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Contro una morale di plastica

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Contro una morale di plastica

«Stiamo piegando i valori etici alle esigenze della vita sociale,
ma questo impedisce di distinguere fra bene e male».

Sergio Belardinelli
(« Avvenire », 9/6/’07)

Il Dio di Abramo e di Gesù Cristo è soprattutto un Dio che ama. « Deus caritas est ». Non è dunque un Dio che guarda il mondo con indifferenza, un giudice severo e inflessibile, un Dio che « è politica o niente », secondo la nota affermazione dell’ayatollah Khomeini; ma non è nemmeno un Dio da coccolare in privato o nel quale proiettare semplicemente i nostri desideri, una sorta di « oppio » per il popolo, un Dio che serva alla morale, all’ordine sociale, alla giustizia, all’identità di una cultura o semplicemente a farci essere più buoni. È un Dio che, amandoci, ci fa vedere la possibilità di un’altra storia, ci sollecita ad amare a nostra volta, a uscire dal nostro « isolamento », a scoprire l’incommensurabile dignità di ognuno di noi, nonostante le nostre manchevolezze; è un Dio misericordioso che redime e salva e che, proprio e soltanto per questo, ci spinge « a trasformare il mondo », a lavorare per rendere più umana la nostra vita sociale e individuale.
Se il mondo in generale, secondo una linea di pensiero oggi assai condivisa, non è altro che « caso e necessità »; se ciò che chiamiamo mondo umano non è altro che l’ultimo stadio di sviluppo di antichissime comunità batteriche, è evidente che in tale contesto diventa piuttosto difficile parlare di libertà. E questo è quanto meno curioso, visto che, proprio in nome della libertà, si è costituito principalmente il cosiddetto mondo moderno, con la rivendicazione di sempre maggiori diritti in ogni ambito della vita individuale e sociale. Per dirla con le parole di Benedetto XVI, qui siamo di fronte a «un autentico capovolgimento del punto di partenza della nostra cultura, che era una rivendicazione della centralità dell’uomo e della sua libertà».
Forse non è esagerato sostenere che gran parte della filosofia moderna è alla vana ricerca di una sorta di equivalente funzionale di quanto l’amore di Dio è in grado di offrire, ontologicamente, prima ancora che eticamente, a garanzia della bontà dell’essere. Charles Taylor ha mostrato tutto questo in modo, a mio avviso, assai convincente, così come Friedrich Nietzsche, con la sua disperata lucidità, ne ha mostrato i tratti distruttivi e inquietanti. Gli sforzi moderni di costruire una società più giusta, fatta di uomini capaci di riconoscersi reciprocamente, « come se Dio non ci fosse », alla fine si sono rivelati un fallimento (si pensi all’esperienza totalitaria); le odierne tecnologie della vita, una cultura che, in nome della libertà, le vorrebbe utilizzare senza limiti, elaborando contemporaneamente le condizioni affinché la libertà non abbia più senso, rendono questo fallimento ancora più inquietante. E Benedetto XVI se ne rende conto pienamente; vede il nesso che sussiste tra le ontologie e le cosmologie dominanti e la crisi dell’etica contemporanea, la quale, non per nulla, viene ricondotta prevalentemente « entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso ».
Proprio come auspicava Emile Durkheim, certamente uno dei padri della cultura che pervade il nostro tempo, stiamo subordinando l’elemento morale alle esigenze della vita sociale, mettendo così fuori gioco il senso stesso di qualcosa che valga e che obblighi incondizionatamente. Per dirla con le parole del sociologo francese, la nostra morale è diventata « plastica »; «Nulla è indefinitamente e incondizionatamente buono»; abbiamo una morale totalmente funzionalizzata alle esigenze della vita sociale. In linea di principio, quindi, anche l’uccisione di un innocente può diventare legittima, se si riesce a dimostrare, cosa sempre piuttosto semplice, che è per il bene della società. Utilitarismo, relativismo e funzionalismo, in effetti, non conoscono limiti di principio; pongono volta a volta, a seconda delle convenienze, alcuni valori di riferimento e a questi commisurano tutti gli altri. Se, poniamo, si tratta in primo luogo di produrre merci a costi più bassi possibile, diventa irrilevante che ciò avvenga in condizioni quasi disumane, come accade ad esempio in Cina. Se, per fare un altro esempio, si tratta di abbassare i livelli demografici di una determinata popolazione, di per sé, non si può escludere che si faccia ricorso, come in effetti accade, a pratiche di sterilizzazione coatta. Se, per fare un altro esempio ancora, l’uso di embrioni umani può far avanzare la ricerca medica, nulla deve impedirlo. Se, infine, si tratta di soddisfare un desiderio di maternità o di paternità, le conseguenze morali della tecnica cui si fa ricorso diventano indifferenti, poiché ciò che conta è semplicemente il risultato. E si potrebbe continuare.
In ogni caso sono proprio questi esempi che ci fanno comprendere l’importanza di qualcosa che nella nostra vita individuale e sociale obblighi «incondizionatamente». È proprio il caso di dire, con la « Deus caritas est » di Benedetto XVI, che esiste una inscindibile «unificazione dell’uomo con Dio». Ragionando «come se Dio non ci fosse», si arriva, o si potrebbe arrivare, a ragionare come se non ci fosse nemmeno l’uomo. Questo, a mio modo di vedere, è lo sfondo che anima il Discorso di Verona e che presumibilmente animerà tutto il pontificato di Benedetto XVI.

L’ENIGMA DEI CRISTALLI DELLA NEVE

http://www.zenit.org/article-29698?l=italian

L’ENIGMA DEI CRISTALLI DELLA NEVE

Uno sconcertante rompicapo che affascina e sfida gli scienziati

di Renzo Allegri

ROMA, sabato, 25 febbraio 2012 (ZENIT.org).- Nelle settimane scorse la neve ha messo in ginocchio l’Italia. Si è abbattuta su tutte le regioni, in particolare su quelle nel Centro e del Sud della nostra penisola con una violenza distruttiva che non si vedeva da decenni. Ha provocato disagi, danni e anche vittime.
La neve è un fenomeno meteorologico che nel suo aspetto esteriore incanta e affascina e, in genere, per questo, suscita simpatia e gioia, soprattutto nei bambini. Ma in questa occasione si è presentato con l’aspetto di un tornado arrabbiato e distruttivo, suscitando sentimenti di paura e di odio.
Pochi sanno che la neve è uno dei fenomeni più misteriosi e più enigmatici. Un autentico rompicapo per gli scienziati, che lo studiano da anni senza riuscire a svelarne i segreti.
Ogni fiocco di neve che vediamo volteggiare nell’aria e depositarsi dolcemente al suolo, è costituito da piccoli cristalli di forma esagonale, simmetrica e bellissima, ma tutti dissimili l’uno dall’altro. Nel corso di una abbondante nevicata come quelle dei giorni scorsi, i cristallini di neve caduti dal cielo sono stati innumerevoli come le stelle del firmamento. Miliardi di miliardi. Ebbene, ognuno era diverso dall’altro. Impossibile trovarne due uguali. E’ un fatto incredibile, ma scientificamente vero. Così incredibile che non se ne parla mai. Solo gli scienziati lo prendono in considerazione, perché si sentono sconfitti e anche umiliati per non riuscire a spiegarlo, a imprigionarlo in una gabbia scientifica. Formulano teorie e ipotesi, ma sono teorie che non convincono e non spiegano. Sembra che, nel 1986, in America siano stati trovati due cristalli di neve uguali. E anche se la cosa non era certa, è stata egualmente oggetto di una comunicazione ufficiale da parte della Società Meteorologica Americana, proprio perché quel fatto, se si fosse potuto documentare, poteva essere un evento che sfondava finalmente il muto invalicabile di quel mistero.
Un mio amico, nei giorni scorsi, parlandomi di questo fenomeno, ha ricordato il pensiero di San Tommaso d’Aquino, il grande teologo e filosofo medievale, che parla di “intelligenze  senza corpo fisico”, che potrebbero essere gli angeli. Gli angeli, quindi, potrebbero essere gli autori di fenomeni del genere. Gli scienziati atei sorridono e continuano a tormentarsi alle ricerca di una spiegazione razionale. I credenti potrebbero, invece, provare un sentimento di gioia, di meraviglia, di fronte a un altro mistero della natura che richiama la presenza di Dio e del suo infinito amore.
La storia dei cristalli della neve mi ha fatto venire in mente il mio incontro con uno scienziato giapponese, famoso proprio per aver dedicato gran parte della sua vita a studiare i cristalli dell’acqua ghiacciata. E anche lui si è imbattuto in fenomeni straordinari e stupefacenti, che non hanno alcuna spiegazione razionale.
Questo scienziato, che si chiama Masaru Emoto, è un medico, laureato anche in fisica e chimica. Una persona quindi di seria preparazione scientifica. Egli sostiene di aver le prove che l’acqua interagisce con l’uomo. Secondo lui, l’acqua sarebbe in grado di “captare” le emozioni umane, le vibrazioni della musica, il suono delle parole, e anche il significato delle parole stesse. E, a seconda di ciò che “capta”, reagirebbe in maniera così profonda da modificare la propria natura.
Per dimostrare questo incredibile fatto, il dottor Emoto ha messo a punto una particolare macchina che gli permette di fotografare i cristalli dell’acqua ghiacciata. Ed ha così documentato che, nel processo di ghiaccificazione, i cristalli dell’acqua prendono forme diverse a seconda delle emozioni che l’acqua ha percepito.
« I cristalli di acqua congelata che hanno ‘ascoltato’ una musica dolce », mi disse il dottor Emoto « appaiono armonici, colorati, con forme geometriche perfette. Quelli di acqua trattata con musica dura e aggressiva, sono invece storti, spezzati, contorti. Lo stesso succede con le parole. Se si parla all’acqua con amore, i cristalli sono perfetti. Se si pronunciano parole di odio o di rabbia, i cristalli sono confusi e brutti ».
Il dottor Emoto non sa ancora per quale motivo esatto ciò avvenga, ma con i suoi migliaia e migliaia di esperimenti compiuti da solo, e con vari altri ricercatori scientifici, non ha dubbi sulla reale esistenza del fenomeno.
Intorno alle sue ricerche è sorto un grande interesse da parte di molti altri scienziati. Non solo in Giappone, ma anche in Europa e in America. Il dottor Emoto è chiamato a tenere conferenze in tutto il mondo e i suoi libri che illustrano i risultati delle singolari ricerche, vanno a ruba.
E anche per lui, tutto è cominciato con i cristalli della neve. Mi ha raccontato: « Un giorno lessi in un libro che non esistono cristalli di neve simili l’uno all’altro. La neve cade sulla terra da milioni di anni, e sono miliardi di miliardi i cristalli che l’hanno formata e che la formano, ma non ne esiste uno uguale all’altro. Questo concetto mi ha colpito ed ho cominciato a pensare di studiare l’acqua nella sua forma cristallizzata, cioè l’acqua ghiacciata. Pensavo che, forse, fotografando i cristalli dell’acqua ghiacciata avrei potuto avere delle informazioni preziose sulla sua vera natura.
« Ho preso dell’acqua distillata e l’ho messa in una boccetta. Poi, di fronte a quell’acqua alcune persone hanno pronunciate parole dolci e piene di serenità come ‘mamma’, ‘papà’, ‘amore’, ‘angelo’, ‘grazie’, ‘pace’. Quindi ho fatto ghiacciare quell’acqua e ho fotografato i cristalli che sono apparsi bellissimi, armonici, geometrici, luminosi. Sembravano gioire per l’energia positiva contenuta nelle parole che avevano ‘sentito’. Poi ho sottoposto la stessa acqua a un trattamento di parole dure e negative, come ‘odio’, ‘guerra’, ‘morte’, ‘sangue’, ‘demonio’, e termini offensivi. I cristalli ottenuti con il congelamento erano tutti diversi. Erano brutti, orrendi, contorti, scuri, disarmonici, incompiuti. Era come se fossero stati spezzati, schiacciati, devastati da una energia cattiva. E lo stesso incredibile fenomeno, cioè modificazione dei cristalli, si verifica quando l’acqua ‘ascolta’ della musica. Abbiamo fatto ‘ascoltare’ ad un campione di acqua brani di Mozart, Vivaldi, Schubert, Beethoven, ottenendo poi dei cristalli che sono risultati stupendi per forma e colore. Ma risultati completamente diversi abbiamo ottenuto con il rock duro o l’heavy metal, canzoni che contenevano testi arrabbiati, parole cariche di astio, e i cristalli ottenuti erano storpiati, divisi, come se fossero esplosi.
« Ho constatato che l’acqua risente anche dei pensieri positivi che le vengono inviati durante la preghiera. In Giappone ho fatto degli esperimenti con risultati sbalorditivi. Nell’ottobre del 1997 ho condotto un esperimento sull’acqua del bacino di Fujiwara a Minatami-cho, nella prefettura di Gunma. Quel giorno l’acqua del laghetto era inquieta, turbolenta. Abbiamo prelevato subito un campione, per congelarlo e osservare poi i cristalli. Intanto il reverendo Kato Hoki, priore del tempio di Jyhouin, nella città di Omiya, cominciò a pregare stando sul bordo del bacino e dopo un’ora di preghiera l’acqua appariva più calma e anche più limpida. Prelevammo un nuovo campione, per congelarlo e osservarlo al microscopio. I cristalli dell’acqua prelevata prima della preghiera erano bruni, contorti, pieni di buchi e di separazioni; quelli dell’acqua prelevata dopo la preghiera erano bellissimi, pieni di equilibrio, con complicate forme geometriche.
« Il l 25 luglio del 1999 ho fatto un esperimento simile presso il lago Biwa. Questo lago, che si trova nella provincia di Shiga, è il più vasto del Giappone ed è anche un terribile esempio di inquinamento. Ogni estate la superficie del lago si ricopre di una strana specie di pianta acquatica, chiamata alga kokanda, che imputridisce e diffonde in tutta la zona un fetore quasi insopportabile. Quel 25 luglio, alle quattro e mezzo del mattino, ci siamo riuniti in 350 persone per pregare sulle sponde del lago. E il risultato è stato sorprendente. I cristalli dell’acqua del lago dopo la preghiera, erano bellissimi e continuarono ad esserlo per circa sei mesi.
« Ho fotografato anche i cristalli dell’acqua di Lourdes, il famoso santuario cristiano. Sono spettacolari: armoniosi, ma con un qualche cosa di misterioso e di soave insieme, come se fossero impregnati da un sentimento mistico ».
Il dottor Emoto ha utilizzato questi suoi esperimenti per fini commerciali che possono essere discutibili. Ma i risultati delle sue ricerche al microscopio sono un dato oggettivo. Ripetuto e constatato da molti altri ricercatori. E dimostra che, anche in questo caso, la scienza rimane confusa, incapace di trovare delle spiegazioni di certi comportamenti della natura. Il pensiero va alla famosa frase che Shakesperare fa dire ad Amleto rivolto al suo amico Orazio: « Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia ». E anche a quanto scrisse Carl Jung: « Non commetterò il tipico errore di considerare una frode tutto ciò che non sono in grado di spiegare ».
Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, al numero 341 si legge: « La bellezza della creazione riflette la bellezza infinita di Dio ».
Giovanni Paolo II, nella sua enciclica Fides et ratio ha scritto: « Attraverso il creato, gli ‘occhi della mente’ possono arrivare a conoscere Dio ». E Benedetto XVI, nel suo messaggio per la XLIII Giornata per la pace:  » Contemplare la bellezza del creato è stimolo a riconoscere l’amore del Creatore, quell’Amore che ‘move il sole e l’altre stelle’ ».

LA TRAGEDIA DELLA COSTA CONCORDIA

http://www.zenit.org/article-29327?l=italian

LA TRAGEDIA DELLA COSTA CONCORDIA

Comunicato dell’Apostolato del Mare Italiano (AMI)

ROMA, domenica, 22 gennaio 2012 (ZENIT.org).- Riportiamo il comunicato diffuso dall’Apostolato del Mare Italiano (AMI) in seguito alla tragedia della Costa Concordia, la nave da crociera naufragata nella notte del 13 gennaio scorso nei pressi dell’Isola del Giglio (Sardegna), provocando finora 13 vittime accertate e una ventina di dispersi. Il documento porta la data del 20 gennaio 2012 ed è firmato da Don Giacomo Martino, direttore nazionale per la pastorale degli addetti alla navigazione marittima ed aerea.
***
Ad una settimana dalla tragedia della Costa Concordia, l’Apostolato del Mare Italiano (AMI), che da molti anni opera sulle navi da crociera con i cappellani di bordo, per l’assistenza ai membri dell’equipaggio e ai passeggeri, vive un sentimento immutato, di dolore per le vittime e apprensione per i dispersi, insieme a tanta riconoscenza verso i membri dell’equipaggio che hanno compiuto il loro dovere con senso di responsabilità e dedizione.
L’Apostolato del Mare ha vissuto questa dramma in prima persona attraverso Don Raffaele Malena, il Cappellano che si trovava a bordo della Concordia, e che si è prodigato per salvare vite umane ed offrire parole di conforto e sostegno nei momenti drammatici della vicenda.
Una calamità che, in diverso modo, ha toccato tutto e tutti, e ha suscitato una rete di solidarietà spontanea e reale che poco spazio ha avuto sui media.
Gli equipaggi, i marittimi, gli “Invisibili del mare”, anche in questa circostanza, sono stati ignorati, se non colpevolizzati; eppure, nell’emergenza reale e non simulata, hanno fatto il loro dovere, fino in fondo. Se da una parte addolora che alcune persone abbiano perso la vita, dall’altra c’è la consapevolezza che quasi tutti, oltre quattromila persone, sono stati tratti in salvo.
Ora è vivo il desiderio di esprimere tutta la comprensione e tutta la solidarietà umana e spirituale a chi ha avuto delle perdite e a chi ha subito i disagi di questa grande tragedia. Altresì è doveroso, nei confronti di questi equipaggi “Invisibili”, che per l’Apostolato del Mare hanno un volto preciso, esprimere tutta la gratitudine e la stima per il senso del dovere e per l’alta professionalità dimostrata, anche e soprattutto in un momento come questo.
Abbiamo avvicinato queste persone, senza distinzione alcuna, cercando con questo di servire il movimento di Dio nel suo mondo, nel quale ogni persona, indipendentemente dalla nazionalità e dalla fede professata, è Sua creatura.
Anche il Direttore nazionale dell’Apostolato del Mare Italiano ha voluto essere presente, adoperandosi per alleviare la sofferenza e i disagi delle migliaia di persone coinvolte e coordinando tutto il lavoro dei volontari delle Stella Maris di Savona e Civitavecchia, nonché i volontari locali della Caritas.
Il sostegno dell’Apostolato del Mare, in questa particolare circostanza, è stato mirato a lenire le ferite umane e spirituali inflitte nel cuore e nei volti dei sopravvissuti.
In particolare, sabato 14, l’Ufficio nazionale e i volontari della Stella Maris locale hanno fatto accoglienza, ascoltando, dialogando e confortando le circa 1.500 persone ospitate nel Terminal di Savona.
La vicinanza della Chiesa è stata testimoniata anche dal Vescovo di Savona, Mons. Lupi, che è stato lungamente in colloquio con quanti erano ricoverati al Terminal Crociere, come pure dalla telefonata di vicinanza del Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana.
Domenica 15 un team congiunto, in cui è stato coinvolto l’Apostolato del Mare, si è recato nei vari hotel di Grosseto, per incontrare, sostenere ed incoraggiare i membri dell’equipaggio, una giornata estenuante ma intensa che ha visto uno dei suoi momenti più alti nella celebrazione della Messa con i membri dell’equipaggio scampati al pericolo.
Lunedì 16 e martedì 17 il Team ha proseguito la sua missione, visitando gli ospedali di Grosseto, Orbetello e Siena. Al Direttore Nazionale e agli altri volontari si sono affiancati i vari Cappellani degli Ospedali. Ad assistere un membro dell’equipaggio indonesiano, ricoverato nell’ospedale di Siena, che ha subito diversi interventi a causa delle ferite riportate, è rimasto un ex cappellano di bordo.
Negli stessi giorni, a Roma e a Civitavecchia, i volontari della Stella Maris di Civitavecchia, il responsabile dell’Apostolato del Mare mondiale del Pontificio Consiglio per i migranti e gli itineranti, con alcuni seminaristi Scalabriniani, si sono adoperati nell’accoglienza di membri dell’equipaggio di origine Latino Americana, bisognosi di sostegno psicologico e necessità materiali (vestiti, medicine, scarpe ecc.) avendo perso tutto ciò che avevano.
Giorni spossanti, ma intensi, che hanno messo in luce l’importanza, in queste particolari circostanze, del counselling umano e spirituale e di tutta l’attività di debriefing verso i passeggeri e i membri dell’equipaggio. Lo si è notato nei volti delle migliaia di persone visitate. Vedere e sentire che qualcuno si è ricordato di loro, che era lì per loro e con loro, che si faceva carico dell’angoscia e anche della rabbia, va al di là del comfort delle giacche a vento, dei panini e dell’acqua minerale, che pur sono risultati utili.
La rete che mano a mano si è creata è stato un chiaro segno della bontà Divina, non siamo stati affatto soli e abbiamo sentito il conforto di tantissimi che si sono uniti a tutti noi, sostenendoci con la preghiera.
Lo testimoniano le tante mail ricevute, in particolare dagli altri Cappellani di bordo in servizio sulle varie navi in navigazione in diverse parti del mondo. Tramite loro è giunto a noi e, attraverso di noi, ai membri dell’equipaggio della Concordia il sostegno e la solidarietà di tutti gli equipaggi delle varie navi. Si è creata una sorta di ponte ideale grazie ai Cappellani di bordo, che hanno dimostrato, ancora una volta, il loro delicato e prezioso lavoro sulle navi, su cui seguono quotidianamente oltre 14 mila persone di equipaggio.
In questi giorni abbiamo dato, ma ancora di più abbiamo ricevuto. La dignità ferita dei tanti del personale di bordo, accusati ingiustamente, non si è affatto tramutata in rabbia. Dai loro racconti potremmo riscrivere la stessa tragedia da una prospettiva diversa e forse più giusta, lontana dai riflettori e dai processi a “rete” aperta.
Anche se fra qualche giorno calerà il silenzio mediatico, rimangono le ferite, fisiche e morali, alcune delle quali chiederanno tempi di guarigione molto lunghi; anche di questo si farà carico quest’Ufficio nazionale, garantendo l’assistenza per quelli che ancora non possono partire, anche attraverso la rete internazionale dell’Apostolato del Mare, per non lasciare nella solitudine gli equipaggi, i marittimi che – pur rientrando nei loro Paesi – si porteranno comunque il grave peso di quanto hanno vissuto.
Ai famigliari delle vittime e a tutti i passeggeri assicuriamo la nostra preghiera. Alla gente di mare tutta, che Dio ha affidato alla nostra cura, la nostra compagnia diventi sempre più “la casa lontano da casa”, sempre e ovunque. Il lavoro continua, con la modalità di sempre, attento, paziente e costante.

Genova, 20 gennaio 2012

Sac. Giacomo Martino
Direttore Nazionale per la pastorale
degli addetti alla navigazione marittima ed aerea


A cinquanta anni dalla morte di Dag Hammarskjöld: L’impegno di un cristiano

dal sito.

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2011/223q01b1.html

(L’Osservatore Romano 28 settembre 2011)

A cinquanta anni dalla morte di Dag Hammarskjöld

L’impegno di un cristiano

di ULLA GUDMUNDSON

Ambasciatore di Svezia presso la Santa Sede

Lo scorso 18 settembre, la Svezia e il mondo hanno commemorato il cinquantesimo anniversario della morte di Dag Hammarskjöld, Segretario generale delle Nazioni Unite dal 1953 al 1961, deceduto in un incidente aereo a Ndola, attualmente nello Zambia.
Durante il suo mandato, Hammarskjöld divenne noto come difensore coraggioso del diritto delle Nazioni piccole a non essere calpestate dalle grandi potenze. Hammarskjöld interpretò la Carta delle Nazioni Unite in maniera creativa per dare al Segretario generale la libertà di agire e di elaborare nuove modalità per prevenire conflitti e ripristinare la pace. I caschi blu dell’Onu, utilizzati per la prima volta in un’operazione di pace a Suez nel 1956, sono stati visti da allora in molte altre parti del mondo. Sono un esempio dell’interpretazione creativa di Hammarskjöld della missione delle Nazioni Unite. La « diplomazia silenziosa », oggi quasi un luogo comune nelle relazioni internazionali, è un’espressione coniata da Dag Hammarskjöld in contrapposizione alla « diplomazia delle riunioni » del tempo. Credeva fermamente nell’incontro confidenziale e personale al più alto livello come modo per superare le situazioni di stallo. Celebre fu il suo viaggio a Pechino per incontrare il Premier cinese Chou-en Lai. Fu durante il viaggio per andare a sondare l’animo di Moïse Tshombe, capo della Repubblica autonomista di Katanga, sulle possibilità di riconciliare un Congo lacerato dalla guerra civile, che Hammarskjöld trovò la morte, in un volo oscurato e silenzioso, nel 1961. Una volta, in un’intervista, Hammarskjöld descrisse le Nazioni Unite come una « Chiesa » secolare.
Essenzialmente intendeva che l’Organizzazione mondiale era l’espressione di un’idea universale, dell’idea dell’uguaglianza di esseri umani e di Nazioni e del desiderio di pace. Pare che abbia trascorso le sue prime tre settimane di mandato facendo visita e stringendo la mano a ognuno dei tremila uomini e donne del Segretariato delle Nazioni Unite.
Tuttavia, Dag Hammarskjöld non avrebbe avuto successo come Segretario generale se fosse stato un idealista e un utopista. Piuttosto, il suo successo si basò su una valutazione realistica della situazione mondiale e del campo delle possibilità, per citare Antonio Gramsci. Era un visionario concreto. Sosteneva la supremazia del diritto internazionale sulla forza bruta, ma non voleva che il diritto di veto dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza fosse rimosso dalla Carta perché quel veto rispecchiava la divisione reale del potere nel mondo. « Quando potremo rimuovere il veto, significherà che non avrà più importanza », disse, citando il politico indiano Krishna Menon. Nel suo libro sulla dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti umani, A World Made New, Mary Ann Glendon, avvocato e già Ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede, cita Hammarskjöld per aver istruito il capo del dipartimento dei Diritti umani nel Segretariato a « non dare all’aereo più gas di quanto è necessario per volare » (un’osservazione dalla sfumatura stranamente profetica, date le circostanze della sua morte). Probabilmente Hammarskjöld comprese il potenziale esplosivo della nozione di diritti umani universali, potenziale che, vent’anni dopo, durante il periodo della distensione tra le superpotenze, sarebbe stato iscritto nell’Accordo di Helsinki e avrebbe dato impulso a movimenti per la libertà quali Solidarno?? in Polonia e Charta 77 in Cecoslovacchia.
Tuttavia questo accadeva negli anni Cinquanta. Il mondo tratteneva il respiro di fronte alla minaccia della guerra nucleare. A sostenere le enormi pressioni del suo mandato e a conservarlo integro come persona furono la sua profonda spiritualità e la sua devozione a Dio. A un attento ascoltatore dei suoi discorsi ufficiali e delle interviste non sfugge questa dimensione spirituale. È non certo una coincidenza che il testo di Hammarskjöld che viene letto più spesso sia Markings (« Tracce di cammino »), la sua autobiografia spirituale che consta di schizzi e aforismi la cui profondità parla direttamente all’anima e rivela la lotta interiore di una persona che è stata in costante « negoziato con Dio ». Ai suoi occhi la maturità spirituale era la qualità più importante dei leader mondiali, dei funzionari civili e dei diplomatici. Per lui la libertà non equivaleva a un limitato individualismo, ma al coraggio e all’umiltà di seguire una vocazione e di vivere secondo la propria coscienza. Si resta colpiti dalla somiglianza fra questa definizione di libertà e quella espressa da Benedetto XVI, nel libro intervista con Peter Seewald. Ascoltare una conversazione fra loro sarebbe stato affascinante, anche se non necessariamente avrebbero concordato su tutto. Il cammino personale di Dag Hammarskjöld verso Dio fu decisamente cristiano ed è stato sottollineato che « Gesù è presente in ogni pagina di Markings ». Fu la forza mistica e unificatrice della ricerca onesta e infinita di Dio, intrapresa dall’uomo lungo numerose vie, a essere centrale nella sua vita.

Mimo, funambolo e martire (O.R. 23-24 novembre 2009)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2009/272q04a1.html

(L’Osservatore Romano 23-24 novembre 2009)

Mimo, funambolo e martire

di Fabrizio Bisconti

È piuttosto rigido l’atteggiamento dei Padri della Chiesa nei confronti dei mestieri che ruotano attorno all’orbita artistica, relativamente al pericolo che alcune professioni, pertinenti all’arte e allo spettacolo, possano far incorrere i fedeli nel peccato di idolatria. Se, poi, dalla teoria, talora asseverativa e rigorosa, si passa alla prassi, dobbiamo constatare che alcuni mestieri, tradizionalmente vietati o, comunque, posti in seria discussione dalle fonti canoniche, appaiono tra quelli esercitati dai primi cristiani, come documenta la produzione epigrafica delle catacombe romane.
I divieti e gli inviti a stare in guardia dei Padri della Chiesa si riferiscono specialmente agli spettacoli, a cominciare da Clemente Alessandrino, che considera teatro e stadio come « cattedre di pestilenza (Pedagogus, iii, 76, 3), per continuare con Tertulliano che ritiene ispiratori di idolatria i giochi atletici e violenti, ed inutili il pugilato e la lotta (De spectaculis, 11-18). Gli apologisti condannano, senza attenuanti, il circo e l’anfiteatro, in quanto vedere uccidere un uomo è come ucciderlo, mentre per Cipriano lo spettacolo in genere può e deve essere identificato con l’idolatria (De spectaculis, 4). Ma è la testimonianza di Agostino a dare un’idea più chiara e complessiva della visione cristiana dello spettacolo e del travaglio che tormenta i Padri della Chiesa a questo proposito:  « Sono i catecumeni – egli rimprovera – a scandalizzarsi per il fatto che i medesimi uomini riempiano le chiese nelle feste cristiane e i teatri in quelle pagane » (De catechizandis rudibus, 25, 48).
Nonostante il tono asseverativo di questi richiami alla vigilanza, molti documenti romani ci parlano di « teatranti cristiani e non solo di aurighi, ginnasti e musici, ma anche di mimi e pantomimi che, come è noto, erano particolarmente invisi ai Padri della Chiesa, specialmente quando, durante la controversia ariana, scelsero come temi preferiti di pantomima i misteri cristiani, parodiando il battesimo e il martirio (Agostino, De baptismo, vii, 53).
Eppure non mancano alcuni celebri mimi romani sicuramente cristiani, fra tutti va ricordato Vitale, sepolto a San Sebastiano nel V secolo e rammentato da un interminabile epitaffio metrico, dove si ricorda, tra l’altro, la sua abilità nell’imitazione delle donne. Vitale, come si desume dal testo epigrafico, era talmente bravo che la sua sola presenza suscitava ilarità ed allegria; qualsiasi ora con lui era lieta; il suo unico rimpianto consisteva nel fatto che tutti coloro che aveva imitato in vita morissero con lui. Ancora a San Sebastiano era sepolto un famoso funambolo (catadromarius) e a San Paolo fuori le Mura un pantomimo che, come è noto, comporta una messa in scena più completa, con mimo, danza e recitazione. Altre testimonianze epigrafiche ricordano ancora un danzatore a San Paolo e un musico a San Sebastiano, mentre, per quanto attiene alle donne di spettacolo, resta il ricordo di una suonatrice di lira da San Lorenzo fuori le Mura e di una cantante, moglie di un ciabattino, dal cimitero Maggiore, sulla via Nomentana.
Queste due ultime testimonianze sembrano rispondere a un giudizio molto severo sulle « donne di teatro » considerate di infima condizione sociale e di dubbia reputazione (Giovanni Crisostomo, Contra ludos et theatra, 2). L’atteggiamento ostile su certi mestieri nasce da un’etica del lavoro, in base alla quale alcune attività non risultano consone alla dottrina cristiana. Il lavoro eseguito da un cristiano, secondo tale teoria, non deve essere disonesto, immorale e idolatrico:  per questo non si accettano alcune attività e si consigliano i cristiani di cambiare mestiere, se prima della conversione avessero esercitato una professione poco consona con la nuova vita che si stava per condurre. Tertulliano, a questo riguardo, si sofferma proprio sui mestieri permessi ai cristiani o, meglio, esorta ogni cristiano a evitare tutte quelle professioni che potevano accostarlo al culto degli dei (De idolatria, 12, 4).
Non si accettano, innanzi tutto, coloro che praticano o gestiscono la prostituzione, gli aurighi, i circensi, i gladiatori, i sacerdoti, i custodi dei templi pagani, i maghi, gli ipnotizzatori, gli indovini, gli interpreti dei sogni, i fabbricanti di amuleti, gli scultori e i pittori (Tradizione apostolica, 11, 2-15). Proprio questi ultimi, invece, appaiono nelle catacombe romane e, segnatamente, nelle incisioni figurate sui marmi di chiusura dei loculi:  una evoca la professione di un defunto intento a comporre una lastra di opus sectile e un’altra riproduce la bottega dello scultore di sarcofagi Eutropos e non mancano allusioni a pittori, scultori di clipei e musivi vari.
Come si diceva, la prassi e la teoria non parlano la stessa lingua e i cristiani di Roma impongono leggi e divieti troppo rigidi.
L’unico timore tenuto presente anche dalla base sociale della comunità è quello di incorrere nel peccato d’idolatria, che il severo Tertulliano paragona a un cancro, le cui metastasi minano il corpo sociale e da cui occorre difendersi con antidoti estremi (De idolatria, 12, 4). L’apologista africano, come sempre, si riferisce a episodi che stavano accadendo in quel tempo sulla sua chiesa, episodi che da Roma ci accompagnano verso la realtà cartaginese dell’epoca severiana, ma che fioriscono nell’idea generale della tormentata conversione al cristianesimo nei primi secoli. Tertulliano ricorda, infatti, un episodio estremo, che dà il senso delle infrazioni alle regole della Chiesa:  « I costruttori di idoli vengono ammessi nell’ordine ecclesiastico. Quale crimine! ».

CONFESSIONI TRA GLI ANNUNCI A NEW YORK

dal sito:

http://www.zenit.org/article-27804?l=italian

CONFESSIONI TRA GLI ANNUNCI A NEW YORK

di Elizabeth Lev


ROMA, giovedì, 1° settembre 2011 (ZENIT.org).- A New York la pubblicità è un’arte. In ogni via, venditori, pannelli luminosi e vetrine attirano i passanti con cibo, tecnologia e qualsiasi prodotto si possa desiderare. Dovrebbe allora sorprendere un grande striscione rosso in una chiesa cattolica che annuncia confessioni? Francamente sono rimasta esterrefatta. Correndo dal museo alla biblioteca, per cenare con gli amici, l’ultima cosa alla quale pensavo era il sacramento della riconciliazione.
La parrocchia di Sant’Agnese è un’elegante chiesa al numero 143 E della 43rd Street, che l’ex Sindaco di New York, Ed Koch, definì “la strada più transitata al mondo”. La chiesa offre tre ore di confessioni e sette Messe al giorno. Incuriosita, sono andata a visitarla. Sono stata ricevuta da Anna Megan, che amministra la chiesa e ha voluto per prima cosa sottolineare l’importante localizzazione del tempio. “A mezzo isolato dalla stazione Grand Central Terminal e dall’altro lato della strada rispetto al Chrysler Building, Sant’Agnese è al centro delle rotte di viaggiatori e turisti”.
I fedeli di Sant’Agnese non sono molti, circa 400, ma sono costanti. Possono però arrivare a più di 10.000 nei giorni di festa, quando molte persone assistono alle Messe e si confessano.
Sant’Agnese è stata costruita nel 1873 per i lavoratori del Grand Central Terminal, ma ha subito un incendio nel 1992. La chiesa attuale, ricostruita nel 1998, segue il modello della chiesa del Gesù, uno dei templi romani più noti per il sacramento della penitenza. Da 30 anni, Sant’Agnese offre un orario regolare di confessioni giornaliere, risultato di un’iniziativa pastorale ma anche dell’insistenza dei fedeli.
Ho visitato la parrocchia un pomeriggio, mentre iniziava l’adorazione eucaristica, con la chiesa piena per tre quarti della sua capacità. Ogni diversità etnica, economica ed estetica di New York si inginocchiava unita nei banchi. Giovani con anziani, tatuaggi e veli, borse griffate e sacchetti di carta.
Ovviamente molte altre chiese offrono confessioni regolari a New York. La Cattedrale di St. Patrick offre confessioni al mattino e all’ora di pranzo, e il santuario di Sant’Antonio ne offre con tale frequenza da essere conosciuto come il confessionale di New York.
Dopo aver visto tante chiese chiuse tutto il giorno negli Stati Uniti, con i bollettini parrocchiali che annunciavano discretamente gli orari delle confessioni (solo il sabato, dalle 15.15 alle 15.30, o per appuntamento), Sant’Agnese è però una meraviglia e un modello per tante di loro.
Ho chiesto delle difficoltà di tenere la chiesa aperta tutto il giorno e di assicurare sacerdoti per i sacramenti. Megan mi ha detto che i fedeli collaborano per far restare aperta la chiesa, custodendo il tabernacolo.
Anche se nella parrocchia c’è solo un sacerdote diocesano, padre Richard Adams, in genere cinque o sei presbiteri di luoghi come le Filippine, il Ghana o la Birmania aiutano ad amministrare i sacramenti.
Questa disponibilità è divenuta talmente popolare che ci sono sempre file nei due confessionali, e più di una volta è stato chiamato un sacerdote all’ora di pranzo o di cena per assistere qualcuno che era arrivato. San Giovanni Maria Vianney ne sarebbe molto orgoglioso.
In una città che offre in ogni angolo prodotti perché l’aspetto delle persone sia sempre pronto per una fotografia, Sant’Agnese promuove un trattamento di bellezza molto più profondo.

IMPRESSIONI DAL MAROCCO

dal sito:

http://www.zenit.org/article-27706?l=italian

IMPRESSIONI DAL MAROCCO

di padre Renato Zilio*

RABAT, mercoledì, 24 agosto 2011 (ZENIT.org).- Se vuoi conoscere un uomo entra nella sua dimora, raccomanda un proverbio arabo. E ciò fa capire l’importanza di conoscere la terra e la cultura di origine di tanti emigranti in Europa provenienti dal Marocco. Visitare, allora, città come Fes, Meknes, Taroudant … è sempre loccasione di entrare in un altro mondo, di comprendere altri esseri umani, di vivere accanto a unaltra fede.
Ora, in piena estate, passato il grande calore del giorno, sul fare della sera ogni cosa si anima; una piazza diventa un salotto animatissimo fino a tarda notte con file di uomini, di donne, di bambini seduti dappertutto dove capita. Antico spirito di clan che riprende vita ed è una scena che si contempla ovunque. Passando invece al mattino accanto alle moschee vi sorprenderà la cantilena sillabata, un salmodiare di bambini alla scuola coranica, che ripetono a memoria brani del Corano. Si radicano, così, già nelleducazione più tenera, entrano nel corpo, si iscrivono nella memoria e nelle fibre più intime, senza passare per la comprensione, l’analisi o la critica. La lingua araba gutturale, ossuta, melodiosa e, in un certo senso affascinante, richiama il volto dellabitante di questa terra dallo sguardo vivo, mobilissimo, dai contorni precisi, privo di ricercatezza ma non di fascino. Ed è lingua divina che non chiede di essere compresa, ma semplicemente accolta. È parola che viene da Dio. Dappertutto, poi, incontrerete due personaggi sempre insieme, anche senza darsi la mano: l’uomo e il suo asino. Avanzano lentamente aiutati dalla stessa fede in Allah, dolce emulazione dove l’uno imita l’altro. Hanno la stessa sabr pazienza classica di un popolo che dà loro la forza di affrontare l’asprezza del cammino, il calore del sole, la durezza della vita. Ma la pazienza, vi diranno, come pure lhumour, non è che uno dei volti della fiducia in Dio. Procedono come contando i passi, quasi recitassero lentamente la litania dei nomi di Allah. L’asino è strumento di lavoro, di trasporto e di spostamento, ma per l’uomo anche un compagno nella buona e nella cattiva sorte. In fondo, non ci sarà proprio un paradiso per lui?
E poi, in ogni angolo delle città, bambini. Poca infatti è la scolarizzazione; li intravedete, bambini di ogni età, anche in ateliers di quattro-cinque metri quadrati nei numerosi mini-laboratori o retrobotteghe di tessuti, di cuoio, di tappeti, di ogni tipo di lavoro con adulti. O li incontrate in negozietti di alimentari aperti fino a notte. Oppure nei souk, con un precoce senso degli affari, un self-control serioso e invidiabile e la simpatia accattivante del venditore. Sono, così, sollecitati a farsi presto adulti e guadagnare qualcosa privandosi forse di unadolescenza, di una scuola e di un gioco pur legittimo.
Contraddizioni in una società in rapida evoluzione… ma che ha ancora il senso dello splendore di un Paese con un sultano o attualmente un giovane re e un regno indipendente da più di un millennio. Ma avere un capo importante – prestigio e identità qui da secoli – è spesso una cascata conseguente di altri piccoli capi come in una società feudale. Il tessuto sociale si spartisce come gli strati geologici di queste montagne in fasce parallele e traversali, portando con sé spesso arbitrio, senso di dominio o corruzione. Lo si nota anche nelle abitazioni: un succedersi di abitacoli e dimore prive di quasi tutto, con riad, abitazioni belle e immense, cieche, circondate da un alto muro e aperte al cielo allinterno. Perché, come vuole la tradizione araba, la casa, come lanima, deve essere protetta dallo sguardo altrui. Lo spazio aperto più frequentato ed animato è invece il souk. Qui scopri l’anima commerciale e artigianale di questa società, dove trovare merce di ogni tipo, un mondo di gente, di colori, di odori, e dove le spezie aromatissime si fondono con odori meno nobili. Ceste copiosissime di datteri, di fichi secchi, di olive nere o verdi si offrono allo sguardo, alla polvere e alla mano svelta dei ragazzini. Un universo stranissimo per uno straniero, immagine di un universo culturale, simbolico, relazionale molto differente.
Ciononostante, un mondo umano che ha pure uno strano fascino. Dove il rapporto ha il privilegio esclusivo e la merce si fa personaggio che danza con i due che si incontrano in un trio che appassiona. Dove l’artigianato delle stoffe, dei tappeti, delle pelli, del vasellame coltivato da secoli dimostra l’amore dell’uomo per la materia, la maestria del contatto e il profondo senso estetico. Dove l’occhio e la mano ritrovano una complicità sorprendente e una creatività che non è tale, perché non vi è che un unico Creatore, raccomanda il Corano. Ma è un ripetere minuzioso ed estenuante di ciò che generazioni hanno simbolizzato e definito. Una grande raffinatezza e un’enorme pazienza, così, fanno uscire dalle mani dell’artigiano dei capolavori domestici. Come un capolavoro è il thè alla menta. È una liturgia che la donna impara fin da bambina: fare il dolcissimo thè alla menta fresca, acquistata al mattino al souk, è un vero rito. E un rito è il matrimonio tra due realtà che si amano talmente da diventare una cosa sola: come il presente e il passato, l’istante in cui lo si compie e i secoli che l’hanno preceduto, la sua precisione minuziosa e l’ampiezza cosmica del suo valore. Così, la donna versa in un lunghissimo filo portando alta la teiera al di sopra della testa… Dall’alto scroscia sul vostro bicchiere schiumando e, ossigenandosi, si amalgamano perfettamente il thè, lo zucchero e la menta. Ed è qualcosa di miracoloso: pur essendo caldissimo con il clima arroventato di qui vi spegnerà completamente dopo qualche istante la sete. Il thè alla menta è il rito per eccellenza dell’accoglienza: non sarete accolti se non bevendolo.
Ma l’accoglienza è una dimensione umana per il popolo musulmano che viene dal fondo dei secoli e dalla profondità del deserto. Qui l’accoglienza è questione di vita o di morte, un bisogno vitale: accogliere è dare la vita. Segno di solidarietà, essa unisce invisibilmente gli uomini: oggi sarà da parte tua, domani forse sarà l’inverso. Non accogliere un ospite è rifiutare Dio che viene a visitarvi. L’altro, in fondo, è colui che Dio stesso pone sul vostro cammino e ha qualcosa da dirvi. Sì, l’accoglienza è radicata nell’anima di questo popolo. Così giorni fa, dopo tante moschee, mi ha accolto una chiesa. Sul tabernacolo in legno di cedro una calligrafia araba in forma di croce mi dice Dio è amore. Mi colpisce subito: trovare il senso della nostra fede in un Paese dove Dio è solo immensamente grande mi fa un effetto strano. L’originalità cristiana ricordata da un artigiano musulmano ha come la potenza incredibile dell’atomo. Sconvolgente, per chi afferma come qui che l’amore non è che una cosa semplicemente naturale. Crederla una dimensione divina, anzi Dio stesso, è scuotere una religione dalle sue stesse fondamenta. Perché chi ama rivoluziona le convinzioni, i dogmi e le certezze di una religione, anche la più pura.
L’amore nasce dal cuore della nostra differenza. E questa sa farsi pietra di costruzione della comunione tra di noi. Per il musulmano invece è il fatto di essere simili, di parlare la medesima lingua sacra, di essere contrassegnati dall’omogeneità che rende figli uguali della stessa umma, la comunità. Conseguenza di una fede in un Dio unico e non già differente nella sua stessa origine divina.
La contemplazione di questo mistero la comunione di Dio – ci fa restare sulla stuoia o sul tappeto per lunghissimi momenti in silenzio e in adorazione. Così per tutte le piccole comunità cristiane in terra d’Islam. È il senso di un Dio che pianta la sua tenda tra gli uomini che ama. Differente da un Dio che splende allo zenith come il sole qui in piena estate, per cui paradossalmente l’unico modo di incontrarlo è piegare profondamente la fronte fino a terra. Gesto privilegiato questo per il credente musulmano, che come uno schiavo, abd Allah, si prostra davanti al suo signore. La sottomissione fa sposare all’essere umano l’umiltà della terra: l’uomo non è che un soffio, seppure straordinario, quando sa farsi preghiera che adora. Ma al di sopra di tutto – canta per noi l’inno di Paolo – vi è solo l’amore ».

———
*Padre Renato Zilio è un missionario scalabriniano. Ha compiuto gli studi letterari presso l’Università di Padova, e gli studi teologici a Parigi, conseguendo un master in teologia delle religioni. Ha fondato e diretto il Centro interculturale di Ecoublay nella regione parigina e diretto a Ginevra la rivista « Presenza italiana ». Dopo l’esperienza al Centro Studi Migrazioni Internazionali (Ciemi) di Parigi e quella missionaria a Gibuti (Corno d’Africa), vive attualmente a Londra al Centro interculturale Scalabrini di Brixton Road. Ha scritto Vangelo dei migranti (Emi Edizioni, Bologna 2010) con prefazione del Card. Roger Etchegaray.

Se qualcuno respira arsenico (O.R.)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2010/281q01b1.html

L’OSSERVATORE ROMANO

Le domande sulla vita nell’universo

Se qualcuno respira arsenico

di José G. Funes

L’astrofisica è una scienza che riserva sempre sorprese. La ricerca esige uno sforzo quotidiano, spesso nascosto, ma non di rado viene premiata con risultati significativi. Questa settimana i media hanno riferito di scoperte che senza dubbio provocheranno molte domande e apriranno nuovi filoni di studio.
La prima riguarda le « nane rosse », stelle piccole (30 per cento della massa del nostro sole) e di scarsa brillantezza. Pieter van Dokkum, della Yale University, e Charlie Conroy, dello Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, hanno pubblicato su « Nature » un lavoro riguardante otto galassie ellittiche – osservate con il telescopio Keck i di Mauna Kea, nelle isole Hawaii – che si trovano a una distanza compresa tra i 50 e i 300 milioni di anni luce. Com’è noto, l’universo è fatto di circa cento miliardi di galassie, che in base alla loro forma si classificano in ellittiche, spirali e irregolari. La nostra Via Lattea è una spirale.
Utilizzando potenti strumenti, van Dokkum e Conroy sono riusciti a ottenere spettri che corrispondono a nane rosse. Da qui l’ipotesi che nelle galassie ellittiche queste stelle siano molto più abbondanti di quello che si pensava. Vorrei rilevare che i nuovi risultati dipendono dai modelli di sintesi di popolazione stellare, che permettono di fare la « somma » della luce di tutti i miliardi di stelle che formano una galassia. Dunque, solo studi ulteriori potranno confermarli.
In ogni caso, se questa ipotesi fosse dimostrata, avrebbe delle conseguenze per la nostra comprensione dell’universo. Nel senso che aumenterebbe il numero delle stelle, mentre diminuirebbe la proporzione di materia oscura nelle galassie. Dalla cosmologia sappiamo attualmente che l’universo è fatto per il 4 cento di atomi, per il 73 di energia oscura e per il 23 di materia oscura.
Dovremo allora cambiare queste proporzioni? Se ci sono più stelle nelle galassie ellittiche, aumenta molto probabilmente il numero di pianeti. E con essi cresce la probabilità di vita nell’universo. Anche se forse non lo sapremo mai. Si tratta di galassie troppo lontane per poter osservare le singole stelle. Neppure la fervida fantasia degli autori di Star Trek e Star Wars ha immaginato la possibilità di esplorare altre galassie.
Ma facciamo una tappa meno remota nel nostro viaggio extragalattico. Sul sito di « Nature » si può leggere un articolo dedicato alla scoperta di un’atmosfera su una cosiddetta super earth (« super terra »). Il pianeta gj 1214b orbita intorno a una stella nana rossa distante 42 anni luce, con un periodo di 38 ore. La massa del pianeta è 6,5 volte quella della Terra. Le nuove osservazioni spettroscopiche – effettuate con il Very Large Telescope in Cile dal team guidato da Jacob Bean, dello Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics – suggeriscono che l’atmosfera di gj 1214b è composta di vapore acqueo o, comunque, è dominata da dense nubi.
La ricerca sulle super earths è molto interessante. Questi corpi, che non esistono nel nostro sistema solare, rappresentano una situazione intermedia tra i pianeti terrestri, come Venere e Marte, e i pianeti gioviani, come Urano e Nettuno. La comprensione della formazione di altri sistemi stellari ci aiuterà a capire meglio la formazione del nostro. E forse ci consentirà di arrivare a un modello che permetta di spiegare in un modo « universale » la formazione dei pianeti che orbitano intorno ad altre stelle.
Lo studio di pianeti extrasolari con atmosfera ripropone la domanda sulla possibilità di vita nell’universo. Un gruppo di ricercatori della Nasa ha scoperto, nel Mono Lake in California, il primo microrganismo conosciuto capace di crescere e riprodursi utilizzando una sostanza tossica come l’arsenico. Questo essere vivente sostituisce l’arsenico al fosforo nei componenti delle cellule. In poche parole, è un microbo che respira arsenico. È evidente che se cerchiamo forme di vita nell’universo, dobbiamo almeno sapere cosa cercare:  cioè definire che cosa è un essere vivente. Questa nuova scoperta sicuramente contribuirà ad allargare i nostri orizzonti concettuali in materia.
E chissà se, in una lontanissima galassia ellittica, qualcuno che abita su una « super terra » orbitante intorno a una « nana rossa » e respira arsenico, in questo momento si sta facendo le stesse domande.

(L’Osservatore Romano 5 dicembre 2010)

La collaborazione fra donne e uomini nel Nuovo Testamento (O.R.)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2010/192q01b1.html

L’OSSERVATORE ROMANO (2010)

La collaborazione fra donne e uomini nel Nuovo Testamento

Pietro e Maddalena

di Lucetta Scaraffia

Se sono state le studiose le prime a guardare con attenzione al ruolo delle donne nei testi sacri del cristianesimo, oggi questo filone di studi – per fortuna – è entrato anche nell’interesse degli studiosi, talvolta con risultati sorprendenti. Un esempio felice di questa nuova positiva realtà è un piccolo libro del teologo e biblista Damiano Marzotto (Pietro e Maddalena. Il vangelo corre a due voci, Milano, Ancora, 2010), dedicato alla collaborazione fra donne e uomini nel Nuovo Testamento. Il volume contiene tre saggi:  sul celibato di Gesù e la verginità di sua madre, sul ruolo di Maria e delle altre donne che Gesù incontra nei vangeli, e per finire sulle figure femminili presenti negli Atti degli apostoli, indagate con grande finezza e originalità.
L’autore infatti è ben consapevole dell’originalità e della importanza del ruolo femminile di cooperazione al processo di evangelizzazione, e ne sottolinea il peso centrale in svariati episodi, in particolare nel mistero della morte e resurrezione di Cristo. La continuazione della missione salvifica degli apostoli e la non interruzione del rapporto con il maestro durante il dramma della crocefissione e della sepoltura sono state possibili infatti grazie alla continua presenza delle donne al suo fianco, « perché le donne hanno avuto la forza e il coraggio di seguire Gesù fino alla morte in croce, non staccandosi da Lui neppure dopo la sua sepoltura ». Quindi, anche se agli apostoli è affidata la missione di evangelizzare il mondo, essi hanno bisogno della fedeltà delle donne che attraversa la notte per non perdersi.
Nei testi canonici, per tutti e quattro gli evangelisti le figure femminili sono determinanti proprio perché « la fecondità di Cristo non si realizza senza una stretta associazione di alcune donne al ministero della redenzione, della rigenerazione dell’umanità ». Di conseguenza, il celibato di Gesù non è visto come una rinuncia, ma come la proposta di una forma più profonda di rapporto con le donne, che ne valorizza la differenza.
Se nessuno dubita quanto sia fondamentale il ruolo della madre Maria, che con la sua richiesta a Cana provoca il primo raduno di credenti intorno a Cristo, altrettanto importante è stato quello della Samaritana « nell’avvicinare al Salvatore del mondo le primizie della mietitura escatologica, i suoi concittadini che hanno creduto in lui attraverso la sua parola »; ed essa « d’altra parte ha anticipato questo movimento di fede andando per prima ad attingere alla fonte, che zampilla per la vita eterna ».
Altre due donne, Marta e Maria, hanno il compito di accelerare il compimento degli eventi della salvezza, e anch’esse precedono nella fede gli abitanti di Betania perché si mettono per prime in cammino verso Gesù, riconoscendolo. C’è quindi un ruolo « di provocazione e insieme di anticipazione da parte della donna » che rivela « una compartecipazione originale » fra Gesù e le figure femminili dei vangeli, indicando così la possibilità di una relazione significativa fra uomo e donna al di là della relazione sponsale.
Particolarmente innovativa è la lettura proposta delle figure femminili negli Atti degli apostoli, dove lo studioso individua nelle donne che offrono ristoro e accoglienza ai principali protagonisti del libro di Luca appena usciti dalla prigionia – a Pietro prima e a Paolo poi – un modello di accoglienza, e insieme una spinta alla nuova partenza per la missione. La presenza delle donne, quindi, sembra favorire « l’apertura universalistica » di cui esse sembrano capaci di cogliere in anticipo il dispiegarsi, e la loro funzione di accoglienza e ospitalità offre le condizioni ideali per il dispiegarsi della grazia, come dimostrano tante conversioni.
Se una studiosa attenta come Marinella Perroni ha giudicato meno significative le figure femminili presenti negli Atti degli apostoli, il biblista ne rivela invece l’importanza e la ricchezza simbolica, offrendo quindi un nuovo rilevante contributo alla discussione sul ruolo delle donne nella vita della Chiesa. Non è poi senza significato il fatto che monsignor Marzotto Caotorta, attuale sottosegretario della Congregazione per la dottrina della fede, abbia colto questi aspetti. A differenza infatti della teologa italiana, interessata soprattutto a rintracciare ruoli ministeriali precisi nelle figure femminili presenti nel Nuovo Testamento, lo studioso si è dimostrato più libero nella ricerca. A conferma del fatto che non sempre il cosiddetto punto di vista di genere è garanzia di una comprensione più profonda.

(L’Osservatore Romano 22 agosto 2010)

RICORDANDO INDRO MONTANELLI

dal sito:

http://www.zenit.org/article-27490?l=italian

RICORDANDO INDRO MONTANELLI

di padre Piero Gheddo*

ROMA, venerdì, 22 luglio 2011 (ZENIT.org).- Ho conosciuto Indro Montanelli nel 1972 quando, da presidente di una giuria che comprendeva Enzo Biagi, Guido Piovene, Paolo Monelli e altri, mi diede il premio dei giornalisti italiani “Campione d’Italia”, per il volume “Terzo Mondo perchè povero” (EMI 1971, pagg. 196). Nelle motivazioni del Premio definì i missionari “gli italiani più amati nel mondo”. E dopo la consegna mi prese in disparte e mi disse: “Hai vinto il Premio perché sei un missionario e scrivi dei missionari, raccontando le loro esperienze… Se eri un prete e parlavi dei preti in Italia, il Premio te lo sognavi”. Ero troppo timido e giovane per reagire.
Nel 1886 mi chiamò a collaborare con “Il Giornale”. Sapeva che viaggiavo molto e mi chiese di mandargli articoli sulla vita e il lavoro dei missionari. Così è iniziata una lunga collaborazione, continuata con “La Voce”. Gli mandavo cartoline e articoli e quando tornavo in Italia andavo a trovarlo. Era curioso di come vivevano e cosa facevano i missionari, dei quali aveva una visione mitica. “Voi missionari siete tutti eroi, diceva, perché abbandonate la nostra bella Italia, per andare a vivere tra i più poveri dei poveri in capanne di fango e paglia”.
Quando nel 1991 la Somalia era nel caos e io c’ero stato da poco, Montanelli mi chiese articoli e scrisse due editoriali invitando i lettori ad “aiutare i missionari di padre Gheddo in Somalia”, dicendomi di precisare chi erano questi missionari e missionarie. So che le Missionarie della Consolata di Torino e i Francescani milanesi lo ringraziarono per le notevoli somme ricevute.  Ho conservato due testi di Indro. Il primo è una sua “stanza” sul “Corriere della Sera” di domenica 7 febbraio 1999, che era una mia lunga lettera pubblicata integralmente, dichiarando: “Ciò che padre
Gheddo dice è tutto vero: tonnellate di rifornimenti e ‘cattedrali nel deserto’ servono a poco. Bisogna insegnare agli africani a ‘fare da sé’, come infatti fanno i missionari…Ho detto e ripeto che per l’Africa non servono né le diplomazie con i loro ‘protocolli’, né gli eserciti con le loro armi. Servono solo i missionari. Se vogliamo aiutare l’Africa, aiutiamo loro”.
Il secondo testo di Indro è la prefazione al mio volume “Missionario. Un pensiero al giorno” (Piemme 1997, pagg. 648), nella quale si legge: “Per soccorrere quei popoli disgraziati un mezzo ci sarebbe. Dare la gestione dei miliardi di ‘aiuti’ ai missionari, di cui padre Gheddo scrive in questo
libro: quelli che da anni e decenni vivono laggiù, peones tra i peones, sfidando lebbra e colera e tutto il resto, combattendo la fame non con la distribuzione di farina, ma insegnando alla gente – nella sua lingua – come si coltiva il grano, come si scavano i pozzi e i canali, condividendone, giorno dopo giorno, rischi e privazioni. E’ tra questi ultimi grandi Crociati della civiltà cristiana che la Chiesa dovrebbe reclutare i suoi nuovi santi, perché sono i missionari, figli del nostro mondo ricco e arido, che indicano ai giovani la via per stabilire con i popoli poveri ponti di comunicazione e di aiuto fraterno”.
“Per aiutare i popoli poveri – aggiungeva – i miliardi non bastano. Ci vogliono i missionari alla Marcello Candia (industriale della Milano opulenta che vende tutto e va in Amazzonia a servire i poveri) e alla Clemente Vismara (eroe della prima guerra mondiale che trascorre 65 anni fra
i tribali in Birmania), di cui parla questo libro. Ma i missionari sono difficili da stanziare nei bilanci dello Stato. Dovrebbero produrli le nostre famiglie, la nostra scuola, la nostra cultura cristiana. Temo che la vocazione profonda della civiltà cristiana – la carità verso gli altri – sia oggi in ribasso, almeno nelle cronache quotidiane e nella ‘filosofia di vita’ della nostra società”.
“Ho visto con piacere che in queste pagine padre Gheddo parla di padre Olindo Marella, che egli definisce ‘un santo del nostro tempo’. E’ vero, l’ho conosciuto bene come insegnante di filosofia a Rieti e poi a Bologna. Lo si vedeva per le strade a mendicare, completamente dedito alla missione
di aiutare i ragazzi sbandati, i barboni, gli anziani abbandonati, i poveri. Mi insegnò a vivere per gli altri. Insegnamento che peraltro io non ho seguito. In un certo senso oggi lo invidio. E’ morto ignaro di se stesso, ignaro di essere santo”.
Conservo di Indro un commosso ricordo per le volte che mi bloccava e mi chiedeva perché il Papa dice così o cosà, perché la Chiesa non capisce questo o quel problema, come si può credere a Dio che si lascia flagellare e crocifiggere… Era un uomo assetato di Dio, voleva capire qualcosa del
Creatore e Signore di cui sentiva la presenza ma non riusciva a parlarci e ad avere risposte ai suoi interrogativi. Il 22 aprile 1989 sono andato a fargli gli auguri per i suoi ottant’anni e mi dice: “Fra me e te il fortunato sei tu che hai ricevuto la fede. Io invece non ce l’ho. Tu sai perché vivi, io ancora non lo so. Infatti tu sei sempre sereno e sorridente, mentre io soffro di insonnia e di depressione”. Ma questi sono i palpiti di un’anima che lasciamo alla paterna bontà e misericordia di Dio. Prego per lui, ma sono sicuro che la sua onestà intellettuale e la sua ricerca di Dio hanno già ricevuto la giusta ricompensa dal Padre nostro che è nei Cieli.
———-
*Padre Piero Gheddo
(www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1973) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l’Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano.

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