitò la sua parte nel gran teatro della vita, delle sue passioni, dei suoi interessi, del suo immaginario e della sua attenzione ai problemi sociali, e infine del suo sentimento religioso profondo e autentico.

Per meglio conoscere la storia di un commediografo le cui opere vengono rappresentate nei teatri di tutto il mondo, ZENIT ha intervistato Paolo Gulisano.

Lei rintraccia nella figura di Wilde uno spessore ben maggiore di quello comunemente attribuitogli, cioè di un dandy brillante e superficiale, un esteta dalla battuta pronta ma effimera. Viceversa lei tira in ballo nozioni come Bellezza e Verità…

Gulisano: Oscar Wilde rappresenta un mistero non ancora pienamente svelato, un uomo e un artista dalla personalità poliedrica, complessa, ricca. Non solo un anticonformista che amava stupire la conservatrice società dell’Inghilterra vittoriana, ma anche un lucido analizzatore della Modernità con i suoi aspetti positivi e soprattutto inquietanti.

Il Ritratto di Dorian Gray è il racconto straordinario dell’uomo moderno che insegue disperatamente un’Eterna Giovinezza, che si pone l’obiettivo utopistico di vincere o perlomeno ingannare la morte. Non solo un’esteta, il cantore dell’effimero, il brillante protagonista dei salotti londinesi, ma anche un uomo che dietro la maschera dell’amoralità si interrogava e invitava a porsi il problema di ciò che fosse giusto o sbagliato, vero o falso, persino nelle sue principali commedie degli equivoci.

Wilde è ancora oggi una icona gay per il celebre processo subito che segnò la fine della sua fortuna. Può riassumere in breve la vicenda giudiziaria ed anche la correzione di prospettiva che lei introduce?

Gulisano: Wilde non può essere definito tout court “Gay”: aveva amato profondamente sua moglie, dalla quale aveva avuto due figli che aveva sempre amato teneramente e ai quali, da bambini, aveva dedicato alcune tra le più belle fiabe mai scritte, quali “Il Gigante egoista” o “Il Principe Felice”. Il processo fu un guaio in cui finì per aver querelato per diffamazione il Marchese di Queensberry, padre del suo amico Bosie, che lo aveva accusato di “atteggiarsi a sodomita”. Al processo Wilde si trovò di fronte l’avvocato Carson, che odiava irlandesi e cattolici, e la sua condanna non fu soltanto il risultato dell’omofobia vittoriana.

Qual è stato il tormentato rapporto tra Wilde e la verità cattolica, rapporto che è un po’ il file rouge del suo lavoro?

Gulisano: Il cammino esistenziale di Oscar Wilde può anche essere visto come un lungo e difficile itinerario di conversione al cattolicesimo. Una conversione di cui nessuno parla, e che fu una scelta meditata a lungo, e a lungo rimandata, anche se – con uno dei paradossi che tanto amava- , Wilde affermò un giorno a chi gli chiedeva se non si stesse avvicinando troppo pericolosamente alla Chiesa Cattolica: « Io non sono un cattolico. Io sono semplicemente un acceso papista ». Dietro la battuta c’è la complessità della vita che può essere vista come una lunga e difficile marcia di avvicinamento al Mistero, a Dio.

Ci sono molte curiosità a proposito di Wilde. Una è che le figure che determinarono la sua esistenza finirono quasi tutte per convertirsi…

Gulisano: Esatto: amici come Robbie Ross, Aubrey Beardsley, e addirittura quel John Gray che gli ispirò la figura di Dorian Gray che diventato cattolico entrò anche in Seminario a Roma e divenne un apprezzatissimo sacerdote in Scozia. Infine, anche il figlio minore di Wilde divenne cattolico.

Lei da anni indaga, nei suoi libri, il filo d’oro culturale e religioso che percorre in modo a volte celato, la cristianità anglosassone, da cinque secoli staccata da Roma e per certi versi una centrale mondiale di secolarizzazione e anticattolicità. C’è un disegno in queste sue indagini? Dove trova le motivazioni? Perchè questa ricerca?

Gulisano: L’Inghilterra cattolica ha conosciuto per prima in Europa la persecuzione, la secolarizzazione, il tentativo di emarginare la Fede; per questo ha sviluppato quegli anticorpi spirituali che sono presenti in autori quali Newman, Chesterton, Tolkien. E possono fornire ancora oggi un utile vaccino contro i mali spirituali del nostro tempo. 

La stampa laica trascura i tesori dei discorsi papali

dal sito:

http://www.zenit.org/article-18228?l=italian

La stampa laica trascura i tesori dei discorsi papali

Padre Thomas Wiliams commenta il pellegrinaggio in Terra Santa

GERUSALEMME, martedì, 12 maggio 2009 (ZENIT.org).- Il sacerdote della Congregazione dei Legionari di Cristo, padre Thomas Williams (www.thomasdwilliams.com), un teologo statunitense che vive a Roma, segue per la CBS News la storica visita di Benedetto XVI in Terra Santa. Per l’occasione offrirà una cronaca del suo viaggio anche a ZENIT. Di seguito riportiamo il suo primo commento.

* * *

Sono arrivato in Israele domenica sera, per essere qui per l’arrivo di Benedetto XVI lunedì mattina. Il proverbiale sistema di sicurezza israeliano è stato aumentato per la visita del Santo Padre, ma nonostante polizia e telecamere ovunque siamo riusciti ad attraversare l’aeroporto con ritardi minimi. Per fortuna non ero andato in Messico la settimana scorsa, visto che dei cartelli invitavano quanti c’erano stati a recarsi al posto sanitario dell’aeroporto per gli accertamenti contro l’influenza A.

Gerusalemme dista solo 30 miglia dall’Aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, per cui il viaggio non è durato più di 45 minuti. Il mio taciturno autista Hezi mi dava segnalazioni occasionali durante il viaggio (indicando anche il suo quartiere) mentre attraversavamo rombando l’autostrada con la sua malridotta Subaru bianca, ma è diventato estremamente cordiale quando gli ho detto che non mi dava fastidio se fumava in macchina.

Quando la Città Santa di Gerusalemme è apparsa all’orizzonte, emergendo dal panorama come una versione bianco-mediterraneo della Città di Smeraldo di Oz, mi ha tolto il fiato. E’ solo la mia seconda visita in Terra Santa, e camminare dove ha camminato Gesù e guardare la città che ha amato così profondamente è una sensazione indescrivibile.

La città è abbellita per la visita del Papa con bandiere bianche e gialle che costellano il viale principale intorno alla Città Vecchia, intervallate dalle bandiere dello Stato di Israele, bianche con la stella di Davide blu. Gli emblemi papali non sono gli unici segni da notare, ovviamente, e molti cartelloni annunciano l’arrivo sugli schermi della versione cinematografica di “Angeli e demoni”. Ovunque, qui, il sacro e il profano sono fianco a fianco.

In questo pellegrinaggio papale precedente all’arrivo del Pontefice in Israele sono già avvenute molte cose. Benedetto XVI ha trascorso tre giorni proficui nel Regno di Giordania, dove ha visitato il Monte Nebo, da dove Mosè fece spaziare lo sguardo dal fiume Giordano alla Terra Promessa, così come la Moschea Al-Hussein Bin Talal, dove ha pronunciato un brillante discorso sul dialogo interreligioso e interculturale.

Questo mi fa venire in mente una riflessione per me ricorrente in questi giorni. Molte persone hanno sentore di ciò che Papa Benedetto dice o scrive quando qualche sua frase o qualche azione suscita proteste e viene ripresa dai media secolari. Ciò porta a una visione del tutto parziale e ingiustamente negativa del Papa. Quasi chiunque, quindi, sa che un commento a Ratisbona (Germania) nel 2006 ha infastidito i musulmani, e che ha rimesso la scomunica a quattro Vescovi scismatici, uno dei quali nega l’Olocausto, ma pochi hanno letto le sue Encicliche sull’amore e sulla speranza, o ascoltato i suoi discorsi su San Paolo e i Padri della Chiesa.

Questa domenica Benedetto XVI ha celebrato una Messa all’aperto nell’International Stadium di Amman, dove un altro gioiello di questo tipo è sfuggito all’attenzione dei media. In questo Paese a maggioranza musulmana, il Papa ha scelto di esporre un’approfondita riflessione sulla dignità delle donne, riferendosi al loro “carisma profetico” e lodandole come “portatrici di amore, maestre di misericordia e costruttrici di pace”.

“Con la sua pubblica testimonianza di rispetto per le donne e con la sua difesa dell’innata dignità di ogni persona umana, la Chiesa in Terra Santa può dare un importante contributo allo sviluppo di una cultura di vera umanità e alla costruzione della civiltà dell’amore”, ha aggiunto.

Arrivando in Israele questo lunedì mattina, il Papa ha subito voluto dissipare ogni dubbio residuo circa la sua posizione sull’Olocausto ebraico. Nel suo primo discorso, all’aeroporto di Tel Aviv, ha affermato: “È giusto e conveniente che, durante la mia permanenza in Israele, io abbia l’opportunità di onorare la memoria dei sei milioni di Ebrei vittime della Shoah, e di pregare affinché l’umanità non abbia mai più ad essere testimone di un crimine di simile enormità. Sfortunatamente, l’antisemitismo continua a sollevare la sua ripugnante testa in molte parti del mondo. Questo è totalmente inaccettabile. Ogni sforzo deve essere fatto per combattere l’antisemitismo dovunque si trovi, e per promuovere il rispetto e la stima verso gli appartenenti ad ogni popolo, razza, lingua e nazione in tutto il mondo”.

Il Papa non vuole che resti un’ombra di dubbio sulla sua ripugnanza nei confronti dell’antisemitismo, e sta cercando di uccidere rapidamente il drago prima che sollevi la sua terribile testa. Si spera che la sua evidente buona volontà ne susciti una uguale da parte di tutti coloro che lo ascoltano.

La sua toccante visita al Memoriale dell’Olocausto di Yad Vashem lunedì pomeriggio ha offerto un’ulteriore conferma del suo impegno per promuovere le relazioni tra ebrei e cristiani e presentare una posizione unita a favore dei diritti umani. Dopo l’incontro, ho parlato con molti ebrei per la strada e la maggior parte di loro è stata soddisfatta di come sono andate le cose, anche se un uomo mi ha detto che il Papa avrebbe dovuto dire che milioni di ebrei sono stati “assassinati” e non “uccisi”. Onestamente ho qualche problema nel percepire questo livello di cavillosità semantica, ma ovviamente lui pensava che fosse importante.

Finora nelle sue varie attività in Terra Santa il Papa non solo ha evitato i problemi che molti avevano previsto, ma ha anche perseguito attivamente una via molto più elevata, sfidando i suoi ascoltatori alla pace, alla giustizia, al dialogo e al rispetto reciproco. Nei prossimi giorni ci si aspetta ancor di più.

[Traduzione dall'inglese di Roberta Sciamplicotti]

La Sindone: un incontro tra scienza e fede

dal sito:

http://www.zenit.org/article-18108?l=italian

La Sindone: un incontro tra scienza e fede

Presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma

ROMA, lunedì, 4 maggio 2009 (ZENIT.org).- Il Master in Scienza e Fede dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” ha organizzato la presentazione di tre volumi sulla Sacra Sindone.

L’incontro si terrà giovedì 7 maggio, alle ore 16:00, a Roma, presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” (via degli Aldobrandeschi 190) e sarà trasmesso in videoconferenza anche a Bologna, presso l’Istituto Veritatis Splendor.

L’evento, realizzato con il supporto del progetto STOQ, dell’Aracne Editrice e delle Edizioni ART, sarà aperto da un saluto di padre Pedro Barrajón, L.C., Rettore della “Regina Apostolorum”.

Seguirà, alle 16:15, la presentazione del libro “La Sindone tra scienza e fede”. Interverranno Padre Gianfranco Berbenni, Ofm cap, della Pontificia Università Lateranense (“I programmi di ricerca sulla Sindone”), e il prof. Petrus Soons, autore dell’ologramma della Sindone (“Le scoperte alla luce dell’immagine ologrammica”).

Dopo una pausa, alle 17:30, si terrà la presentazione del libro “L’uomo della Sindone”, con il prof. Avinoam Danin, Cattedratico di Botanica dell’Università Ebraica di Gerusalemme, il quale sostiene che l’unico luogo al mondo, in cui le persone avrebbero potuto raccogliere parti fresche di almeno quattro specie di piante rinvenute sulla Sindone e collocarle sul corpo dell’uomo che in essa fu avvolto, è l’area geografica tra Gerusalemme ed Hebron.

Alle 18:00 si terrà, infine, la presentazione del libro “La Sindone. Una sfida alla scienza moderna”. Interverrà il Prof. Giulio Fanti, docente di Misure Meccaniche e Termiche al Dipartimento di Ingegneria Meccanica dell’Università di Padova, con una relazione sul tema “La formazione dell’immagine dell’uomo della Sindone”.

Durante l’incontro sarà possibile visitare la mostra permanente “Chi è l’uomo della Sindone?” allestita presso la “Regina Apostolorum”. La mostra ospita, fra l’altro, una copia della Sindone di Torino, un ologramma e una scultura che cercano di ricostruire in tre dimensioni il corpo dell’uomo sul lenzuolo, ed una riproduzione della corona di spine, dei chiodi e dei flagelli utilizzati, secondo quanto è stato possibile rilevare dall’immagine.

Inoltre alcuni grandi pannelli ripercorrono la storia della Sindone e illustrano le principali ricerche scientifiche degli ultimi anni, con particolare riferimento ai recenti studi nel settore della botanica.

[Per maggiori informazioni: tel. 06 665431; www.upra.org; carloclimati@mclink.it]

Tentativi di ricucire uno scisma, La revoca delle scomuniche favorirebbe il dialogo con gli ortodossi

dal sito:

http://www.zenit.org/article-16982?l=italian

Tentativi di ricucire uno scisma
La revoca delle scomuniche favorirebbe il dialogo con gli ortodossi

ROMA, martedì, 27 gennaio 2009 (ZENIT.org).- La revoca della scomunica ai quattro Vescovi della Fraternità Sacerdotale S. Pio X (FSSPX) sta suscitando un intenso dibattito.

Diversi e moltissimi i temi sollevati. Per cercare di chiarire i termini della questione, ZENIT ha intervistato don Alfredo Morselli, parroco nella Diocesi di Bologna e uno dei sacerdoti incaricati dal Cardinale Carlo Caffarra di celebrare la Messa Tridentina

Qual è il significato della revoca della scomunica?

Don Alfredo: Mi pare che il significato sia duplice: in primo luogo si tratta di un atto di paternità nei confronti degli stessi Vescovi e di tutti i fedeli legati alla fraternità San Pio X. Sono molto significative le parole di mons. Fellay in una recentissima intervista: “L’ho capito dalla prima udienza in cui lo incontrai poco dopo la sua elezione. Pur muovendoci dei rimproveri, il Santo Padre aveva un tono dolce, veramente paterno… E’ un atto gratuito e unilaterale che mostra che Roma ci vuole realmente bene. Un bene vero”.

Ma questo gesto è soprattutto un messaggio a tutta la Chiesa e a tutto il mondo, la più energica riproposizione della chiave ermeneutica di questo pontificato: l’ “ermeneutica della riforma e della continuità”.

Può spiegare meglio quest’ultimo punto?

Don Alfredo: Ci sono persone che dopo il Concilio Vaticano II hanno parlato dell’ “ermeneutica della discontinuità”, mentre il Pontificato di Benedetto XVI sostiene che “la Chiesa e la sua fede non possono cambiare e non sono cambiate”.

Il Pontefice si sta impegnando, con tutta la forza del suo Magistero, a “spiegare come la fede della Chiesa, pur insidiata dalla tentazione della discontinuità e della rottura, non è mai andata soggetta a trasmutazione”.

E sembra che mons. Fellay stia accettando questa prospettiva. Se ho ben capito le sue parole, egli afferma che nel Papa “traspaiono, insieme, la consapevolezza dei tempi in cui viviamo, la fermezza nel porvi rimedio e l’attenzione a tutti i suoi figli”.

Rilevante la dichiarazione di mons. Fellay rilasciata ad un giornale francese: “Io credo nell’infallibilità della Chiesa e penso che arriveremo ad una soluzione vera”. (http://www.letemps.ch/Facet/print/Uuid/68fdc1aa-eb30-11dd-b87c-1c3fffea55dc/Je_crois_à_linfaillibilité_de_lEglise)

Molti hanno parlato della fine di uno scisma, di un atto che non ha precedenti nella storia. Qual è il suo commento in merito?

Don Alfredo: Diciamo che se alla buona volontà del Papa corrisponderà altrettanta buona volontà da parte della FSSPX, avremo evitato uno scisma.

E’ vero che i Vescovi i sacerdoti e i fedeli della Fraternità sacerdotale di San Pio X hanno sempre riconosciuto e pregato per il Papa?

Don Alfredo: Questo è verissimo. Mons. Lefebvre definì anni addietro “Colpo da maestro di satana” l’allontanamento dei fedeli dalla Tradizione credendo di obbedire. Ma sarebbe stato ancora più grave riuscire a staccare da Pietro i Tradizionalisti, che hanno nel loro DNA il massimo amore alla Sede Apostolica: e così si capisce un certo malcontento progressista per la felice soluzione del caso.

Perché la Fraternità sacerdotale di San Pio X ha così tante vocazioni al sacerdozio?

Don Alfredo: La Messa Tridentina – contra factum non fit argumetum – è una fucina di vocazioni: nel rito romano antico viene proposto un modello di sacerdozio dove la singolarità del prete scompare e dove emerge invece tutto il valore delle parole della ordinazione: “Imitate ciò che trattate”.

Una vera “vita spericolata” affascina,  per imitare prima Cristo in stato di vittima, e, alla fine, seguirlo nella Sua gloria; al contrario, tanti abusi liturgici finiscono col far pensare che animare una celebrazione come un presentatore è un po’ poco per lasciare tutto.

Pensa che le dichiarazioni del vescovo Williamson possano compromettere il processo di riammissione nella Chiesa cattolica?

Don Alfredo: Bisogna diffidare da interviste rispolverate ad arte mesi dopo le dichiarazioni stesse. Questo “polverone” non fermerà la volontà del Papa, che ripresenta – qui e ora – la volontà di Gesù Cristo: che tutti siamo “uno” come Lui e il Padre sono “uno”.

La ricucitura di questo scisma e l’attenzione per la liturgia, potrebbero essere segnali importanti anche per rinnovati e migliori rapporti con le Chiese ortodosse?

Don Alfredo: Ma certo! In questi casi, dove il Papa scende in campo in prima persona come buon pastore, si vede proprio che il successore di Pietro è il “Servo dei Servi di Dio”, come si leggeva nelle intestazioni dei vecchi documenti pontifici: e si vede pure che la comunione con Pietro non minaccia nessuna realtà ecclesiale particolare, ma la rafforza.

Da un punto di vista pratico, la soluzione che si troverà per regolarizzare la posizione giuridica della FSSPX, darà garanzie agli ortodossi di ampie autonomie future. Già non erano mancati segnali di apprezzamento, da parte degli Ortodossi, del Motu Proprio “Summorum Pontificum”.
 
Lei ha conosciuto nella sua vita diversi sacerdoti della FSSPX? Che cosa ci può dire di questa esperienza?

Don Alfredo: Certamente non ho condiviso la scelta delle ordinazioni dei Vescovi e di quanto  – al di là delle intenzioni personali – potesse anche solo sembrare disobbedienza al Magistero. Ma il loro amore per la Santa Messa e la loro spiritualità sacerdotale, incentrata sulla Santa celebrazione del Santo Sacrificio, rimangono esemplari.

 Alcuni dicono che senza di loro non sarebbe arrivato il Motu Proprio. Correggerei l’affermazione con: “Il Signore, per meritarci la grazia del Motu Proprio, ha versato nel calice del Suo Preziosissimo Sangue la ‘goccia d’acqua’ della sofferenza dei Tradizionalisti; di quelli legati alla Fraternità San Pio X e di quelli che, spesso emarginati nel lungo ‘inverno liturgico’ – in cui si è tollerato di tutto fuorché la Messa di San Pio V -, non di meno sono rimasti nella più perfetta obbedienza”.

dal sito: 

http://www.zenit.org/article-15035?l=italian

Immagini della Sindone riprodotte con un laser ad altissima frequenza

Un esperimento dell’ENEA di Frascati, diretto dal dr. Giuseppe Baldacchini

di Paolo Centofanti

ROMA, venerdì, 18 luglio 2008 (ZENIT.org).- Un gruppo di ricercatori dell’ENEA (Ente per le Nuove tecnologie, l’Energia e l’Ambiente) di Frascati, diretti dal dr. Giuseppe Baldacchini, è riuscito a realizzare immagini con caratteristiche strutturali (ovvero una « bruciatura » esterna delle fibrille superficiali del tessuto) molto simili a quelle dell’immagine della Sindone.

L’esperimento, che è stato pubblicato da Applied Optics (Vol. 47, Issue 9, pp. 1278-1285) e sarà presentato ufficialmente ad agosto negli Stati Uniti, è stato possibile utilizzando un laser ad altissima frequenza, e specifiche condizioni di potenza e durata di emissione. Con altri parametri, o utilizzando differenti metodologie, non sarebbe possibile replicarlo.Alcune immagini sono disponibili sul sito di

SRM.

ZENIT ha intervistato il dr. Baldacchini sull’esperimento e le sue caratteristiche, e sulla sua esperienza di scienziato e credente.

Può raccontarci come è stato realizzato l’esperimento, e con quali obiettivi?

Dr. Baldacchini: E’ accaduto tutto circa 3 anni fa. Premetto che sono una persona che conosce la Sindone come la conoscono mediamente tutti gli italiani. Cioè ne sentivo parlare in televisione, leggevo gli articoli sui giornali, ma non è che la conoscessi approfonditamente.

Una sera mentre ero a casa e stavo leggendo un libro, stavano trasmettendo proprio un programma sulla Sindone; si parlava del problema dell’immagine sindonica, e ne fecero vedere le immagini. In quel momento mi venne in mente un collegamento con qualcosa che era accaduto nei laboratori dove io lavoro, qualche anno prima.

Quindi il giorno dopo sono tornato e sono andato alla ricerca di questo vecchio materiale. E ho scoperto che in uno dei laboratori sotto la mia direzione, avevano tempo prima irraggiato delle stoffe, stoffe generiche, per la cosiddetta nobilitazione dei tessuti, con radiazione ultravioletta. E andando a scartabellare tra le prove fatte, mi era sembrato di aver visto qualcosa che somigliasse alla Sindone.

Quindi ho chiamato subito i miei collaboratori, e ho detto loro che secondo me valeva la pena fare delle prove su dei tessuti di lino, per vedere se questa radiazione particolare che usavamo a Frascati, potesse essere utile per creare immagini simili alla Sindone. Ecco come è nata l’idea: semplicemente.

Da lì abbiamo cominciato a lavorare, in collaborazione con il prof. Giulio Fanti, che è un sindonologo, che studia la Sindone da molti anni, mentre noi non ne conoscevamo i particolari; e questo ci ha portato con il tempo ai risultati che lei ha visto.

Quali sono state le condizioni per creare queste immagini?

Dr. Baldacchini: Prima di tutto devo dire che creare delle immagini su lino è stato molto difficile, molto più difficile di quello che pensavamo. E ci siamo accorti che le immagini si possono creare solamente a due condizioni: prima, che la radiazione elettromagnetica che si invia contro il lino avvenga in un tempo più breve di cento nanosecondi (un nanosecondo è un miliardesimo di secondo). Se lei usa impulsi più lunghi, la stoffa si brucia, o non succede nulla, a seconda della potenza. Questa è la prima condizione.

La seconda condizione è che la potenza sia molto elevata. E’ necessario superare il milione di watt per centimetro quadrato come densità di potenza. E se si usa una potenza inferiore non succede nulla. Quindi avevamo individuato un processo a soglia.

Poi dopo ci siamo accorti che quando la intensità non è elevatissima, ma non troppo bassa, accade che l’immagine compare dopo moltissimo tempo, cioè dopo circa un anno; però con un sistema di riscaldamento classico, l’immagine appare anche subito. Quindi vuol dire che il tessuto è stato impresso in qualche modo a livello molecolare, e che questa impressione si rende visibile con una eccitazione termica.

Anche nel vostro caso, quindi, sono solamente le fibre superficiali ad essere « colorate »?

Dr. Baldacchini: Questo è l’altro aspetto molto importante, che dipende dalla radiazione ultravioletta. Se lei usa una radiazione nel visibile, non funziona perché la radiazione visibile penetra dappertutto, mentre invece la radiazione ultravioletta si ferma sulla superficie.Su questo punto stiamo ancora indagando, perché noi abbiamo usato la lunghezza d’onda di 308 nanometri, che è già nell’ultravioletto, quindi non viene vista dall’occhio, ma pensiamo che andando più in basso con la lunghezza d’onda, sui 200/250 nanometri, si otterranno dei risultati ancora più superficiali, quindi ancora più simili a quelli della Sindone.

Preciso che non abbiamo realizzato delle immagini della Sindone; abbiamo solamente « colorato » i tessuti e abbiamo osservato microscopicamente i tessuti, se fossero o no analoghi a quelli della Sindone.

Il fascicolo del 20 marzo 2008 di Applied Optics

, con i nostri risultati, riporta proprio nel frontespizio la fotografia di una delle fibrille colorate nell’esperimento. E’ una ricerca che a noi ha divertito e interessato moltissimo. Anche se, devo dire, all’inizio è stata molto più complessa di quanto le stavo raccontando. Non per nulla, a Los Alamos molti anni fa questi esperimenti erano gi

à stati realizzati, ma senza ottenere nulla. Ricerche realizzate con tutte le sorgenti di radiazioni elettromagnetiche, ma forse fatte in una maniera non troppo approfondita, per cui non è venuto fuori nessun risultato, eccetto che o bruciavano la tela, o non succedeva nulla.

Per quanto ne sappiamo, il nostro è il primo caso, e anche per questo lo presenteremo ad una conferenza che si terrà ad agosto negli Stati Uniti.

Vorrei porle una domanda personale: lei è credente?

Dr. Baldacchini: Io sono un credente, però queste misure le faccio come uno scienziato. Mi sono completamente sdoppiato perché quello che penso come credente non deve assolutamente entrare nell’analisi di un fenomeno, perché si farebbe troppa confusione.

Come vive il suo essere scienziato e credente? Le crea a volte difficoltà?

Dr. Baldacchini: Personalmente non ho assolutamente nessuna difficoltà, posso dire che dormo sonni tranquillissimi. In realtà non ci sono contrasti tra scienza e fede, perché si muovono su due piani completamente diversi. Mi dispiace che storicamente sia accaduto che si siano scontrate, però se lei va a vedere, nel corso della storia, sono accadute delle cose molto diverse, in epoche diverse.

Senza arrivare a 2000 anni fa, si sa che la scienza è nata nella Chiesa…

Dr. Baldacchini: Le prime università sono state fondate dalla Chiesa, in Europa, durante il Medioevo. E specialmente la fisica venne subito ammessa nel corso di studi, perché, si diceva, aiutava il credente a capire come il mondo era fatto. E questo l’ha detto San Tommaso d’Aquino, che era uno degli insegnanti all’Università di Parigi.

I primi scienziati che adottarono il metodo sperimentale moderno, sono nati proprio all’interno di queste istituzioni cattoliche; poi vi sono stati dei grandi equivoci, come nel caso Galileo.

Mons. Fouad: « Voglio seminare la gioia di vivere »

dal sito della Custodia di Terra Santa, l’articolo è molto più lungo, segue sul sito:

http://www.custodia.org/spip.php?article3233&lang=it

Mons. Fouad: « Voglio seminare la gioia di vivere »

intervista:

CTS Notizie

Il 22 giugno Mons. Fouad Twal sarà insediato come nuovo Patriarca latino di Gerusalemme. Formato a Roma nella diplomazia vaticana, poi chiamato a tornare alla vita pastorale come arcivescovo di Tunisi, il futuro Patriarca di Gerusalemme vuole mettere laccento sui fondamenti spirituali della vita cristiana, e specialmente la gioia, quella di vivere in Cristo. Per Mons. Twal, in effetti, è innanzitutto la qualità della vita evangelica che permetterà alla Chiesa di Terra Santa di non essere schiacciata dalla croce che porta, e di andare avanti.

Messo on line il domenica 15 giugno 2008 a 00h00
Twal?

Sono il numero cinque di una famiglia di 9 figli, della famiglia Twal di Giordania. Ho fatto i miei studi al Seminario di Beit Jala, poi ho lavorato cinque anni nel Patriarcato come vicario, prima di essere inviato a Roma per compiere gli studi in Diritto canonico e Diritto internazionale alla Pontificia Universit

à Lateranense.

La Segreteria di Stato mi ha trovato e ha pensato che avrei potuto prestare questo servizio. Quindi ha domandato al Patriarca Beltritti se voleva rinunciare a quel giovane prete che ero allora, per inviarlo alla Pontificia Accademia Ecclesiastica [1

]. Ci ho passato due anni di specializzazione. Ero lunico arabo dellAccademia e tutti mi guardavano in una maniera po speciale. Un giorno mi hanno domandato: Ma come siete arrivato qua?. Scherzando ho risposto: Forse pensavano che possedessi un pozzo di petrolio?…”

Dove lha condotto questa carriera diplomatica al servizio della Santa Sede?

Ho cominciato come Incaricato dAffari in America centrale, in Honduras. Non conoscevo una minima parola di spagnolo. Ma era giustamente una delle ragioni per cui mi avevano mandato lì: imparare la lingua. Ci ho passato sei anni. Fu una bella esperienza, anche se a volte difficile. Ero in servizio alla Nunziatura dellHonduras. Nello stesso tempo Mons. Pietro Sambi era Incaricato dAffari in Nicaragua [2

]. In Honduras, parallelamente alle mie funzioni, ho prestato servizio nella parrocchia più povera del paese, ma veramente bella. Mi ricordo della mia prima Messa in spagnolo. Fu un poco catastrofica, a causa della lingua. Alla fine unanziana signora viene a parlarmi e mi domanda: “¿Eres turco? Sei turco?. No, no, sono arabo. In effetti in America centrale chiamavano los Turcos tutti gli arabi originari del Medio Oriente, perché anticamente arrivavano con documenti ottomani. Ho allo stesso tempo accompagnato la comunità araba di origine palestinese, celebrando per loro battesimi, matrimoni e funerali. Nonostante il servizio diplomatico non ho mai tagliato i ponti con la vita pastorale. Amo il contatto con la gente.E dopo l

Honduras?

Ci fu il ritorno in Vaticano, alla Segreteria di Stato, dal 1982 al 1985, dove mi fu affidata la cura di 19 paesi africani francofoni. La Segreteria di Stato fu per me una bella esperienza delluniversalità della Chiesa. I problemi del mondo intero arrivano lì. E la Santa Sede cerca di offrire delle risposte e delle soluzioni. Durante questi tre anni ho potuto sperimentare la saggezza della Santa Sede e la sua pazienza. Niente è urgente. Niente. I documenti possono anche arrivare con la stampigliatura Urgente, ma sono sempre studiati con calma, in profondità

.Ho conosciuto molte persone di tutto il mondo, dell

Africa naturalmente, ma anche dei paesi arabi. Ho anche incontrato dei presidenti stranieri. Questo mi ha veramente aperto alla dimensione mondiale e universale della Chiesa.

Di là sono stato nominato al Cairo. Il Vaticano vedeva il Cairo come una capitale suscettibile di riunire il mondo arabo, il continente africano e lEuropa. Ma siamo nel 1985, e a causa della visita di Sadat in Israele (nel 1977), quasi tutti i paesi arabi boicottano ancora, più o meno, l

Egitto. Questa situazione politica non ha permesso alla Nunziatura del Cairo di giocare il ruolo che la Santa Sede sperava di farle compiere nei paesi arabi.

Ed eccola di ritorno nel mondo arabo

No, perché nel 1988 sono stato nominato in Germania. Ho scoperto in questo paese una Chiesa forte, veramente forte, ricca e fiera di se stessa, e nello stesso tempo una Chiesa estremamente generosa. Ho potuto esercitare il mio tedesco partecipando alla vita pastorale di una piccola parrocchia vicina alla Nunziatura.Dopo due anni e mezzo, nel 1990, nuova partenza per lAmerica Latina, con destinazione, questa volta, il Perù. A Lima cerano migliaia e migliaia di arabi palestinesi di Beit Jala, di Beit Sahour, di Betlemme. Ero molto contento di essere il loro parroco. Mi è piaciuto tanto svolgere il servizio pastorale con loro, essere al loro fianco sia nella chiesa che nel club palestinese, dove si svolgeva ogni tipo di attività sportiva, culturale ecc. Ho conservato dei legami con un gran numero di loro, e quando vengono in Palestina a visitare le loro famiglie, passano a salutarmi. Il vescovo di Lima mi diceva: Ma come faremo con questa comunità, dopo la sua partenza?. In effetti, ero già Consigliere di Nunziatura.

Dunque era destinato a un posto di Nunzio?

Sì, doveva essere la tappa successiva. Ma fu allora, nel 1982, che arrivò da Roma la notizia: il Santo Padre mi ha nominato vescovo di Tunisi. Mi ha nominato, ma nello stesso tempo domanda il mio parere. Sul momento, non ho capito. Ero sul punto di essere nominato Nunzio. Il mio nome circolava per la Nunziatura del Kuwait, che doveva essere separata dalla Nunziatura dellIraq, dopo la Guerra del Golfo. Non ho capito perché, dopo tutti quegli anni passati nel servizio diplomatico, mi si facesse tornare al servizio pastorale, ma mi sono detto che bisognava accettare di non comprendere, e ho detto di sì. Più tardi ho capito il disegno della Santa Sede: pastorale e politico. Pastorale: cera un posto vacante a Tunisi da due o tre anni, e una diocesi deve avere un vescovo; politico, perché la Santa Sede voleva un vescovo arabo nella sede dove serano succeduti tanti vescovi francesi [3

]. Inoltre la Prelatura di Tunisi faceva sempre parte della Chiesa francese doltremare, mentre il Paese era diventato indipendente nel 1956. La Santa Sede voleva dunque installarvi un vescovo arabo, che parlasse la stessa lingua e avesse la stessa tradizione culturale. Mi avevano parlato di una missione di tre o quattro anni. E ci sono restato tredici anni. Avevo fatto venire otto comunità religiose, che hanno portato sangue nuovo. Abbiamo lavorato molto, restaurando la cattedrale, tutte le chiese, case e conventi. Prima della mia partenza il governo ha restituito, per il servizio dei fedeli, la chiesa di Djerba, che era stata presa durante la guerra dindipendenza.

 

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