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Mimo, funambolo e martire (dall’O.R.)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/272q04a1.html

DA L’OSSERVATORE ROMANO

(23-24 NOVEMBRE 2009)

Mimo, funambolo e martire

di Fabrizio Bisconti

È piuttosto rigido l’atteggiamento dei Padri della Chiesa nei confronti dei mestieri che ruotano attorno all’orbita artistica, relativamente al pericolo che alcune professioni, pertinenti all’arte e allo spettacolo, possano far incorrere i fedeli nel peccato di idolatria. Se, poi, dalla teoria, talora asseverativa e rigorosa, si passa alla prassi, dobbiamo constatare che alcuni mestieri, tradizionalmente vietati o, comunque, posti in seria discussione dalle fonti canoniche, appaiono tra quelli esercitati dai primi cristiani, come documenta la produzione epigrafica delle catacombe romane.
I divieti e gli inviti a stare in guardia dei Padri della Chiesa si riferiscono specialmente agli spettacoli, a cominciare da Clemente Alessandrino, che considera teatro e stadio come « cattedre di pestilenza (Pedagogus, iii, 76, 3), per continuare con Tertulliano che ritiene ispiratori di idolatria i giochi atletici e violenti, ed inutili il pugilato e la lotta (De spectaculis, 11-18). Gli apologisti condannano, senza attenuanti, il circo e l’anfiteatro, in quanto vedere uccidere un uomo è come ucciderlo, mentre per Cipriano lo spettacolo in genere può e deve essere identificato con l’idolatria (De spectaculis, 4). Ma è la testimonianza di Agostino a dare un’idea più chiara e complessiva della visione cristiana dello spettacolo e del travaglio che tormenta i Padri della Chiesa a questo proposito:  « Sono i catecumeni – egli rimprovera – a scandalizzarsi per il fatto che i medesimi uomini riempiano le chiese nelle feste cristiane e i teatri in quelle pagane » (De catechizandis rudibus, 25, 48).
Nonostante il tono asseverativo di questi richiami alla vigilanza, molti documenti romani ci parlano di « teatranti cristiani e non solo di aurighi, ginnasti e musici, ma anche di mimi e pantomimi che, come è noto, erano particolarmente invisi ai Padri della Chiesa, specialmente quando, durante la controversia ariana, scelsero come temi preferiti di pantomima i misteri cristiani, parodiando il battesimo e il martirio (Agostino, De baptismo, vii, 53).
Eppure non mancano alcuni celebri mimi romani sicuramente cristiani, fra tutti va ricordato Vitale, sepolto a San Sebastiano nel V secolo e rammentato da un interminabile epitaffio metrico, dove si ricorda, tra l’altro, la sua abilità nell’imitazione delle donne. Vitale, come si desume dal testo epigrafico, era talmente bravo che la sua sola presenza suscitava ilarità ed allegria; qualsiasi ora con lui era lieta; il suo unico rimpianto consisteva nel fatto che tutti coloro che aveva imitato in vita morissero con lui. Ancora a San Sebastiano era sepolto un famoso funambolo (catadromarius) e a San Paolo fuori le Mura un pantomimo che, come è noto, comporta una messa in scena più completa, con mimo, danza e recitazione. Altre testimonianze epigrafiche ricordano ancora un danzatore a San Paolo e un musico a San Sebastiano, mentre, per quanto attiene alle donne di spettacolo, resta il ricordo di una suonatrice di lira da San Lorenzo fuori le Mura e di una cantante, moglie di un ciabattino, dal cimitero Maggiore, sulla via Nomentana.
Queste due ultime testimonianze sembrano rispondere a un giudizio molto severo sulle « donne di teatro » considerate di infima condizione sociale e di dubbia reputazione (Giovanni Crisostomo, Contra ludos et theatra, 2). L’atteggiamento ostile su certi mestieri nasce da un’etica del lavoro, in base alla quale alcune attività non risultano consone alla dottrina cristiana. Il lavoro eseguito da un cristiano, secondo tale teoria, non deve essere disonesto, immorale e idolatrico:  per questo non si accettano alcune attività e si consigliano i cristiani di cambiare mestiere, se prima della conversione avessero esercitato una professione poco consona con la nuova vita che si stava per condurre. Tertulliano, a questo riguardo, si sofferma proprio sui mestieri permessi ai cristiani o, meglio, esorta ogni cristiano a evitare tutte quelle professioni che potevano accostarlo al culto degli dei (De idolatria, 12, 4).
Non si accettano, innanzi tutto, coloro che praticano o gestiscono la prostituzione, gli aurighi, i circensi, i gladiatori, i sacerdoti, i custodi dei templi pagani, i maghi, gli ipnotizzatori, gli indovini, gli interpreti dei sogni, i fabbricanti di amuleti, gli scultori e i pittori (Tradizione apostolica, 11, 2-15). Proprio questi ultimi, invece, appaiono nelle catacombe romane e, segnatamente, nelle incisioni figurate sui marmi di chiusura dei loculi:  una evoca la professione di un defunto intento a comporre una lastra di opus sectile e un’altra riproduce la bottega dello scultore di sarcofagi Eutropos e non mancano allusioni a pittori, scultori di clipei e musivi vari.
Come si diceva, la prassi e la teoria non parlano la stessa lingua e i cristiani di Roma impongono leggi e divieti troppo rigidi.
L’unico timore tenuto presente anche dalla base sociale della comunità è quello di incorrere nel peccato d’idolatria, che il severo Tertulliano paragona a un cancro, le cui metastasi minano il corpo sociale e da cui occorre difendersi con antidoti estremi (De idolatria, 12, 4). L’apologista africano, come sempre, si riferisce a episodi che stavano accadendo in quel tempo sulla sua chiesa, episodi che da Roma ci accompagnano verso la realtà cartaginese dell’epoca severiana, ma che fioriscono nell’idea generale della tormentata conversione al cristianesimo nei primi secoli. Tertulliano ricorda, infatti, un episodio estremo, che dà il senso delle infrazioni alle regole della Chiesa:  « I costruttori di idoli vengono ammessi nell’ordine ecclesiastico. Quale crimine! ».

Esistono davvero Inferno e Paradiso?

dal sito:

http://www.zenit.org/article-21917?l=italian

Esistono davvero Inferno e Paradiso?

Intervista a padre Giovanni Cavalcoli, docente di Metafisica e Teologia sistematica

di Antonio Gaspari

ROMA, lunedì, 29 marzo 2010 (ZENIT.org).- All’Inferno molti non credono, altri sostengono che non può essere eterno ed altri ancora che sia vuoto. Lo stesso dicasi dell’angelo caduto e del peccato.

Per molti si tratta di invenzioni della Chiesa cattolica e comunque in tanti vivono come se Dio non esistesse, e Inferno e Paradiso sarebbero solo illusioni.

Per cercare di spiegare come può un Dio buono come quello cristiano permettere la rivolta degli angeli, la diffusione del male, l’esistenza dell’Inferno e del Paradiso, padre Giovanni Cavalcoli, dell’Ordine Domenicano, ha scritto e pubblicato il libro “L’Inferno esiste. La verità negata” (edizioni Fede & Cultura http://fedecultura.com/Infernoesiste.aspx 96 pagine, 9,50 euro)

Padre Cavalcoli è docente di Metafisica presso lo Studio Filosofico Domenicano di Bologna e di Teologia sistematica alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna. Officiale della Segreteria di Stato dal 1982 al 1990, è Accademico pontificio dal 1992.

Autore di innumerevoli libri e saggi, svolge una intensa opera di formazione.

ZENIT lo ha intervistato.

Per il mondo secolarizzato ed anche per alcuni credenti l’Inferno non esiste. Si tratterebbe di una invenzione. Qual è il suo parere in proposito?

Cavalcoli: Il mondo secolarizzato ha perso la fede nell’Aldilà, si tratti del Paradiso o si tratti dell’Inferno. E una certa misura di secolarismo purtroppo si è insinuata anche tra alcuni credenti, i quali, anche se ammettono un Aldilà, questo è soltanto il Paradiso. E’ questa la mentalità cosiddetta buonista, per cui non c’è da stupirsi che, secondo queste tendenze, l’Inferno è un’invenzione.

In realtà, come ho dimostrato nel mio libro, l’Inferno non è affatto un’invenzione, ma è una verità di fede insegnata da Nostro Signore Gesù Cristo, dal Nuovo Testamento, dalla Sacra Tradizione e da alcuni Concili. Quindi si tratta di un dato della divina Rivelazione, che la Chiesa ha il compito di custodire e di insegnare.

Sulla base di quali argomenti sostiene che l’Inferno esista?

Cavalcoli: La dottrina dell’Inferno è una dottrina teologica. Ora, gli argomenti della teologia non sono di tipo empirico, ma sono le Parole di Gesù Cristo, le quali possono essere accettate solo sulla base della fede in Gesù Cristo e nella Chiesa che ci media le Parole di Cristo.

Da questo punto di vista, gli argomenti sono molti. Mi limiterò qui a citarne uno solo (cf.p.33 del mio libro sull’Inferno), che mi sembra particolarmente efficace, perché lo troviamo nel Concilio Vaticano II (LG n.48) e nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC n.1034). Si tratta del passo di Matteo 25, 31-46 dove Gesù Cristo non si limita ad annunciare la semplice possibilità della dannazione, ma semplicemente prevede il fatto dell’esistenza dei dannati.

Dove e quando è nato l’Inferno?

Cavalcoli: Per rispondere a questa domanda, dobbiamo tener presente che cosa è esattamente l’Inferno. Esso, per quanto riguarda gli uomini, consiste nel rifiuto irrevocabile della misericordia che ci è offerta dal Padre per mezzo di Gesù Cristo, Figlio di Dio. In questo senso, possiamo dire che la dannazione infernale ha cominciato ad esistere con la venuta di Cristo. Invece, se consideriamo il peccato degli angeli all’inizio della creazione, l’Inferno esiste per loro sin da quel momento (Mt 25,41; 2 Pt 2,4).

Dove è nato l’Inferno? Per quanto riguarda gli angeli peccatori, siccome si trovavano prima in cielo, si può dire che è nato in cielo, da cui furono precipitati (Ap 12,8). Per quanto riguarda gli uomini, l’Inferno è nato in questo mondo nel momento in cui Gesù è stato rifiutato.

Esiste nell’Aldilà o è presente anche sulla Terra?

Cavalcoli: Secondo una certa tesi del cristianesimo secolaristico-buonista, se si può parlare di “Inferno”, questo esiste solo su questa terra, nel senso che il castigo per i malvagi c’è solo quaggiù e poi c’è il Paradiso per tutti. Esiste poi un’altra tesi, del tutto pagana, secondo la quale l’Inferno sarebbe quella condizione di sofferenza che colpisce anche gli innocenti oppressi dai prepotenti.

Mentre in questo secondo caso la parola “Inferno” viene usata in un senso improprio, nel primo caso c’è una parte di verità, in quanto lo stato di peccato mortale è già in un certo senso l’Inferno. Ma questa tesi trascura il fatto che la pienezza irrevocabile della condizione infernale per l’uomo è solo dopo la morte. Tuttavia, ogni uomo, prima della morte si può pentire, può riacquistare lo stato di grazia di Cristo, per cui, se persevera in questo stato fino alla morte, può evitare l’Inferno.

Cosa dicono le Sacre Scritture in merito?

Cavalcoli: La voce più autorevole è quella di Nostro Signore Gesù Cristo. Di essa ne troviamo un’eco negli altri Libri del Nuovo Testamento, e in particolare nell’Apocalisse, nella quale abbiamo una grandiosa visione del trionfo finale di Cristo su tutte le potenze del male, le quali saranno messe in condizione di non più nuocere agli eletti.

La descrizione mirabile dell’Inferno della Divina Commedia è credibile?

Cavalcoli: Certamente nella sua sostanza è credibile, perché, come si sa, Dante non solo era cattolico, ma aveva acquistato una notevole cultura teologica di stampo tomistico frequentando il convento domenicano di Santa Maria Novella di Firenze.

Nel contempo Dante, da grande poeta qual era, si è permesso delle cosiddette licenze poetiche, per cui ha creato ambienti, eventi e personaggi che evidentemente esulano da quanto ci viene insegnato dalla Rivelazione cristiana, anche se nel contempo, nel complesso, non le sono contrari.

Una cosa curiosa che potremmo notare al riguardo e che non è un dato della fede cristiana, è la condizione dei cosiddetti “ignavi”, i quali vissero “sanza fama e sanza lodo” e pertanto vengono collocati da Dante non nell’Inferno, ma in un luogo a parte.

Ammettere l’esistenza dell’Inferno presuppone temere il diavolo. In che modo l’angelo caduto e l’Inferno si collocano nel disegno divino?

Cavalcoli: Il cristiano deve avere un certo timore del diavolo, così come noi possiamo avere un ragionevole timore di prenderci una malattia o di cadere in un qualche peccato. Da qui il dovere del cristiano di guardarsi dai pericoli morali che possono venire dalle tentazioni diaboliche, evitando atteggiamenti di eccessiva sicurezza.

Detto questo, tuttavia, il cristiano fondamentalmente non ha paura del diavolo, perché il cristiano che vive in Cristo gode della stessa forza di Cristo, il quale ha vinto Satana. Anzi, da questo punto di vista, si può dire che è il demonio che ha paura del cristiano. Come dice infatti Santa Caterina da Siena, noi siamo vinti dal demonio solo se lo vogliamo, commettendo o amando il peccato.

Il demonio e l’Inferno si collocano nel disegno divino in quanto costituiscono un deterrente che ci aiuta ad evitare il peccato. In secondo luogo, per quanto riguarda il demonio, anch’egli va visto come uno strumento della divina Provvidenza per due finalità: per rafforzarci nella virtù e per richiamarci paternamente quando commettiamo il male. Il diavolo di per sé vorrebbe solo il nostro male, solo che la Provvidenza divina lo utilizza secondo i suoi sapientissimi disegni per il nostro bene.

Perchè Dio permette all’angelo di ribellarsi?

Cavalcoli: Perché ha un grande rispetto per il libero arbitrio della creatura. Ora, appunto, l’angelo ribelle è una creatura dotata di libero arbitrio. Allora, a questo punto, si può dire che Dio, pur di rispettare questo libero arbitrio, accetta di essere respinto da quella creatura che in realtà potrebbe trovare solo in Lui la sua piena felicità. Questo discorso vale analogicamente anche per la vicenda umana.

Inoltre si può dire che Dio ha permesso la disobbedienza dell’angelo, perché dall’eternità aveva progettato l’Incarnazione del Verbo, grazie alla quale l’umanità, salvata da Cristo, avrebbe in Cristo vinto Satana e raggiunta una condizione di vita – quella di figli di Dio – superiore a quella che ci sarebbe stata se l’angelo non avesse peccato.

Che relazione c’è tra il male e l’Inferno?

Cavalcoli: Possiamo dire che l’Inferno è una vittoria sul male morale, ovvero sul peccato, anche se resta il male di pena, cioè la sofferenza dei dannati. Qui però si tratta di una giusta pena, per cui, da questo punto di vista si può dire che è bene che ci sia questo male, per cui noi vediamo che, dal punto di vista escatologico, tutto si risolve nel bene.

C’è inoltre da precisare con tutta chiarezza che sarebbe blasfemo incolpare Dio di questo male, del quale invece è responsabile soltanto la creatura angelica o umana, mentre d’altra parte l’esistenza del male di pena manifesta semplicemente la giustizia divina, la quale peraltro è sempre mitigata dalla misericordia.

Cosa devono fare le persone per sfuggire l’Inferno e guadagnare il Paradiso?

Cavalcoli: Praticamente si tratta di mettere in opera tutti i precetti della vita cristiana, a cominciare dall’odio per il peccato, dalla consapevolezza delle sue conseguenze, per passare al dovere di obbedire con tutte le nostre forze ai comandi del Signore, di vivere in grazia, nella pratica continua della conversione e della vita cristiana, in una illimitata fiducia nella misericordia divina, frequentando i sacramenti nella comunione con la Chiesa, nella devozione ai Santi e soprattutto alla Santa Vergine Maria, coltivando un forte desiderio del Paradiso e della santità e combattendo coraggiosamente giorno per giorno contro le insidie del tentatore, sotto la protezione di San Michele Arcangelo. In casi di eccezionale aggressività da parte del diavolo, esiste la pratica dell’esorcismo.

Queste raccomandazioni naturalmente valgono per i cattolici, però siccome tutti gli uomini sono chiamati alla salvezza e quindi sono chiamati ad evitare l’Inferno e a guadagnare il Paradiso, il loro dovere è quello di seguire la loro retta coscienza, nella misura in cui conoscono le esigenze del bene e coltivando, con l’aiuto della grazia, una fede almeno implicita in Dio come rimuneratore di buoni e giudice dei malvagi.

Stati Uniti: un uomo « morto » cinque volte diventa cattolico

dal sito:

http://www.zenit.org/article-21939?l=italian

Stati Uniti: un uomo « morto » cinque volte diventa cattolico

Migliaia di persone entreranno nella Chiesa a Pasqua

WASHINGTON, martedì, 30 marzo 2010 (ZENIT.org).- Questa Pasqua, migliaia di persone si accingono a convertirsi al cattolicesimo, incluso un uomo che ha quasi perso la vita in cinque occasioni.

La Conferenza Episcopale degli Stati Uniti ha reso nota la storia di Jeremy Feldbusch, 30enne di Blairsville, Pennsylvania, che è tra le migliaia di persone che entreranno nella Chiesa durante la Veglia pasquale.

Feldbusch era nelle forze armate in Iraq, e il 3 aprile 2003 è stato ferito, rimanendo cieco a entrambi gli occhi e riportando traumi cerebrali.

Si pensava che morisse poco dopo o, se fosse rimasto in vita, riportasse un grave danno cerebrale. I medici gli hanno indotto il coma e hanno applicato un respiratore per sei settimane per ridurre l’infiammazione al cervello.

Hanno provato a togliere il respiratore cinque volte, ma ogni volta Feldbusch « moriva » e doveva essere rianimato. Al sesto tentativo, ha finalmente ripreso i sensi.

Il paziente, che era stato battezzato come metodista, ha chiesto al padre: « Perché Dio mi ha tolto la vista? ».

Il padre gli ha risposto con un’altra domanda: « Perché Dio ti ha salvato la vita? ».

La Conferenza Episcopale ha reso noto che attraverso il processo di riabilitazione Feldbusch « ha iniziato a pensare che le cose accadono per un motivo e ha deciso di spendere la sua vita per aiutare altri soldati feriti ».

Ha deciso di aderire alla Chiesa cattolica e verrà ricevuto in essa sabato, nel settimo anniversario della lesione che gli ha cambiato la vita in Iraq.

Il rapporto della conferenza stampa indica che migliaia di persone si uniranno a Feldbusch, con numeri particolarmente alti di nuovi cattolici soprattutto nelle regioni del sud e del sud-est degli Stati Uniti.

La Diocesi di Dallas, in Texas, si prepara a ricevere 3.000 nuovi cattolici. Di questi, 700 sono catecumeni (mai battezzati in precedenza), 2.300 sono candidati (già validamente battezzati nella fede cristiana, ma che cercano la piena comunione con la Chiesa).

Sempre in Texas, l’Arcidiocesi di San Antonio informa che 1.112 persone entreranno nella Chiesa. Un buon numero è costituito da giovani, e ci sono 214 bambini catecumeni e 124 bambini candidati.

La Diocesi di Forth Worth, nello stesso Stato, accoglierà più o meno lo stesso numero di nuovi cattolici.

L’Arcidiocesi di Atlanta (Georgia) si prepara ad accogliere 1.800 nuovi membri della Chiesa, il numero più alto che si ricordi nella regione, informa il dossier.

Sulla Costa occidentale, l’Arcidiocesi di Los Angeles (California), la più grande di tutto il Paese, riceverà 2.400 nuovi membri.

A Seattle (Stato di Washington), 682 persone verranno battezzate e 479 ricevute nella piena comunione. L’Arcidiocesi di Portland (Oregon) accoglierà 842 nuovi cattolici.

Altre Diocesi che attendono circa mille nuovi membri sono Detroit (Michigan, 1.225), Cincinnati (Ohio, 1.049), Denver (Colorado, 1.102), Arlington (Virginia, 1.100), Washington, D.C. (1.150).

Nell’Arcidiocesi di Washington, 18 di coloro che si accingono a entrare nella Chiesa sono studenti della St. Augustine School, la più antica scuola afroamericana della capitale.

Il comunicato stampa segnala che la Chiesa cattolica, che è la denominazione più numerosa negli Stati Uniti, con circa 68 milioni di fedeli, lo scorso anno ha sperimentato un aumento del 1,5% dei membri.

Rabbini ortodossi di Israele: sputare sui sacerdoti è peccato

dal sito:

http://www.zenit.org/article-20918?l=italian

Rabbini ortodossi di Israele: sputare sui sacerdoti è peccato

Reazioni alle molestie ad opera di “giovani irresponsabili”

di Jesús Colina

ROMA, giovedì, 7 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Uno dei più alti tribunali rabbinici ortodossi di Israele ha condannato come contrarie alla fede e alla morale le “molestie” subite da fedeli e sacerdoti cristiani, in particolare gli sputi, da parte di alcuni giovani ultraortodossi ebrei a Gerusalemme.

La condanna è stata formulata solennemente in una lettera dal Beth Din Tzedek, il Tribunale della Comunità ebraica ortodossa e la più alta istanza della comunità ebraica ultraortodossa a Gerusalemme.

Alcune settimane fa, sacerdoti non solo cattolici avevano denunciato di essere costantemente bersaglio di sputi da parte di giovani ebrei.

Padre Athanasius Macora, di origine statunitense, che guida il Christian Information Center all’interno della Porta di Jaffa, ha denunciato ad esempio nelle scorse settimane di essere stato offeso e di aver ricevuto sputi in molte occasioni da parte di giovani ultraortodossi o anche di bambini.

Anche padre Samuel Aghoyan, sacerdote armeno ortodosso, ha denunciato di essere stato colpito da sputi circa venti volte, soprattutto nel mese di novembre.

Di fronte alle numerose denunce, il Consigliere del sindaco di Gerusalemme per le comunità religiose, Jacob Avrahmi, ha promosso un incontro tra i rappresentanti del Ministero degli Affari Esteri e il Rabbino Shlomo Papenheim, della comunità ultraortodossa degli Haredim, per formulare una condanna degli attacchi contro i gentili.

Secondo il Tribunale, “oltre a dissacrare il Santo Nome, che già di per sé rappresenta un peccato assai grave, provocare i gentili, secondo i nostri saggi (benedetta sia la loro santa e virtuosa memoria), è proibito e può portare tragiche conseguenze sulla nostra comunità, possa Dio avere pietà”.

“Noi, quindi invochiamo chiunque abbia il potere di porre fine a questi vergognosi incidenti, attraverso la persuasione, di attivarsi per rimuovere questi pericoli, affinché la nostra comunità possa vivere in pace”, affermano i membri del Tribunale nella loro lettera, “scritta in un ebraico piuttosto originale”, come ha spiegato l’ambasciata di Israele presso la Santa Sede.

“Possa il Santissimo, che sia benedetto il Suo Nome, diffondere il tabernacolo di una vita misericordiosa e pacifica su di noi e sulla Casa d’Israele e Gerusalemme, poiché noi aspettiamo la venuta del Messia prontamente e nel nostro tempo, Amen”, conclude il documento, firmato il 30 dicembre 2009 dal Tribunale di Giustizia della comunità Haredim di Gerusalemme.

Quando la fede è un’opera d’arte

dal sito:

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Quando la fede è un’opera d’arte

ROMA, sabato, 1° novembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo a firma di mons. Timothy Verdon, storico dell’arte e Direttore dell’Ufficio per la Catechesi attraverso l’Arte della Diocesi di Firenze, apparso su “L’Osservatore Romano”.

* * *

L’arte sacra serve al sacerdote sia nella sua vita d’uomo e cristiano, sia nel suo ministero presbiterale. All’uno e all’altro contesto d’uso ha infatti accennato Benedetto xvi, nell’esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis del 2007, indicando la bellezza artistica come una delle «modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge» (n. 35) e sottolineando il «legame profondo tra la bellezza e la liturgia». In vista di tale legame, dice il Papa, «è indispensabile che nella formazione dei seminaristi e dei sacerdoti sia inclusa, come disciplina importante, la storia dell’arte con speciale riferimento agli edifici di culto alla luce delle norme liturgiche» (n. 41).

Queste parole fanno parte della millenaria tradizione cattolica, che ha sempre promosso, spiegato e all’occorrenza difeso la funzione dell’arte nella crescita spirituale dei credenti e nella missione pastorale della Chiesa. Già alla fine dell’era patristica, san Gregorio Magno riassumeva l’esperienza dei primi secoli cristiani in termini che la tradizione ha sintetizzato con l’espressione Biblia pauperum («Bibbia dei poveri»). Scrivendo a un vescovo iconoclasta, sottolineò la finalità propriamente spirituale delle immagini sacre. «Altro è adorare un dipinto, altro imparare da una scena rappresentata in un dipinto che cosa adorare», diceva, aggiungendo che «la fraternità dei presbiteri è tenuta ad ammonire i fedeli affinché questi provino ardente compunzione davanti al dramma della scena raffigurata e così si prostrino umilmente in adorazione davanti alla sola onnipotente Santissima Trinità» (Epistola Sereno episcopo massiliensi, 2, 10).

Nello stesso spirito, nel nostro tempo Papa Paolo vi, ha suggerito la stretta affinità tra il lavoro del sacerdote e quello dell’artista: «Noi onoriamo grandemente l’artista» — diceva in un’udienza del 7 maggio 1964 — «perché egli compie un ministero para-sacerdotale accanto al nostro. Il nostro ministero è quello dei misteri di Dio, il suo è quello della collaborazione umana che rende questi misteri presenti e accessibili». E nel documento in assoluto più importante in questo campo, la Lettera agli artisti di Giovanni Paolo ii del 1999, lo stesso tema viene ribadito con l’affermazione che «per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte. Essa deve, infatti, rendere percettibile e, anzi, per quanto possibile, affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio» (n. 12).

Questi testi del magistero sono il retroterra della valutazione dell’allora cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Joseph Ratzinger, nell’introduzione al Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica per cui egli stesso aveva scelto un corredo d’immagini di varie epoche e culture. Il futuro Papa notava che «gli artisti di ogni tempo hanno offerto alla contemplazione e allo stupore dei fedeli i fatti salienti del mistero della salvezza, presentandoli nello splendore del colore e nella perfezione della bellezza», e conclude in chiave pastorale, definendo il ruolo dell’arte nel passato «un indizio… di come oggi più che mai, nella civiltà dell’immagine, l’immagine sacra possa esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico».

Il sacerdote, la cui spiritualità personale e professionale è legata ai segni sacramentali che egli gestisce, coglie facilmente il nesso tra l’arte visiva e fede cristiana. Sa che in Gesù Cristo il Verbo di Dio si è reso visibile diventando egli stesso «immagine dell’invisibile Dio» (Colossesi, 1, 15), e capisce pertanto che il ruolo delle immagini umane nella vita dei cristiani è in qualche modo analogo a quello dell’incarnato Verbo nella storia. «Un tempo, non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico», ricordava san Giovanni Damasceno, evocando il divieto veterotestamentario a ogni raffigurazione della Divinità. «Ma ora — continuava — Dio è stato visto nella carne e si è mescolato alla vita degli uomini, così che è lecito fare un’immagine di quanto è stato visto di Dio» (Discorso sulle immagini, 1, 16). Citando quest’opera del viii secolo, nel 1987 Giovanni Paolo ii scrisse: «L’arte della Chiesa deve mirare a parlare il linguaggio dell’Incarnazione ed esprimere con gli elementi della materia, Colui che si è degnato di abitare nella materia e di operare la nostra salvezza attraverso la materia» (Duodecimum saeculum, n. 11).

Anche se usiamo ancora il termine «Bibbia dei poveri», non è cioè solo una questione d’immagini didattiche che, in circostanze particolari, sostituiscono il testo scritto. Piuttosto, nella concezione cattolica, l’immagine può toccare l’intima realtà morale e spirituale della persona. «La nostra tradizione più autentica, che condividiamo pienamente con i fratelli ortodossi — diceva ancora Giovanni Paolo ii — c’insegna che il linguaggio della bellezza, messo al servizio della fede, è capace di raggiungere il cuore degli uomini, di far loro conoscere dal di dentro Colui che noi osiamo rappresentare nelle immagini, Gesù Cristo» (Ibidem, n. 11).

In un documento parallelo, ugualmente del 1987, il patriarca Dimitrios di Costantinopoli affermava che, nella tradizione ortodossa, «l’immagine (…) diventa la forma più potente che prendono i dogmi e la predicazione» (Encyclique sur la signification théologique de l’icone).

Nell’una e nell’altra tradizione infatti — nella Chiesa d’Oriente come in quella d’Occidente — l’uso di immagini sacre nel contesto della liturgia è servito nei secoli a manifestare il particolare rapporto che, grazie all’incarnazione di Cristo, sussiste tra «segno» e «realtà» all’interno dell’economia sacramentale.

Tale rapporto, invero, traspare in tutte le opere che l’uomo associa al culto divino: dai vasi sacri e tessuti alle più monumentali costruzioni architettoniche, perché l’uso delle «cose» nella liturgia della Chiesa rivela sempre e attualizza la vocazione del mondo infraumano, chiamato insieme all’uomo e per mezzo dell’uomo a rendere gloria a Dio.

Più ancora che delle «cose» però, l’arte parla degli uomini e delle donne che la creano, perché — come affermano i vescovi toscani in una nota pastorale del 1997 — nel modo in cui «trasfigurano» la materia, «gli artisti rivelano per analogia la struttura della creatività personale, il modo cioè in cui ogni uomo e donna “progetta”, “modella” e “colora” la propria vita per meglio servire Dio e il prossimo» (La Vita si è fatta visibile. La comunicazione della fede attraverso l’arte, n. 12). Giovanni Paolo ii collocherà quest’osservazione sull’orizzonte etico del singolo artista, affermando che «chi avverte in sé questa sorta di scintilla divina che è la vocazione artistica… avverte al tempo stesso l’obbligo di non sprecare questo talento, ma di svilupparlo, per metterlo al servizio del prossimo e di tutta l’umanità» (Lettera agli artisti, n. 3). Con toni argentei e tinte luminose ricrea l’esperienza dell’artista, in cui «l’aspirazione a dare un senso alla propria vita si accompagna alla percezione della bellezza e della misteriosa unità delle cose». Ammette la frustrazione provata dagli artisti di fronte al «divario incolmabile che esiste tra l’opera delle loro mani, per quanto riuscita che essa sia, e la perfezione folgorante della bellezza percepita nel fervore del momento creativo», del cui splendore l’opera realmente dipinta o scolpita non è che un barlume. Ma condivide anche il rapimento del credente davanti a un capolavoro d’arte, spiegando che «egli sa di essersi affacciato per un attimo su quell’abisso di luce che ha in Dio la sua sorgente originaria» (n. 6).

Ecco perché già Paolo vi, parlando ai poeti e uomini di lettere, pittori, scultori, architetti, musicisti, alla gente di teatro e del cinema alla conclusione del concilio Vaticano ii, aveva detto: «Da lungo tempo la Chiesa ha fatto alleanza con voi. Voi avete edificato e decorato i suoi templi, celebrato i suoi dogmi, arricchito la sua liturgia. Voi l’avete aiutata a tradurre il suo messaggio divino nel linguaggio delle forme e delle figure, a rendere sensibile il mondo invisibile. Oggi come ieri, la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate interrompere un’alleanza feconda fra tutte! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Divino! Questo mondo nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza per non cadere nella disperazione. La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione…» (Messaggi del Concilio all’umanità, 8 dicembre 1965).

Consegue che il sacerdote deve cercare gli artisti, conoscerli e imparare da loro. A modo loro sono sempre uomini e donne «di fede» — anche quando si proclamano non-credenti — perché «fanno» cose. La fede, creativa, genera opere, e «se non ha le opere, è morta in se stessa» (Giacomo, 2, 17) come un’idea geniale che l’artista non traduce in un dipinto o in una statua. La fede poi è un terreno familiare agli artisti, i quali ogni giorno devono affrontare la fatica di tradurre intuizioni e idee, impressioni e osservazioni, concretizzandole in «opere». Sanno bene che l’unico modo di perfezionarsi è darsi da fare, buttarsi, rischiando il fallimento, lo spreco di tempo, di materiali, d’energia; rischiando addirittura il ridicolo. Meglio d’altri, capiscono come in Abramo «la fede cooperava con le opere» e «per le opere divenne perfetta» (Giacomo, 2, 21-22).

Ma gli artisti capiscono la dinamica della fede a un livello ancora più essenziale, identificandosi con il rischio e il pathos dello stesso Artefice Dio. Sperimentano come intima speranza e necessità e sofferenza il desiderio d’esternare un’idea che sfugge, un concetto «unico, molteplice, sottile, mobile, penetrante» (Sapienza, 7, 22) che magari sembra ricapitolare tutto ciò che l’artista sa d’avere dentro, e che egli vuole, anzi «deve» condividere con altri, per farli vedere con i loro occhi e contemplare e toccare con le loro mani una cosa che, in lui «c’era fin da principio» (1 Giovanni, 1, 1). Non v’è artista che non si identifichi col Creatore che rischiò tutto pur di rendere la propria «vita… visibile» agli uomini (1 Giovanni, 1, 1-2).

Dagli artisti il sacerdote può imparare che la fede in sé è arte. Certo, in primo luogo è dono, ma è un dono che, come il talento umano, chi lo riceve deve sviluppare. Non parlo qui della fede intesa come sistema, mirabile compendio di credenze e tradizioni, ma dell’atto di fede, del «salto» di fede, del «rischio» per cui si passa da un’esistenza «artigianale», fatta di cause ed effetti, alla vita sperimentata come «arte», vissuta come un’opera «ispirata», aperta alla gratuità, informata dalla grazia. Le cause e gli effetti possono — ahimè — esigere vendette e guerre, imprigionando l’uomo; la grazia, che è verità gratuitamente donata, perdona e rende liberi.

Queste cose il sacerdote deve sapere quando prega, quando celebra messa, quando riconcilia i peccatori con Dio. E le può imparare, se Dio vuole, anche dall’arte e dagli artisti.

[L'OSSERVATORE ROMANO - Edizione quotidiana - del 30 ottobre 2009]

di Sandro Magister: La « Dichiarazione di Manhattan »: il manifesto che scuote l’America

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1341135

La « Dichiarazione di Manhattan »: il manifesto che scuote l’America

L’hanno sottoscritta leader cattolici, protestanti, ortodossi, uniti nel difendere la vita e la famiglia. Con la Casa Bianca nel mirino. In Europa l’avrebbero bollata come una « ingerenza » politica della Chiesa

di Sandro Magister

ROMA, 25 novembre 2009 – Al di qua dell’Atlantico la notizia è passata quasi inosservata: quella di un forte appello pubblico a difesa della vita, del matrimonio, della libertà religiosa e dell’obiezione di coscienza, lanciato congiuntamente – cosa rara – da esponenti di primissimo piano della Chiesa cattolica, delle Chiese ortodosse, della Comunione anglicana e delle comunità evangeliche degli Stati Uniti.

Tra i leader religiosi che hanno presentato al pubblico l’appello, venerdì 20 novembre al National Press Club di Washington (vedi foto), c’erano l’arcivescovo di Philadelphia, cardinale Justin Rigali, l’arcivescovo di Washington, Donald W. Wuerl, e il vescovo di Denver, Charles J. Chaput.

E tra i 152 primi sottoscrittori dell’appello ci sono altri 11 arcivescovi e vescovi cattolici degli Stati Uniti: il cardinale Adam Maida, di Detroit, Timothy Dolan, di New York, John J. Myers, di Newark, John Nienstedt, di Saint Paul and Minneapolis,  Joseph F. Naumann, di Kansas City,  Joseph E. Kurtz, di Louisville, Thomas J. Olmsted, di Phoenix, Michael J. Sheridan, di Colorado Springs, Salvatore J. Cordileone,  di Oakland,  Richard J. Malone, di Portland, David A. Zubik, di Pittsburgh.

L’appello, di 4.700 parole, ha per titolo: « Manhattan Declaration: A Call of Christian Conscience [Dichiarazione di Manhattan. Un appello della coscienza cristiana] » e ha preso nome dalla penisola di New York in cui ne fu discussa e decisa la pubblicazione, lo scorso settembre.

La redazione finale del testo fu affidata al cattolico Robert P. George, professore di diritto alla Princeton University, e agli evangelici Chuck Colson e Timothy George, quest’ultimo professore della Beeson Divinity School, nella Samford University di Birmingham in Alabama.

Tra gli altri firmatari figurano il metropolita Jonah Paffhausen, primate della Chiesa ortodossa in America, l’arciprete Chad Hatfield, del seminario teologico ortodosso di San Vladimiro, il reverendo William Owens, presidente della Coalition of African-American Pastors, e due personaggi di spicco della Comunione anglicana: Robert Wm. Duncan, primate della Anglican Church in North America, e Peter J. Akinola, primate della Anglican Church in Nigeria.

Tra i cattolici, vescovi a parte, hanno sottoscritto l’appello il gesuita Joseph D. Fessio, discepolo di Joseph Ratzinger e fondatore dell’editrice Ignatius Press, William Donohue, presidente della Catholic League, Jody Bottum, direttore della rivista « First Things », George Weigel, membro dell’Ethics and Public Policy Center.

La « Dichiarazione di Manhattan » non cade nel vuoto, ma in un momento critico per la società e la politica americane: proprio mentre l’amministrazione di Barack Obama è impegnatissima a far passare un piano di riforma dell’assistenza sanitaria negli Stati Uniti.

Difendendo la vita umana fin dal concepimento e il diritto all’obiezione di coscienza, l’appello contesta due punti messi in pericolo dal progetto di riforma attualmente in discussione al Senato.

Al Congresso il pericolo è stato sventato anche grazie a una pressante azione di lobbying condotta alla piena luce del sole dall’episcopato cattolico. Dopo che il voto finale aveva garantito sia il diritto all’obiezione di coscienza sia il blocco di qualsiasi finanziamento pubblico all’aborto, la conferenza episcopale aveva rivendicato questo risultato come un « successo ». Ma ora al Senato la battaglia è ricominciata da capo, su un testo di partenza che di nuovo la Chiesa giudica inaccettabile. La conferenza episcopale ha già indirizzato ai senatori una lettera con indicate le modifiche che vorrebbe fossero apportate a tutti i punti controversi.

Ma ora in più c’è l’ecumenica « Dichiarazione di Manhattan », il cui ultimo capitolo, intitolato « Leggi ingiuste », termina con questo annuncio solenne:

« Non ci faremo ridurre al silenzio o all’acquiescenza o alla violazione delle nostre coscienze da qualsiasi potere sulla terra, sia esso culturale o politico, indipendentemente dalle conseguenze su noi stessi ».

E subito dopo:

« Noi daremo a Cesare ciò che è di Cesare, in tutto e con generosità. Ma in nessuna circostanza noi daremo a Cesare ciò che è di Dio ».

In un passaggio iniziale, l’appello dice anche questo:

« Mentre l’opinione pubblica si muove in direzione pro-life, forze potenti e determinate lavorano per promuovere l’aborto, la ricerca distruttiva degli embrioni, il suicidio assistito e l’eutanasia ».

Ed è vero. Stando alle più recenti indagini, l’opinione pubblica negli Stati Uniti sta virando sensibilmente verso una maggiore difesa della vita del concepito.

Dal 1995 al 2008 tutte le ricerche avevano registrato una prevalenza dei pro-choice rispetto ai pro-life, con distacco anche netto: i primi al 49 per cento, i secondi al 42.
Oggi, invece, le posizioni si sono rovesciate. I pro-choice sono calati al 46 per cento e i pro-life sono saliti al 47 per cento, sopravanzandoli.

I leader religiosi che incalzano Obama sui terreni minati dell’aborto, del matrimonio tra omosessuali, dell’eutanasia, sanno quindi di avere con sé un’ampia e crescente parte della società americana.

Il lancio della « Dichiarazione di Manhattan » ha avuto una forte eco nei media degli Stati Uniti, senza che qualcuno protestasse contro questa « ingerenza » politica delle Chiese.

Ma gli Stati Uniti sono fatti così. Lì c’è da sempre una rigorosa separazione tra le religioni e lo Stato. I concordati non ci sono e nemmeno sono concepibili. Ma proprio per questo si riconosce alle Chiese la piena libertà di parlare e di agire in campo pubblico.

In Europa il paesaggio è molto diverso. Qui la « laicità » è pensata e applicata in conflitto, latente od esplicito, con le Chiese.

È anche questo, forse, un motivo del silenzio che in Europa, in Italia, a Roma, ha coperto la « Dichiarazione di Manhattan ». È ritenuta un fenomeno tipicamente americano, estraneo ai canoni di giudizio europei.

Un’analoga diversità di approccio riguarda la comunione eucaristica data o negata ai politici cattolici pro aborto. Negli Stati Uniti la controversia è vivacissima, mentre al di qua dell’Atlantico no. Questa diversa sensibilità divide anche la gerarchia della Chiesa cattolica: in Europa e a Roma la questione è praticamente ignorata, lasciata alla coscienza dei singoli.

Va notato però che su questo punto qualcosa sta cambiando, anche nel Vecchio Continente. E non solo perché c’è un papa come Benedetto XVI che dichiaratamente preferisce il modello americano di rapporto tra le Chiese e lo Stato.

Un segnale è venuto pochi giorni fa dalla Spagna, dove la Chiesa cattolica è alle prese con un governo ideologicamente ostile, quello di José Luis Rodríguez Zapatero, e dove si prepara una legge che liberalizza l’aborto più di quanto già sia.

Secondo quanto ha riferito anche « L’Osservatore Romano », il segretario generale della conferenza episcopale spagnola, il vescovo Juan Antonio Martínez Camino, non ha esitato ad avvisare i politici cattolici che, se voteranno sì alla legge, non potranno essere ammessi alla comunione eucaristica, perchè si collocheranno in una situazione oggettiva di “peccato pubblico”.

Non solo. Monsignor Martínez Camino ha aggiunto che chi sostiene che è moralmente legittimo uccidere un nascituro si mette in contraddizione con la fede cattolica e pertanto rischia di cadere nell’eresia e nella scomunica “latae sententiae”, cioè automatica.

È la prima volta che in Europa, da parte di un dirigente di una conferenza episcopale, si odono parole così « americane ».

Ma torniamo alla « Dichiarazione di Manhattan ». Il suo testo integrale, con la lista dei 152 primi sottoscrittori, è in questa pagina web:

> Manhattan Declaration: A Call of Christian Conscience

Mentre qui di seguito, tradotto, c’è il testo abbreviato, diffuso assieme al testo integrale della « Dichiarazione »:

Manhattan Declaration Executive Summary

20 novembre 2009

I cristiani, quando hanno dato vita ai più alti ideali della loro fede, hanno difeso il debole e il vulnerabile e hanno lavorato instancabilmente per proteggere e rafforzare le istituzioni vitali della società civile, a cominciare dalla famiglia.

Noi siamo cristiani ortodossi, cattolici ed evangelici che si sono uniti nell’ora presente per riaffermare le verità fondamentali della giustizia e del bene comune, e per lanciare un appello ai nostri concittadini, credenti e non credenti, affinché si uniscano a noi nel difenderli. Queste verità sono (1) la sacralità della vita umana, (2) la dignità del matrimonio come unione coniugale tra marito e moglie, e (3) i diritti di coscienza e di libertà religiosa. In quanto queste verità sono fondative della dignità umana e del benessere della società, esse sono inviolabili e innegoziabili. Poiché esse sono sempre più sotto attacco da parte di forze potenti nella nostra cultura, noi ci sentiamo in dovere oggi di parlare a voce alta in loro difesa e di impegnare noi stessi a onorarle pienamente, non importa quali pressioni siano esercitate su di noi e sulle nostre istituzioni affinché le abbandoniano o le pieghiamo a compromessi. Noi prendiamo questo impegno non come partigiani di un gruppo politico ma come seguaci di Gesù Cristo, il Signore crocifisso e risorto, che è la Via, la Verità e la Vita.

Vita umana

Le vite dei nascituri, dei disabili e dei vecchi sono sempre più minacciate. Mentre l’opinione pubblica si muove in direzione pro-life, forze potenti e determinate lavorano per promuovere l’aborto, la ricerca distruttiva degli embrioni, il suicidio assistito e l’eutanasia. Nonostante la protezione del debole e del vulnerabile sia il dovere primo di un governo, il potere di governo è oggi spesso guadagnato alla causa della promozione di quella che Giovanni Paolo II ha chiamato « la cultura della morte ». Noi ci impegniamo a lavorare incessantemente per l’eguale protezione di ogni essere umano innocente ad ogni stadio del suo sviluppo e in qualsiasi condizione. Noi rifiuteremo di consentire a noi stessi e alle nostre istituzioni di essere implicati nel cancellare una vita umana e sosterremo in tutti i modi possibili coloro che, in coscienza, faranno la stessa cosa.

Matrimonio

L’istituto del matrimonio, già ferito da promiscuità, infedeltà e divorzio, corre il rischio di essere ridefinito e quindi sovvertito. Il matrimonio è l’istituto originario e più importante per sostenere la salute, l’educazione e il benessere di tutti. Dove il matrimonio è eroso, le patologie sociali aumentano. La spinta a ridefinire il matrimonio è un sintomo, piuttosto che la causa, di un’erosione della cultura del matrimonio. Essa riflette una perdita di comprensione del significato del matrimonio così come è incorporato sia nella nostra legge civile, sia nelle nostre tradizioni religiose. È decisivo che tale spinta trovi resistenza, poiché cedere ad essa vorrebbe dire abbandonare la possibilità di ridar vita a una giusta concezione del matrimonio e, con essa, alla speranza di ricostruire una corretta cultura del matrimonio. Questo bloccherebbe la strada alla credenza falsa e distruttiva che il matrimonio coincida con un’avventura sentimentale e altre soddisfazioni per persone adulte, e non, per sua natura intrinseca, con quell’unico carattere e valore di atti e relazione il cui significato è dato dalla sua capacità di generare, promuovere e proteggere la vita. Il matrimonio non è una « costruzione sociale » ma è piuttosto una realtà oggettiva – l’unione pattizia tra un marito e una moglie – che è dovere della legge riconoscere, onorare e proteggere.

Libertà religiosa

Libertà di religione e diritti della coscienza sono gravemente in pericolo. La minaccia a questi principi fondamentali di giustizia è evidente negli sforzi di indebolire o eliminare l’obiezione di coscienza per gli operatori e gli istituti sanitari, e nelle disposizioni antidiscriminazione che sono usate come armi per forzare le istituzioni religiose, gli enti di assistenza, le imprese economiche e i fornitori di servizi sia ad accettare (e anche a facilitare) attività e rapporti da essi giudicati immorali, oppure di essere messi fuori. Gli attacchi alla libertà religiosa sono pesanti minacce non solo a persone singole, ma anche a istituzioni della società civile che comprendono famiglie, enti di assistenza e comunità religiose. La salvaguardia di queste istituzioni provvede un indispensabile riparo da prepotenti poteri di governo ed è essenziale affinché fiorisca ogni altra istituzione su cui la società si appoggia, incluso lo stesso governo.

Leggi ingiuste

Come cristiani, crediamo nella legge e rispettiamo l’autorità dei governanti terreni. Riteniamo che sia uno speciale privilegio vivere in una società democratica dove le esigenze morali della legge su di noi sono anche più forti in virtù dei diritti di tutti i cittadini di partecipare al processo politico. Ma anche in un regime democratico le leggi possono essere ingiuste. E fin dalle origini la nostra fede ha insegnato che la disobbedienza civile è richiesta di fronte a leggi gravemente ingiuste o a leggi che pretendano che noi facciamo ciò che è ingiusto oppure immorale. Simili leggi mancano del potere di obbligare in coscienza poiché esse non possono rivendicare nessuna autorità oltre a quella della mera volontà umana.

Pertanto, si sappia che non acconsentiremo a nessun editto che obblighi noi o le istituzioni che guidiamo a compiere o a consentire aborti, ricerche distruttive dell’embrione, suicidi assistiti, eutanasie o qualsiasi altro atto che violi i principi della profonda, intrinseca ed eguale dignità di ogni membro della famiglia umana.

Inoltre, si sappia che non ci faremo ridurre al silenzio o all’acquiescenza o alla violazione delle nostre coscienze da qualsiasi potere sulla terra, sia esso culturale o politico, indipendentemente dalle conseguenze su noi stessi.

Noi daremo a Cesare ciò che è di Cesare, in tutto e con generosità. Ma in nessuna circostanza noi daremo a Cesare ciò che è di Dio.

Oggi il Papa proclama beato il fondatore…Don Alberione, vivere come San Paolo e cavalcare Internet

dal sito:

http://archiviostorico.corriere.it/2003/aprile/27/Don_Alberione_vivere_come_San_co_0_030427097.shtml

Corriere della Sera – Archivio storico  – 27 aprile 2003
   
Oggi il Papa proclama beato il fondatore di congregazioni e case editrici che credeva nella missione del giornalista. Ed esce la sua biografia

Don Alberione, vivere come San Paolo e cavalcare Internet

Il problema pare irresolubile. Da una parte un ebreo della Diaspora, nato duemila anni fa a Tarso, in Cilicia, e perciò cittadino romano immerso nella cultura ellenistica. Dall’ altra il quinto di sette figli d’ un fittavolo piemontese nato il 4 aprile 1884 nella borgata San Lorenzo di Fossano e cresciuto fra le brume della campagna cuneese, cascina Perussia, un locale al pianterreno per mangiare e dormire, la stalla come giaciglio in inverno e il fienile d’ estate. Difficile pensare che due uomini simili possano avere qualcosa in comune. Però Don Giacomo Alberione, ai suoi, lo ripeteva sempre: «Vivete come San Paolo». E per chiarire il concetto amava ripetere le parole di Wilhelm von Ketteler, grande intellettuale dell’ Ottocento nonché vescovo di Magonza: «Se San Paolo tornasse al mondo, farebbe il giornalista». Sono frasi da tenere a mente, se si vuole capire l’ uomo che questa mattina, in piazza San Pietro, Giovanni Paolo II proclamerà beato per la gioia della Famiglia Paolina, dei 17.774 sacerdoti, religiose e laici che ne proseguono l’ opera in 62 Paesi. Quando morì, il 26 novembre 1971, in ginocchio al suo capezzale c’ era Paolo VI. Nel frattempo – dal 20 agosto 1914 e l’ apertura ad Alba della «Scuola tipografica piccolo operaio» – don Alberione aveva fondato cinque congregazioni religiose (Società San Paolo, Figlie di San Paolo, Pie Discepole del Divin Maestro, Suore di Gesù Buon Pastore, Suore di Maria Regina degli Apostoli), quattro istituti secolari (Gesù Sacerdote, San Gabriele Arcangelo, Maria Santissima Annunziata, Santa Famiglia) e un’ associazione di laici (Cooperatori Paolini). Aveva creato case editrici, stampato libri e riviste, esplorato tv, radio e cinema, diffuso più di un milione e duecentomila copie della mitica «Bibbia da mille lire» per rimediare all’ analfabetismo delle Scritture: «Una « parrocchia di carta » che ha come confini il mondo», come ha scritto Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana, fondata nel 1931. E tutto per seguire l’ esempio dell’ Apostolo che aveva predicato il Vangelo anche ai non ebrei e aperto il Cristianesimo al mondo: Asia Minore, Macedonia, Grecia, Roma. Domenico Agasso ha appena pubblicato una biografia del beato, «Don Alberione, editore per Dio» (ed. San Paolo, 9 euro ), e racconta lo stesso slancio, aggiornato ai tempi. Folgorato dalla Lettera ai Romani, don Alberione era mosso da una convinzione: «Il mondo ha bisogno di una nuova evangelizzazione». La chiamata risale alla «notte fra due secoli», la veglia del sedicenne Giacomo dal 31 dicembre 1900 al 1° gennaio 1901. Il mondo stava cambiando, «la stampa e il giornale fanno ora i pensieri, i sentimenti, l’ uomo: formano l’ opinione pubblica». Così, l’ 8 dicembre 1917, accadde qualcosa che nella Chiesa non s’ era mai visto: davanti a Don Alberione, i primi cinque ragazzi si impegnarono solennemente a «consacrare tutta la vita a Dio nell’ Apostolato della Stampa». «Un mistico», lo ricordava il biblista Gianfranco Ravasi alla presentazione del libro. Che però aveva capito come i mass media siano una sorta di acquedotto, «la rete è importante ma l’ essenziale è che l’ acqua sia buona», spiegava Ettore Bernabei. Dotato di «una visione manageriale della santità tutta piemontese», sorrideva lo scrittore Vittorio Messori. Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere, ha insistito sulla sua «etica del lavoro», un esempio così importante anche per i laici: «Saper essere importuni e talvolta inopportuni». Non c’ è da stupirsi che un sondaggio Internet abbia proposto don Alberione come patrono della Rete, c’ era già tutto nella lettera ai Filippesi: «Per me infatti il vivere è Cristo», scrive San Paolo, «proteso verso il futuro». Gian Guido Vecchi

Vecchi Gian Guido

Fedor Michajlovic Dostoevskij: Il fanciullo presso Gesù

dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/arte/fanciullogesu.htm

Fedor Michajlovic Dostoevskij

IL FANCIULLO PRESSO GESÙ

Ma io sono romanziere, e, mi pare, ho inventato una “storia”. Perché scrivo “mi pare”? Io stesso infatti so di sicuro di averla inventata, ma ho sempre l’impressione che questo sia accaduto chi sa dove e chi sa quando, che sia accaduto precisamente la vigilia di Natale, in qualche immensa città, e con un terribile gelo.

Mi si presenta l’immagine di un fanciullo, molto piccino ancora, di forse sei anni o anche meno. Questo fanciullo si destò un mattino in un sotterraneo umido e freddo. Aveva indosso una specie di giubboncino e tremava. Il suo alito si sprigionava come un bianco vapore, ed egli, stando seduto in un angolo, su un baule, di proposito emetteva quel vapore e si divertiva a vederlo uscir dalla bocca. Aveva però una gran voglia di mangiare. Più volte, fin dal mattino, si era accostato a un tavolaccio dove, sopra un misero pagliericcio e con un fagotto sotto il capo a mo’ di guanciale, giaceva la sua madre inferma. Come mai ella si trovava lì? Probabilmente era venuta col suo bambino da un’altra città e d’improvviso si era ammalata. La padrona di quei “cantucci”[1] la polizia l’aveva arrestata due giorni prima; gli inquilini erano andati in giro, poiché la giornata era festiva, tranne un rivendugliolo rimasto in casa, che già da ventiquattro ore giaceva ubriaco morto, non avendo atteso la festa per ubriacarsi. In un altro angolo della stanza gemeva per i reumatismi una vecchia ottantenne che un tempo era stata bambinaia e ora se ne moriva solitaria, sospirando, borbottando e brontolando contro il fanciullo, tanto che questi temeva ormai di avvicinarsi al “cantuccio” di lei. Da bere egli ne aveva trovato in qualche posto, nell’andito, ma una crosta di pane non aveva potuto scovarla, e forse già per la decima volta si era accostato alla mamma per destarla. Infine cominciò ad aver paura del buio: da un pezzo ormai era scesa la sera, ma non era stato acceso un lume. Palpato il viso della mamma, si meravigliò che ella non facesse alcun movimento e fosse diventata fredda come il muro. “Fa troppo freddo”, qui pensò, e attese un poco, dimenticandosi, inconsciamente, di levar la mano dalla spalla della morta, poi si soffiò sui ditini per riscaldarli, e a un tratto, avendo a tastoni trovato sul tavolaccio il suo berrettino, uscì alla chetichella e a tentoni dal sotterraneo. Sarebbe già andato via prima, ma aveva sempre avuto paura d’un grosso cane che stava disopra, sulla scala, e ululava tutto il giorno presso la porta dei vicini. Ma il cane ora non c’era, ed egli a un tratto uscì in strada.

Dio mio, che città! Egli non ha ancora mai veduto nulla di simile! Laggiù, donde è venuto, l’oscurità di notte è così nera, con un solo lampione in tutta la via! Le basse casupole di legno hanno tutte le imposte chiuse; sulla strada, appena si fa buio, non c’è più nessuno, tutti si rinchiudono in casa, e solo i cani urlano e abbaiano l’intera notte. Ma laggiù, in compenso, si stava così al caldo e gli davan da mangiare. O Signore, se almeno potesse mangiare anche qui! E che strepito, che chiasso c’è lì, quanta luce, e gente, e cavalli, e vetture; e un gelo, un gelo! Un vapore gelido fluisce dai cavalli frustati, dai musi che respirano ardenti; sulla neve soffice i loro ferri tintinnano urtando nei sassi, e come tutti si sospingono! ed egli ha tanta voglia di mangiare, o Signore, non fosse che un pezzetto di pane, e a un tratto i ditini si son messi a fargli così male! Un guardiano dell’ordine gli è passato accanto e si è voltato in là per non vedere il fanciullo.

Ecco un’altra via: oh, com’è larga! Qui lo schiacceranno certamente; e come tutti gridano, corrono, a piedi o in carrozza, e quanta luce, quanta luce! Ma che è questo? Oh, che vetro grande! e dietro quel vetro una stanza, e nella stanza un albero che arriva al soffitto: è un abete, e sull’abete quanti lumi, quante carte dorate e quante mele, e lì intorno fantocci e cavallini; e per la stanza corrono dei bimbi ben vestiti e lindi, che ridono, giuocano, mangiano e cantano. Ecco una bambina che s’è messa a ballare con un ragazzo, che graziosa bambina! Ed ecco anche una musica, attraverso il vetro la si sente. Il piccolo guarda, è meravigliato e già ride, ma gli fanno male anche i ditini dei piedi, e quelli delle mani si son fatti tutti rossi, non si piegano più e muoverli è doloroso. E a un tratto il piccino s’è accorto che le dita gli dolgono tanto, s’è messo a piangere ed è corso oltre, ma ecco che attraverso un altro vetro torna a scorgere una stanza, e anche lì degli alberi e, su tavole, pasticcini d’ogni sorta – con mandorle, rossi, gialli – e lì stan sedute quattro ricche signore che danno pasticcini a quanti vengono; la porta si apre ogni momento e molti signori entrano e vanno verso quelle signore. Il piccino s’è fatto avanti furtivo, d’un tratto ha aperto la porta ed è entrato. Oh, come si son messi a sgridarlo e ad agitare le mani verso di lui! Una signora gli si è avvicinata in fretta, gli ha ficcato in mano una copeca e gli ha aperto la porta per farlo uscire. Come s’è spaventato! E in quello stesso momento la copeca gli è scivolata di mano, tintinnando sui gradini: egli non ha potuto piegare i ditini arrossati per trattenerla. Il piccino è corso fuori e si è avviato lesto, ma senza sapere egli stesso da che parte. Vorrebbe di nuovo mettersi a piangere, ma ha troppa paura e corre, corre, soffiandosi sulle manine. E l’angoscia lo afferra, perché improvvisamente si è sentito così solo e pieno di paura. Ma a un tratto, o Signore, che c’è là ancora? Una folla di gente che sta lì e guarda con ammirazione: in una finestra, dietro il vetro, ci sono tre piccoli fantocci agghindati con vestitini rossi e verdi, proprio, proprio come vivi! Uno di essi è un vecchietto seduto che par che suoni un grosso violino, gli altri due sono in piedi e suonano dei violini piccoli piccoli, chinando le testine al ritmo della musica e guardandosi a vicenda; le loro labbra si muovono e parlano, parlano proprio; solo che attraverso il vetro non si sente nulla. Il piccino dapprima pensò che quelle fossero persone vive, ma quando capì che erano fantocci scoppiò a ridere! Aveva anche voglia di piangere, ma gli veniva tanto da ridere davanti a quei fantocci! A un tratto gli parve che qualcuno lo avesse afferrato di dietro per il giubboncino: un ragazzaccio cattivo gli stava accanto, e d’improvviso lo colpì sulla testa, gli strappò via il berrettino, e intanto gli diede uno sgambetto. Il piccino cadde a terra, la gente si mise a gridare, egli rimase intontito, balzò su, e via a correre, correre, e a un tratto entrò di corsa, senza rendersene conto, in un portone, in un cortile, e si accucciò dietro un mucchio di legna: “Qui non potranno trovarmi, e poi è buio”.

Si accucciò e si raggomitolò, e intanto non poteva riprender fiato dallo spavento, e a un tratto, proprio a un tratto, si senti così bene: le manine e i piedini avevano cessato di dolere e gli era venuto caldo, tanto caldo, come in vicinanza di una stufa; ma eccolo sussultar tutto: ah, stava per addormentarsi! Com’era bello addormentarsi là: “Rimarrò qui un momento, poi andrò di nuovo a guardare i fantocci”, pensò il piccino e sorrise, ricordandosene: “proprio come vivi!”. E all’improvviso sentì che la sua mamma s’era messa a cantare sopra di lui: « Mamma, io dormo, ah! com’è bello dormire qui!”…

«Vieni da me a veder l’albero di Natale, piccino», mormorò a un tratto sopra di lui una voce sommessa.

Sulle prime ha creduto che sia stata ancora la mamma a dir questo, invece no, non è stata lei; egli non vede chi l’ha chiamato, ma qualcuno si è chinato su di lui e lo ha abbracciato nel buio; il piccino gli ha teso una mano e… e improvvisamente, oh, quale luce! Oh, che albero di Natale! Anzi non è nemmeno un albero di Natale, egli non ha ancor veduto simili alberi! Dove mai si trova, adesso? Tutto riluce, tutto splende, e tutt’intorno non ci sono che fantocci… ma no, son tutti bambini e bambine, così luminosi, però, e tutti gli turbinano attorno volando, tutti lo baciano, lo prendono e lo portano con sé, e vola anche lui, e vede la mamma che lo guarda e ride gioiosamente.

«Mamma, mamma! Ah, com’è bello qui!» le grida il piccino, e torna a scambiar baci coi bimbi e vorrebbe narrar loro, al più presto, di quei fantocci nella vetrina. «Chi siete voi, bambini? Chi siete voi, bambine?» domanda ridendo, pieno d’amore per essi. «Questo è “l’albero di Natale di Gesù”», gli rispondono. «Gesù ha sempre, in questo giorno, un albero di Natale per i piccoli bimbi che laggiù non ne hanno uno proprio».

Ed egli apprese che tutti quei bambini e quelle bambine erano stati come lui, ma alcuni erano rimasti assiderati già nei panieri entro i quali li avevano abbandonati sulle scale, davanti alle porte degli impiegati di Pietroburgo, altri erano periti presso le balie finlandesi, durante l’allattamento per conto dell’orfanotrofio; altri erano morti sul seno inaridito delle loro madri (al tempo della carestia di Samara); altri ancora erano morti dal puzzo nei carrozzoni di terza classe, e tutti adesso erano lì, in veste di angeli, tutti presso Gesù, ed Egli era in mezzo ad essi e tendeva loro le braccia, benedicendoli insieme con le loro madri peccatrici… E anche tutte le madri di quei bimbi erano lì, in disparte, e piangevano; ciascuna riconosceva il suo bambino o la sua bambina, ed essi volavano verso di loro e le baciavano e asciugavano con le manine le loro lacrime, supplicandole di non piangere, perché lì essi erano tanto felici!…

E laggiù, all’alba, il portiere trovò il cadavere del fanciullo che, entrato là di corsa, era morto di freddo dietro il mucchio di legna; scovarono anche la sua mamma… Era morta ancor prima di lui, ed entrambi si erano incontrati in cielo, presso il Signore…
 

Da: F. M. D., Il fanciullo presso Gesù e altri racconti, a cura di Eva Amandola Kuhn, Milano 1953.

Milano si prepara alla beatificazione di don Carlo Gnocchi

dal sito:

http://www.zenit.org/article-19999?l=italian

Milano si prepara alla beatificazione di don Carlo Gnocchi

Il sacerdote soccorse centinaia di vittime della Seconda Guerra Mondiale

di Carmen Elena Villa

MILANO, mercoledì, 21 ottobre 2009 (ZENIT.org).- La piazza del Duomo di Milano sarà lo scenario della beatificazione di don Carlo Gnocchi (1902-1956), ispiratore della Fondazione che porta il suo nome e che presta il proprio servizio in 28 centri in Italia a uomini e donne con handicap, anziani, malati di cancro e persone in stato vegetativo.

La cerimonia si celebrerà alle 10.00 del 25 ottobre e sarà presieduta dall’Arcivescovo di Milano, il Cardinale Dionigi Tettamanzi, contando sulla presenza di monsignor Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi e inviato di Papa Benedetto XVI alla cerimonia.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, don Gnocchi si offrì come cappellano volontario degli alpini che combattevano.

E’ anche ricordato come un eroe della solidarietà nei confronti delle vittime della guerra. Lo chiamavano “padre dei mutilatini” e degli orfani dei combattenti, visto che il centro da lui creato provvedeva alla riabilitazione di quanti soffrivano a livello fisico le conseguenze del conflitto.

Le sue parole sono ancora di enorme attualità nel XXI secolo: “Prima che la crisi politica o economica, c’è una crisi morale, anzi, una crisi metafisica. Come tale investe più o meno attualmente tutti i popoli, perché tocca l’uomo e il suo problema esistenziale”, scriveva nel 1946.

ZENIT ha parlato con il postulatore della causa di beatificazione di don Gnocchi, padre Rodolfo Cosimo Meoli F.S.C, che ha spiegato come la sua vita continui ad avere grande eco nel mondo odierno.

Come visse la sua infanzia don Carlo?
P. Rodolfo Cosimo Meloli: Fu un’infanzia attraversata da grandi lutti: suo padre morì di silicosi nel 1907, quando Carlo aveva soltanto 5 anni. Due anni dopo morì suo fratello Mario per meningite. L’altro fratello Andrea, il primogenito, sarà portato via dalla tubercolosi nel 1915. Carlo resta solo con la madre Clementina Pasta. Lei è donna coraggiosa e, nonostante sia costretta a vivere in condizioni difficilissime, non solo non perde la fiducia in Dio, ma arriva a pregare così: « Due miei figli li hai già presi, Signore; il terzo te l’offro io, perché tu lo benedica e lo conservi sempre al tuo servizio ».

In queste circostanze, come si rese conto della sua chiamata al sacerdozio?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: La madre giocò senz’altro un ruolo fondamentale; la grazia di Dio e la frequenza alle attività parrocchiali fecero il resto. Ci fu poi la corrispondenza alle ispirazioni della grazia, fatto tutto personale questo, di cui Don Carlo ha dato ampie prove per tutto il corso della sua vita”.

Quali sono state le sue virtù principali?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: Più che « delle virtù » parlerei « della virtù »: la carità, che tutte le racchiude e le nobilita. Carità fatta attenzione, tenerezza, compassione, accoglienza, disponibilità…

Come decise di creare la fondazione « Pro Iuventute »?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: Era andato in guerra come cappellano volontario. « Un prete non può non stare dove si muore! », diceva. Poi la tragica esperienza della ritirata di Russia fece maturare in lui il disegno concreto di provvedere all’assistenza degli orfani dei suoi alpini e delle tante altre piccole vittime innocenti di ordigni bellici. « Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i suoi poveri. E’ questa la mia ‘carriera’ », scriveva a un suo cugino. La prima istituzione da lui creata era denominata « Pro Infanzia Mutilata » (1947), divenuta « Fondazione Pro Iuventute » nel 1952.

Qual è lo scopo di questa fondazione?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: L’opera sorse con lo scopo di soccorrere i « mutilatini di guerra ». Poi, nel corso degli anni e soprattutto con la graduale scomparsa dei mutilatini, l’opera di don Carlo ha progressivamente ampliato le attività assistenziali. Oggi nei Centri della Fondazione sono accolti pazienti con ogni forma di disabilità, pazienti che hanno bisogno di interventi e cure riabilitative, anziani non autosufficienti e malati oncologici in fase terminale.

In che modo la sua testimonianza può illuminare i sacerdoti in questo Anno Sacerdotale?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: Don Carlo è il volto moderno della santità. Ha saputo interpretare in modo superlativo la sua vocazione: quella di essere luce, sostegno, conforto e speranza per tutti quelli che incontrava. La sua vita si è consumata per il bene degli altri. E’ stato l »alter Christus » che ieri, oggi, sempre è chiamato ad essere ogni sacerdote. Consiglierei a tutti la lettura meditata dei suoi scritti e delle sue lettere”.

Perché è importante la sua testimonianza per il XXI secolo e per la difesa della dignità umana?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: Penso perché ha messo al centro della sua azione l’uomo, gli uomini, tutti gli uomini, la forza vitale dell’amore, il sogno della fraternità e della solidarietà universale, senza pregiudizi e senza preclusioni.

La Madonna che unisce cattolici e anglicani ( articolo 28 aprile 2009)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-18055?l=italian

La Madonna che unisce cattolici e anglicani

La festa di Nostra Signora delle Grazie a Nettuno

di Renzo Allegri

ROMA, martedì, 28 aprile 2009 (ZENIT.org).- Nettuno e Ipswich, due cittadine sul mare. Nettuno, 50 mila abitanti, si trova a 60 chilometri da Roma, sul litorale laziale, bagnata dalle acque del mar Tirreno; Ipswich, cittadina inglese, 120 mila abitanti, a due ore da Londra nella contea del Suffolk, è bagnata dalle acque del Mare del Nord.

Cattolica la popolazione di Nettuno; anglicana, quella di Ipswich: ma tutte e due contrassegnate da una profonda devozione per la Madonna, invocata con lo stesso titolo, “Nostra Signora delle Grazie”, e raffigurata in una statua lignea che risale al 1182, e che fino al 1538 è stata venerata in un bellissimo santuario a Ipswich e poi è misteriosamente arrivata a Nettuno.

Una vicenda affascinante, straordinaria, commovente, che compendia in se stessa dolorose vicende storiche di divisioni, scismi, odi, persecuzioni, ma che, soprattutto in questi ultimi anni, è diventata una storia di amore, di riappacificazione, di vitalità religiosa, intrisa di un forte desiderio di unità tra cattolici e anglicani.

« Qui a Nettuno, la Madonna, invocata con il titolo di ‘Nostra Signora delle Grazie’, è amata e venerata, proprio da tutti », dice il signor Mario Mazzanti, priore della Confraternita di Nostra Signora delle Grazie di Nettuno. « La prima domenica di maggio ne celebriamo la festa, che è la più grande e la più sentita festa religiosa della nostra città ».

Le confraternite sono associazioni pubbliche di fedeli della Chiesa Cattolica che affondano le loro radici in antiche tradizioni e che sono disciplinate dai vari canoni del Codice di Diritto Canonico. Sorgono con lo scopo di incrementare il culto pubblico, fare opere di carità, di penitenza, di catechesi e anche per organizzare manifestazioni culturali.

« La nostra Confraternita », spiega Mario Mazzanti, « si dedica al culto della Madonna Nostra Signora delle Grazie, che è patrona di Nettuno. Attualmente siamo in circa 300 iscritti: 180 confratelli e 120 consorelle, in rappresentanza di tutte le famiglie della città. E’ nostro compito organizzare, in collaborazione con le autorità ecclesiastiche, tutte le manifestazioni riguardanti ‘Nostra Signora’, in particolare l’annuale festa di maggio. In questi giorni siamo alla vigilia ormai, e quindi in pieno fermento ».

« Qual è », domandiamo a Mario Mazzanti, « l’origine di questa festa dedicata alla Madonna e così sentita a Nettuno? ». « L’origine è legata a una statua lignea arrivata misteriosamente nella nostra città nel 1550, proveniente dall’Inghilterra. Come ho detto, ‘Nostra Signora delle Grazie’ è raffigurata da una statua in legno che conserviamo nel Santuario della nostra città, Per oltre quattrocento anni, quella statua era stata venerata in un santuario a Ipswich, in Inghilterra. La Madonna era invocata con il titolo di ‘Our Lady of Grace’, cioè ‘Nostra signora delle Grazie’. Nel secolo Sedicesimo ci fu in quella nazione lo scisma, la rottura dei rapporti tra la Chiesa cattolica e lo Stato inglese, voluta da Enrico VIII che regnò dal 1509 al 1547”.

« La ragione della rottura, come è noto, era costituita dal fatto che Enrico voleva divorziare dalla prima moglie, Caterina d’Aragona, per sposare Anna Bolena. Il Papa non gli concesse l’annullamento del primo matrimonio ed Enrico proclamò la separazione della Chiesa d’Inghilterra dalla Chiesa Cattolica. Dopo il divorzio, sposò Anna Bolena e si fece proclamare dal parlamento capo della Chiesa Anglicana. Dopo Anna Bolena, sposò altre quattro donne e sfogò il suo odio per la Chiesa di Roma con una feroce persecuzione di coloro che continuavano a proclamarsi cattolici. Confiscò i beni di tutti i conventi e i monasteri, fece incendiare le chiese cattoliche, fece bruciare statue, dipinti, libri, tutto quello che richiamava alla Chiesa Cattolica di Roma. La persecuzione continuò anche dopo la morte di Enrico VIII, anzi divenne più acuta sotto il successore, Edorardo VI”.

« Anche la statua della ‘Our Lady of Grace’ di Ipswich doveva essere bruciata. Il santuario, dove era venerata, fu distrutto nel 1538 da Thomas Cromwell, cancelliere dello Scacchiere e consigliere nero di Enrico VIII. Ma Cromwell volle salvare la statua miracolosa della Madonna e la nascose in una cappella privata di sua proprietà a Londra. E quando la violenza distruttrice si intensificò sotto Edoardo VI, alcuni pii marinai, temendo che la statua della Madonna venisse scoperta e distrutta, decisero di sottrarla dalla casa di Cromwell per portarla in salvo in Italia”.

“La statua venne imbarcata in gran segreto su una nave che doveva raggiungere Napoli. Ma giunta nel Mar Tirreno, la nave fu coinvolta in una terrificante tempesta e trovò scampo riparando nell’insenatura tra Anzio e Nettuno. Passata la tempesta, i marinai decisero di riprendere il largo, ma appena fuori dell’insenatura del golfo, il mare si gonfiò di nuovo, le onde divennero gigantesche e ricacciavano la nave nell’insenatura. I marinai tentarono più volte di proseguire il viaggio, ma inutilmente”.

“Ad un ennesimo tentativo, la nave fu rovesciata. I marinai, in balia di quelle onde violente, erano perduti, ma con loro incredibile meraviglia, si ritrovarono a riva, tutti incolumi e si chiedevano come mai poteva essere accaduto. Si ricordarono dalla statua della Madonna che avevano a bordo e si convinsero che era stata la Vergine miracolosa a salvarli. E riflettendo sul fatto che le onde diventavano gigantesche proprio quando la nave tentava di lasciare l’insenatura, conclusero che la Madonna voleva restare a Nettuno”.

« Lì vicino al luogo dove avevano trovato scampo, c’era una chiesetta. I marinai parlarono con la gente, raccontarono la storia della statua di ‘Nostra Signora delle Grazie’ che avevano sulla nave, e dissero che forse la Madonna voleva restare a con loro. La popolazione ne fu felice, La statua venne sbarcata e portata in processione nella vicina chiesetta. Subito il mare si calmò e i marinai inglesi poterono finalmente riprendere il loro viaggio verso Napoli”.

« La statua incontrò subito la devozione della gente, che continuò a invocarla con il titolo di ‘Our Lady of Grace’, tradotto in ‘Nostra Signora delle Grazie’. Devozione che andò via via aumentando e nel 1854, anno del dogma dell’Immacolata Concezione, Papa Pio IX proclamò ‘Nostra Signora delle Grazie’ patrona di Nettuno. Nel 1914 venne costruito un nuovo grande santuario e la statua miracolosa fu collocata sull’altare maggiore. In seguito in una cappella laterale fu portato anche il corpo di Maria Goretti, una ragazza di Nettuno, uccisa a 12 da uno stupratore e proclamata santa da Pio XII nel 1950″.

Ci sono documenti validi che dimostrano come la statua di “Nostra Signora delle Grazie” che si venera a Nettuno sia proprio quella che fino al 1550 era in Inghilterra? « Lungo il corso dei secoli sono state fatte varie ricerche storiche e sono venuti alla luce diversi documenti. In tempo recenti, uno studioso ha trovato informazioni importanti in alcuni manoscritti conservati nella Biblioteca Vaticana. Sulla scia di quei ritrovamenti, ha fatto delle ricerche con relative altre interessanti scoperte, monsignor Vincenzo Cerri, che era parroco di Nettuno. Mentre in Inghilterra, il dottor J. Docherty di Ipswich ha trovato, al British Museum di Londra, una lettera scritta nel 1538 da un certo William Lawrence a Thomas Cromwell, nella quale trovano piena conferma le notizie tramandate dalla tradizione riguardo il salvataggio della Statua da parte prima dello stesso Cromwell e poi di alcuni marinai che la portarono in Italia. Ma sulla stessa statua, durante un restauro compiuto nel 1959, sono state evidenziate delle scritte in antica e rozza lingua inglese, che confermano la sua origine ».

In Inghilterra esistono tracce di questa statua e del culto di cui godeva? « A Ipswich la devozione alla ‘Our Lady of Grace’ non è mai venuta meno. Il Santuario dove era conservata la statua, portava questo titolo fin dal 1152, quando la statua venne scolpita. Come ho detto, quel santuario fu distrutto intorno al 1538, ma la gente ha sempre continuato a pregare la Madonna ‘Our Lady of Grace’. La via dove sorgeva il Santuario si chiama ancora ‘Lady Lane’, ‘strada della Signora’”.

“Nel punto esatto dove sorgeva l’antico Santuario è stata posta recentemente una statua in bronzo, realizzata dallo scultore Roberth M. Mellamphy, che si è ispirato alla nostra immagine lignea. Sotto la statua una targa che dice: ‘Qui c’era la Cappella di Nostra Signora delle Grazie che custodiva la statua in legno di una Madonna con un bambino. All’epoca medievale i pellegrini l’avevano annoverata tra i più famosi oggetti della reale casa. Più tardi andò sotto la protezione del Cardinale Thomas Work. E’ stata chiusa per ordine del re Enrico VIII nel 1938. La statua portata a Londra per essere bruciata è stata salvata da marinai e portata a Nettuno in Italia dove risiede in una grande chiesa’ ».

« Voi certamente siete in contatto con la cittadina di Ipswich ». « Siamo in contatto, siamo andati varie volte a vedere quei luoghi e abbiamo fatto anche di più. In accordo con la popolazione di Ipswich abbiamo dato vita a una iniziativa straordinaria che, nel nome di ‘Nostra Signora della Grazie’, mira ad avvicinare sempre più le due Chiese, quella Cattolica e quella Anglicana, nella speranza che si giunga un giorno alla riunione come prima dello scisma”.

“I primi contatti risalgono a molti anni fa, quando monsignor Cerri fece le ricerche storiche in collaborazione con il dottor J. Docherty di Ipswich. Nel 1975 lo scultore inglese Roberth M. Mellamphy, venne a Nettuno a studiare la statua della nostra Signora e ne fece una copia che venne posta in una nicchia nella chiesa anglicana di Saint Mary at the Elmes di Ipswich, che comprende il territorio dove un tempo sorgeva il Santuario di “Nostra Signora”.

Questi contatti andarono via via intensificandosi fino ad arrivare alla formulazione di un “gemellaggio religioso” tra Nettuno e Ipswich. Questa iniziativa si è compiuta e realizzata definitivamente nell’agosto del 2005, quando una delegazione della Confraternita di “Nostra Signora della Grazie” di Nettuno si è recata a Ipswich ed è stata ospite di quella Comunità per una settimana. Io, come priore della Confraternita, guidavo la delegazione. C’era anche padre Padre Carlo Fioravanti, allora Rettore del Santuario di Nostra Signora della Grazie di Nettuno. E’ stata un’esperienza indimenticabile ».

« Per quali motivi? ». « Per tutto. Per tutto quello che abbiamo visto, sentito, provato. Rivedere i luoghi dove era nata la devozione a ‘Nostra Signora della Grazie’, dove per secoli era stata venerata l’immagine che ora si trova nella nostra chiesa, conoscere la gente anglicana che ama la Madonna come noi, sentire il loro grande desiderio di ecumenismo, condividere con loro il sogno di tornare fratelli nella fede, perché siamo figli della stessa Madre, la Madonna Santissima, ha suscitato emozioni veramente indescrivibili”.

« Siamo stati accolti dalle autorità cittadine, con il sindaco in testa, con una cordialità che mai mi sarei aspettato. Siamo stati ospiti nelle case di quella gente. Le emozioni raggiunsero il loro culmine quando, nella chiesa anglicana della parrocchia, alla presenza di noi cattolici e tanti anglicani, padre Carlo ha celebrato la Messa. Era la prima Messa celebrata da un prete cattolico romano, in quella chiesa anglicana dopo lo scisma del 1538”.

“Bellissimo il momento dello scambio della pace quando le mani di persone di religioni diverse, si sono incrociate in un’unica fede. ‘Raccomandiamo la comunità di Nettuno e quella di Ipswich a Nostra Signora delle Grazie’, ha detto padre Carlo. ‘Un solo gregge unito nella lode del Signore’. E anche padre Haley Dossor, il sacerdote anglicano parroco della chiesa di Saint Mary at the Elmes di Ipswich, ha sottolineato la grandiosità di quel momento, che vedeva cattolici e anglicani uniti in preghiera per amore della Madonna”.

“A sera è stata organizzata una processione per le vie della città, sul tipo di quelle che teniamo a Nettuno a maggio, e in ricordo di quelle che si facevano a Ipswich prima del 1538. Insomma, con quel viaggio abbiamo dato vita a una tradizione che da allora si è ripetuta ogni anno”.

“Per la festa di Nostra Signora delle Grazie che celebriamo all’inizio di maggio, una delegazione di anglicani di Ipswich viene a festeggiare la Madonna da noi. E per quest’anno sono in arrivo 55 anglicani di Ipswich, guidati dal sindaco e da due vescovi anglicani. Alla fine di maggio, noi, come ogni anno, andremo a festeggiare da loro ».

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