Archive pour la catégorie 'articoli da giornali, temi interessanti'

L’inquinamento luminoso (Un problema ecologico visto da una prospettiva teologica)

dal sito: 

www.castfvg.it/inqulumi/articoli/lp_theo_ita.doc

L’INQUINAMENTO LUMINOSO

Un problema ecologico visto da una prospettiva teologica

Molte persone, particolarmente coloro che vivono in città, non hanno mai avuto la possibilità di osservare la Via Lattea ed in qualche luogo nemmeno le stelle. La triste realtà – quella di non potere ammirare gli astri – è solo una delle conseguenze create dal problema dell’inquinamento luminoso. La principale caratteristica dell’inquinamento luminoso è che esso è causato da ogni inefficiente e non necessaria emissione di luce al di fuori delle aree che dovrebbero essere illuminate siano esse piazze, strade, o altro. Questo problema è tipicamente causato dall’utilizzo di impianti di illuminazione non ecologici, che spesso sono installati in modo non appropriato.
Attualmente l’inquinamento luminoso è divenuto uno dei più grandi nemici dell’astronomia, per tacere delle conseguenze sulla sicurezza, sulla biologia, sulla psicologia, sulla morale e l’etica che questo problema porta con sè. In questo breve saggio cercherò di fornire alcuni fondamenti teologici ad un trattato teologico-ecologico in merito al problema dell’inquinamento luminoso.

Genesi 1-3
Nelle prime pagine della Bibbia, nel libro della Genesi, troviamo una frase che ci consente di dare un fondamento teologico ad un’affermazione di tipo ecologico: Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse. (1) Questo passo biblico ha un significato speciale in quanto in esso troviamo la descrizione dei doni di Dio all’Uomo (“lo prese e lo pose nel giardino”) e dei compiti affidati da Dio all’uomo (“lo coltivasse e lo custodisse”) (2).
Per l’analisi del problema di cui stiamo parlando, la nozione di “custodire”, in ebraico “shamar”, è di grande rilevanza. È importante notare che perfino a quel tempo lo scrittore biblico come un antico semita, sente necessario preservare (“custodire”) la terra. Da qui possiamo dedurre una connessione teologico-ecologica.
Non è mia intenzione fornire fondamento a qualche teologia ecologica, né ad una ecologia su basi teologiche. Voglio solo cercare di pensare al problema dell’inquinamento luminoso considerandolo da un punto di vista teologico attraverso i testi delle Sacre Scritture.
Nel libro della Genesi troviamo la descrizione della creazione del sole, delle stelle e della luna: E Dio disse: “Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra”. E così avvenne. Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa buona. (3)
Nel testo del primo racconto della creazione osserviamo che lo scrittore biblico considera alcuni elementi della natura, e questi sono la presenza del sole, della luna e delle stelle come luci nel cielo ma possiamo chiaramente notare come egli parli, seppur brevemente, della differenza tra la notte ed il giorno. Possiamo anche notare come l’estensore del libro della Genesi sia perfettamente conscio dell’ordine che Dio pose nel cosmo, ordine che definisce la differenza tra notte e giorno, tra luce e buio.
Come sappiamo, l’uomo è un essere principalmente attivo durante il giorno, ma sappiamo anche che grazie al progresso tecnologico, è spesso attivo anche durante la notte e da ciò comprendiamo la necessità della luce artificiale. Il bisogno di luce artificiale non è solo inerente alle attività notturne dell’uomo, ma anche una questione di sicurezza non solo fisica ma anche psicologica. Con questo bisogna comprendere che io non intendo suggerire di rimuovere tutte le luci artificiali, bensì che dovremmo installarle correttamente in modo che non disturbino l’ordine elementare della natura, così come esso è descritto nelle prime pagine della Bibbia.
Tutti gli esseri viventi su questo pianeta hanno bisogno della netta differenziazione tra notte e giorno, tra luce ed oscurità, in quanto è un elemento importante per il nostro ecosistema globale. Possiamo immaginare quali conseguenze avremmo sulla natura, e non solo su di essa ma anche sulla stessa vita umana, se fosse sempre giorno, se la notte non esistesse. Penso che sia giunto il momento di porci seriamente la domanda di quale specie animale potrebbe sopravvivere in tali condizioni, di quante persone avrebbero disturbi del sonno e disordini del bioritmo, e quanto e come tutto ciò nuocerebbe a tutta la vita sulla terra.

Teologia Pratica – La questione del messaggio
Abbiamo visto alcune conseguenze derivanti dalla realtà dell’esistenza dell’inquinamento luminoso analizzate attraverso i testi delle Sacre Scritture. Penso sia ora necessario considerare un’altra realtà e precisamente l’illuminazione artificiale delle nostre chiese.  Le nostre chiese sono spesso illuminate male o, per meglio dire, sovra-illuminate. Arrivando a questa conclusione, sento il bisogno di chiedermi quale sia il messaggio che trasmettiamo al mondo con tutte queste luci artificiali, con tutta questa luminosità, con tutto questo riverbero? La nozione di luce in teologia è la descrizione dell’essenza del bene, mentre la nozione di oscurità è l’essenza del male, ma non dobbiamo dimenticare che anche l’eccessiva luce, il riverbero, è incluso nel male.
Voglio tornare alle prime pagine della Bibbia, alla nota storia della torre di Babele (Genesi, 11, 1-9) che parla dello stesso desiderio, della stessa bramosia che è alla base del peccato originale e cioè: “Cercare di essere Dio” o “Cercare di possedere, di raggiungere, di diventare come Dio”.
Gli uomini hanno avuto questa idea fin dall’inizio e dai testi biblici sappiamo a cosa abbia portato tale idea. Applicando questa realtà all’idea delle luci artificiali sulle nostre chiese, dobbiamo chiederci quale messaggio intendiamo rivolgere al mondo: “Stiamo costruendo una torre di Babele fatta di luci” o piuttosto “Stiamo pregando per voi e vegliando su di voi”, utilizzando bene e senza  eccessi l’illuminazione?  Mi chiedo: qualcuno pensa in che modo questa cosa completamente esterna possa influenzare un credente o meglio ancora uno che non crede affatto? Lascio questa domanda aperta a chiunque e spero che tutti cerchino di fornire una propria risposta e, quando l’avessero trovata, cerchino di operare in modo di migliorare la situazione.

Dorian Bozicevic

(Presidente della Società Astronomica « Leo Brenner » e studente del quinto anno di Teologia Cattolica all’Università di Zagabria)

(1) Gen 2, 15
(2) cfr. Adalbert REBIC, Stvaranje svijeta i covjeka, KS, Zagreb, 1996., page 121.
(3) Gen 1, 14-19
L’articolo è stato pubblicato come: Dorian BOZICEVIC, Svjetlosno zagadenje – ekoloscki problem iz teoloske perspective, in Spectrum No. 1-2/ 2002., Glas Koncilia, Zagreb 2002.

L’inno dell’apostolo Paolo alla carità attualizzato da un giornalista (L’inno dell’apostolo Paolo alla carità attualizzato da un giornalista (1 Corinti 13, 1-13)

dal sito:

http://www.luigiaccattoli.it/blog/?page_id=1044

L’inno dell’apostolo Paolo alla carità attualizzato da un giornalista

Castelvenere – sabato 7 febbraio 2009

1 Corinti 13, 1-13

-1 Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. 2 E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. 3 E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. 4 La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, 5 non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6 non gode dell`ingiustizia, ma si compiace della verità. 7 Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. 8 La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. 9 La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. 10 Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. 11 Quand`ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l`ho abbandonato. 12 Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch`io sono conosciuto. 13 Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!-

Non faremo una lettura esegetica: non è affar mio. Faremo una lettura da cristiani comuni. Qui abbiamo il vescovo e il parroco, che potrebbero dirci di più. Noi cristiani comuni facciamo una lettura dal punto di vista dell’uomo d’oggi, nella sua lingua media e nella sua media cultura. Ci chiediamo a che cosa penserebbe oggi l’apostolo Paolo dicendo “la carità è paziente, è benigna”. Allora ammaestrava i cristiani di Corinto che si cavavano gli occhi animatamente gareggiando per la leadership della comunità, oggi magari sarebbe colpito dalla sfida tra cristiani che si vituperano con altrettanta animazione a invettive in crociate: “voi di destra, voi di sinistra…”. Sarebbe colpito da questo e da molto altro. Proviamo a chiederci da cosa, seguendo l’inno parola per parola. Per gente semplice quale noi siamo l’inno alla carità è un testo centrale del Nuovo Testamento, come il Simposio di Platone, con il suo elogio dell’eros, è un testo centrale dell’umanesimo greco. E come l’enciclica Deus caritas est di papa Benedetto è un testo centrale per il cristianesimo di oggi. E come le parole di Teresa di Lisieux “Nel cuore della Chiesa mia madre io voglio essere l’amore” sono un dono capitale per ognuno di noi. Teresa e Benedetto ci dicono insieme l’attualità dell’inno di Paolo.
L’inno, come si dice a scuola, lo possiamo dividere in tre parti. E’ detto “inno” perchè ha l’afflato di un canto, di una poesia. E’ uno dei testi in cui Paolo si fa poeta.
Chiameremo la prima parte: il primato della carità, versetti 1-3.
La seconda la chiameremo: natura e opere della carità, versetti 4-7.
La terza: la carità dura per sempre, ovvero l’eternità dell’amore, versetti 8-13.
Siamo probabilmente nel 53 dopo Cristo quando Paolo scrive la Prima lettera ai Corinti: cioè appena venti o quindici anni dopo che i primi cristiani hanno fatto l’esperienza della morte e della resurrezione di Cristo. Prima della redazione dei Vangeli. In questa lettera è la narrazione dell’ultima cena, la prima che sia giunta a noi (capitolo 11).
Incredibile tempismo di Paolo. L’Anno Paolino ci provoca a riflettere sulla posizione principe di Paolo nel Nuovo Testamento.
In questa lettera Paolo parla a una comunità cristiana con forti divisioni interne, simile alla Chiesa di oggi; inserita in una società libertaria, che amava ostentare l’attrazione dei corpi, proprio come la nostra. Tra i cristiani di Corinto c’è “uno che convive con la moglie di suo padre” (5, 1). E’ in questa lettera che Paolo dice: “Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo” (4, 15). E’ qui che leggiamo le parole consolanti per ogni coppia cristiana: “Il marito non credente viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente” (7, 14). Qui ancora leggiamo: “Mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno” (9, 22). E’ qui il motto “Se Cristo non è risorto, vuota è allora la nostra predicazione” (15, 14). Nel vasto mondo di questa lettera vi è come un culmine, che è il nostro inno alla carità. Esso sgorga dal cuore di Paolo in risposta alla diatriba di quella rissosa comunità, lacerata dalla contesa tra i portatori dei carismi di maggiore richiamo: il dono delle lingue, quello delle guarigioni, quello dei miracoli, quello della conoscenza, quello della profezia. Di fronte a tale contesa Paolo dice: “desiderate i carismi più grandi” e subito aggiunge che il più grande è l’amore, “la via più sublime” (12, 31).
1 Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.
Che cos’è questa “carità” di cui parla, dopo aver detto “vi mostrerò la via più sublime”? E’ un dono, è una via, ma è anche molto di più: è l’amore, è Dio. Il Dio di Gesù Cristo che un’altra “lettera” del Nuovo Testamento, la Prima di Giovanni, qualifica come “amore”: “Dio è amore: chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (4, 16).
Dobbiamo dunque dire “carità”, o dobbiamo dire “amore”? La parola dei testi originali greci è la stessa: “agape”. Noi useremo ambedue le parole italiane, ma diciamo subito che per sentire la forza piena di questo inno, il trasporto con cui esso erompe dal cuore di Paolo, è utile provare a leggerlo mettendo la parola “amore” dove la traduzione della CEI mette “carità”. Perchè nella cultura nostra “carità” e “amore” non sono la stessa cosa.
“Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli”: cioè ogni linguaggio, anche quelli sconosciuti agli umani. Mi viene in mente Tolkien, l’autore de Il Signore degli anelli, che fa parlare stregoni e orchetti, hobbit e nani, elfi e kent, uomini selvaggi e troll e ha la bellissima espressione: “Tutte le stirpi dotate di parola”. Ecco dunque, in linguaggio d’oggi, “le lingue degli uomini e degli angeli”.
2 E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla.
La carità vale più della profezia, più della conoscenza e più della fede, addirittura più dei miracoli. Qui per certo occorre sostare. Per capire bene.
La fede non è al di sopra di tutto? No, ci dice Paolo, al di sopra c’è la carità, cioè l’amore, cioè Dio. E se anche la fede fosse clamorosamente grande, da operare segni straordinari, non eguaglierebbe comunque l’amore.
Perché la fede mi porta a Dio, mi congiunge al Signore; l’amore invece è Dio: ecco perché è più in alto.
Ed ecco perché è meglio leggere “amore” dove è scritto “carità”.
Ma possiamo usare la stessa parola per dire Dio (Dio è amore) e per dire il dono che ci viene da Dio (Dio ci dona il suo amore) e per dire infine che quel dono siamo chiamati a trasmetterlo ai fratelli (amare gli altri come Dio li ha amati)? Possiamo: questa è la meraviglia cristiana!
C’è come un’attrazione, una calamita che ci destina, ci chiama, ci attrae verso Dio per questa via “sublime”: egli che è amore viene a noi con il suo amore e ci insegna ad amare. Purchè noi accettiamo di aprirgli il cuore, di fargli spazio. Di obbedire all’amore. L’amore obbedisce all’amore.
3 E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova.
E’ forse il versetto più importante per noi, la chiave a noi dedicata per permetterci di entrare in questo grande testo cristiano. Una chiave dedicata a noi uomini e donne dell’inizio del terzo millennio, che siamo sensibilissimi all’amore e sensibili alla carità ma tendiamo a ridurla alla beneficienza. Attenzione dunque: la carità non è la Caritas! Non la possiamo ridurre al solo soccorso del bisognoso.
Qui più che mai diviene chiaro che non basta tradurre “carità”, ma bisogna arrivare a tradurre “amore”.
Ecco come il papa nell’enciclica “Deus Caritas est” segnala questo punto decisivo: “San Paolo, nel suo inno alla carità (cfr 1Cor 13) ci insegna che la carità è sempre più che semplice attività: ‘Se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova’. Questo inno deve essere la Magna Carta dell’intero servizio ecclesiale; in esso sono riassunte tutte le riflessioni che nel corso di questa Lettera enciclica, ho svolto sull’amore” (34).
Chiediamoci – proviamo a chiederci – che cosa mancherebbe, che cosa potrebbe mancare in una donazione di tutte le proprie sostanze e addirittura della propria vita fatta senza “la carità”. Ci riesce difficile intenderlo, ed è naturale perché si sta parlando indirettamente di Dio e Dio è pur sempre di suo inconoscibile, nonostante la conoscenza “per speculum” che ce ne ha fornita il Cristo. Qui – come in altri passi dell’inno – avvertiamo che Paolo ci parla per paradossi, per iperboli. Per dirci qualcosa che propriamente non si può dire.
Per un tentativo di comprensione ascoltiamo ancora il papa: “L’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo. L’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umilii l’altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona” (ivi).
4 La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, 5 non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6 non gode dell`ingiustizia, ma si compiace della verità.
Nella seconda parte dell’inno Paolo con linguaggio discorsivo e quasi narrativo – non definitorio: Dio non può essere definito – ci indica 15 note o caratteristiche dell’amore: è come una cascata di attributi di crescente intensità, a indicare qualcosa che supera ogni immaginazione – appunto perché è Dio, in definitiva, al centro dell’inno e non semplicemente un carisma o una virtù. Osserva il cardinale Martini (nel volume L’Utopia alla prova di una comunità, Piemme 1998, p. 129) che sette delle note sono positive e otto negative e anche le positive “richiedono un patire più che un agire”. Forse – ipotizza Martini – Paolo vuole segnalarci che “amare non significa fare qualcosa per gli altri, come si pensa abitualmente, ma piuttosto sopportare gli altri come sono” (ivi). “Sopportare” dice, ma io direi accettare, accogliere: un poco come fanno i genitori con i figli, che non li sopportano ma li accolgono. Torneremo su questa pietra di paragone dell’amore oblativo che è quello materno-paterno.
Il modello in questa elencazione è la figura di Gesù che tutto sopporta – per amore – fino alla croce. E a sua volta il comportamento di Cristo rinvia al Padre “ricco di misericordia”.
La carità è paziente come l’amore dei genitori che si alzano anche dieci volte la notte per il bambino che piange;
è benigna la carità: cioè benevola e benefica secondo l’insegnamento di Cristo che passa beneficando quanti incontra – dunque fa festa se viene ritirata una scomunica;
non è invidiosa la carità: per esempio non dice al papa da sinistra “ma quante concessioni stai facendo ai tradizionalisti” – ovvero, da destra: “stai sopportando troppo gli abusi dei novatori”;
non si vanta: qui faccio un esempio in positivo: gli italiani hanno molto operato durante l’occupazione nazista per salvare gli ebrei; mi sono occupato a lungo della materia e non ho mai trovato uno dei salvatori che abbia menato vanto del gesto compiuto;
non si gonfia: si gonfia invece chi giudica gli altri cristiani con commiserazione: “voi di sinistra” non siete a difesa della vita, “voi di destra” non volete l’accoglienza dello straniero; e chi è di centro si gonfia magari due volte: “ma che cristiani siete voi di sinistra e voi di destra, che dimenticate questo e quello? Noi di centro invece…”;
non manca di rispetto: possiamo dire che non siamo d’accordo con il papà di Eluana senza mancargli di rispetto come fa per esempio chi lo definisce “assassino”;
non cerca il suo interesse: perché cerca l’interesse di Cristo e di tutti in Cristo, evitando ogni movimento teso a occupare i primi posti nella vita della comunità;
non si adira come chi dice “ha esagerato e ora gliela facciamo pagare”, parole che vengono lanciate a chi si azzarda a uscire dal coro, in ogni direzione;
non tiene conto del male ricevuto: il comportamento di “misericordia” del papa verso i vescovi lefebvriani, due dei quali l’avevano persino accusato di eresia;
non gode dell`ingiustizia: quando vediamo un ladruncolo che viene ucciso per “eccesso di difesa” – ecco quella è un’ingiustizia – di essa non possiamo compiacerci;
ma si compiace della verità: anche quando non coincide con la nostra opinione, perché Dio è verità e chi dice la verità parla a nome di tutti (avesse anche a toccare argomenti spinosi, come il comportamento dei cattolici in tangentopoli o quello dei preti pedofili).
7 Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
Tutto copre: anche la mancanza di documenti dell’immigrato clandestino, come certamente faranno i medici cristiani nonostante la norma che è stata introdotta con il pacchetto sicurezza e che li autorizza alla delazione.
Tutto crede: anche le giustificazioni di comportamenti apparentemente ingiustificabili, proprio come fanno i genitori con i figli, tanto che la loro testimonianza non vale in tribunale.
Tutto spera: anche il risveglio di Eluana, per la quale proprio oggi è stato interrotto il sostentamento nutrizionale.
Tutto sopporta: nella 2Timoteo 2, 10 Paolo dice “tutto sopporto per amore degli eletti” – pensate a una donna abbandonata dal marito che non sparla di lui con i figli: che cioè sopporta il tradimento per non trasmettere veleno ai figli che ama.
Queste quattro assolutizzazioni o “totalità” ci dicono quanto sia esigente l’amore cristiano. Ecco una considerazione di papa Benedetto che ci ha proposto il 26 novembre scorso, in una delle catechesi dedicate all’Anno paolino, con riferimento al nostro inno: “L’amore cristiano è quanto mai esigente poiché sgorga dall’amore totale di Cristo per noi: quell’amore che ci reclama, ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, sino a tormentarci, poiché costringe ciascuno a non vivere più per se stesso, chiuso nel proprio egoismo, ma per ‘Colui che è morto e risorto per noi’ (cfr 2 Cor 5,15). L’amore di Cristo ci fa essere in Lui quella creatura nuova (cfr 2 Cor 5,17) che entra a far parte del suo Corpo mistico che è la Chiesa”.
Attualizzo per chi è padre o madre: essere cristiani vuol dire tendere ad avere con ogni persona che incontriamo la stessa “benevolenza” che abbiamo verso i nostri figli.
8 La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. 9 La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. 10 Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.
Poiché l’amore è divino, anzi è Dio stesso, esso non avrà mai fine: non può finire e resterà quando ogni altra realtà sarà finita. Cioè avrà raggiunto il suo fine. Cioè sarà ricapitolata in Dio. Insomma, alla fine ci sarà solo l’amore. Dio sarà tutto in tutti e tutto sarà in Dio. Cioè tutto sarà amore.
Io qui vedrei un argomento per la salvezza finale d’ogni creatura. Ma lasciamo questo ai teologi.
L’intenzione di Paolo è di indurre i litigiosi cristiani di Corinto a mirare in alto, lasciando le dispute su che cosa valga di più, la profezia o le lingue. Egli dice: badate che tutto questo per cui vi combattete finirà e intanto nella vostra diatriba sacrificate l’amore, che mai finirà!
Potremmo applicare il richiamo di Paolo alla grande disputa che divide oggi i cristiani: se privilegiare la solidarietà sociale, la pace, l’accoglienza degli stranieri; o la difesa della famiglia, della vita e della libertà educativa. Paolo ci direbbe: tutto questo finisce, cercate piuttosto l’amore che “non avrà mai fine”.
Non è lo stare a sinistra o a destra che fa la differenza, ma il fatto che vi si stia o non vi si stia in nome dell’amore, cioè per amare. Gli schieramenti politici sono modalità per prendersi cura della costruzione della società, ragionevolmente tutte valide, purché perseguite nell’amore! E c’è una riprova per sapere se lo si fa con amore o no: non ci muove l’amore se il richiamo ai valori cristiani lo svolgiamo per prevalere sui cristiani di altri schieramenti invece che per convincere della loro bontà chi cristiano non è.
11 Quand`ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l`ho abbandonato. 12 Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch`io sono conosciuto.
Qui Paolo ci invita a guardare alla nostra vita cristiana come a una crescita nell’avvicinamento al Signore, fino a quando lo vedremo “faccia a faccia”. E ci incoraggia anche, a non perderci d’animo di fronte alle difficoltà che incontriamo nella politica, nelle professioni, nell’educazione dei figli, nella partecipazione alla vita della Chiesa, perché in un certo senso l’amore non può essere sconfitto, essendo eterno. Esso “vince sempre anche se al momento questo non appare: ciò che si è fatto con amore e per amore non avrà mai fine, anche se in questo mondo non viene riconosciuto” (Carlo Maria Martini, l.c., p. 131).
Potremmo applicare questo spunto sull’amore che non va mai perduto, che capitalizza in Dio, alla fatica e anche ai fallimenti di noi genitori: quanto avremo dato ai figli in denaro e case e libri e fatica e libertà e severità, tutto finirà, ma resterà solo l’amore che gli avremo trasmesso; e quello resterà oltre ogni fallimento nostro e oltre ogni ribellione loro.
Lo possiamo applicare – questo spunto dell’amore che non si perde – anche alle persone che amano senza essere riamate, o che continuano ad amare chi non è più sulla terra: il loro amore non va perduto.
13 Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!
E’ come se Paolo dai tumultuosi e petulanti cristiani di Corinto sentisse venire l’obiezione che anche la fede e la speranza non si perdono e durano. Ed ecco la sua risposta: quando saremo in Dio cesseranno anche la fede e la speranza, ma sempre resterà l’amore e dunque esso è più grande. Perché viene da Dio, perché è Dio. E perché Dio è all’inizio e alla fine, alfa e omega.
In conclusione di nuovo ci affidiamo all’insegnamento del papa e in particolare a queste parole dell’enciclica Deus caritas est che dovremmo memorizzare: “L’amore è la luce – in fondo l’unica – che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire. L’amore è possibile, e noi siamo in grado di praticarlo perché creati ad immagine e somiglianza di Dio. Vivere l’amore e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo, ecco ciò a cui vorrei invitare con la presente enciclica” (n. 39).
Ogni uomo è capace di amore, anche il non credente. E l’amore è frequente e lo Spirito lo suscita dove vuole. A noi il compito di accompagnare quel soffio, di accoglierlo in noi, di risvegliarne la percezione nei nostri contemporanei e di affidarci con fiducia alla sua pedagogia. “L’amore cresce attraverso l’amore” dice ancora Benedetto nella sua enciclica (n. 18) fino alla pienezza finale in Dio.

Egitto: La libertà è il più grande nemico del fondamentalismo islamico

dal sito:

http://www.asianews.it/notizie-it/La-libert%C3%A0-%C3%A8-il-pi%C3%B9-grande-nemico-del-fondamentalismo-islamico-21782.html

08/06/2011

EGITTO

La libertà è il più grande nemico del fondamentalismo islamico

Per Wael Farouq, docente musulmano presso l’Istituto di lingua araba all’Università americana del Cairo, è giusto consentire l’entrata in politica ai Fratelli Musulmani. Il desiderio di libertà mostrato dalla rivolta di piazza Tahrir sta cambiando anche il movimento islamico.

Il Cairo (AsiaNews) – “La libertà è il più grande nemico del fondamentalismo. Per questa ragione è giusto sostenere il diritto dei Fratelli Musulmani a partecipare alle vita politica. La loro esclusione andrebbe contro gli ideali di civiltà per cui ci siamo battuti durante la rivoluzione di piazza Tahrir”. È quanto afferma ad AsiaNews Wael Farouq, docente musulmano presso l’Istituto di lingua araba all’Università americana del Cairo e vice-presidente del Meeting del Cairo, evento interreligioso organizzato lo scorso ottobre in collaborazione con il movimento cattolico di Comunione e Liberazione. Intervistato da AsiaNews sull’attuale situazione del Paese e sui rischi di una deriva fondamentalista dopo la caduta di Mubarak e l’entrata in politica dei Fratelli Musulmani, egli definisce i fatti di piazza Tahrir come una rivoluzione della fede e della morale del popolo egiziano. Secondo Wael, il desiderio di libertà e giustizia mostrato dai giovani manifestanti, sta cambiando anche il movimento dei Fratelli Musulmani.
Una rivoluzione della morale non della rabbia  
Per Wael Faroq i fatti di piazza Tahrir hanno mostrato il cambiamento spirituale e morale del popolo egiziano. “La gente – afferma – si è resa conto che era possibile mutare le condizioni del proprio Paese attraverso le proprie domande e desideri. I manifestanti non sono stati pilotati da nessuno, non sono andati dietro a un partito o a una ideologia, ma hanno creduto negli ideali di libertà e giustizia”. Secondo il professore è questa la grande novità della rivolta, unica nel mondo arabo insieme a quella tunisina. “Mubarak – spiega – ha avuto paura della piazza perché questo tipo di rivolta non fa parte della nostra tradizione. Lui non è riuscito a sopprimere la rivolta proprio perché incapace di confrontarsi con un cambiamento delle coscienze”.
Wael Farouq sottolinea che le manifestazioni sono state organizzate da giovani cristiani e musulmani, che hanno lavorato insieme prima, durante e dopo la rivoluzione senza partire dalla divisione religiosa, ma dalle proprie domande e desideri. “Durante la rivoluzione – racconta – non c’è stato nemmeno un episodio di aggressione contro le chiese. Ho visto con i miei occhi i musulmani proteggere i cristiani durante gli scontri e viceversa”. Secondo il professore, a quasi sei mesi dalle rivolte perdura questa unione, nonostante gli ex uomini del regime tentino in tutti i modi di fermare questo cambiamento. Ciò è dimostrato dai recenti attacchi  contro le chiese copte compiuti dai salafiti. “Questi elementi estremisti – afferma – ricevono soldi dall’estero e sono guidati dagli uomini del vecchio establishment. Per questa ragione la battaglia non è fra cristiani e musulmani, ma fra egiziani di entrambe le fedi e gli elementi legati al vecchio regime, che non vogliono uno stato democratico e civile”.
La libertà, vera arma contro l’estremismo islamico
Secondo Wael Farouq gli ideali della rivoluzione stanno influenzando anche lo storico movimento religioso dei Fratelli Musulmani, accusato da più parti di cavalcare il vuoto lasciato da Mubarak e trasformare l’Egitto in uno Stato islamico. “Il rischio di una deriva estremista dell’Egitto – spiega – è ragionevole ed è giustificato da molti fattori. Tuttavia, in questa nuova realtà i Fratelli Musulmani non mi fanno paura”. Lo studioso sottolinea che l’ideologia dei Fratelli Musulmani ha subito profondi cambiamenti dopo rivoluzione di piazza Tahrir ed è giusto che essi abbiano la possibilità di partecipare alla vita politica del Paese. “Dopo la rivoluzione – afferma – il movimento si è diviso in quattro partiti e lo è tutt’ora. La parte più liberale che ha aderito alle rivoluzione si è messa contro la leadership del movimento, chiedendo trasparenza e allontanandosi da posizioni fondamentaliste. Altri leader vogliono una divisione fra politica e religione per questa ragione si sono staccati dalla parte più radicale dei Fratelli Musulmani”.
Secondo Wael una parte del movimento ha compreso che la popolazione non vuole uno Stato islamico, ma laico. Infatti, nel programma di Giustizia e Libertà, partito legato ai Fratelli Musulmani ammesso alle elezioni, si fa riferimento a uno Stato civile, basato sulla tradizione islamica e non sulla sharia. Inoltre essi aprono alla possibilità per un cristiano di accedere alla carica di presidente.  “A partire dal 1950 – sottolinea – i gruppi fondamentalisti hanno vissuto sotto regimi autoritari, che li hanno perseguitati e messi al bando, ma non hanno mai vissuto in regimi realmente democratici. La libertà è il più grande nemico del fondamentalismo. Per questa ragione io supporto il diritto dei Fratelli musulmani a partecipare alle vita politica, questo anche per isolare le componenti più radicali”.
I giovani di piazza Tahrir e la costruzione del nuovo Egitto
Wael Farouq spiega che dopo il Meeting del Cairo, avvenuto nell’ottobre 2010 e in seguito ai fatti di piazza Tahrir  sono nati diversi gruppi di lavoro composti da giovani cristiani e musulmani e guidati dai docenti e professori di varie università. “Queste persone – afferma – non sono attivisti politici, ma stanno aiutando i vari partiti liberali a coordinare la loro agenda politica in vista delle elezioni parlamentari di settembre. Molti di questi coordinatori hanno lavorato come volontari al Meeting del Cairo e hanno fatto con me dei corsi di formazione”. Il professore sottolinea che da queste attività è nato un comitato internazionale per discutere e comprendere come poter coordinare i movimenti liberali a partire dagli ideali emersi in piazza Tahrir. Il fine è creare un unico fonte liberale per le prossime elezioni parlamentari. “Ci stiamo battendo – afferma Wael – per ottenere una nuova costituzione che difenda i diritti delle minoranze in quanto cittadini egiziani”.
Tuttavia, il professore sottolinea che il vero problema del popolo egiziano resta la crisi economica, dovuta all’instabilità politica. “Dopo la rivoluzione – afferma – noi possiamo divedere la popolazione in tre gruppi: le persone che si sono arricchite con il regime di Mubarak, gli attivisti liberali e i milioni di egiziani che hanno sostenuto la rivoluzione, ma non vi hanno partecipato, seguendo i fatti alla televisione”. Wael spiega tutta questa gente ha riposto grandi speranze nella rivoluzione, ma la crisi economica dell’Egitto rischia di spegnere il loro desiderio di cambiamento. Secondo il professore i Paesi occidentali oltre a sostenere gli ideali della rivoluzione, devono sostenere in modo concreto anche la rinascita dell’economia egiziana, investendo nel Paese e risollevando il turismo, principale motore economico dell’Egitto. 

IL POPOLO CATTOLICO CHE FECE L’ITALIA

dal sito:

http://www.zenit.org/article-26887?l=italian

IL POPOLO CATTOLICO CHE FECE L’ITALIA

Convegno a Roma su“Il contributo dei cattolici all’Unità d’Italia”

di Antonio Gaspari

ROMA, lunedì, 30 maggio 2011 (ZENIT.org).- “C’è un rapporto inscindibile tra l’Unità d’Italia e storia del cattolicesimo” lo ha affermato monsignor Rino Fisichella, intervenendo a Roma il 26 maggio al convegno sul tema “Il contributo dei cattolici all’Unità d’Italia” organizzato dalla Fondazione Italia Protagonista e dall’Associazione Cuore Azzurro.
Ribaltando i luoghi comuni che indicano l’Unità d’Italia come una guerra contro il Vaticano, il Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione ha spiegato che “ne è passata di acqua sotto i ponti da quando un frate francescano fra Giacomo da Poirino venne sospeso a divinis con la colpa di essere andato al capezzale di Cavour e di averlo confessato in punto di morte”.
“C’è una complementarietà tra i cattolici e l’Unità d’Italia”, ha sottolineato il presule ed ha poi aggiunto: “È vero, il non expedit è un fatto storico, ma nella Chiesa c’erano anche gruppi che lavoravano per la riconciliazione, i cosiddetti ‘cattolici transigenti’”.
“D’altra parte – ha continuato monsignor Fisichella – sebbene dal punto di vista culturale prevalesse una tendenza anticattolica questa non si identificava con tutto l’agire politico del momento, come dimostra il carteggio tra Pio IX e Vittorio Emanuele II”.
Secondo il Presidente del Dicastero vaticano “la politica voleva trovare una soluzione perché c’era soprattutto la dimensione del popolo naturalmente cattolico che soffriva molto del contrasto tra Chiesa e Stato”. E “in questo contesto i cattolici andarono a trovare quegli ambiti, come l’educazione, per costruire un tessuto unitario”.
“Noi possiamo celebrare i centocinquant’anni – ha concluso monsignor Fisichella – perché c’è stato un processo dinamico alimentato dai cattolici, che l’ha posto in essere, molto prima del 1861”.
Facendo riferimento al libro da lei curato e pubblicato da Lindau, “I cattolici che hanno fatto l’Italia”, la professoressa Lucetta Scaraffia ha spiegato che “le indubbie violenze e prevaricazioni nei confronti dei cattolici anziché indebolire la Chiesa l’hanno purificata e anche fortemente modernizzata”.

La docente di Storia contemporanea de La Sapienza di Roma ha rivelato che “le banche cattoliche, gli ospedali, le scuole gestite dagli istituti religiosi, le società per Azioni, sono nate per far fronte alla legge Siccardi che aveva espropriato tutto quanto era in possesso delle congregazioni religiose”.
Con spirito di conciliazione il popolo cattolico insieme a molte congregazioni di vita attiva – soprattutto quelle di origine piemontese come i salesiani e le figlie di Maria Ausiliatrice, o le suore carcerarie della marchesa di Barolo – hanno realizzato una collaborazione fattiva con i governi che si sono susseguiti al potere nei primi decenni dell`Italia unita.
Secondo la Scaraffia “queste iniziative hanno avuto il merito di anticipare, la conquista dei diritti fondamentali della donna e dell’uomo in un periodo in cui la preoccupazione della società civile era quella di formare una coscienza ai propri cittadini”.
Così che “i religiosi si sono rivelati preziosi collaboratori di chi voleva fare gli italiani dopo che l’Unità della Penisola era stata raggiunta”.
Nel dibattito è intervenuto anche il senatore Maurizio Gasparri il quale ha detto che “senza la religione cattolica, l’Italia non sarebbe quello che oggi è”. Il presidente dei senatori della maggioranza ha spiegato che “la storia d’Italia non si limita ai 150 anni di Unità ma comprende anche i secoli del pensiero cattolico, le cattedrali, l’arte” ed è evidente che “il pensiero cattolico ha costituito una parte essenziale dell’identità italiana”.
Perchè “l’Italia ha avuto nel Risorgimento il suo riconoscimento di Stato nazionale, ma prima ancora si è espressa attraverso il cristianesimo”. A conferma dei profondi legami che esistono tra la Nazione, il popolo cattolico ed i Pontefici, Gasparri ha citato diverse parti della lettera che Papa Benedetto XVI ha inviato al Presidente della Repubblica in occasione delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
Il senatore Stefano De Lillo ha ricordato le figure leggendarie di due eroi del Risorgimento: Antonio Rosmini e Silvio Pellico. Due personaggi tra i più famosi nell’Ottocento e che oggi invece sembrano un po’ dimenticati.
Di Pellico il senatore De Lillo ha ricordato la grandezza umana e culturale. I suoi libri più famosi “Le mie prigioni” e “I doveri degli italiani” sono stati tradotti in più di 269 lingue, e sono ancora le opere italiane più diffuse al mondo. Per il senatore De Lillo “l’eroismo e i valori espressi nella battaglia per la libertà e per il rispetto dei diritti umani di Pellico è paragonabile a quelli del Mahatma Ghandi per l’India e di Nelson Mandela per il Sudafrica”.
In termini concreti il senatore De Lillo ha proposto di far cantare la terza strofa dell’Inno D’Italia in ogni manifestazione sportiva e pubblica, perchè nelle parole “Uniamoci, amiamoci l’unione e l’amore, Rivelano ai popoli le vie del Signore. Giuriamo far libero il suolo natio. Uniti, per Dio, chi vincer ci può?” c’è racchiusa la vera identità e il destino degli italiani.
Inoltre, dopo aver letto la Preghiera all’Italia del beato Antonio Rosmini, il senatore De Lillo ha chiesto che le opere di Pellico e quelle di Rosmini vengano riprese dalle antologie in uso in tutte le classi scolastiche.

Echi dall’Iraq crocifisso

dal sito:

http://www.zenit.org/article-24548?l=italian

Echi dall’Iraq crocifisso

di Robert Cheaib

ROMA, lunedì, 15 novembre 2010 (ZENIT.org).- Quando si tratta di bambini che muoiono in nome di un’ideologia che crede di fare la volontà di Dio uccidendo lattanti, giovani incinte, sacerdoti e anziani, un giornalista cristiano non può essere professionale se non professa il suo sdegno, e se non cerca di essere, non solo eco indifferente dei fatti, ma voce che fa la differenza; di essere voce di chi la voce non ce l’ha più perché il suo grido è stato soffocato dalla violenza e annegato dalle lacrime.
Tante persone vorrebbero dare una mano ai cristiani perseguitati in Iraq, ma spesso si trovano senza mezzi o senza idee. La preghiera è senz’altro fondamentale, ma la preghiera vera si corona con la concretezza. Per questo, l’edizione araba di ZENIT ha deciso di dare voce a persone coinvolte da vicino nel dramma iracheno, per sentire da loro non tanto le grida di disperazione, ma le proposte di speranza e gli echi di una risurrezione possibile per i cristiani crocifissi dell’Iraq.
Per tutelare la privacy e la sicurezza delle persone che abbiamo interpellato, nonché dei loro familiari in Iraq, abbiamo preferito riportare le iniziali dei cognomi.

Il ruolo dei media

Il sacerdote iracheno Albert N., amico e collega di studio dei padri Thaer e Wassim, ci ha scritto: «Come cristiano e iracheno io chiedo a tutti di impegnarsi per far sentire in tutto il mondo la voce dei cristiani iracheni usando l’autorità dei mezzi di comunicazione, perché i nostri mezzi propri sono limitati e poveri, e abbiamo veramente bisogno di un mezzo mediatico forte e multilingue per far giungere la nostra voce e il nostro grido alle autorità governative internazionali».
Ha inoltre spiegato che quello che si conosce delle sofferenze dei cristiani in Iraq è soltanto una goccia in un oceano. I loro drammi non si limitano certamente alla strage della chiesa di Saydet Al-Najat. Per questo ha invitato a rendere noti «tutti i violenti omicidi, eccidi, persecuzioni e rapimenti ai quali i cristiani sono esposti quotidianamente» senza attirare i riflettori dei media. Ed ha insisto nel dire che quest’opera è una «testimonianza necessaria alla verità, l’unica capace di salvare il mondo»gli iracheni in diaspora
Un’altra lettera ci è pervenuta dal sacerdote libanese padre Antonio F., che da diversi anni aiuta i rifugiati iracheni, musulmani e cristiani, in Monte Libano. Il sacerdote ci ha chiesto di attirare l’attenzione non solo sui cristiani presenti in Iraq, ma anche sui tanti iracheni, cristiani e musulmani, dimenticati da diversi anni in piccole nazioni come il Libano. Dimenticati perché non fanno notizia o scoop, anche se «ammontano a diverse migliaia, e richiedono un reale sostegno materiale e morale». Migliaia di iracheni sono stati accolti nei Paesi confinanti, e nel caso del Libano – come ci ha spiegato padre Antonio – ci sono serie difficoltà nel portare avanti economicamente questo impegno assunto con gratuità e generosità. Pertanto, ha lanciato l’appello alle grandi organizzazioni umanitarie affinché diano una mano alle chiese, ai conventi e alle piccole comunità libanesi che da anni si dedicano ad aiutare i rifugiati iracheni.

Creare futuro

La dottoressa W. W., attivista umanitaria irachena che ha perso nell’ultimo attentato ben sette amici, ha descritto così la situazione: «I cristiani in Iraq sono divisi tra chi vuole resistere e rimanere, e chi ha paura e vuole andarsene perché la situazione è veramente e gravemente precipitata». Ed ha aggiunto: «So che la Chiesa desidera che la gente non emigri, ma la situazione ora è molto più grave del preservare la tradizione e la civiltà cristiane tanto radicate in questa terra… in gioco ci sono le vite di persone e non posso immaginare che la Chiesa, che è madre e maestra, preferisca le pietre alle persone».
Da qui ha invitato tutti i cristiani del mondo, e soprattutto in Occidente, a fare dei passi concreti per creare futuro per i cristiani dell’Iraq, aiutandoli a trasferirsi in altre nazioni: «Sapendo che è utopico chiedere a ogni famiglia in Europa di adottare una famiglia irachena, suggerisco una cosa più pratica: che ogni parrocchia adotti una famiglia cristiana dall’Iraq, per permetterle di ripartire con una vita dignitosa».

Una nuova diffusione della fede

Infine, il monaco Boulos M. ha chiesto alle autorità internazionali e alle comunità cristiane di esigere dalle nazioni islamiche e dai musulmani una denuncia aperta e chiara di questi atti barbarici, ed ha invitato a non rimanere spettatori passivi dinanzi a questo eccidio «perché se lo rifiutano veramente allora lo devono anche denunciare apertamente». E assieme ai passi concreti, ha incoraggiato a elevare lo sguardo verso la nostra speranza cristiana «giacché la Chiesa è iniziata così: dopo la Pentecoste è venuta la persecuzione, e proprio con la persecuzione si è diffusa la Chiesa».
In questo contesto, ha ricordato il Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente tenutosi in Vaticano dal 10 al 24 ottobre scorsi e che è stato paragonato a «una nuova Pentecoste», ed ha aggiunto: «ecco, dopo questa nuova Pentecoste, si ripete lo stesso scenario antico e sopraggiunge la persecuzione. Gioite quindi cari martiri perché il Signore ha ascoltato il grido del vostro sangue che sarà le fondamenta di nuove chiese e il seme di nuovi cristiani».
Ed ha citato un passo ancora attuale di sant’Ignazio d’Antiochia che scrive: «Per gli altri uomini “pregate senza interruzione”. In loro vi è speranza di conversione perché trovino Dio. Lasciate che imparino dalle vostre opere. Davanti alla loro ira siate miti; alla loro megalomania siate umili, alle loro bestemmie opponete le vostre preghiere; al loro errore “siate saldi nella fede”; alla loro ferocia siate pacifici, non cercando di imitarli. Nella bontà troviamoci loro fratelli, cercando di essere imitatori del Signore. Chi più di lui ha sofferto di più l’ingiustizia? Chi come di lui ha avuto più privazioni?». E infine ha concluso dicendo: «Tutto ciò che possiamo fare è mostrare al mondo che l’amore è più forte della spada».

Lo spazio per l’uomo nelle nuove tecniche di comunicazione

dal sito:

http://www.zenit.org/article-24528?l=italian

Lo spazio per l’uomo nelle nuove tecniche di comunicazione

ROMA, sabato, 13 novembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della relazione tenuta da mons. Gerhard Ludwig Müller, Vescovo di Regensburg, in occasione dell’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, che si è tenuta a Roma dal 10 al 13 novembre sul tema “Cultura della comunicazione e nuovi linguaggi”.

* * *

I canali mediatici di cui si serve la Chiesa non sono, nella maggior parte dei casi, gli abituali canali delle persone che si stanno estraniando dalla fede. Uno dei target per noi più importanti, d’età compresa tra i 17 e i 35 anni — i ragazzi e i giovani adulti che, entrando nel mondo del lavoro, cominciano improvvisamente a chiedersi quanto valga la Chiesa per loro — per lo più non leggono i giornali, la domenica non vengono a messa, non si sintonizzano su programmi d’informazione radiofonici o televisivi, né scelgono di navigare sulle nostre homepage. Come vescovo diocesano, nel corso delle tante visite pastorali alle parrocchie o negli incontri con i membri di associazioni e circoli, io vengo naturalmente in contatto con persone di ogni età che, nello spirito del cristianesimo, si organizzano all’interno della Chiesa e perseguono determinati obiettivi. La testimonianza personale resterà sempre l’incontro primario con la fede, con una vita all’insegna della fede e della Chiesa.

Ma la nuova epoca della comunicazione si serve anche di strumenti tecnici per diffondere, su scala mondiale e in tempo reale, dati, informazioni e notizie. Ciò rappresenta senz’altro un inedito spazio di incontro con le idee e le concezioni di altre culture e di religioni diverse.

Anche l’intensità dello scambio scientifico ha indubbiamente beneficiato dell’internazionalizzazione prodottasi con internet. Navigando in rete, è possibile reperire sui siti delle più svariate istituzioni accademiche dati aggiornati sulle pubblicazioni e lo stato attuale del dibattito intorno a un determinato tema, e tenerne debitamente conto nella formulazione delle proprie tesi. Internet significa quindi anche la possibilità di evitare prese di posizioni egocentriche, e attraverso la gamma di informazioni disponibili, ricevere ulteriori impulsi per modellare attivamente il mondo che ci circonda.

La disponibilità a servirsi delle tecniche, dell’autostrada informatica della rete, costituirà in futuro un caso normale di interazione e di scambio a livello privato e professionale.

E la Chiesa può servirsi di questa rete mondiale di collegamenti tra gli uomini anche per svolgere il suo mandato di evangelizzazione. Proprio la Chiesa che, conformandosi alla volontà missionaria di Gesù, fin dalle origini ha vissuto il suo comando di andare per il mondo con profondo impegno e per la gioia di coloro che vivono nella speranza di salvezza in Gesù Cristo, può avviare qui nuovi percorsi per la diffusione dell’annuncio evangelico e del magistero.

Giovanni Paolo ii, nella sua lettera apostolica Il rapido sviluppo del 24 gennaio 2005, ha ricordato che nei moderni mezzi della comunicazione la Chiesa trova «un sostegno prezioso per diffondere il Vangelo e i valori religiosi, per promuovere il dialogo e la cooperazione ecumenica e interreligiosa, come pure per difendere quei solidi principi che sono indispensabili per costruire una società rispettosa della dignità della persona umana e attenta al bene comune». E ha sottolineato il fatto che essa «li impiega volentieri per fornire informazioni su se stessa e dilatare i confini dell’evangelizzazione, della catechesi e della formazione», in quanto «ne considera l’utilizzo come una risposta al comando del Signore: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Marco, 16, 15)» (n. 7).

La Chiesa è la maestra dell’umanità proprio nelle tematiche etiche e morali sulle quali è continuamente necessario riportare l’accento. Prestiamo attenzione ai vicendevoli collegamenti dei mezzi di comunicazione sociale che interagiscono tra politica, economia, media e cultura; e alle dipendenze e agli obblighi che ne derivano, e che sovente sfociano in un sistema di oppressione mediatica e di monopolizzazione dell’opinione pubblica. In quanto maestra dell’umanità, la Chiesa avrà il compito di sensibilizzare gli utenti della comunicazione alla dignità e centralità della persona, e di ancorarne la tutela come punto fermo nella compagine della tecnica moderna. Internet non deve diventare la piattaforma di uno spazio franco, in cui i fondamentali valori umani del matrimonio, della famiglia, dell’incondizionata tutela della vita — dal principio alla fine — vengono ignorati o addirittura combattuti. La comunicazione deve svolgersi all’insegna di un’interazione tra persone che sono reciprocamente correlate. Deve nascere una cultura di corresponsabilità nei confronti del progresso tecnico, affinché sia lo stesso sviluppo a smascherare come incompatibili con la dignità umana dei contenuti pericolosi e lesivi come la pornografia, la criminalità e così via.

Accanto alla tutela della dignità del singolo individuo, la Chiesa maestra dell’umanità considera altrettanto importante esigere una «pratica di solidarietà al servizio del bene comune» quale impegno decisivo per la propria azione nel campo delle nuove tecnologie. La tecnologia può essere un mezzo per risolvere i problemi umani, per incentivare lo sviluppo complessivo della persona e per costruire un mondo orientato sui parametri della giustizia e della pace. Già nel 1971 l’istruzione pastorale Communio et progressio redatta dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, ammoniva i media, ricordando che ormai tutti gli uomini della Terra diventano «partecipi delle difficoltà e problemi che incombono su ciascun individuo e su tutta l’umanità».

Internet può contribuire alla realizzazione e messa in atto di questo nobile postulato? È in grado di tutelare o addirittura incentivare la dignità dell’individuo e la solidarietà fra gli uomini? C’è una possibilità per il singolo, per gruppi e nazioni diverse, e infine per l’umanità intera, di far diventare realtà questa visione? La soluzione risiede nella rete? O non è questo il campo di dissoluzione della sfera privata, perdita di diritti, violazione della sicurezza? Costituisce soltanto una piattaforma per diffondere calunnie, odio o disinformazione? O funge invece da corrente di informazioni sui valori fondamentali, pluralità culturale e responsabilità globale, motore di un dialogo interculturale che mette in risalto gli elementi comuni e sa reagire opportunamente alle differenze?

Nell’ottica della costituzione Gaudium et spes del concilio Vaticano ii, internet è un’eccellente possibilità per mettere in rilievo la responsabilità della Chiesa nella formazione di una cultura umana collettiva, per la quale la società odierna, con la sua rete di connessioni internazionali — globali — fornisce del resto degli ottimi presupposti. La dignità umana spetta a ogni persona, indipendentemente dalla sua appartenenza etnica o provenienza politica o nazionale. Dal canto suo, internet offre l’opportunità di una diffusione a vasto raggio dell’annuncio evangelico, diretto a tutti gli uomini e recepibile in ogni angolo del pianeta. Allo stesso tempo ci mette dunque in condizione di fare un considerevole passo in avanti nella tutela della persona umana in tutto il mondo. Il diritto a disporre di informazioni affidabili, indispensabile per formarsi un’opinione, il libero accesso a dati e contenuti dottrinali, equivale a prendere l’uomo sul serio e consente un progresso a livello educativo e di autodeterminazione anche in Paesi soggetti alla repressione e alla censura.

Al contempo, un atteggiamento umanitario su scala mondiale può condurre a una nuova consapevolezza reciproca fra i vari Stati e Paesi. Basti pensare allo scambio d’informazioni in tempo reale in occasione di catastrofi come lo tsunami di quattro anni fa, o il recente salvataggio dei minatori cileni. L’ondata di solidarietà con le vittime e i superstiti, i soccorsi messi a disposizione da tutto il mondo e la disponibilità ad attivarsi in maniera incondizionata e diretta a favore di tutti i colpiti, hanno senza dubbio cambiato la faccia del mondo.

Possiamo dunque sperare che Giovanni Paolo ii fosse nel giusto descrivendo l’aspetto umano e personale della comunicazione mondiale come «la capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio» e di servire il fratello, portando «i pesi gli uni degli altri» (Galati, 6, 2).

Giovanni Paolo ii, nel suo messaggio in occasione della xxxiii Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali, nel 1999, ha coniato il concetto della «cultura ecclesiale della sapienza», che deve preservare la cultura dell’informazione dei mass media «dal divenire un accumularsi di fatti senza senso».

Non sarà facile imparare o trasmettere il comportamento giusto nei confronti di internet. La rete può essere un arricchimento — a condizione che l’utente venga guidato a considerarla un mezzo per migliorare le condizioni di vita degli uomini, sfruttandola ad esempio a favore di organizzazioni umanitarie che agiscono a livello mondiale, o per sostenere la ricerca in tutti i campi di attività scientifica. In questo caso si mette al servizio della dignità personale e unisce gli uomini.

Posizioni radicali, estremismi politici, atti di violenza e attività criminali diffusi in rete, al contrario, separano gli uomini. In questo senso, bisogna guardarsi dall’impugnare la «libertà di opinione» come mero pretesto per manipolazioni, travisamenti o interessi egoistici. È infatti così che si mandano in scena il delinquente e la vittima, l’amico e il nemico, il truffatore e il truffato.

Gesù Cristo ci insegna che la comunicazione dev’essere un comportamento morale: «L’uomo buono dal suo buon tesoro trae cose buone, mentre l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae cose cattive. Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato» (Matteo, 12, 35-37). E l’Apostolo Paolo raccomanda agli Efesini (4, 25-29): «Perciò, bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri. (…) Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano».

Non è la tecnica a rendere colpevoli, bensì l’uso sbagliato che se ne fa. Perciò, nell’educazione dei futuri utenti, sarebbe importante sottolineare il fattore etico e far uscire la rete dalla zona grigia del disimpegno pedagogico. Chi mette in rete dei contenuti contrari alla persona e alla dignità umana, si ribella alla creazione e diffonde — in tutto il mondo — una visione dell’uomo che rinnega qualsiasi rimando alla trascendenza. Il «tutto è lecito e possibile» della concezione liberale del mondo ha trovato in internet il proprio medium — se non ci sono stati in precedenza un’educazione e un avviamento ai valori cristiani, sulla base dell’antropologia cristiana. I bambini e gli adolescenti dovrebbero essere guidati alla fruizione dei media con un approccio adeguato all’età e alle circostanze, per metterli in grado di resistere alla facile tentazione di un consumismo passivo e abituarli a compiere personalmente un’analisi critica delle offerte mediali.

Giovanni Paolo ii, nella sua enciclica Redemptor hominis si chiedeva «se l’uomo, come uomo, nel contesto di questo progresso, diventi veramente migliore, cioè più maturo spiritualmente, più cosciente della dignità della sua umanità, più responsabile, più aperto agli altri, in particolare verso i più bisognosi e più deboli, più disponibile a dare e portare aiuto a tutti» (n. 15).

In questo senso, la Chiesa è chiamata a dare il suo contributo al world wide web. E in ultima analisi, solo lei può rispondere in maniera soddisfacente agli interrogativi che si celano dietro ogni ricerca e riflessione umana: «Chi sono io?». «Dopo la morte, che cosa c’è?» e ancora: «E io, da dove provengo?». «Cos’è l’uomo?». E anche oggi — come da oltre 2000 anni — può continuare a fornire la risposta sempre valida e liberatoria enunciata nella costituzione pastorale Gaudium et spes sull’attualità della Chiesa nel mondo contemporaneo: «Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione» (n. 22).

I VESCOVI DEGLI STATI UNITI: LA GRAVIDANZA NON È UNA MALATTIA

 dal sito:

http://www.zenit.org/article-23916?l=italian

I VESCOVI DEGLI STATI UNITI: LA GRAVIDANZA NON È UNA MALATTIA

La contraccezione e la sterilizzazione non sono “prevenzione di malattie”

WASHINGTON, D.C., venerdì, 1° ottobre 2010 (ZENIT.org).- La Conferenza Episcopale Statunitense ha espresso di recente la propria protesta al Dipartimento per la Salute e i Servizi Umani degli Stati Uniti per aver incluso i servizi di contraccezione e sterilizzazione come misura di prevenzione di malattie. “La gravidanza non è una malattia”, ha affermato.

Il Dipartimento per i Servizi Sanitari USA ha pubblicato di recente una lista di servizi preventivi che offrono piani sanitari individuali e di gruppo che devono essere coperti come stabilito dalla Patient Protection and Affordable Care Act.

In una lettera datata 17 settembre, sia i Vescovi che l’avvocato Anthony Picarillo e l’associato Michael Moses hanno espresso “particolare preoccupazione” per la proposta.

“Evitare la gravidanza non è evitare una malattia”, inizia il testo. “La contraccezione e la sterilizzazione presentano i propri, unici e seri rischi per la salute del paziente”.

La lettera segnala che questi “servizi” sono anche “moralmente problematici per molte parti interessate, inclusi gli affiliati ai servizi sanitari”, così come per “le comunità religiose, i prestatori di servizi e le compagnie assicurative”.

“Secono il nostro punto di vista”, affermano i Vescovi, “anticoncezionali con ricetta e sterilizzazione chimica e chirurgica sono servizi particolarmente inappropriati nel concetto di ‘servizi preventivi’ per tutti i piani sanitari”.

Nel testo sostengono che questa definizione non può condividere il significato o la proposta di servizi preventivi come la misura della pressione arteriosa, dei livelli di colesterolo, della pressione, del diabete, dell’ipersensibilità o delle malattie a trasmissione sessuale.

Questi sono servizi ai quali bisogna prestare attenzione, hanno sottolineato, “perché possono prevenire serie malattie”, ma la stessa logica “non può applicarsi alla contraccezione o alla sterilizzazione”.

Non è una giustificazione medica

Nella loro lettera, i Vescovi riconoscono che “in varie epoche la donna può avere serie ragioni personali per voler evitare o rimandare una gravidanza”.

Ad ogni modo, aggiungono, “queste ragioni personali non si trasformano in una condizione temporanea o permanente di infertilità, un requisito previo per la salute”.

Il testo chiarisce che la contraccezione “è quasi sempre percepita come una ragione personale o uno stile di vita”, il che “presenta i propri rischi e gli effetti secondari”.

“L’uso della prescrizione contraccettiva attualmente aumenta il rischio per le donne di sviluppare alcune delle condizioni che i ‘servizi preventivi’ enumerano nel Regolamento di Provvedimento Finale”.

Non si può neanche chiamare anticoncezionale “preventivo” l’aborto, aggiungono i Vescovi, perché “l’aborto non è in sé una condizione della malattia, ma un procedimento a parte che si realizza solo per l’accordo tra una donna e un professionista sanitario”.

Per i presuli, “gli studi hanno dimostrato che la percentuale delle gravidanze non desiderate che terminano in aborti è più alta rispetto a quella delle gravidanze che avvengono mentre si fa uso di anticoncezionali”.

I Vescovi hanno infine espresso la propria preoccupazione per il fatto che questa legge possa “costituire un fatto senza precedenti che minaccia i diritti di coscienza degli impiegati che applicano le proprie credenze religiose” e altri che per la loro morale o le obiezioni religiose si rifiutano di effettuare queste procedure.

Con questo tipo di misure, avvertono, si possono promuovere “riforme che sarebbero vuote promesse”.
Per consultare il testo completo,
www.usccb.org/ogc/preventive.pdf

EDWARDS. NON È IL NOBEL PER L’ETICA!

dal sito:

http://www.zenit.org/article-24038?l=italian

EDWARDS. NON È IL NOBEL PER L’ETICA!

di padre Gonzalo Miranda, L.C.

ROMA, domenica, 10 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Un giornalista mi chiede “perché la Chiesa si oppone alla concessione del premio Nobel a Robert Edwards”, pioniere della fecondazione in vitro. Non si tratta di opporsi, ma di distinguere: non gli è stato concesso il “Nobel per l’etica” (che, fortunatamente, non esiste) ma quello per la medicina. Da molti commenti, invece, sembrerebbe che il riconoscimento da parte della Accademia di Oslo debba per forza spazzare via ogni dubbio e ogni domanda sui molteplici problemi etici legati alla pratica della fecondazione artificiale.
Si ripete in continuazione la cifra di 4 milioni di bambini nati grazie alle ricerche di Edwards. E sembra che, con questi numeri alla mano, ogni tentativo di riflessione etica sia ormai fuori luogo. “Il Vaticano prepara il rogo mediatico”, ha scritto qualcuno. C’è, però, qualche cosa di strano nel mondo della fecondazione artificiale: non pochi operatori in questo campo si pentono e cambiano lavoro. Ne conosco ormai diversi. Riflettono, si interrogano, si tormentano… e a volte lasciano le provette, nonostante i lauti guadagni. Avete mai visto un ginecologo tormentato nella sua coscienza per il fatto che con il suo lavoro aiuta i bambini a venire in questo mondo nella sala parto?
4 milioni di bambini nati. Quanti milioni di bambini non nati? Quanti milioni eliminati in stadio embrionale nello stesso momento in cui i loro fratelli venivano trasferiti nell’utero della madre? Quanti milioni si trovano oggi congelati in azoto liquido, perché “avanzano”? Non si tratta soltanto di deviazioni o di incidenti imprevisti. Robert Edwards annunciò di aver ottenuto embrioni umani in vitro già in due articoli scientifici nei primissimi anni 60. Naturalmente, non si sognava nemmeno, in quel tempo, di trasferirli in utero per dare loro la possibilità di continuare a vivere. Embrioni umani prodotti in laboratorio con lo scopo di migliorare la tecnica. Louise Brown è nata dopo che molti embrioni umani erano stati sacrificati per poter ottenere il risultato.
Si ricorre alla scappatoia del “pre-embrione”. Si afferma che prima dell’impianto in utero è solo “un amasso di cellule” o un mero “progetto di vita”, e voilà, problema risolto. Per niente. I manuali di embriologia umana continuano testardi ad insegnare che nel momento del concepimento comincia l’esistenza di un nuovo individuo; nella specie umana, un individuo umano. E poi, se non degli embrioni, vogliamo dire qualcosa almeno a proposito dei bambini che nascono da fecondazione in vitro? “Tutti sani” è stato scritto in questi giorni. Si vede che leggono poco. Ormai abbondano gli articoli su rivise scientifiche specializzate che evidenziano tutta una serie di problematiche mediche, per niente banali, i figli della provetta.
Ecco alcuni testi recenti:
- “I bambini nati da coppie infertili, qualsiasi sia stato il trattamento, corrono un maggior rischio di nascta prematura e sotto peso, condizioni associate con il ritardo dello sviluppo” (Pediatric and Perinatal epidemiology, marzo 2009).
- “Anche se la ICSI [tecnica molto utilizzato oggi] è accettata, rimangono le preoccupazioni sulla sua sicurezza e sui potenziali rischi per i bambini”; tasso di malformazioni congenite del 6,5% contro il 4% generale (Gynecol Obstet Invest, gennaio 2010).
- “Diversi disordini del imprinting genetico avvengono con frequenze significativamente superiori nei bambini concepiti con la Riproduzione Assistita che in quelli concepiti spontaneamente” (Ann Endocrinol (Paris), maggio 2010).
- “Abbiamo riscontrato un aumento moderato del rischio di contrarre il cancro nei bambini concepiti con la FIVET” (Pediatrics, luglio 2010).
I veri esperti del settore conoscono questi e altri studi preoccupanti. Gli apologeti della fecondazione arrificiale non ne vogliono sapere. La gente normale, soprattutto le coppie infertili, dovrebbero essere informate. Per mera giustizia. Tutto pulito, dunque? Non proprio. E ciò spiega in parte le perplessità e gli abbandoni di alcuni operatori nel settore.Ci sarebbe poi da aggiungere tutto il discorso sul rispetto della dignità della persona nel modo di farla esistere e venire in questo mondo. Le persone si procreano, non si producono. La persona è il frutto in un’atto inter-personale di amore dei propri genitori. Le tecniche che si pongono come aiuto affinché l’atto di amore nella donazione sessuale degli sposi possa dare il suo frutto naturale, si pongono nella logica della procreazione. La fecondazione in vitro è un atto di produzione.
Mi hanno risposto recentemente su un giornale, dicendo che il bambino nato da fecondazione artificiale è frutto di un’atto di amore; addirittura simile all’atto di amore creatore di Dio. Si confondono le cose. Posso desiderare di avere un figlio, come posso desiderare di avere un iPad. E posso, in entrambi i casi, porre i mezzi necessari per ottenerlo, anche con dei sacrifici. Questo è amore in quanto volontà di… Non è questo l’amore sponsale che genera un figlio. Il figlio nasce da un’atto di amore tra gli sposi, non da un mero atto di volontà per ottenere il bambino desiderato. Lo capisce bene il tecnico che prende coscienza che è lui, e solo lui, a causare l’esistenza del bambino nel suo laboratorio. Una volta ottenute le cellule necessarie dai futuri genitori, loro non c’entrano niente. Potrebbero addirittura essere morti in un incidente di ritorno a casa. Il tecnico può andare avanti e far sorgere le nuove vite.
Sono risolti tutti i dubbi morali sulla Riproduzione Assistita? Non mi pare. La concessione del Nobel a Robert Edwards certamente non li cancella. Piuttosto dovrebbe stimolare la riflessione e il dibattito.

COSTERNAZIONE TRA I MEDICI CATTOLICI PER L’ULTIMO NOBEL PER LA MEDICINA

dal sito:

http://www.zenit.org/article-23965?l=italian

COSTERNAZIONE TRA I MEDICI CATTOLICI PER L’ULTIMO NOBEL PER LA MEDICINA

Conferito a Robert Edwards per il suo lavoro nello sviluppo della FIV

BARCELLONA, martedì, 5 ottobre 2010 (ZENIT.org).- La Federazione Internazionale delle Associazioni dei Medici Cattolici (FIAMC) ha espresso la propria costernazione per l’annuncio secondo cui il biologo di Cambridge Robert Edwards è stato insignito del Premio Nobel per la Medicina per il suo lavoro nello sviluppo della fecondazione in vitro (FIV).

In un comunicato, la FIAMC lamenta il “costo enorme” di questo processo utilizzato per concepire: “l’indebolimento della dignità della persona umana”.

“Molti milioni di embrioni sono stati creati e scartati durante il processo della FIV”, ricordano i medici cattolici.

“Non si è trattato solo di quegli esseri umani utilizzati come cavie destinate alla distruzione, soprattutto nei primi stadi, ma quest’uso ha portato a una cultura in cui sono visti come prodotti di base anziché come gli individui umani preziosi che sono”, aggiungono.

“Anche se la FIV ha portato gioia a molte coppie che hanno concepito attraverso questo processo, ha avuto un costo enorme”, segnala la FIAMC.

“Come cattolici, crediamo nella dignità assoluta della persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio”. “Questa dignità esiste fin dal primo momento del concepimento del nuovo essere umano e resta con lui fino alla sua morte naturale”.

“Come medici cattolici – ricorda la FIAMC –, ci rendiamo conto della sofferenza che provoca in una coppia l’infertilità”.

“Allo stesso tempo, però, crediamo che la ricerca e i metodi di trattamento necessari per risolvere i problemi dell’infertilità debbano applicarsi in un contesto etico che rispetti la dignità speciale dell’embrione umano, che non è diversa da quella di un adulto maturo con una mente brillante”.

Per la FIAMC, “la storia della nostra salvezza ad opera di Gesù Cristo ci mostra che l’umanità soffre quando dimentica o tralascia il fatto che Dio è il nostro creatore e che noi siamo sue creature”.

Il comunicato termina ricordando che “possiamo essere pienamente umani solo quando viviamo in modo conforme alla volontà di Dio, rispettando la dignità speciale concessa a tutti gli esseri umani”.

Dopo l’annuncio del conferimento del Premio Nobel per la Medicina a Edwards, anche il presidente della Pontificia Accademia per la Vita, monsignor Ignacio Carrasco de Paula, ha constatato le perplessità suscitate da questa decisione.

A titolo personale, il presule ha dichiarato che “Edwards inaugurò una casa ma aprì la porta sbagliata dal momento che puntò tutto sulla fecondazione in vitro e consentì implicitamente il ricorso a donazioni e a compra-vendite che coinvolgono esseri umani”.

“Così non ha modificato minimamente né il quadro patologico né il quadro epidemiologico dell’infertilità”, ha commentato.

“Senza Edwards non ci sarebbe il mercato di ovociti; senza Edwards non ci sarebbero congelatori pieni di embrioni in attesa di essere trasferiti in utero o, più probabilmente, di essere usati per la ricerca oppure di morire abbandonati e dimenticati da tutti”, ha aggiunto.

IL REGNO UNITO IN TRIPUDIO PER LA BEATIFICAZIONE DEL CARDINALE NEWMAN

dal sito:

http://www.zenit.org/article-23786?l=italian

IL REGNO UNITO IN TRIPUDIO PER LA BEATIFICAZIONE DEL CARDINALE NEWMAN

L’ultimo giorno della visita papale abbraccia realtà spirituali e secolari

di Edward Pentin

BIRMINGHAM, lunedì, 20 settembre 2010 (ZENIT.org).-  Un arcobaleno è apparso su Cofton Park mentre Papa Benedetto XVI arrivava questa domenica mattina per la Messa di beatificazione del Cardinale John Henry Newman, il teologo inglese del XIX secolo che ha avuto un’influenza significativa sulla vita del Santo Padre.
Moltissimi fedeli di tutto il Paese e stranieri avevano sfidato la pioggia e si erano riuniti fin dalle prime ore del mattino nel luogo vicino Birmingham in cui si sarebbe celebrata la beatificazione, non lontano da Rednal, dove riposano i resti del porporato.
E’ stata una Messa di beatificazione molto speciale: non solo è stata l’unica Messa di questo tipo celebrata da Benedetto XVI, ma è stata anche la prima beatificazione di un inglese da secoli.
Il Santo Padre è arrivato in papamobile e, come giovedì a Glasgow, è stato condotto attraverso una folla di 70.000 pellegrini entusiasti. Da un lato dell’altare costruito per l’occasione spiccavano le parole “Il cuore parla al cuore”, il tema scelto dal Papa per la sua visita, tratto dai pensieri del Cardinale Newman.
Hanno assistito alla cerimonia Vescovi di Inghilterra, Galles e Scozia e membri della Famiglia reale e del Governo. C’erano anche dei parenti del Cardinale Newman – discendenti di suo cugino – e il diacono Jack Sullivan, la cui guarigione inspiegabile da un problema alla schiena è stata attribuita lo scorso anno all’intercessione del Cardinale Newman. Il decreto ha portato alla beatificazione, ponendo fine a un caso su cui si indagava dal 1958.
Nella sua omelia, il Santo Padre ha lodato la spiritualità e la santità del teologo inglese, sottolineando il suo pensiero circa l’educazione, “fermamente contrario ad ogni approccio riduttivo o utilitaristico”, e rimarcando il famoso appello del beato a un laicato intelligente e ben istruito.
Allo stesso modo, ha riflettuto anche sulla sua vita sacerdotale, ricordando la “visione profondamente umana del ministero sacerdotale nella devota cura per la gente di Birmingham durante gli anni spesi nell’Oratorio da lui fondato, visitando i malati ed i poveri, confortando i derelitti, prendendosi cura di quanti erano in prigione”.
“’Il cuore parla al cuore’ ci permette di penetrare nella sua comprensione della vita cristiana come chiamata alla santità, sperimentata come l’intenso desiderio del cuore umano di entrare in intima comunione con il Cuore di Dio”, ha detto il Santo Padre. “Ci rammenta che la fedeltà alla preghiera ci trasforma gradualmente nell’immagine divina”.
Il Papa ha iniziato la sua omelia ricordando che il Regno Unito questa domenica commemorava il 70° anniversario della “Battle of Britain”, durante la quale, contro ogni previsione, la Royal Air Force vinse una famosa battaglia aerea contro i nazisti.
“Per me, che ho vissuto e sofferto lungo i tenebrosi giorni del regime nazista in Germania, è profondamente commovente essere qui con voi in tale occasione, e ricordare quanti dei vostri concittadini hanno sacrificato la propria vita, resistendo coraggiosamente alle forze di quella ideologia maligna”, ha detto Benedetto XVI.
“Settant’anni dopo, ricordiamo con vergogna ed orrore la spaventosa quantità di morte e distruzione che la guerra porta con sé al suo destarsi, e rinnoviamo il nostro proposito di agire per la pace e la riconciliazione in qualunque luogo in cui sorga la minaccia di conflitti”.

La nota giusta

Per padre Richard Duffield, prevosto dell’Oratorio di Birmingham che ha anche letto la Dichiarazione di Beatificazione durante la Messa, la celebrazione è stata “splendida” ed è andata “estremamente bene”.
Padre Duffield ha detto a ZENIT che la decisione del Santo Padre di concentrarsi sugli aspetti spirituali e pastorali del beato Newman “ha toccato proprio la nota giusta”.
Dopo la Messa, il Santo Padre è stato condotto all’Oratorio di Birmingham, dove ha visto i luoghi in cui ha vissuto il Cardinale Newman e ha visitato la biblioteca in cui ha studiato. “Ha visto i libri e le carte di Newman e noi abbiamo dato al Santo Padre uno dei suoi rosari”, ha detto padre Duffield. “Ci ha detto che avrebbe voluto poter trascorrere più tempo nella biblioteca”.
Irena Sani, pellegrina originaria dell’Albania e che ora vive a Londra, mi ha detto prima della beatificazione che si aspetta che produrrà “molti frutti”. Newman è un “grande esempio” di anglicano “che conosce la Chiesa cattolica e può aiutare altri anglicani a tornare alla Chiesa”, ha detto.
“Non è una coincidenza che si sia convertito perché ha riconosciuto la Verità quando l’ha vista, e la gente che conosce la Verità non può fare altro che essere accolta nella Chiesa”. La beatificazione, ha detto, è importante non solo per il Regno Unito, ma per tutto il mondo.
Il Papa ha poi pranzato con i Vescovi di Inghilterra, Galles e Scozia al St. Mary’s College di Oscott, prima di incontrare i seminaristi. Nel suo discorso ai Vescovi, nella stanza in cui il Cardinale Nicholas Wiseman incontrò i Vescovi inglesi nel 1852 per discutere la restaurazione della gerarchia, il Papa ha pronunciato schiette parole di guida.
Ha esortato la Chiesa in Gran Bretagna a “presentare nella sua interezza il messaggio vivificante del Vangelo, compresi quegli elementi che sfidano le diffuse convinzioni della cultura odierna”, e ha incoraggiato i Vescovi ad avvalersi del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, che il Papa ha istituito di recente.
Allo stesso modo, ha esortato i cattolici britannici a mostrare solidarietà con le vittime della crisi economica, e ha fatto appello ai Vescovi affinché incoraggino la gente ad “aspirare ai valori morali più alti”.
Ha anche lodato il modo in cui la Chiesa nel Paese ha affrontato i casi di abuso sessuale da parte di chierici, incoraggiando a condividere ciò che è stato appreso. Ha inoltre ricordato che i leader cristiani devono vivere in “integrità, umiltà e santità”.
Parlando di due questioni relative al ministero episcopale, ha chiesto ai Vescovi di “cogliere l’occasione” di usare la nuova traduzione inglese del Messale Romano per avvalersi di una catechesi approfondita sull’Eucaristia, e ha affermato che la “Anglicanorum Coetibus”, la Costituzione Apostolica che permette agli anglicani di essere accolti in gruppo nella Chiesa, è uno strumento per la comunione.
Quest’ultima iniziativa, non sempre pienamente sostenuta dalla gerarchia di Inghilterra e Galles, dovrebbe essere considerata “un gesto profetico che può contribuire positivamente allo sviluppo delle relazioni fra anglicani e cattolici”, ha detto.
“Ci aiuta a volgere lo sguardo allo scopo ultimo di ogni attività ecumenica: la restaurazione della piena comunione ecclesiale nel contesto della quale il reciproco scambio di doni dai nostri rispettivi patrimoni spirituali, serve da arricchimento per noi tutti”.
Dopo aver salutato un folto gruppo di seminaristi e aver percorso un breve tratto verso l’aeroporto, il Papa si è congedato, dopo un discorso del Primo Ministro David Cameron.

Grande onore

Nel suo discorso di congedo al Papa, Cameron ha detto che è stato un “grande onore” averlo in visita, e che il messaggio che il Santo Padre ha portato non era “solo per la Chiesa, ma per ciascuno di noi, di qualsiasi fede o di nessuna”. Ha anche lodato l’opera del Cardinale Newman e la sua visione di “un’educazione più ampia”.
Cameron ha detto che il messaggio del Papa è andato “al cuore della nuova cultura e responsabilità sociale” che il nuovo Governo desidera costruire in Gran Bretagna, e ha assicurato al Pontefice che la fede “è sempre stata e sarà sempre” parte del tessuto della società britannica. Le parole del Santo Padre hanno “sfidato l’intero Paese a sedersi e a pensare”, e a lavorare per il bene comune, ha detto.
“Pensi al nostro Paese come a uno che non solo conserva la fede, ma è anche profondamente compassionevole”, ha aggiunto Cameron, concludendo col dire che auspica “una cooperazione sempre più stretta” con la Santa Sede.
Nel suo discorso, Benedetto XVI ha espresso la propria gratitudine per l’organizzazione della visita e per l’opportunità di incontrare la regina Elisabetta II e di poter discutere questioni di interesse comune. Ha detto di essersi sentito “particolarmente onorato” di essere stato invitato a rivolgersi a entrambe le Camere del Parlamento nella Westminster Hall, e di sperare che la sua visita confermi e rafforzi le “eccellenti relazioni” tra la Santa Sede e il Regno Unito su questioni comuni.
La diversità della Gran Bretagna di oggi è una sfida, ha detto, ma offre anche una “grande opportunità” per un ulteriore dialogo interculturale e interreligioso. Il Pontefice ha concluso dicendo che è stato “commovente in maniera speciale” celebrare la beatificazione “di un grande figlio dell’Inghilterra, il Cardinale John Henry Newman”.
“Con la sua vasta eredità di scritti accademici e spirituali, sono certo che egli abbia ancora molto da insegnarci sulla vita e la testimonianza cristiane tra le sfide del mondo contemporaneo, sfide che egli previde con eccezionale chiarezza”, ha confessato.
“Nel congedarmi da voi, permettetemi ancora una volta di formulare i migliori voti e le mie preghiere per la pace e la prosperità della Gran Bretagna – ha concluso –. Grazie molte e Dio vi benedica tutti!”.

[Traduzione dall'inglese di Roberta Sciamplicotti]

12345...17

PUERI CANTORES SACRE' ... |
FIER D'ÊTRE CHRETIEN EN 2010 |
Annonce des évènements à ve... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Vie et Bible
| Free Life
| elmuslima31