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L’ARTE MODERNA O LA “SOFIA” DISSACRATA – Pavel Evdokimov

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L’ARTE MODERNA O LA “SOFIA” DISSACRATA

Pavel Evdokimov

Sin dalle origini la teologia occidentale ha manifestato una certa indifferenza dogmatica verso la portata spirituale dell’arte sacra di quell’iconografia che, malgrado il lungo martirologio, è assai venerata in Oriente. Provvidenzialmente, l’arte occidentale segnò tuttavia un ritardo sul pensiero teologico e, fino al XII secolo, rimase fedele alla Tradizione comune sia all’Oriente che all’Occidente. Questa tradizione comune è pienamente viva nella magnifica arte romanica, nella meraviglia della cattedrale di Chartres, nella pittura italiana che coltiva ancora la “maniera bizantina”.
Ma a partire dal XIII secolo, Giotto, Duccio, Cimabue, introducono l’artificiosità ottica, la prospettiva, la profondità, il gioco del chiaro-scuro, il “trompe-l’oeil” (l’illusione ottica). Se l’arte diviene più raffinata, più attenta all’elemento immanente, è meno portata verso la presa diretta del trascendente[1]. Recenti studi scoprono una forte influenza dell’intellettualismo domenicano anche nella visione di Frate Angelico. Rompendo con i canoni della tradizione, l’arte non viene più integrata al mistero liturgico. Sempre più autonoma e soggettiva, abbandona la “biosfera” celeste. Gli abiti dei santi non fanno più sentire sotto le loro pieghe i “corpi spirituali” e persino gli angeli appaiono come esseri fatti di carne e di sangue. I personaggi sacri si comportano esattamente come tutti, vengono abbigliati e collocati nell’ambiente contemporaneo dell’artista. Ancora un passo avanti ed il racconto biblico, l’evento miracoloso diviene solo occasione per eseguire sapientemente un ritratto, un’anatomia, un paesaggio. Il colloquio (diretto) da spirito a spirito si affievolisce, la visione del “fuoco delle cose” fa spazio all’emozione, ai trasporti dell’anima, alla commozione. Secondo Maurice Denis, Leonardo da Vinci è il precursore dei Cristi del genere Muncancsy, Tissot, e al termine della stessa linea emozionale, verranno le immagini attuali del “Sacro Cuore”. Parimenti, quando un Crocifisso, col suo realismo voluto, colpisce il sistema nervoso, il mistero ineffabile della Croce perde la sua potenza segreta, si cancella. Quando l’arte dimentica la lingua sacra dei simboli e delle presenze e tratta plasticamente “soggetti religiosi”, essa non è più percorsa dal respiro del Trascendente.
Passata la metà del XVI secolo, i grandi artisti come il Bernini, Le Brun, Mignard, Tiepolo, si esercitano su temi cristiani in totale assenza di sentimento religioso. La così detta arte sacra che oggi si trova nelle chiese è la più sprovvista di dimensione del sacro. Ma lasciamo parlare un teologo: “Tutta la controversia sull’arte sacra che in questo momento fa rabbia in Occidente si muove su un terreno e si dibatte in una alternativa che rivelano parimenti la completa eterogeneità tra le due arti sacre di Oriente e di Occidente. Più precisamente, essa mostra sopratutto che l’arte religiosa di Occidente, qualunque sia la concezione che uno se ne sia fatta, non ha assolutamente nulla di sacro, nel senso in cui sono sacre le icone. Fondamentalmente essa è un’arte soggettiva che mira ad esprimere il sentimento religioso… Mirabilmente tutto dice che l’arte religiosa in Occidente non è incorporata nella liturgia e che non si ha più neppure la nozione che potrebbe esserlo… Attualmente, a San Vitale (Ravenna) non c’è più altare né in generale oggetti liturgici. Con ogni evidenza ci si trova, dunque, in una chiesa dove tutto attende i santi misteri. All’incirca dall’epoca gotica, nelle nostre chiese più belle come in quelle più mediocri, si può benissimo celebrare la messa tutti i giorni, vi si trova di che stimolare o fiaccare la devozione spirituale, ma nulla è diverso dal laboratorio o dal museo, nulla vi riunisce nel mistero le pitture o le sculture che occupano i muri”[2].
Con la fine del XVIII secolo, l’arte perde visibilmente il legame organico tra il contenuto e la forma e si immerge nella notte delle rotture. Certamente, l’arte rimane complessa, e per fortuna mantiene tutte le tendenze, anche se la predominanza di alcune ne modifica il volto. Noi seguiremo unicamente l’evoluzione di quella che sfocia nella pura astrazione.

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Quando il «conoscere» non è più un atteggiamento di adorazione, comunione orante, la conoscenza si separa dalla contemplazione. In cambio di un “sapere per potere” e della crescita di questo potere sulle cose di questo mondo, si rinuncia all’approfondimento dell’interiorità che va fino all’incontro con il Trascendente e in Lui con tutta la realtà fremente di vita. Allora, però, l’essere si svuota del suo contenuto essenziale, perde la sua radice celeste, si snatura, si dissacra e la coscienza non scopre il “Dasein”, l’essere là, se non per rivelarlo come “essere per la morte”, rinserrato dal nulla. Si distrugge il reale dissociandone gli elementi, suscitando discontinuità invalicabili. All’uomo non rimane che la spiritualità dell’anima, per sua natura acosmica, oppure un moralismo di volontà che gli impediscono, entrambi, il colpo trasfigurante della materia. Una filosofia esistenzialista con le sue sostanze chiuse, rette dal principio di causalità. O un pensiero esistenzialista con le sue presenze senza spessore ontologico, non possono aprirsi al dinamismo energetico delle similitudini e delle partecipazioni autenticamente divinizzanti. La liturgia cosmica non trova più cantori perché l’opacità dei corpi non è impregnata dalla luce del Tabor e la gloria non affiora più in una natura dissacrata.
L’arte subisce l’influenza dei “signori” del mondo e della propria saggezza: l’artista, votato più che mai alla solitudine, cerca una specie di “sovra-oggetto”, di “sovra-realtà”, perché per lui la semplice realtà non è più esprimibile direttamente. Eroicamente ma senza molte speranze, si sforza di trovare quel lato segreto che è stato divelto dalle cose di questo mondo. Volendo conoscere l’oggetto secolarizzato, si perde il suo mistero; ma la sola ricerca, per reazione, per disperazione, di questo mistero, fa perdere la cosa e conduce all’astrazione docetista, al gioco fantasmagorico delle ombre senza corpo.

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La rottura con il passato scaturito dal Rinascimento e la nascita dell’arte moderna possono essere datate nel 1874, con la mostra allestita presso Nadar.
Andando dall’inquietudine profonda di Cézanne all’angoscia tragica di Van Gogh, la pittura indipendente, per sua natura soggettiva, mostra un bisogno di rinnovamento che cerca di manifestare stati d’animo sempre insoddisfatti. L’impressionismo e l’espressionismo trasmettono le reazioni soggettive della retina o del sistema nervoso dell’artista. Questa è la pittura del circostanziale, dell’estemporaneo interpretato emotivamente. L’oggetto emulsionato si disperde nel plasma luminoso e cromatico. La tecnica del tocco diviso e giustapposto insegue le vibrazioni colorate della luce e cerca la sintesi nel fissare l’attimo.
Il cubismo, da parte sua, scompone l’unità vivente nei suoi elementi geometrici e ricostruisce il quadro cerebralmente, come un problema matematico. Abbandona i giochi di luce e di colore ed analizza l’oggetto come si presenta all’immaginazione, collocato in uno spazio ridotto a due dimensioni oppure, al contrario, in uno spazio pluridimensionale come l’atomo dei fisici.
Il surrealismo rende irreale questo mondo e gliene sovrappone un altro, inventato, fino ad andare a profilare un’ “aura sovra-esistenziale”.
L’arte si emancipa da ogni “canone”, da ogni regola; se “teurgica”, si lancia in potenze magiche d’incanto, in false trascendenze, veri e propri “falsi parti metafisici”. È la voga delle maschere negre, del potere inebriante della mescalina, delle imitazioni del falso simbolismo occulto, delle composizioni che si ispirano al cemento armato, all’atomo e al razzo, delle immagini plastiche della velocità pura, della scultura col filo di ferro.
L’enorme pressione dell’universo “appiccicoso e soffocante” genera la danza moderna, un movimento indiavolato che però non porta in nessun posto. Questa è la terribile libertà di ogni artista di rappresentare il mondo ad immagine della propria anima devastata, giungendo fino alla visione di una immensa latrina dove brulicano mostri disarticolati. Ovunque si avverte la discontinuità dei ritmi spezzati, sincopati, la dissoluzione delle forme e la scomparsa del contenuto preciso, del soggetto del volto, del senso delle parole in poesia o della melodia nella musica.
Per la moderna coscienza “sfaccettata”, l’oggetto non esiste nella sua forma unica ma assume molteplici aspetti. Prima di scomparire, l’oggetto si impenna in un’ultima agonia, appare attorcigliato e convulso. Insomma il contenuto delle cose e l’epidermide dei volti si decompongono, tutto viene fatto a pezzi, atomizzato, disintegrato. Percepita in questa maniera, la realtà riflette una coscienza, pure essa, lacerata e a sua volta se ne impregna. L’uomo non è più dominatore delle tendenze anarchiche della natura. Egli non le mette più in ordine con il suo spirito, ma le registra e le aggrava col suo rifiuto di intervenire. Prima, le cose interrogavano, come in attesa e l’artista rispondeva ad esse facendole vivere pienamente sotto il suo sguardo creatore, restituendo loro l’innocenza verginale, facendole ritornare “da lui”, verso il loro candore e la loro ingenuità.
L’artista moderno, prima di guardare il mondo, interroga la propria anima ed applica alle cose la propria visione “disintegrante”, si rende complice dell’antica ribellione che vuole liberarsi innanzi tutto del Senso e di ogni principio normativo. Un simile ritorno verso il caos primordiale accelera l’usura del tempo e assottiglia l’essere sino all’indigenza del nulla. La materia si dissolve perdendo i suoi contorni, viene vista nell’atomo temporale di cui è stata esclusa la durata, e dunque il fremito del viso, la familiarità dello sguardo. Ogni suo frammento comincia a vivere un’esistenza particolare. Il celebre Saturno di Goya rode la sostanza dell’uomo. Nel momento delle convulsioni della fine del MedioEvo, attraverso le brecce che si aprono, si dipartono soffi solforosi che portano il brulichio dei desideri liberati, l’eterno vagare delle voglie. Le potenze irrazionali e demoniache irrompono e corrono qua e là per il mondo. Se l’uomo di Goya è spiato dai mostri che emergono dal suo subcosciente, in Bosch, persino il cammino paradisiaco prende la forma di un lungo, interminabile tunnel oscuro a cui si ispireranno Kafka e Freud. La via à tenebrosa, opprimente, molto poco certa riguardo al suo punto di uscita. Non maggiormente rassicurante è l’uomo visto da Picasso e dalla sua “linea di crudeltà”. In quel modo probabilmente i demoni vedono forse il mondo in un’ottica occulta e fuori dall’inaccessibile immagine di Dio.
Il livellamento universale sbriciola l’Unico, l’Ideato, il Sacro e li sostituisce con la magia di un movimento turbinoso su stesso, decentrato. Non si tratta più dell’eternità ridotta a frammenti dal peccato, ma del tempo ridotto in nulla. L’inferno non somiglia forse ad un frammento del tempo soggettivo dilatato ed eternamente fisso, un sogno senza sognatore, l’ultimo rifugio dell’inesistente? L’esistenza ultramoderna non conosce né l’Avvento, né la crescita dell’essere, né la successione degli eventi, ma contiene in sé una coesistenza di frammenti, di schegge che si ricoprono l’una con l’altra senza luogo né sequenza ordinata. La durata orientata cede il posto alla simultaneità, all’istantaneità, al futurismo, e si assottiglia in una pseudo escatologia del ritorno all’elementare. Al limite un cadavere non si muove, si distende. Già Dostoevskij profetizzava che l’uomo avrebbe perso anche la sua forma esteriore se avesse perso la propria fede nell’Integrazione divina. Un tempo i grandi Maestri, prendendo a soggetto una qualsiasi particella dell’essere, davano la sensazione di avere tra le mani il mondo palpitante di vita. Adesso il mondo si restringe su immensi pannelli alla povertà di alcuni frammenti.
Osserviamo la celebre Barbara di bronzo di Jacques Lipchitz. Non ha epidermide, quello che si vede corrisponde ad un volto ma non gli somiglia affatto. Lo scultore si è immedesimato in Barbara e trasmette sensazioni interne. Trasferisce in immagine visiva l’impressione cenestesica. Il groviglio di fili, di nodi, di sporgenze e di vuoti deve rivelarci le sensazioni di Barbara che avanza verso di noi. La sua interiorità viene tradotta senza alcuna analogia con la natura consueta. È un’arte cerebrale, che non cerca un senso, o il mistero del destino, ma la funzione, il rapporto, la dipendenza. Così lo scultore Henry Moore si occupa della proiezione di una sostanza in un’altra e si chiede cosa diventa il corpo umano costruito con la pietra. Simile è anche la pittura intra-atomica o la mistica corpuscolare di Salvador Dalì o di Francis Picabia.
L’arte non figurativa, informale, astratta, col negare ogni oggetto concreto sopprime qualsiasi supporto ontologico. Non è una mela rossa ma il rosso in sé, una macchia colorata nella quale l’artista proietta un significato comprensibile a lui soltanto.
Schopenauer diceva che tutte le arti contengono una tendenza segreta verso la “musicalità”. Ebbene, tra le arti, la musica è la sola a non presentare alcuna imitazione delle forme di questo mondo. Malgrado, o forse grazie a questa assenza, Kandinskij, Malevič, Kupka, Mondrian seguono l’auspicio di Mallarmé: “prendere in prestito dalla musica le sue leggi e i suoi poteri”. Violoncellista dotato, Kandinskij chiama i suoi abbozzi “improvvisazioni” e le sue opere finite “composizioni”. Kupka disegna “Fuga in due colori” e “Cromatismo caldo”. Paul Klee, musicista e compositore, nella sua pittura cerca metamorfosi in perenni germinazioni liriche o esplosive. Mentre il musicista Scriabine parlava della “sinfonia della luce” e di suoni suscitanti associazioni di colori. Survage, Béothy, Cahn, Valensi realizzano questo sogno su pellicole cinematografiche e fanno sperimentazioni su “ritmi colorati”, Richter arriva persino a fare film astratti.
La “musica concreta” elimina la melodia, l’armonia, il contrappunto. Mentre secondo Mozart l’essenza della melodia precede la sua differenziazione in parti, la frammentazione passa alla giustapposizione delle sonorità isolate, alla discontinuità del genere di Stravinskij, infine alla vibrazione pura e al caos dei rumori liberati. È sintomatico che Boris Bilinskij, nelle sue ricerche della “continuità delle forme e dei colori senza soggetto” illustra giustamente Débussy e Ravel presso i quali appare già un mosaico musicale, un susseguirsi di pezzi senza necessità di un legame organico.
Il pittore Tchourlandsky (prima di finire la sua vita in una casa di cura) traduce con i suoi “quadri-sonate” senza soggetto la sua “sensibilità musicale del mondo”. Malevič ha sentito in lui una mistica della notte dove il mondo si ricrea come potrebbe esserlo. È la “mezzanotte” mallarmiana e la sua “goccia di nulla”. Creatore del “suprematismo”, Malevič cerca l’intensità suprema dell’“assenza”. Lo spazio liberato da ogni trama diviene un “contenitore senza dimensioni”, senza componenti spaziali, una forma a priori pura senza soggetto né oggetto. In lui la diagonale traduce l’idea del movimento nella vacuità. È una astrazione depurata all’estremo che trova il suo segno in un quadrato nero su fondo bianco. Scrive «Die Gegen standlose Welt», “Il mondo della non-rappresentazione” e parla del mondo dell’idealità pura spogliata di qualunque realtà rappresentabile. Franz Kupka, studia teologia, impara l’ebraico per leggere la Bibbia e fa il medium in sedute spiritiche. Orfista, dipinge la “Fuga in rosso e blu” e trasferisce le sue esperienze metafisiche servendosi di segni geometrici e di un’affettività astratta. Il mondo cerebrale e ideale viene opposto violentemente al mondo reale e percepito. I piani verticali respingono il peso dello spazio.
In tutti questi artisti, la pittura “non-figurativa” conosce solo proporzioni e rapporti costruttivi, una ritmica dei piani colorati pura, linee discorsive e valori plastici.
Kandinskij ha descritto questo misticismo esangue nel libro, filosoficamente assai debole, intitolato “Sullo spiritualismo nell’arte”. Mondrian, calvinista olandese, membro della “Società di Teologia”, cerca il trascendentale nello stretto rapporto delle linee che si incontrano all’angolo destro. In P. Klee si sente, più che negli altri, la sete di penetrare la sfera primordiale, il “tohû wà bohù”, l’abisso senza forma né contenuto di cui parla la Bibbia all’inizio, la potenzialità pura e ideale. Egli pensa che gli artisti eletti scendano sino a quel luogo segreto dove le potenze primordiali alimentano ogni possibile evoluzione. Per Klee, la forma attuale non è il solo mondo possibile. Si indovina la tentazione demiurgica di intuire e di immaginare un cosmo diverso da quello che Dio ha creato. Alla stessa stregua il surrealismo del tipo di André Breton, di Max Ernst, di Picabia, forza le porte dell’irrazionale con “disorientamenti sistematici” e la curiosità stimolata cerca il nocciolo segreto delle cose – “Ding an sich” – nell’astrazione delle cose stesse. Ebbene, San Gregorio di Nazanzio avverte: “Maledizione all’intelligenza che ha guardato con occhio subdolo i misteri di Dio”[3].
Per Iavlenskij, amico di Kandiskij, l’arte esprime “la nostalgia di Dio”. La diagonale di Malevič o il movimento delle linee che si intersecano all’angolo destro, si fermano davanti al quadrato, secondo Mondrian, segno geometrico ideale dell’Assoluto. Nei grandi fondatori dell’arte astratta, il desiderio di penetrare dietro il velo del mondo reale è visibilmente di natura “teosofica”, occulta. “Allo stadio superiore – scrive P. Klee – c’è il mistero”. Una nuova era della conoscenza di Dio? Può darsi, ma essa si colloca fuori dal Dio incarnato, è una conoscenza dell’ideale e astratta deità fuori dal Soggetto divino…
Più inquietanti sono le forme dell’“esistenzialismo artistico”. L’inconscio sogna lo spazio curvo e la quarta dimensione. Ma la natura potrebbe pure vendicarsi ingannando la curiosità degli uomini. L’immaginazione inebriata delle sue illimitate potenzialità introduce l’allucinazione e il delirio per giungere all’arte grezza di Dubuffet, all’arte primitiva dei malati mentali, agli “incubi mistici” di Hernandez, al bestiario di Kopac, ai “costruttori chimerici” di Giraud, al primitivismo assoluto. Ricordiamo le parole di André Gide: “l’Arte nasce da costrizioni e muore di libertà”. La violenza sessuale ossessiona pittori come Goetz e Ossorio, o scultori come Pevsner, Arp, Stahly, Etienne Martin. Accanto ai “collages” e alla scrittura automatica, l’illogismo di Max Ernst o di Dalì sposa la precisione fotografica degli oggetti con il cambiamento della loro funzione, per esempio “l’orologio liquido”. In Pollok e in tutta la scuola americana Action Painting l’automatismo della velocità ha come scopo quello di escludere la coscienza. I colori vengono gettati sulla tela senza toccarla per evitare qualsiasi intenzione, anche non cosciente.
Georges Mathieu disegna in stato di trance, su una pedana, col suono della musica concreta. Un’immensa tela – 10 x 2 – viene coperta nello spazio di un’ora. Si bucano i tubetti, ne escono fuori i colori che si proiettano, per così dire, da soli, conformi all’ambiente magico di trance. Alla fine, l’artista giace in uno stato completo di prostrazione. La spontaneità impulsiva delle viscere sfiora il caos pre-cosciente. Gli ultimi grandi pannelli di Bernard Buffet, per via di una profanazione voluta, sono i più sintomatici. Il loro unico soggetto mostra uccelli mostruosi che, con sguardo di una immobilità cadaverica, calpestano un corpo di donna, nudo. Tutti veli, anche anatomici, vengono strappati e le posture, ben studiate, giungono alla profanazione massima ed oscena del mistero dell’essere umano. Davanti a questi pannelli, con il loro odore specifico di putrefazione, viene alla memoria un passo della “Scala” di San Giovanni Climaco: “avendo visto la bellezza femminile ha pianto di gioia ed ha lodato il Creatore… Un uomo siffatto è già risuscitato prima della Resurrezione di tutti”.
Se si vuole immaginare la decorazione murale dell’inferno, oggi un certo tipo di arte risponde alla bisogna. Il biblico “Astuto”, che Lutero traduce con “colui che arriccia il naso”, ha ridotto la sua esistenza all’amara professione di burlarsi dell’essere. Lo si può fare anche in buona coscienza e gusto, da artista, in modo impercettibile per sé e per gli altri. Si tratta di una resistenza “all’immagine e somiglianza di Dio”, ancor di più, al Dio “Filantropo” che tesse con la sua luce il suo volto umano. L’arte astratta, per sua natura, non contiene nulla in sé per conoscere “la Parola che si è fatta carne”. Cosa può dire sull’Eucarestia, sulla trasfigurazione del corpo, sulla resurrezione della carne? Una luce taborica senza Cristo, la luminosità dei santi senza i santi, sono raggio prigioniero di uno specchio magico, segno infernale di non pienezza.

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Tra i vari e possibili approcci filosofici, la concezione sofiologica è quella più idonea a definire la natura dell’arte astratta. Secondo questa dottrina, il suo fondamento “ideale”, nel senso platonico del termine, si trova nella sua espressione più classica, ben più in profondità dell’aspetto fenomenale, mobile e cangiante dell’essere. Esso è costituito da principi ideali, normativi, che vengono pure chiamati i “logoi” delle cose e degli esseri. Questo mondo ideale, che esiste al di sopra della forma temporale e spaziale dell’essere a cui dà una struttura e che permea, viene chiamato Sofia (Sapienza) creata. Creata e terrena, essa è a immagine della Sofia celeste e non creata la quale, secondo l’insegnamento patristico, raccoglie le idee di Dio, il suo volere creatore sul mondo. Le due Sofie sono radicalmente separate senza possibilità di confusione. La realtà ideale, creata, ontologicamente non separabile dalle cose, condiziona e struttura l’unità concreta del mondo e lega il molteplice in cosmo.
Ogni conoscenza consiste nel risalire dalle cose empiriche allo loro struttura intelligibile ed a cogliere la loro unità. La presenza dell’ideale in una forma sensibile, la loro armonia, condizionano l’aspetto estetico dell’essere che ogni artista legge e commenta. Ebbene, grazie alla libertà del suo spirito, l’uomo può trasgredire le regole, può anche invertire i rapporti. Proprio perché la sua libertà è massima nella sfera estetica la Bellezza colpisce il cuore umano senza un necessario legame con il Bene e con la Verità.
Cercando l’infinito, l’eroe umano può fermarsi alla Sofia creata, identificarla con Dio, divinizzare la natura. Ben oltre, in questa identificazione luciferina, può anche ritenersi la fonte dell’esplosione cosmica, ritenersi l’Infinito facendo a meno di Dio.
Il lato ideale, intelligibile esiste solo per fondare e unire il mondo visibile. Fuori dalla sua “biosfera di incarnazione”, l’ideale non ha né senso, né fine, né ragione di esistere. L’arte giustamente è un sistema di espressioni, una lingua particolare i cui elementi si collegano alla Sofia e la esprimono proprio come le parole esprimono il pensiero. Contrariamente ai segni convenzionali, le espressioni artistiche offrono il loro contenuto come un messaggio segreto. Rispetto all’icona, esse si possono accostare tutt’al più ai simboli religiosi, luogo in cui il simbolico è sempre presente. In greco le parole che indicano il diavolo e il simbolo hanno la stessa radice, ma il diavolo separa ciò che il simbolo unisce. Un simbolo è il ponte che lega il visibile all’invisibile, il terrestre al celeste, l’empirico all’ideale e veicola l’uno verso l’altro.
Gli iconoclasti credevano molto correttamente ai simboli, ma a causa della loro concezione “ritrattistica” dell’arte (imitazione, copia), negavano all’icona il carattere simbolico e di conseguenza non credevano alla presenza del Modello nell’immagine. Essi non arrivavano a cogliere che accanto alla rappresentazione visibile di una realtà visibile (copia, ritratto), esiste un’arte completamente diversa, nella quale l’immagine presenta il “visibile dell’invisibile”, e che si rivela come simbolo autentico. Essi avrebbero accettato più volentieri l’arte astratta con la sua raffigurazione geometrica, per esempio la croce che non portasse il crocifisso. Ma, la somiglianza iconica contrasta radicalmente con tutto ciò che è ritratto e si collega solamente all’ipostasi (la persona) e al suo corpo celeste. Per questo motivo è impossibile l’icona di un vivente e qualsiasi ricerca di somiglianza carnale, terrestre, viene esclusa. Nell’iconosofia, l’ipostasi “inipostatizza”, rende propria, non una sostanza cosmica (tavola di legno, colore), ma la somiglianza in sé, la forma ideale, la figura celeste dell’ipostasi viene ad assumere il corpo trasfigurato rappresentato nell’icona.
Il Pleroma verso cui tutto protende attualizzerà la sintesi escatologica “del terrestre e del celeste” (I Corinti 15, 42-49). L’arte anticipa profeticamente. Attraverso l’imperfezione attuale, essa profila la perfezione, racconta il mistero dell’essere. Ma se lascia la “biosfera dell’incarnazione” cambia natura e, quando coscientemente rifiuta ogni somiglianza, s’inabissa nell’astratto.
Sappiamo che la filosofia matematica cerca il pensiero puro spogliato di qualsivoglia forma antropomorfica. La scienza affronta sempre di più nozioni che superano la capacità umana di comprensione. L’arte astratta si oppone violentemente all’arte figurativa: “Giuro alla Natura che mai più la rappresenterò” dichiara Kupka. Certamente la cosa senza contenuto sofiologico è piatta ed assurda come le tele di Fougeron e quelle del “realismo socialista”. Ma l’ideale senza la cosa è cieco ed insignificante. È come se l’arte si esercitasse su entelechie di Aristotele che avrebbero perduto il luogo della loro attualizzazione.
Dal punto di vista sofiologico è evidente che l’arte astratta (ab-trahere, tirare, estrarre dal reale) si esercita sulla Sofia dissacrata, deviata dalla sua destinazione, sconvolta nella sua stessa essenza, nel suo rapporto con il reale, fatto che la priva del suo fine e la rende indecifrabile poiché la Sofia ha perduto il suo corpo. Da quel momento, è una falsa magia dell’istante. Dei fantasmi possono sempre offrire un godimento estetico. Ossessionano le vestigia del mondo frammentato ma non offrono che un assai magro interesse. Kandiskij o Paul Klee possono toccare una grande musicalità sol perché sono dotati di genio, ma l’uomo che osserva queste opere non è mai accolto in questo mondo devastato di qualunque presenza e volto. L’occhio può ascoltare le voci del silenzio, l’assenza colorata non fa che distrarre e alla fine stancare. Si può entrare in comunione, accennare ad un gesto di tenerezza per una di quelle donne dipinte da Picasso e definite dal P. Sergio Bulgakov “cadaveri della bellezza”, si può provare desiderio di pregare davanti al quadrato di Malevič? L’arte astratta si esercita sull’arcobaleno estrapolato dal suo contesto cosmico. Si può ammirare il suo spettro solare, analizzarlo e variare all’infinito i suoi colori, ma esso non unisce più il cielo alla terra, non dice nulla di essenziale all’uomo. Ma l’arcobaleno non è un gioco di colori né un oggetto estetico; secondo la Bibbia è il grande simbolo dell’alleanza tra Dio e l’uomo. Nell’iconografia, l’arcobaleno regge il corpo di Cristo Pantocratore nel momento della sua gloriosa venuta. L’astrazione recide le vibrazioni luminose della loro fonte, dell’Oriente liturgico. Cosa può rivelare all’uomo orante che si prosterna davanti al lampo folgorante del volto divino e che dice: “Nella luce conosceremo ogni luce…”. Bello non è solo ciò che piace; più di una festa per gli occhi, esso nutre lo spirito e l’illumina.
Le esposizioni mostrano che le forme moderne non sopravvivono. Più la forma è vuota di contenuto sensato più è illimitata nelle sue combinazioni, nei suoi “come”; ma, dal momento in cui viene chiamata a dire “cosa”, a rivelare una “quiddità”, una soltanto coincide con il suo contenuto: che l’illimitato delle espressioni corrisponde al limitato dell’anima. Di contro, l’illimitato divino assume la sola ed unica espressione dell’Incarnazione: “Certo, per Tua natura, sei illimitato, Signore, ma hai voluto limitarti sotto il velo della carne”. Dio è presente nell’unico volto di Cristo, e con Lui tutto l’umano. La ieraticità dei santi, la loro immobilità iconografica quasi rigida, questa limitazione esteriore della forma svela l’illimitatezza del loro spirito. Dalla loro posizione frontale, senza alcun artifizio, il loro sguardo, ci brucia senza consumarci, come il roveto ardente.

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Nel suo valore intrinseco di simbolo, l’icona va oltre l’arte, ma anche la spiega. Noi possiamo ammirare senza riserve le opere dei grandi Maestri di ogni secolo e farne la vetta dell’Arte. Come la Bibbia si colloca al di sopra della letteratura e della poesia universali, l’Icona si discosta un po’. Salvo alcune eccezioni, l’arte “tout court” sarà formalmente sempre più perfetta dell’arte degli iconografi perché quest’ultima, giustamente, non cerca quella perfezione. Il solo eccesso nocerebbe all’icona, rischierebbe di distogliere lo sguardo interno dalla rivelazione del mistero, come una poesia eccessiva e ricercata nocerebbe alla potenza della parola biblica. La bellezza di una icona consiste in un equilibrio gerarchico estremamente esigente. Entro un certo limite e immediatamente, altro non è che un semplice disegno; al di là e secondo il genio contemplativo dell’iconografo, l’icona stessa impone e irradia l’intrinseca bellezza conforme al soggetto.
Espressiva, l’arte può esprimere contenuti diversi. Libera, può coincidere con l’icona – come una tela di Rembrandt – o allontanarsi da ogni contenuto religioso; al limite, può passare alla funzione puramente segnica o divenire soltanto oggetto estetico, arte per arte, decorazione, pesino può cambiare la sua funzione e cessare di essere arte.
La grande arte figurativa ci offre la visione trasfigurante dei Maestri, coglie la Sofia terrestre nell’armonia dei suoi due aspetti, reale e ideale, la canta e costruisce il Tempio sofianico. Ma questo, per diventare carne trasfigurata, teofanica, deve aprirsi coscientemente, con la fede e la santità dell’uomo alla luce divina, alla Saggezza non creata. La Sofia creata non è che l’ambiguo specchio della Gloria, offuscato dalla caduta, e per questo l’arte stessa rimane profondamente ambigua. Per incontrare la Bellezza faccia a faccia, per arrivare a toccare lo splendore energetico della grazia, occorre varcare le porte segrete del Tempio mediante una trascendenza, un superamento del sensibile e dell’intelligibile: è l’Icona. Non è più l’invocazione ma la Parusia, la Bellezza viene incontro al nostro spirito non per rapirlo ma per aprirlo alla vicinanza ardente del Dio personale. È la discesa della Saggezza celeste che fa della Sofia terrestre il suo ricettacolo splendente, il Roveto ardente. L’arte dell’icona non è autonoma, è inclusa nel Mistero liturgico e sfavilla di presenze sacramentali, fa propria una certa astrazione. Nella sua libertà di composizione, dispone a piacimento gli elementi di questo mondo nella sottomissione totale allo spirituale. Può rappresentare la Vergine dalle tre braccia, far camminare un martire mentre tiene la sua testa tra le mani, dare i tratti di un cane ad uno perduto in Cristo, mettere il cranio di Adamo ai piedi della Croce, personificare il cosmo sotto le sembianze di un vecchio re ed il Giordano in quelle di un peccatore, rovesciare la prospettiva e fare culminare in un solo punto tutti i tempi e tutti gli spazi. Qui la luce è più dell’oggetto, serve da materia colorante per l’icona, la rende luminescente in sé, rendendo inutile ogni sorgente luminosa, come nella Città dell’Apocalisse.
Senza poter provarlo, è evidente che l’arte astratta ha origine nell’iconografia, negli arabeschi musulmani, nel trascendentale. Cogliere questa corrispondenza iniziale, è come riaccendere la cattiva coscienza reciproca. Certo, la bellezza è stata universalmente prostituita e la contemplazione dissacrata.
L’accademismo dell’arte, così come l’accademismo della teologia e della predicazione, l’accademismo della vita cristiana hanno suscitato una giusta rivolta ed una ricerca appassionata e assai tragica del vero. Ma, ogni rivolta contiene in sé la propria trascendenza, l’inferno non esiste se non per la luce che splende nelle tenebre; la speranza del contrario, la dialettica stessa della metanoia infernale costituisce la punta avanzata del segreto soffrire. L’immensa impresa di demolizione inerente l’arte astratta è una forma di ascetismo, di purificazione, di aerazione che dobbiamo ammettere con timoroso rispetto. Risponde alla purezza dell’anima, alla nostalgia dell’innocenza perduta, al desiderio di trovare almeno un raggio o una scintilla di colore che non sia sporcata da una figura complice ed equivoca di quaggiù. Nella maggiore profondità delle aspirazioni, il rifiuto delle forme di questo mondo non è l’esigenza imperiosa del “completamente diverso”. Grida l’impossibilità di vivere da artista in un mondo ateo e chiuso, di esercitarsi sulle “nature morte” che non sono più materia di resurrezione. Per questo l’arte moderna è significativa. Ha portato la liberazione da ogni pregiudizio, ha soppresso gli ornamenti e gli accessori, ha demolito gli orrori dell’accademismo degli ultimi secoli, ha ucciso il cattivo gusto del XIX secolo e, in questo, è rinfrescante. La forma esterna viene disfatta. Ma a questo livello nessuna evoluzione è più possibile, la chiave delle corrispondenze segrete è perduta, la rottura tra il sacro trascendente divino e il religioso immanente umano diviene così radicale che non si può più semplicemente passare da un piano ad un altro. L’accesso alla forma interna, “sofianica” e uraniana, la contemplazione per trasparenza dell’invisibile nel visibile è sbarrata dall’angelo con la spada fiammeggiante. Alla luce delle ultime realizzazioni, solo il battesimo di fuoco può fare risuscitare l’arte[4].
La battuta di arresto dell’iconografia, nel suo stesso slancio, a partire dal XVII secolo, ha una schiacciante responsabilità per il destino dell’arte moderna. Con la sua “impasse”, quest’arte esprime l’attesa disperata di un miracolo. Ma, come ogni miracolo, questo è imprevedibile nella forma. Forse sarà nello sguardo virginale di un santo: in una manciata di humus, egli vedrà la traccia folgorante dello Spirito che, tanto tempo fa, da questa terra umida, scolpì il volto del primo uomo affinché accogliesse la luce dello sguardo divino.
Più che mai l’iconosofia moderna è chiamata a ritrovare la potenza creatrice degli antichi iconografi e ad uscire dall’immobilismo dell’arte dei “copisti”. Se il mondo ha perduto ogni stile quale espressione dell’universale umano e della comunione spirituale delle anime, l’immagine di Dio oggi impone il suo per interpretare alla sua luce il nostro tempo. Fedele alle sue origini, ma briciola dell’eone pentecostale, l’icona saprà chiudere il cerchio sacro sull’evangelo della Parusia e del volto umano di Dio trino? Oggi più di ieri la liturgia ci insegna che l’arte si deteriora non perché è figlia del suo tempo, ma perché è refrattaria alle sue funzioni sacerdotali: rendere l’arte teofanica, mettere l’icona, l’Angelo della Presenza, nel cuore delle speranze ingannate e sepolte. In “abito variopinto” di tutti i colori, Bellezza sofianica della Chiesa, il suo volto è umano: Donna vestita di sole, “gioia di tutte le gioie”, “colei che combatte ogni tristezza” e sfavilla di tenerezza indefettibile.

Traduzione dal Francese del prof. G. M., Palermo, agosto 2006.

ICONOGRAFIA SACRA

http://www.deartesacra.altervista.org/iconografia%20sacra.htm

ICONOGRAFIA SACRA

Figlio dell’ebraismo, il quale vieta per decreto divino le immagini di culto, immerso nel mondo pagano politeista, che delle immagini di culto fa al contrario un uso massiccio, il cristianesimo nascente si trova nella difficile ricerca di un’espressione artistica che dia voce alla propria identità.
E’ risaputo che anche le sinagoghe dell’antichità fossero decorate con scene tratte dalle Scritture, ma tali pitture non costituiscono immagini di devozione o culto, quanto piuttosto un’illustrazione del testo sacro. Alla stessa maniera possono essere interpretate le immagini che decorano le catacombe in cui venivano sepolti anche i cristiani, uniche testimonianze pervenuteci dell’arte cristiana dei primi secoli. Sia nei sarcofagi che sulle pareti, troviamo sempre scene accostate senza coerenza storica, ma riunite dall’unico messaggio che gli eventi rappresentati sottendono: la salvezza, la redenzione, la speranza nell’al-di-là. Si tratta dunque di rappresentazioni profondamente evocative, che rimandano a idee che le trascendono.
Qui si intravede, in nuce, il modo in cui il cristianesimo affronterà il suo rapporto con l’arte. Il solo modo, infatti, per poter accettare un’arte figurativa e di culto, fu quello di fare dell’immagine un ponte fra la realtà sensibile e quella spirituale, approfondendo in senso simbolico la forma concettuale dell’arte paleocristiana. Intendo dire: le immagini delle catacombe rimandano a idee, a concetti astratti, per quanto basilari alla fede, e perdono pertanto il loro ruolo di destinazione finale per diventare un semplice veicolo, un mezzo di comunicazione; il passo successivo sarà quello di rafforzare questo aspetto, facendo perdere ancor più alle rappresentazioni la loro credibilità naturalistica-illusionistica (propria del classicismo greco-romano) per farne un puro simbolo, un rimando visibile verso l’Invisibile. In questo caso, la destinazione finale non è più un’idea, ma il mondo dello Spirito, di cui questo mondo è pallido riflesso.
La nascita dell’arte sacra cristiana non è stata lineare. Un’interpretazione letterale dell’antico Testamento e, successivamente, l’affermarsi dell’Islamismo, hanno fatto nascere in seno alla Chiesa dissensi e movimenti di reazione alla diffusione delle immagini. Da sporadici episodi essi culminarono in una vera guerra civile, chiamata Iconoclastia, che per circa un secolo ha coinvolto la parte orientale dell’Impero, cancellando ogni testimonianza dell’arte cristiana creata fino a quel momento. Essa, tuttavia, ha avuto il positivo effetto di far elaborare, da parte dei Padri della chiesa greca e dei teologi dell’epoca, una giustificazione dottrinale sull’uso delle immagini di culto, valida per tutta la Chiesa.
In occidente non arrivò che l’eco malcompreso delle dispute teologiche, e ciò portò a perplessità e dubbi sulla venerazione delle icone, specie portatili, le quali non hanno avuto, nell’alto medioevo, una diffusione paragonabile a quella dell’Impero bizantino. La pittura monumentale ha conosciuto, invece, un successo ininterrotto, in virtù delle parole di Papa Gregorio Magno che permettevano un uso moderato e meno equivocabile delle rappresentazioni. Non per questo furono assenti immagini di culto singole. Imponenti crocefissi, scolpiti o dipinti, ieratiche statue della Vergine in trono o di Santi furono spesso oggetto di intensa venerazione, giustificata o catalizzata spesso dalle reliquie di cui si facevano contenitori.
Solo con il basso medioevo si diffuse la pittura su tavola, anche di dimensioni domestiche. Le crociate, gli scambi commerciali nel Mediterraneo, hanno fatto conoscere la pittura greca in modo diretto e provocato una « bizantinizzazione » della pittura italiana, rinnovando il repertorio figurativo romanico. Solo in questo momento si può parlare di un approccio all’arte sacra paragonabile a quello della Chiesa orientale. Sia nella liturgia, sia nelle abitazioni, sia negli angoli delle strade, le immagini entrano nell’uso quotidiano ed anche la teologica della Scolastica, non estranea a influenze greche, si fece portavoce di un rapporto più intimo con le icone.
Così, anche successivamente alla svolta giottesca, al Rinascimento, al Barocco e fino a oggi, cioè anche dopo che l’arte cristiana d’occidente ha perso la sua connotazione tradizionale per riappropriarsi delle forme del naturalismo illusionistico, la nostra devozione ha trovato conforto e supporto nell’uso delle immagini. La venerazione che i nostri anziani hanno per le statue e i santini non è in fondo diversa da quella che ha un russo o un greco verso le icone.
Tuttavia, le nostre chiese contemporanee sono terribilmente vuote e spoglie di immagini. Sembra si sia innescato un processo sotterraneo di moderna iconoclastia, un fenomeno subliminale, giustificato spesso dalla volontà di esaltare la purezza delle linee architettoniche. Nemmeno l’immagine necessaria del Crocifisso trova la centralità e l’importanza che gli spetta. Ancor peggio, quando si trovano le immagini « sacre », spesso sono di un’aspetto straniante, giustificato come l’espressione della contemporaneità. Sembra, insomma, che ci sia una certa diffidenza nei confronti delle immagini, quasi che la società di oggi non abbia più bisogno di tali superstiziose pratiche, del tutto inibite da messaggi concettuali e forme disarticolate che negano la sacralità stessa della rappresentazione. Ci si dimentica, piuttosto, che la moltiplicazione e la diffusione delle effigi dei Santi sia del tutto benefica, poiché invoca la loro presenza, nella liturgia come nella realtà quotidiana, ci ricorda sempre che il Regno dei Cieli è vicino e che ad esso dobbiamo tendere. 

L’ARTE E IL MISTERO – Card. Gianfranco Ravasi

http://www.cultura.va/content/cultura/it/dipartimenti/arte-e-fede/testi-e-documenti/ravasiart/arte-e-mistero.html

L’ARTE E IL MISTERO

Card. Gianfranco Ravasi

La grande sfida dell’artista è quella di «carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità». Così, il 7 maggio 1964, Paolo VI nella Cappella Sistina si rivolgeva agli artisti da lui convocati per riprendere un dialogo, anzi, per ristabilire – come egli ribadiva – un’alleanza nuova tra l’ispirazione divina della fede e l’ispirazione creatrice dell’arte. Come confessava il grande pittore catalano Joan Miró, l’arte non ha il compito di descrivere il visibile, ma di cogliere nel visibile l’Invisibile. Anche un poeta, Jules Laforgue, nei suoi Complaintes, proclamava che «l’Arte è l’Inconnu, l’Ignoto, il Mistero». Si deve, invece, riconoscere che da tempo l’alleanza tra fede e arte si è infranta.
L’arte ha lasciato il tempio, ha relegato su uno scaffale polveroso le grandi narrazioni bibliche, i simboli, le figure, le parabole sacrali e si è avviata lungo le strade “laiche” della contemporaneità. Ha abbandonato la concezione secondo la quale l’opera artistica incarna una visione trascendente dell’essere, anzi, «crea un mondo» per usare le parole del filosofo Heidegger, e si è sostanzialmente dedicata a sperimentazioni di linguaggio, a complesse ricerche stilistiche, a elaborazioni autoreferenziali e persino a pure e semplici provocazioni. Queste vie non si protendono verso nessuna meta, a differenza di quei tentativi che il Novecento aveva esperito, apparentemente scardinando la grammatica estetica tradizionale, ma con l’attesa di una nuova epifania di bellezza e di mistero.
Tanto per fare un esempio, si pensi solo alla musica dodecafonica e ai suoi sorprendenti risultati, oppure all’arido taglio della tela operato da Lucio Fontana che si trasformava, però, in «uno spiraglio per intravedere l’Assoluto». Ora questo non accade più, perché si teme sempre che sia in agguato la dedizione funzionale e servile dell’arte a un messaggio, a una “verità”, a una “bellezza”. Il pittore Georges Braque in modo folgorante affermava nel suo saggio Il giorno e la notte che «l’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura». Ora l’arte vuole ancora turbare, ma lo fa solo scandalizzando e provocando, non più inquietando le coscienze, le menti e i cuori, costringendoli ad affacciarsi sull’abisso dell’Infinito, dell’Oltre, dell’Altro.
Di fronte a questa divaricazione tra la fede (o più genericamente la trascendenza) e l’arte, divaricazione che non può essere colmata con il mero ricalco degli stili e delle espressioni di un passato glorioso, Benedetto XVI ha voluto riproporre – nelle attuali coordinate culturali lontane quasi un mezzo secolo da quelle del 1964 – un nuovo incontro con gli artisti, nella gamma variegata che tale termine comporta e che ora va oltre pittori, scultori, architetti, letterati, musicisti, comprendendo le nuovi arti come il cinema, il design, la video-art e così via. Il 21 novembre prossimo, nello stesso fondale della Sistina, che ammutolisce e incanta con la sua testimonianza di bellezza e di spiritualità suprema, il Papa intesserà un dialogo nella speranza che risorga «un’alleanza feconda», sulla scia anche di un’altra memoria particolare. Infatti, dieci anni fa, il giorno di Pasqua del 1999, Giovanni Paolo II indirizzava una sua Lettera agli artisti, «per confermare la sua stima e per contribuire al riannodarsi di una più proficua cooperazione tra l’arte e la Chiesa».
Noi adesso, in attesa di raccogliere le linee che Benedetto XVI vorrà suggerire lanciando quasi la prima battuta di un dialogo che avrà nei mesi e negli anni avvenire le risposte molteplici degli artisti, espresse anche e soprattutto attraverso le loro opere, vorremmo solo gettare uno sguardo simbolico, non certo esaustivo, sul passato che sta alle nostre spalle. Per usare le parole di un artista che ha testimoniato sempre questo incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, «i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia». Essa è stata, infatti, l’atlante iconografico per eccellenza, l’“immenso vocabolario” della cultura, come la definiva il poeta francese Paul Claudel. È significativa, perciò, la professione di principio che facevano i pittori senesi del Trecento nei loro Statuti d’arte: «Noi siamo manifestatori, agli uomini che non sanno lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede».
Era talmente stretto questo legame che già sei secoli prima, il cantore delle immagini della Chiesa d’Oriente, san Giovanni Damasceno, giungeva al punto di avanzare questa proposta: «Se un pagano viene e ti dice: Mostrami la tua fede!, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei quadri sacri». Questo incontro dell’arte con la liturgia e la spiritualità ha generato quello straordinario patrimonio che ha abbellito secoli e secoli di storia occidentale. Il famoso archeologo dell’Oriente cristiano, Guillaume de Jerphanion, aveva intitolato la sua trilogia sulle chiese rupestri della Cappadocia così: Voix des monuments. Sì, non solo quegli affreschi e quelle architetture mirabili, ma ogni espressione d’arte, di letteratura, di musica e persino di un certo cinema a noi vicino (si pensi a Bresson, Dreyer, Bergman, tanto per evocare una celebre triade) diventa voce che ci conduce «all’etterno dal tempo», per usare un’icastica formula dantesca (Paradiso XXXI, 38).
Certo, non sono mancate le cesure e le censure che hanno spezzato quel legame e hanno sostituito il silenzio a quelle voci. Il pensiero corre all’iconoclasmo dell’VIII secolo in Oriente o alla reticenza “ascetica” della Riforma protestante, che stenderà onde bianche aniconiche sulle pareti delle chiese ma che, per fortuna, farà subentrare la straordinaria potenza creatrice della musica (Bach è un nome che riassume tutti gli altri, pure grandi). Si può intravedere questo sospetto nei confronti dell’arte anche in una certa teologia, timorosa di derive “idolatriche”. D’altronde, è ben noto il monito biblico del Decalogo a «non farsi immagine alcuna» di Dio (Esodo 20,4), così da evitare la prostrazione davanti al vitello d’oro, materializzazione del divino. Questa catarsi dal materialismo e dal realismo sacrale è necessaria. Ma si è andati oltre. Teologia e teologi si sono non di rado votati esclusivamente alla sistematica speculativa, spazzando via segni e simboli, considerati come una nebbia rispetto al cielo cristallino del pensiero e della logica formale.
In realtà, il linguaggio simbolico tiene compatta in sé la verità e la sua espressione. È significativo che un teologo del rilievo di Marie-Dominique Chenu ribadisse, nella sua Teologia del XII secolo, la necessità di riservare attenzione alle opere artistiche, sia letterarie, sia plastiche, sia figurative, perché esse non sono «soltanto illustrazioni estetiche, ma dei veri “luoghi” teologici». Alla radice di questo c’è il cuore stesso del messaggio cristiano, l’Incarnazione. Essa, infatti, rende visibile Dio che in Cristo – come afferma san Paolo – ha la sua eikôn, la sua “icona-immagine” perfetta (Colossesi 1,15). Anzi, la Genesi riconosceva nella stessa umanità l’«immagine e la somiglianza divina» (1, 26-27). Il monaco e teologo Teodoro Studita (VIII-IX sec.) non esitava, seguendo la logica dell’Incarnazione, a giungere al paradosso per cui, «se l’arte non potesse rappresentare Cristo, vorrebbe dire che il Verbo non si è incarnato».
E Dionigi l’Areopagita, pseudonimo di un originale teologo del V-VI secolo, riconoscendo che in Gesù Cristo si ha «il visibile dell’Invisibile», preparava in un certo senso l’analogia dell’arte così come la concepirà Miró nella frase che abbiamo sopra citato. Alla luce di quanto si è detto, si comprendono, allora, le parole della Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II: «In un certo senso, l’icona è un sacramento: analogamente, infatti, a quanto avviene nei sacramenti, essa rende presente il mistero dell’Incarnazione. Proprio per questo la bellezza dell’icona può essere soprattutto gustata all’interno di un tempio con lampade che ardono e suscitano nella penombra infiniti riflessi di luce». Tra l’altro, questo è quanto osservava il grande cultore delle icone, oltre che teologo e scienziato, Pavel Florenskij, quando ricordava il nesso tra icona e culto: «Il loro oro barbaro, pesante, futile nella luce del giorno, si ravviva con la luce tremolante di una lampada o di una candela, poiché sfavilla di miriadi di scintille, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste».
Ritorniamo, così, al punto di partenza del nostro discorso, cioè alla convinzione della possibilità, o meglio, della necessità dell’incontro tra l’artista e la trascendenza, tra la bellezza e la fede, strutturalmente legate tra loro da una consonanza naturale, perché tese a esprimere il senso ultimo dell’essere, a svelare l’epifania del mistero, a conquistare l’infinito e l’eterno, a varcare il velo della superficie per intuire il segreto ultimo della realtà. “Estetica”, infatti, deriva dal greco aisthesis che è la “percezione”: ecco, è discernere il lato spirituale di ogni atto sensibile, è decifrare il “senso spirituale” che si cela in ogni gesto, evento, realtà che vengono percepiti ed espressi “sensibilmente”. È ciò che lo scrittore Hermann Hesse delineava in modo esplicito nel suo saggio su Klein e Wagner, ricorrendo a questa definizione: «Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio».

IL SENTIMENTO DELLE COSE, LA CONTEMPLAZIONE DELLA BELLEZZA – JOSEPH RATZINGERm 2002

http://www.ratzinger.us/modules.php?name=News&file=article&sid=229

2002: IL SENTIMENTO DELLE COSE, LA CONTEMPLAZIONE DELLA BELLEZZA|

MESSAGGIO DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER PER IL MEETING 2002.

Ogni anno, nella Liturgia delle Ore del Tempo di Quaresima, torna a colpirmi un paradosso che si trova nei Vespri del lunedì della seconda settimana del Salterio. Qui, l’una accanto all’altra, ci sono due antifone, una per il tempo di Quaresima, l’altra per la Settimana Santa. Entrambe introducono il Salmo 44, ma ne anticipano una chiave interpretativa del tutto contrapposta. E’ il Salmo che descrive le nozze del Re, la sua bellezza, le sue virtù, la sua missione, e poi si trasforma in un’esaltazione della sposa. Nel Tempo di Quaresima il salmo ha per cornice la stessa antifona che viene utilizzata per tutto il restante periodo dell’anno. E’ il terzo verso del salmo che recita: « Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia ». E’ chiaro che la Chiesa legge questo salmo come rappresentazione poetico-profetica del rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa. Riconosce Cristo come il più bello tra gli uomini; la grazia diffusa sulle sue labbra indica la bellezza interiore della Sua parola, la gloria del Suo annuncio. Così, non è semplicemente la bellezza esteriore dell’apparizione del Redentore ad essere glorificata: in Lui appare piuttosto la bellezza della Verità, la bellezza di Dio stesso che ci attira a sé e allo stesso tempo ci procura la ferita dell’Amore, la santa passione (eros) che ci fa andare incontro, insieme alla e nella Chiesa Sposa, all’Amore che ci chiama. Ma il mercoledì della Settimana Santa la Chiesa cambia l’antifona e ci invita a leggere il Salmo alla luce di Is. 53,2: « Non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore ». Come si concilia ciò? Il « più bello tra gli uomini » è misero d’aspetto tanto che non lo si vuol guardare. Pilato lo presenta alla folla dicendo:- « Ecce homo » onde suscitare pietà per l’Uomo sconvolto e percosso al quale non è rimasta alcuna bellezza esteriore. Agostino, che nella sua giovinezza scrisse un libro sul bello e sul conveniente e che apprezzava la bellezza nelle parole, nella musica, nelle arti figurative, percepì assai fortemente questo paradosso e si rese conto che in questo passo la grande filosofia greca del bello non veniva semplicemente rigettata, ma piuttosto messa drammaticamente in discussione: che cosa sia bello, che cosa la bellezza significhi avrebbe dovuto essere nuovamente discusso e sperimentato. Riferendosi al paradosso contenuto in questi testi egli parlava di « due trombe » che suonano in contrapposizione e pur tuttavia ricevono i loro suoni dal medesimo soffio, dallo stesso Spirito. Egli sapeva che il paradosso è una contrapposizione, ma non una contraddizione. Entrambe le citazioni provengono dallo stesso Spirito che ispira tutta la Scrittura, il quale però suona in essa con note differenti e, proprio in questo modo, ci pone di fronte alla totalità della vera bellezza, della verità stessa. Dal testo di Isaia scaturisce innanzitutto la questione, di cui si sono occupati i Padri della Chiesa, se Cristo fosse dunque bello oppure no. Qui si cela la questione più radicale se la bellezza sia vera, oppure se non sia piuttosto la bruttezza a condurci alla profonda verità del reale. Chi crede in Dio, nel Dio che si è manifestato proprio nelle sembianze alterate di Cristo crocifisso come amore « sino alla fine » (Gv 13,1) sa che la bellezza è verità e che la verità è bellezza, ma nel Cristo sofferente egli apprende anche che la bellezza della verità comprende offesa, dolore e, sì, anche l’oscuro mistero della morte, e che essa può essere trovata solo nell’accettazione del dolore, e non nell’ignorarlo.
Una prima consapevolezza del fatto che la bellezza abbia a che fare anche con il dolore è senz’altro presente anche nel mondo greco. Pensiamo, per esempio, al Fedro di Platone. Platone considera l’incontro con la bellezza come quella scossa emotiva salutare che fa uscire l’uomo da se stesso, lo « entusiasma » attirandolo verso altro da sé. L’uomo, così dice Platone, ha perso la per lui concepita perfezione dell’origine. Ora egli è perennemente alla ricerca della forma primigenia risanatrice. Ricordo e nostalgia lo inducono alla ricerca, e la bellezza lo strappa fuori dall’accomodamento del quotidiano. Lo fa soffrire. Noi potremmo dire, in senso platonico, che lo strale della nostalgia colpisce l’uomo, lo ferisce e proprio in tal modo gli mette le ali, lo innalza verso l’alto. Nel discorso di Aristofane del Simposio si afferma che gli amanti non sanno ciò che veramente vogliono l’uno dall’altro. E’ al contrario evidente che le anime di entrambi sono assetate di qualcos’altro che non sia il piacere amoroso. Questo « altro » però l’anima non riesce a esprimerlo, « ha solamente una vaga percezione di ciò che veramente essa vuole e ne parla a se stessa come un enigma ». Nel XIV secolo, nel libro sulla vita di Cristo del teologo bizantino Nicolas Kabasilas si ritrova questa esperienza di Platone, nella quale l’oggetto ultimo della nostalgia continua a rimanere senza nome, trasformato dalla nuova esperienza cristiana. Kabasilas afferma: « Uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura, ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo sia consono aspirare, questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso; Egli stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale e l’intensità del desiderio lascia intuire Chi sia colui che ha scoccato il dardo ».
La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo. Ciò che afferma Platone e, più di 1500 anni dopo, Kabasilas non ha nulla a che fare con l’estetismo superficiale e con l’irrazionalismo, con la fuga dalla chiarezza e dall’importanza della ragione. Bellezza è conoscenza, certamente, una forma superiore di conoscenza poiché colpisce l’uomo con tutta la grandezza della verità. In ciò Kabasilas è rimasto interamente greco, in quanto egli pone la conoscenza all’inizio. « Origine dell’amore è la conoscenza – egli afferma – la conoscenza genera l’amore ». Occasionalmente –così prosegue – la conoscenza potrebbe essere talmente forte da sortire allo stesso tempo l’effetto di un filtro d’amore ». Egli non lascia questa affermazione in termini generali. Com’è caratteristico del suo pensiero rigoroso, egli distingue due tipi di conoscenza: la conoscenza attraverso l’istruzione che rimane conoscenza, per così dire, « di seconda mano » e non implica alcun contatto diretto con la realtà stessa. Il secondo tipo, al contrario, è conoscenza attraverso la propria esperienza, attraverso il rapporto con le cose. « Quindi, fintanto che noi non abbiamo fatto esperienza di un essere concreto, non amiamo l’oggetto così come esso dovrebbe essere amato ». La vera conoscenza è essere colpiti dal dardo della bellezza che ferisce l’uomo, essere toccati dalla realtà, « dalla personale presenza di Cristo stesso » come egli dice. L’essere colpiti e conquistati attraverso la bellezza di Cristo è conoscenza più reale e più profonda della mera deduzione razionale. Non dobbiamo certo sottovalutare il significato della riflessione teologica, del pensiero teologico esatto e rigoroso: esso rimane assolutamente necessario. Ma da qui, disdegnare o respingere il colpo provocato dalla corrispondenza del cuore nell’incontro con la bellezza come vera forma della conoscenza, ci impoverisce e inaridisce la fede, così come la teologia. Noi dobbiamo ritrovare questa forma di conoscenza, è un’esigenza pressante del nostro tempo.
A partire da questa concezione Hans Urs von Balthasar ha edificato il suo Opus magnum dell’Estetica teologica, della quale molti dettagli sono stati recepiti nel lavoro teologico, mentre la sua impostazione di fondo, che costituisce veramente l’elemento essenziale del tutto, non è stata affatto accolta. Questo non è beninteso semplicemente solo, o meglio, non è principalmente un problema della teologia, ma anche della pastorale che deve nuovamente favorire l’incontro dell’uomo con la bellezza della fede. Gli argomenti cadono così spesso nel vuoto perché nel nostro mondo troppe argomentazioni contrapposte concorrono le une con le altre, tanto che all’uomo viene spontaneo il pensiero che i teologi medievali avevano così formulato: la ragione « ha un naso di cera », ossia la si può indirizzare, se solo si è abbastanza abili, nelle più svariate direzioni. Tutto è così assennato, così convincente, di chi dobbiamo fidarci? L’incontro con la bellezza può diventare il colpo del dardo che ferisce l’anima ed in questo modo le apre gli occhi, tanto che ora l’anima, a partire dall’esperienza, ha dei criteri di giudizio ed è anche in grado di valutare correttamente gli argomenti. Resta per me un’ esperienza indimenticabile il concerto di Bach diretto da Leonard Bernstein a Monaco di Baviera dopo la precoce scomparsa di Karl Richter. Ero seduto accanto al vescovo evangelico Hanselmann. Quando l’ultima nota di una delle grandi Thomas-Kantor-Kantaten si spense trionfalmente, volgemmo lo sguardo spontaneamente l’uno all’altro e altrettanto spontaneamente ci dicemmo:- « Chi ha ascoltato questo, sa che la fede è vera ». In quella musica era percepibile una forza talmente straordinaria di realtà presente da rendersi conto, non più attraverso deduzioni, bensì attraverso l’urto del cuore, che ciò non poteva avere origine dal nulla, ma poteva nascere solo grazie alla forza della verità che si attualizza nell’ispirazione del compositore. E la stessa cosa non è forse evidente quando ci lasciamo commuovere dall’icona della Trinità di Rublëv? Nell’arte delle icone, come pure nelle grandi opere pittoriche occidentali del romanico e del gotico, l’esperienza descritta da Kabasilas, partendo dall’interiorità, si è resa visibile e partecipabile. Pavel Evdokimov ha indicato in maniera così pregnante quale percorso interiore l’icona presupponga. L’icona non è semplicemente la riproduzione di quanto è percepibile con i sensi, ma piuttosto presuppone, come egli afferma, un « digiuno della vista ». La percezione interiore deve liberarsi dalla mera impressione dei sensi ed in preghiera ed ascesi acquisire una nuova, più profonda capacità di vedere, compiere il passaggio da ciò che è meramente esteriore verso la profondità della realtà, in modo che l’artista veda ciò che i sensi in quanto tali non vedono e ciò che tuttavia nel sensibile appare: lo splendore della gloria di Dio, la « gloria di Dio sul volto di Cristo » (2, Cor 4,6). Ammirare le icone, e in generale i grandi quadri dell’arte cristiana, ci conduce per una via interiore, una via del superamento di sé e quindi, in questa purificazione dello sguardo, che è una purificazione del cuore, ci rivela la bellezza, o almeno un raggio di essa. Proprio così essa ci pone in rapporto con la forza della verità. Io ho spesso già affermato essere mia convinzione che la vera apologia della fede cristiana, la dimostrazione più convincente della sua verità, contro ogni negazione, sono da un lato i Santi, dall’altro la bellezza che la fede ha generato. Affinché oggi la fede possa crescere dobbiamo condurre noi stessi e gli uomini in cui ci imbattiamo a incontrare i Santi, a entrare in contatto con il bello.
Ora però dobbiamo rispondere ancora ad un’obiezione. Abbiamo già respinto l’affermazione secondo cui quanto finora sostenuto sarebbe una fuga nell’irrazionale, nel mero estetismo. E’ vero piuttosto l’opposto: proprio così la ragione viene liberata dal suo torpore e resa capace di azione. Maggior peso ha oggi un’altra obiezione: il messaggio della bellezza viene messo completamente in dubbio attraverso il potere della menzogna, della seduzione, della violenza, del male. Può la bellezza essere autentica, oppure, alla fine, non è che un’illusione? La realtà non è forse in fondo malvagia? La paura che, alla fine, non sia lo strale del bello a condurci alla verità, ma che la menzogna, ciò che è brutto e volgare costituiscano la vera « realtà » ha angosciato gli uomini in ogni tempo. Nel presente ha trovato espressione nell’ affermazione secondo cui dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto fare poesia, dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto parlare di un Dio buono. Ci si domanda: dov’era finito Dio quando funzionavano i forni crematori? Ora questa obiezione, per la quale esistevano motivi sufficienti ancora prima di Auschwitz, in tutte le atrocità della storia, indica in ogni caso che un concetto puramente armonioso di bellezza non è sufficiente. Non regge il confronto con la gravità della messa in discussione di Dio, della verità, della bellezza. Apollo, che per il Socrate di Platone era « il Dio » e il garante della imperturbata bellezza come « il veramente divino », non basta assolutamente più. In questo modo ritorniamo alle « due trombe » della Bibbia dalle quali eravamo partiti, al paradosso per cui di Cristo si possa dire sia « Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo », sia « Non ha apparenza né bellezza…… il suo volto è sfigurato dal dolore ». Nella passione di Cristo l’estetica greca, così degna di ammirazione per il suo presentito contatto con il divino, che pure le resta indicibile, non viene rimossa, bensì superata. L’esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine – la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante. Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva « sino alla fine » e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l’ultima istanza del mondo. Non la menzogna è « vera », bensì proprio la verità. E’ per così dire un nuovo trucco della menzogna presentarsi come « verità » e dirci: al di là di me non c’e in fondo nulla, smettete di cercare la verità o addirittura di amarla; così facendo siete sulla strada sbagliata. L’icona di Cristo crocifisso ci libera da questo inganno oggi dilagante. Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme a lui e crediamo all’Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza.
La menzogna conosce comunque anche un altro stratagemma: la bellezza mendace, falsa, una bellezza abbagliante che non fa uscire gli uomini da sé per aprirli nell’estasi dell’innalzarsi verso l’alto, bensì li imprigiona totalmente in se stessi. E’ quella bellezza che non risveglia la nostalgia per l’indicibile, la disponibilità all’offerta, all’abbandono di sé, ma ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di piacere. E’ quel tipo di esperienza della bellezza di cui la Genesi parla nel racconto del peccato originale: Eva vide che il frutto dell’albero era « bello » da mangiare ed era « piacevole all’occhio ». La bellezza, così come ne fa esperienza, risveglia in lei la voglia del possesso, la fa ripiegare per così dire su se stessa. Chi non riconoscerebbe, ad esempio nella pubblicità, quelle immagini che con estrema abilità sono fatte per tentare irresistibilmente l’uomo ad appropriarsi di ogni cosa, a cercare il soddisfacimento del momento anziché l’ aprirsi ad altro da sé? Così l’ arte cristiana si trova oggi ( e forse già da sempre) tra due fuochi: deve opporsi al culto del brutto il quale ci dice che ogni altra cosa, ogni bellezza è inganno e solo la rappresentazione di quanto è crudele, basso, volgare, sarebbe la verità e la vera illuminazione della conoscenza. E deve contrastare la bellezza mendace che rende l’uomo più piccolo, anziché renderlo grande e che, proprio per questo, è menzogna.
Chi non ha conosciuto la molto citata frase di Dostoevskij: « La bellezza ci salverà? » Ci si dimentica però nella maggior parte dei casi di ricordare che Dostoevskij intende qui la bellezza redentrice di Cristo. Dobbiamo imparare a vederLo. Se noi Lo conosciamo non più solo a parole ma veniamo colpiti dallo strale della sua paradossale bellezza, allora facciamo veramente la Sua conoscenza e sappiamo di Lui non solo per averne sentito parlare da altri. Allora abbiamo incontrato la bellezza della verità, della verità redentrice. Nulla ci può portare di più a contatto con la bellezza di Cristo stesso che il mondo del bello creato dalla fede e la luce che risplende sul volto dei Santi, attraverso la quale diventa visibile la Sua propria Luce.

BENEDETTO XVI: ARTE E PREGHIERA

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110831_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza della Libertà, Castel Gandolfo

Mercoledì, 31 agosto 2011

ARTE E PREGHIERA

Cari fratelli e sorelle,

più volte ho richiamato, in questo periodo, la necessità per ogni cristiano di trovare tempo per Dio, per la preghiera, in mezzo alle tante occupazioni delle nostre giornate. Il Signore stesso ci offre molte occasioni perché ci ricordiamo di Lui. Oggi vorrei soffermarmi brevemente su uno di questi canali che possono condurci a Dio ed essere anche di aiuto nell’incontro con Lui: è la via delle espressioni artistiche, parte di quella “via pulchritudinis” – “via della bellezza” – di cui ho parlato più volte e che l’uomo d’oggi dovrebbe recuperare nel suo significato più profondo.
Forse vi è capitato qualche volta davanti ad una scultura, ad un quadro, ad alcuni versi di una poesia, o ad un brano musicale, di provare un’intima emozione, un senso di gioia, di percepire, cioè, chiaramente che di fronte a voi non c’era soltanto materia, un pezzo di marmo o di bronzo, una tela dipinta, un insieme di lettere o un cumulo di suoni, ma qualcosa di più grande, qualcosa che “parla”, capace di toccare il cuore, di comunicare un messaggio, di elevare l’animo. Un’opera d’arte è frutto della capacità creativa dell’essere umano, che si interroga davanti alla realtà visibile, cerca di scoprirne il senso profondo e di comunicarlo attraverso il linguaggio delle forme, dei colori, dei suoni. L’arte è capace di esprimere e rendere visibile il bisogno dell’uomo di andare oltre ciò che si vede, manifesta la sete e la ricerca dell’infinito. Anzi, è come una porta aperta verso l’infinito, verso una bellezza e una verità che vanno al di là del quotidiano. E un’opera d’arte può aprire gli occhi della mente e del cuore, sospingendoci verso l’alto.
Ma ci sono espressioni artistiche che sono vere strade verso Dio, la Bellezza suprema, anzi sono un aiuto a crescere nel rapporto con Lui, nella preghiera. Si tratta delle opere che nascono dalla fede e che esprimono la fede. Un esempio lo possiamo avere quando visitiamo una cattedrale gotica: siamo rapiti dalle linee verticali che si stagliano verso il cielo ed attirano in alto il nostro sguardo e il nostro spirito, mentre, in pari tempo, ci sentiamo piccoli, eppure desiderosi di pienezza… O quando entriamo in una chiesa romanica: siamo invitati in modo spontaneo al raccoglimento e alla preghiera. Percepiamo che in questi splendidi edifici è come racchiusa la fede di generazioni. Oppure, quando ascoltiamo un brano di musica sacra che fa vibrare le corde del nostro cuore, il nostro animo viene come dilatato ed è aiutato a rivolgersi a Dio. Mi torna in mente un concerto di musiche di Johann Sebastian Bach, a Monaco di Baviera, diretto da Leonard Bernstein. Al termine dell’ultimo brano, una delle Cantate, sentii, non per ragionamento, ma nel profondo del cuore, che ciò che avevo ascoltato mi aveva trasmesso verità, verità del sommo compositore, e mi spingeva a ringraziare Dio. Accanto a me c’era il vescovo luterano di Monaco e spontaneamente gli dissi: “Sentendo questo si capisce: è vero; è vera la fede così forte, e la bellezza che esprime irresistibilmente la presenza della verità di Dio. Ma quante volte quadri o affreschi, frutto della fede dell’artista, nelle loro forme, nei loro colori, nella loro luce, ci spingono a rivolgere il pensiero a Dio e fanno crescere in noi il desiderio di attingere alla sorgente di ogni bellezza. Rimane profondamente vero quanto ha scritto un grande artista, Marc Chagall, che i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che è la Bibbia. Quante volte allora le espressioni artistiche possono essere occasioni per ricordarci di Dio, per aiutare la nostra preghiera o anche la conversione del cuore! Paul Claudel, famoso poeta, drammaturgo e diplomatico francese, nella Basilica di Notre Dame a Parigi, nel 1886, proprio ascoltando il canto del Magnificat durante la Messa di Natale, avvertì la presenza di Dio. Non era entrato in chiesa per motivi di fede, era entrato proprio per cercare argomenti contro i cristiani, e invece la grazia di Dio operò nel suo cuore.
Cari amici, vi invito a riscoprire l’importanza di questa via anche per la preghiera, per la nostra relazione viva con Dio. Le città e i paesi in tutto il mondo racchiudono tesori d’arte che esprimono la fede e ci richiamano al rapporto con Dio. La visita ai luoghi d’arte, allora, non sia solo occasione di arricchimento culturale – anche questo – ma soprattutto possa diventare un momento di grazia, di stimolo per rafforzare il nostro legame e il nostro dialogo con il Signore, per fermarsi a contemplare – nel passaggio dalla semplice realtà esteriore alla realtà più profonda che esprime – il raggio di bellezza che ci colpisce, che quasi ci “ferisce” nell’intimo e ci invita a salire verso Dio. Finisco con una preghiera di un Salmo, il Salmo 27: “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore e ammirare il suo santuario” (v. 4). Speriamo che il Signore ci aiuti a contemplare la sua bellezza, sia nella natura che nelle opere d’arte, così da essere toccati dalla luce del suo volto, perché anche noi possiamo essere luci per il nostro prossimo. Grazie.

Lo dice il papa teologo: la prova di Dio è la bellezza – di Sandro Magister

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/206168

Lo dice il papa teologo: la prova di Dio è la bellezza

La bellezza dell’arte e della musica. Le meraviglie della santità. Lo splendore del creato. Così Benedetto XVI difende la verità del cristianesimo, in un botta e risposta con i preti di Bressanone

di Sandro Magister

ROMA, 11 agosto 2008 – Come ogni estate anche quest’anno Benedetto XVI ha incontrato i sacerdoti della regione nella quale si è recato in vacanza. Per un libero colloquio a domanda e risposta.
L’incontro è avvenuto la mattina di mercoledì 6 agosto nella cattedrale di Bressanone, ai piedi delle Alpi, a pochi chilometri dal confine con l’Austria. Il papa ha risposto a sei domande, parlando in parte in tedesco e in parte in italiano, le due lingue ufficiali della regione. L’incontro era a porte chiuse, senza la presenza di giornalisti. La trascrizione integrale del colloquio è stata diffusa due giorni dopo dalla sala stampa vaticana.
I temi proposti al papa sono stati i più vari. Talora anche scottanti. Un sacerdote ha chiesto se è giusto continuare ad amministrare i sacramenti anche a chi si mostra lontano dalla fede. E il papa, nel rispondergli, ha confessato che da giovane era « piuttosto severo », ma poi ha capito che « dobbiamo seguire piuttosto l’esempio del Signore, che era un Signore della misericordia, molto aperto con i peccatori ».
Un altro ha chiesto se la scarsità di preti non impone di affrontare le questioni del celibato, dell’ordinazione di « viri probati », dell’ammissione delle donne ai ministeri. E il papa ha difeso con forza il celibato come segno del « mettersi a disposizione del Signore nella completezza del proprio essere e quindi totalmente a disposizione degli uomini ».
Qui di seguito sono riprodotte due delle sei domande e risposte. La prima sul nesso tra ragione e bellezza, con suggestivi riferimenti all’arte, alla musica, alla liturgia. La seconda sulla tutela del creato.

1. « Tutte le grandi opere d’arte sono una epifania di Dio »

D. – Santo Padre, mi chiamo Willibald Hopfgartner, sono francescano. Nel suo discorso di Ratisbona Lei ha sottolineato il legame sostanziale tra lo Spirito divino e la ragione umana. Dall’altro canto, Lei ha anche sempre sottolineato l’importanza dell’arte e della bellezza. Allora, accanto al dialogo concettuale su Dio, in teologia, non dovrebbe essere sempre di nuovo ribadita l’esperienza estetica della fede nell’ambito della Chiesa, per l’annuncio e la liturgia?
R. – Sì, penso che le due cose vadano insieme: la ragione, la precisione, l’onestà della riflessione sulla verità, e la bellezza. Una ragione che in qualche modo volesse spogliarsi della bellezza, sarebbe dimezzata, sarebbe una ragione accecata. Soltanto le due cose unite formano l’insieme, e proprio per la fede questa unione è importante. La fede deve continuamente affrontare le sfide del pensiero di questa epoca, affinché essa non sembri una sorta di leggenda irrazionale che noi manteniamo in vita, ma sia veramente una risposta alle grandi domande; affinché non sia solo abitudine ma verità, come ebbe a dire una volta Tertulliano.
San Pietro, nella sua prima lettera, aveva scritto quella frase che i teologi del medioevo avevano preso come legittimazione, quasi come incarico per il loro lavoro teologico: « Siate pronti in ogni momento a rendere conto del senso della speranza che è in voi » – apologia del « logos » della speranza, un trasformare cioè il « logos », la ragione della speranza, in apologia, in risposta agli uomini. Evidentemente, egli era convinto del fatto che la fede fosse « logos », che essa fosse una ragione, una luce che proviene dalla Ragione creatrice, e non un bel miscuglio, frutto del nostro pensiero. Ed ecco perché è universale, per questo può essere comunicata a tutti.
Ma proprio questo « Logos » creatore non è soltanto un « logos » tecnico. È più ampio, è un « logos » che è amore e quindi tale da esprimersi nella bellezza e nel bene. E, in realtà, per me l’arte e i santi sono la più grande apologia della nostra fede.
Gli argomenti portati dalla ragione sono assolutamente importanti ed irrinunciabili, ma poi da qualche parte rimane sempre il dissenso. Invece, se guardiamo i santi, questa grande scia luminosa con la quale Iddio ha attraversato la storia, vediamo che lì veramente c’è una forza del bene che resiste ai millenni, lì c’è veramente la luce dalla luce.
E nello stesso modo, se contempliamo le bellezze create dalla fede, ecco, sono semplicemente, direi, la prova vivente della fede. Se guardo questa bella cattedrale: è un annuncio vivente! Essa stessa ci parla, e partendo dalla bellezza della cattedrale riusciamo ad annunciare visivamente Dio, Cristo e tutti i suoi misteri: qui essi hanno preso forma e ci guardano. Tutte le grandi opere d’arte, le cattedrali – le cattedrali gotiche e le splendide chiese barocche – tutte sono un segno luminoso di Dio e quindi veramente una manifestazione, un’epifania di Dio.
Nel cristianesimo si tratta proprio di questa epifania: che Dio è diventato una velata Epifania, appare e risplende. Abbiamo appena ascoltato il suono dell’organo in tutto il suo splendore e io penso che la grande musica nata nella Chiesa sia un rendere udibile e percepibile la verità della nostra fede: dal Gregoriano alla musica delle cattedrali fino a Palestrina e alla sua epoca, fino a Bach e quindi a Mozart e Bruckner e così via… Ascoltando tutte queste opere – le Passioni di Bach, la sua Messa in si minore e le grandi composizioni spirituali della polifonia del XVI secolo, della scuola viennese, di tutta la musica, anche quella di compositori minori – improvvisamente sentiamo: è vero! Dove nascono cose del genere, c’è la Verità.
Senza un’intuizione che scopra il vero centro creativo del mondo, non può nascere tale bellezza. Per questo penso che dovremmo sempre fare in modo che le due cose siano insieme, portarle insieme. Quando, in questa nostra epoca, discutiamo della ragionevolezza della fede, discutiamo proprio del fatto che la ragione non finisce dove finiscono le scoperte sperimentali, essa non finisce nel positivismo; la teoria dell’evoluzione vede la verità, ma ne vede soltanto metà: non vede che dietro c’è lo Spirito della creazione. Noi stiamo lottando per l’allargamento della ragione e quindi per una ragione che, appunto, sia aperta anche al bello e non debba lasciarlo da parte come qualcosa di totalmente diverso e irragionevole.
L’arte cristiana è un’arte razionale – pensiamo all’arte del gotico o alla grande musica o anche, appunto, alla nostra arte barocca – ma è espressione artistica di una ragione molto più ampia, nella quale cuore e ragione si incontrano. Questo è il punto. Questo, penso, è in qualche modo la prova della verità del cristianesimo: cuore e ragione si incontrano, bellezza e verità si toccano. E quanto più noi stessi riusciamo a vivere nella bellezza della verità, tanto più la fede potrà tornare ad essere creativa anche nel nostro tempo e ad esprimersi in una forma artistica convincente.

2. « La terra attende uomini che se ne prendano cura come opera del Creatore »
D. – Santo Padre, mi chiamo Karl Golser, sono professore di teologia morale a Bressanone e anche direttore dell’Istituto per la giustizia, la pace e la tutela della creazione. Mi piace ricordare il periodo in cui ho potuto lavorare con Lei alla congregazione per la dottrina della fede. [...] Cosa possiamo fare per portare maggiormente nella vita delle comunità cristiane il senso di responsabilità nei riguardi del creato? Come possiamo arrivare a vedere sempre più insieme la creazione e la redenzione?
R.– Anch’io penso che il legame inscindibile tra creazione e redenzione debba ricevere nuovo rilievo. Negli ultimi decenni la dottrina della creazione era quasi scomparsa in teologia, era quasi impercettibile. Ora ci accorgiamo dei danni che ne derivano. Il Redentore è il Creatore e se noi non annunciamo Dio in questa sua totale grandezza – di Creatore e di Redentore – togliamo valore anche alla redenzione. Infatti, se Dio non ha nulla da dire nella creazione, se viene relegato semplicemente in un ambito della storia, come può realmente comprendere tutta la nostra vita? Come potrà portare veramente la salvezza per l’uomo nella sua interezza e per il mondo nella sua totalità?
Ecco perché, per me, il rinnovamento della dottrina della creazione e una nuova comprensione dell’inscindibilità di creazione e redenzione rivestono una grandissima importanza. Dobbiamo riconoscere nuovamente: Lui è il « Creator Spiritus », la Ragione che è in principio e dalla quale tutto nasce e di cui la nostra ragione non è che una scintilla. Ed è Lui, il Creatore stesso, che è pure entrato nella storia e può entrare nella storia ed operare in essa proprio perché Egli è il Dio dell’insieme e non solo di una parte. Se riconosceremo questo, ne conseguirà ovviamente che la redenzione, l’essere cristiani, o semplicemente la fede cristiana significano sempre e comunque anche responsabilità nei riguardi della creazione.
Venti, trenta anni fa si accusavano i cristiani – non so se questa accusa sia ancora sostenuta – di essere i veri responsabili della distruzione della creazione, perché la parola contenuta nella Genesi – « Soggiogate la terra » – avrebbe portato a quella arroganza nei riguardi del creato di cui noi oggi sperimentiamo le conseguenze. Penso che dobbiamo nuovamente imparare a capire questa accusa in tutta la sua falsità: fino a quando la terra è stata considerata creazione di Dio, il compito di « soggiogarla » non è mai stato inteso come un ordine di renderla schiava, ma piuttosto come compito di essere custodi della creazione e di svilupparne i doni; di collaborare noi stessi in modo attivo all’opera di Dio, all’evoluzione che Egli ha posto nel mondo, così che i doni della creazione siano valorizzati e non calpestati e distrutti.
Se osserviamo quello che è nato intorno ai monasteri, come in quei luoghi siano nati e continuino a nascere piccoli paradisi, oasi della creazione, si rende evidente che tutto ciò non sono soltanto parole, ma dove la Parola del Creatore è stata compresa nella maniera corretta, dove c’è stata vita con il Creatore e Redentore, lì ci si è impegnati a salvare la creazione e non a distruggerla.
In questo contesto rientra anche il capitolo 8 della lettera ai Romani, dove si dice che la creazione soffre e geme per la sottomissione in cui si trova e che attende la rivelazione dei figli di Dio: si sentirà liberata quando verranno delle creature, degli uomini che sono figli di Dio e che la tratteranno a partire da Dio.
Io credo che sia proprio questo che noi oggi possiamo constatare come realtà: il creato geme – lo percepiamo, quasi lo sentiamo – e attende persone umane che lo guardino a partire da Dio. Il consumo brutale della creazione inizia dove non c’è Dio, dove la materia è ormai soltanto materiale per noi, dove noi stessi siamo le ultime istanze, dove l’insieme è semplicemente proprietà nostra e lo consumiamo solo per noi stessi. E lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi; inizia dove non esiste più alcuna dimensione della vita al di là della morte, dove in questa vita dobbiamo accaparrarci il tutto e possedere la vita nella massima intensità possibile, dove dobbiamo possedere tutto ciò che è possibile possedere.
Io credo, quindi, che istanze vere ed efficienti contro lo spreco e la distruzione del creato possono essere realizzate e sviluppate, comprese e vissute soltanto là, dove la creazione è considerata a partire da Dio; dove la vita è considerata a partire da Dio e ha dimensioni maggiori – nella responsabilità davanti a Dio – e un giorno ci sarà donata da Dio in pienezza e mai tolta: donando la vita, noi la riceviamo.
Così, credo, dobbiamo tentare con tutti i mezzi che abbiamo di presentare la fede in pubblico, specialmente là dove riguardo ad essa c’è già sensibilità. E penso che la sensazione che il mondo forse ci stia scivolando via – perché siamo noi stessi a cacciarlo via – e il sentirci oppressi dai problemi della creazione, proprio questo ci dia l’occasione adatta in cui la nostra fede può parlare pubblicamente e può farsi valere come istanza propositiva.
Infatti, non si tratta soltanto di trovare tecniche che prevengano i danni, anche se è importante trovare energie alternative ed altro. Tutto questo non sarà sufficiente se noi stessi non troveremo un nuovo stile di vita, una disciplina fatta anche di rinunce, una disciplina del riconoscimento degli altri, ai quali il creato appartiene tanto quanto a noi che più facilmente possiamo disporne; una disciplina della responsabilità nei riguardi del futuro degli altri e del nostro stesso futuro, perché è responsabilità davanti a Colui che è nostro Giudice e in quanto Giudice è Redentore ma, appunto è anche veramente nostro Giudice.
Penso quindi che sia necessario mettere in ogni caso insieme le due dimensioni – creazione e redenzione, vita terrena e vita eterna, responsabilità nei riguardi del creato e responsabilità nei riguardi degli altri e del futuro – e che sia nostro compito intervenire così in maniera chiara e decisa nell’opinione pubblica.
Per essere ascoltati dobbiamo contemporaneamente dimostrare con il nostro stesso esempio, con il nostro proprio stile di vita, che stiamo parlando di un messaggio in cui noi stessi crediamo e secondo il quale è possibile vivere. E vogliamo chiedere al Signore che aiuti noi tutti a vivere la fede, la responsabilità della fede in maniera tale che il nostro stile di vita diventi testimonianza e poi a parlare in maniera tale che le nostre parole portino in modo credibile la fede come orientamento in questo nostro tempo.

 

« I BAGLIORI DELLA BELLEZZA INCARNATA » – Teologia del restauro dei beni artistici

http://www.giannimanzone.it/Articoli/I%20bagliori%20della%20bellezza%20incarnata.html

« I BAGLIORI DELLA BELLEZZA INCARNATA »

Teologia del restauro dei beni artistici

in Nuntium 21(2003) 128-137

di Gianni Manzone (PUL)

Nell’allocuzione rivolta ai membri della prima Assemblea plenaria della pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, il 12 ottobre 1995, Giovanni Paolo II afferma che con il concetto di «beni culturali» s’intendono «innanzitutto i beni artistici della pittura, della scultura, dell’architettura, del mosaico e della musica, posti al servizio della missione della Chiesa. A questi vanno poi aggiunti i beni contenuti nelle biblioteche ecclesiastiche e i documenti storici delle comunità ecclesiali. Rientrano, infine, in questo ambito le opere letterarie, teatrali, cinematografiche. prodotte dai mezzi di comunicazione di massa». Essi vanno considerate come il volto storico e creativo della comunità cristiana. La traduzione della fede in immagini arricchisce il rapporto con la creazione e con la realtà soprannaturale, rimandando alle narrazioni bibliche e rappresentando le diverse visioni della devozione popolare (Ad Gentes n.21). Le singole comunità cristiane si riconoscono così nelle manifestazioni dell’arte, e dell’arte sacra in particolare, prodotte lungo i secoli per rispondere alle diverse necessità pastorali e culturali.

Per una conservazione contestuale Se le biblioteche possono essere considerate i luoghi di riflessione e gli archivi i luoghi della memoria, il patrimonio artistico della Chiesa è la testimonianza concreta espressa dalle comunità cristiane allo splendore della bellezza nei luoghi del culto, della pietà, della vita religiosa e dello studio. Attraverso la protezione dei beni artistici l’azione della Chiesa favorisce un nuovo umanesimo in vista della nuova evangelizzazione. La Chiesa in tutto l’arco della sua storia «si è servita delle differenti culture per diffondere e spiegare il messaggio cristiano»(GS n.58). Infatti «la fede tende per sua natura ad esprimersi in forme artistiche e in testimonianze storiche aventi un’intrinseca forza evangelizzatrice e valenza culturale di fronte alle quali la Chiesa è chiamata a prestare la massima attenzione»( giovanni paolo II, motu proprio Inde a pontìficatus nostri initio, 25.3.1993). Per questo, specialmente nei paesi di antica, ma già anche in quelli di recente evangelizzazione, si è venuto ad accumulare un abbondante patrimonio di beni culturali caratterizza­ti da un particolare valore nell’ambito della loro finalità ecclesiale.   Le manifestazioni dell’arte sacra sono intimamente legate al vissuto eccle­siale, poiché documentano visibilmente il percorso fatto lungo i secoli dalla Chiesa nel culto, nella catechesi, nella cultura e nella carità. Esse documentano l’evolversi della vita culturale e religiosa, oltrechè il genio dell’uomo. Di conseguenza non possono essere intese in sen­so «assoluto», cioè sciolte dall’insieme delle attività della Chiesa, ma vanno pensate in relazione con la totalità della vita ecclesiale e in riferimento al patrimonio storico-artistico di ogni nazione e cultura. È necessario quindi un approccio complessivo a questo “tesoro” che si inserisce nell’ambito delle attività pastorali, con il compito di riflettere la vita ecclesiale.    I «beni culturali, posti al servizio della missione della Chiesa» comunicano il sacro, il bello, l’antico, il nuovo. Sono quindi parte integrante delle manifestazioni culturali e della testimonianza dei credenti. La comunità cristiana comprende l’importanza del proprio passato, matura il senso di appartenenza al territorio in cui vive, percepisce la peculiarità pastorale del patrimonio artistico. Si tratta dunque di creare una coscienza critica al fine di valorizzare il patrimonio storico-artistico prodotto dalle diverse civiltà che si sono avvicendate nel tempo, grazie anche alla presenza della Chiesa, sia come committente illuminata sia come custode attenta delle vestigia antiche (Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, La funzione dei musei ecclesiastici 2001).    I beni culturali ecclesiali sono patrimonio specifico della comunità cristiana. Nello stesso tempo, in forza della dimensione uni­versale dell’annuncio cristiano, appartengono in qualche modo all’intera umanità. Il loro fine è ordinato alla missione ecclesiale nel duplice e concorrente dinamismo di promozione umana ed evange­lizzazione cristiana. Il loro valore mette in risalto l’opera d’inculturazione della fede. Es­si sono dunque «luogo ecclesiale» in quanto sono parte integrante della missione del­la Chiesa nel tempo e nel presente, e presentano la bellezza dei processi creativi umani intesi a esprimere la «gloria di Dio» (Slavorum Apostoli n.21).    In quest’ottica l’accesso ad essi richiede una particolare predisposizione interiore, poiché qui si vedono non soltanto cose belle, ma nel bello si è chiamati e invitati a percepire il sacro. La loro visita non può quindi intendersi esclusivamente come proposta turistico-culturale, poiché molte delle opere in visione sono espressione di fede degli autori e rimandano al sensus fidei della comunità. Tali opere vanno quindi lette, comprese, fruite nella loro complessità e globalità, onde comprenderne l’autentico, originario e ultimo significato. “Il venerato ricordo di ciò che ha detto e fatto Gesù, della prima comunità cristiana, della Chiesa dei martiri e dei padri, dell’espandersi del cristianesimo nel mondo, è efficace motivo per lodare il Signore e ringraziarlo delle « grandi cose » che ha ispirato al suo popolo”. I beni artistici non devono acquisire, a causa della secolarizzazione, un significato quasi esclusivamente estetico. Il loro valore estetico non può essere distaccato totalmente dalla sua funzione pastorale, oltreché dal contesto storico, sociale, ambientale, devozionale del quale è peculiare espressione e testimonianza.

La cultura della memoria È a tutti noto l’impegno della Chiesa, durante l’intero arco del­la sua storia, nei confronti del proprio patrimonio storico e artistico, come appare evidente dai documenti dei sommi pontefici, dei concili ecumenici, dei sinodi locali e dei singoli vescovi. Tale cura si è espressa sia nella committenza di opere d’arte, destinate princi­palmente al culto e al decoro dei luoghi sacri, sia nella loro tutela e conservazione. «La volontà da parte della comunità dei credenti, e in particolare delle istituzioni ec-clesiastiche, di raccogliere sin dall’epoca apostolica le testimonianze della fede e coltivarne la memoria, esprime l’unicità e la continuità della Chiesa che vive questi tempi ultimi della storia”. Attraverso i beni culturali la Chiesa esercita il magistero pastorale della memoria e della bellezza. “Nella mens della Chiesa la memoria cronologica porta dunque a una rilettura spirituale degli eventi nel contesto dell’ eventum salutis e impone l’urgenza della con­versione al fine di pervenire all’ ut unum sint» (Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici 1997).    Il patrimonio artistico è segno del divenire storico, dei cambiamenti culturali, della caducità contingente. In coerenza con la logica dell’incarnazione, rappresenta una «reliquia» del precedente vissuto ecclesiale, ordinata all’odierno sviluppo dell’opera di inculturazione della fede. Narra la storia della comunità cristiana attraverso ciò che testimoniano le diverse ritualizzazioni, le molteplici forme di pietà, le variegate congiunture sociali, le spe­cifiche situazioni ambientali. Presenta la bellezza di quanto è stato creato a) per il culto, al fine di evocare l’inesprimibile «gloria» divina; b) per la catechesi, al fine di infondere me­raviglia nel racconto evangelico; c) per la cultura, al fine di magnificare la grandezza della creazione; d) per la carità, al fine di evidenziare l’essenza del Vangelo. Appartiene alla complessità irriducibile dell’operato della Chiesa nel tempo per cui è «realtà viva» (Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, Necessità di inventariare i beni culturali 1999).    La Chiesa fin dai tempi più antichi comprese l’importanza dei beni culturali nell’espletamento della sua missione. Infatti a tutto ciò che «attraverso i secoli in qualsiasi modo le appartenne» diede dignità d’arte, imprimendovi «come un riflesso della propria bellezza spirituale» (Circolare della Segreteria di Stato di sua Santità ai rev.di ordinari d’Italia 1–IX-1924). Essa inoltre non solo è stata committente d’arte e di cultura, ma anche si è prodigata per la salvaguardia e la valo­rizzazione dei propri beni culturali, come si può evincere da una pur rapida indagine storica.    Dell’importanza data dalla Chiesa alle opere d’arte sono valida testimonianza le pitture delle catacombe, lo splendore delle chiese e il pregio delle suppellettili sacre. Il Liber pontificalis e gli Inventari conservati nell’Archivio segreto vaticano documentano quale assidua cura ponessero i papi nell’ornare le chiese e come gli oggetti d’arte fossero ben presto considerati patrimonio da curare con attenzione. In epoca antica un primo intervento da parte del magistero papale sul riconoscimento del valore dell’arte sacra avvenne per opera del papa Gregorio Magno (590-604). A concludere la lotta iconoclasta, che travagliò per molti decenni la Chiesa d’Oriente, con notevoli ripercussioni in Occidente e a dettare i criteri dell’iconografia cristiana fu poi il concilio Niceno II (787). Per tutto il Medioevo è noto come gli ordini monastici (specialmente i benedettini) e gli ordini mendicanti abbiano coltivato una grande attenzione verso i beni artistici, fino a caratterizzarne lo stile e a emanare norme che talvolta sono entrate a far parte delle stesse regole religiose. Gli storici vedono, inoltre, nella preghiera d’istituzione degli ostiarii (databile forse nella metà del III secolo) un primo impegno per la tutela dei beni da parte della Chiesa. Ben presto apparvero numerosi interventi normativi dei Pontefici, specialmente per quanto riguarda l’alienazione o la donazione di beni culturali: infliggevano gravi pene, non esclusa la scomunica, a coloro che procedevano a tali atti senza le debite autorizzazioni. Non solo i pontefici, ma anche i concili ecumenici si occuparono della tutela dei beni culturali. Al riguardo possono essere ricordati il concilio Costantinopolitano IV (869-70) e il secondo concilio di Lione (1274). In particolare il concilio di Trento, oltre a ribadire con un decreto la sua posizione contro l’iconoclastia, aggiunse un elemento nuovo e assai importante, cioè l’appello fatto ai vescovi di istruire i fedeli sul significato e sull’utilità delle immagini sacre per la vita cristiana. Il 28 novembre 1534 il papa Paolo III nominò per la prima volta un commissario per la conservazione dei beni culturali anti­chi.    La preoccupazione della Chiesa che quanto era ordinato al culto dovesse essere d’indiscutibile valore artistico è evidente nelle istruzioni sulla musica sacra di Pio X del 22 novembre 1903 e nell’enciclica di Pio XII Mediator Dei (1947). L’attuale Codice di diritto canonico del 1983. nel canone 1283, nn. 2-3, ribadisce la norma del Codice del 1917, aggiungendo tra i beni da inventariare anche tutti quei beni mobili che comunque riguardano i beni culturali. L’inventariazione «accurata e detta­gliata» è di fondamentale importanza, poiché, mentre consente un’analitica ricognizione del patrimonio storico-artistico, promuove l’acquisizione di una «cultura della memoria» (Necessità di inventariare i beni culturali, o.c. ). Il dissolversi dell’unità culturale in tante società del mondo moderno, a causa della frammentazione ideologica ed etnica, può essere efficacemente bilanciata con la riscoperta del proprio pas­sato, delle radici comuni, della vicenda storica, della memoria cul­turale di cui il patrimonio storico-artistico è espressione. Questo, ricorda Giovanni Paolo II, visibilizzando l’azione pastorale della Chiesa in un determinato territorio, “dà un volto concreto e fruibile alla memoria storica del cristianesimo» (Messaggio ai partecipanti alla Assemblea plenaria della Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, 25.9.1997).

La Bellezza che salva I beni culturali, in quanto espressione della memoria sto­rica, permettono di riscoprire il cammino di fede attraverso le ope­re delle varie generazioni. Per il loro pregio artistico, rivelano la ca­pacità creativa di artisti, artigiani e maestranze locali che hanno saputo imprimere nel sensibile il proprio senso religioso e la devozione della comunità cristiana. Per il contenuto culturale, consegnano alla società attuale la storia individuale e comunitaria della sapienza umana e cristiana nell’ambito di un particolare territorio e di un determinato periodo storico. Per il loro significato liturgico, sono ordinati specialmente al culto divino. Per la loro destinazione universale, consentono a ciascuno di esserne il fruitore senza diventarne il proprietario esclusivo. Il valore che la Chiesa riconosce ai propri beni culturali spiega «la volontà da parte della comunità dei credenti, e in particolare delle istituzioni ecclesiastiche, di raccogliere fin dall’epoca apostolica le testimonianze della fede e coltivarne la memoria, esprime l’unicità e la continuità della Chiesa che vive questi tempi ultimi della storia» (La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici).    In questo contesto la Chiesa considera importante la trasmissione del proprio patrimonio di beni culturali. Essi rappresentano infatti un anello essenziale della catena della tradizione; sono la memoria sensibile dell’evangelizzazione; diventano uno strumento pastorale. Ne consegue allora «l’impegno di restaurarli, custodirli, catalogarli, difenderli» ai fini di una loro «valorizzazione, che ne favorisca una migliore conoscenza e un adeguato utilizzo tanto nella catechesi quanto nella liturgia» (giovanni paolo II, Allocuzione ai partecipanti all’Assemblea plenaria della Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, 12.10.1995). Il patrimonio storico-artistico, radicato sul territorio e direttamente collegato all’azione della Chiesa, non si riduce alla semplice «raccolta di antichità e curiosità». Anche se tanti manufatti non svolgono più una specifica funzione ecclesiale, essi continuano a trasmettere un messaggio che le comunità cristiane viventi in epoche lontane hanno voluto consegnare alle successive generazioni. A questo fine Giovanni Paolo II esorta: “Siano ben realizzate la raccolta e la custodia dell’intero patrimonio artistico e storico in tutto il territorio, per essere a disposizione di tutti coloro che ne hanno interesse”( Pastor bonus n. 102).    Per adempiere alla propria missione pastorale, la Chiesa è im­pegnata a mantenere il patrimonio storico-artistico nella sua fun­zione originaria, indissolubilmente connessa con la proclamazione della fede e con il servizio della promozione integrale dell’uomo. Viene così sottolineata la dimensione specifica del bene culturale di carattere religioso, anteriore agli stessi usi ai quali sarà ordinato. Il tesoro d’arte ereditato dalla Chiesa va conservato, perché esso «è come la veste esteriore e l’orma materiale della vita so­prannaturale della Chiesa» (Circolare della Segreteria di Stato 1924).    In forza del suo valore pastorale, il patrimonio storico-artistico è ordinato all’animazione del popolo di Dio. Esso giova all’educazione alla fede e alla crescita del senso di appartenenza dei fedeli alla propria comunità. In molti casi esso è espressione dei desideri, dell’ingegno, dei sacrifici e soprattutto della pietà di per­sone di ogni condizione sociale, che si riconoscono nella fede. Il tesoro artistico d’ispirazione cristiana da dignità al territorio e co­stituisce un’eredità spirituale per le future generazioni. Esso è ri­conosciuto come mezzo primario d’inculturazione della fede nel mondo contemporaneo, poiché la via della bellezza apre alle di­mensioni profonde dello spirito e la via dell’arte d’ispirazione cristiana istruisce tanto i credenti quanto i non credenti. Soprattutto nell’ambito della celebrazione dei divini misteri, i beni culturali contribuiscono a far risplendere per dignità, decoro e bellezza, i segni e i simboli delle realtà spirituali (Sacrosanctum Concilium n.122).

Le tracce del Transitus Domini «La Chiesa, maestra di vita, non può non assumersi anche il ministero di aiutare l’uo­mo contemporaneo a ritrovare lo stupore reli­gioso davanti al fascino della bellezza e della sapienza che si sprigiona da quanto ci ha con­segnato la storia. Tale compito esige un lavoro diuturno e assiduo di orientamento, di in­coraggiamento e di interscambio» (Messaggio…, 25.9.1997). Si tratta “di riprendere i germi di verità seminati dalle singole generazioni, di lasciarsi illuminare dai bagliori della bellezza incarnata nelle opere sensibili, di riconoscere le tracce del transitus Domini nella storia degli uomini” (paolo VI, Discorso ai partecipanti al Convegno degli archivisti ecclesiastici.26.9.1963).    La cura del patrimonio storico-artistico ecclesiastico è un fatto di civiltà, che coinvolge la Chiesa in primo piano. Essa si è sempre dichiarata «esperta in umanità» (PP n.13) ha favorito in tutte le epoche lo sviluppo delle arti liberali e ha promosso la cura di quanto è stato creato per adempiere alla missione evangelizzatrice. Infatti, come ricorda Giovanni Paolo II, «quando la Chiesa chiama l’arte ad affiancare la pro­pria missione, non è soltanto per ragioni di estetica, ma per obbedire alla « logica » stessa della rivelazione e dell’incarnazione» (giovanni paolo II, Allocuzione L ‘importanza del patrimonio artistico nell’e­spressione della fede e nel dialogo con l’umanità, 12.10.1995).    La testimonianza di fede delle passate generazioni attraverso reperti sensibili viene riscoperta e rivissuta. I beni culturali conducono inoltre alla percezione della bellezza diversamente im­pressa in opere antiche e moderne, così che orientano cuore, mente e volontà a Dio. «Dai siti archeologici alle più moderne espressioni dell’arte cristiana, l’uomo contemporaneo deve poter rileggere la storia della Chiesa, per essere così aiutato a riconoscere il fascino misterioso del disegno salvifico di Dio»(Messaggio…, 25.9.1997). Questi ricordano, attraverso scarni reperti o insigni opere, le passate epoche evidenziando, con la bellezza di quanto si è conservato, la forza creativa dell’uomo congiunta alla fede dei credenti. In questa prospettiva i musei e i “tesori” della Chiesa assolvono pertanto a una funzione magisteriale e catechetica, fornendo anche una prospettiva storica e un godimento estetico. Tali espressioni artistiche «sono tanto più orientate a Dio e alla sua lode e gloria, in quanto nessun altro fine è loro assegnato se non contribuire il più efficacemente possibile a indirizzare pienamente le menti degli uomini a Dio” (Sacrosanctum Concilium n.122).

GIANNI  MANZONE 

L’ARTE SACRA AUTENTICA : RAPPRESENTA LA REALTÀ CREATA…

http://www.zenit.org/it/articles/l-arte-sacra-autentica

L’ARTE SACRA AUTENTICA

RAPPRESENTA LA REALTÀ CREATA E ATTRAVERSO ESSA E IN ESSA QUELL’ »OLTRE » CHE LA SPIEGA, LA FONDA, LA REDIME

ROMA, 22 NOVEMBRE 2010 (ZENIT.ORG) RODOLFO PAPA

L’arte sacra ha il compito di servire con la bellezza la sacra liturgia. Nella Sacrosanctum Concilium è scritto: “La Chiesa non ha mai avuto come proprio un particolare stile artistico, ma, secondo l’indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari Riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca, creando così, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi con ogni cura” (n. 123).
La Chiesa, dunque, non sceglie uno stile; ciò vuol dire che non privilegia il barocco o il neoclassico o il gotico, ma tutti gli stili capaci di servire il rito. Questo non significa, evidentemente, che ogni forma d’arte possa o debba essere accettata acriticamente, infatti nel medesimo documento, viene affermato con chiarezza: « la Chiesa si è sempre ritenuta, a buon diritto, come arbitra, scegliendo tra le opere degli artisti quelle che rispondevano alla fede, alla pietà e alle norme religiosamente tramandate, e risultavano adatte all’uso sacro» (n. 122). Risulta utile, allora, domandarsi “quale” forma artistica possa meglio rispondere alle necessità di una arte sacra cattolica, ovvero “come” l’arte possa servire al meglio “con la dovuta reverenza e il dovuto onore alle esigenze degli edifici sacri e dei sacri riti”.
I documenti conciliari non sprecano parole e tuttavia danno direttive precise: l’arte sacra autentica deve cercare “nobile bellezza” e non “mera sontuosità”, non deve contrariare la fede, i costumi, la pietà cristiana, o offendere il “genuino senso religioso”. Quest’ultimo punto viene esplicitato in due direzioni: le opere d’arte sacra possono offendere il senso religioso genuino o “perché depravate nelle forme”, dunque formalmente inopportune, o perché “mancanti, mediocri o false nell’espressione artistica”(n. 124). Si richiede all’arte sacra la proprietà di una forma bella, “non depravata”, e la capacità di esprimere propriamente e sublimemente il messaggio. Una chiara esemplificazione è presente anche nella Mediator Dei dove Pio XII chiede un’arte che eviti «l’eccessivo realismo da una parte e l’esagerato simbolismo dall’altra» (n. 190).
Queste due espressioni si riferiscono a concrete espressioni storiche. Troviamo infatti “eccessivo realismo” nella complessa corrente culturale del Realismo, nato come reazione al sentimentalismo tardoromantico della pittura alla moda, e che possiamo rintracciare poi nella nuova funzione sociale assegnata al ruolo dell’artista, con peculiare riferimento a temi direttamente tratti dalla realtà contemporanea, e poi ancora la possiamo collegare alla concezione propriamente marxista dell’arte, che condurranno alle riflessioni estetiche della II Internazionale fino alle teorie esposte da G. Lukacs. Inoltre, c’è’ “eccessivo realismo” anche in talune posizioni propriamente interne alla questione dell’arte sacra, ovvero nella corrente estetica che tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento propose dipinti che trattano temi sacri senza affrontarne correttamente la questione, con eccessivo verismo, come per esempio una Crocifissione dipinta da Max Klinger che è stata definita una composizione «mista di elementi di un verismo brutale e di principi puramente idealisti» (C. Costantini, Il Crocifisso nell’arte, Firenze 1911, p. 164).
Troviamo invece “esagerato simbolismo” in un’altra corrente artistica che si contrappone a quella realista. Tra i precursori del pensiero simbolista si possono annoverare G. Moureau, Puvis de Chavannes, O. Redon, e più tardi aderiranno a questa corrente artisti come F. Rops, F. Khnopff, M. J. Whistler. In quegli stessi anni il critico C. Morice elaborò una vera e propria teoria simbolista, definendola sintesi tra spirito e sensi. Fin poi a giungere, dopo il 1890, ad una vera e propria dottrina portata avanti dal gruppo dei Nabís, con P. Sérusier, che ne fu il teorico, dal gruppo dei Rosa-Croce che univa tendenze mistiche e teosofiche e infine dal movimento del convento benedettino di Beuron.
La questione diviene più chiara, dunque, se inquadrata immediatamente nei giusti termini storico-artistici; nell’arte sacra occorre evitare gli eccessi dell’immanentismo da una parte e dell’esoterismo dall’altra. Occorre intraprendere la strada di un “realismo moderato” affiancato da un motivato simbolismo, capaci di cogliere lo slancio metafisico, e di realizzare, come afferma Giovanni Paolo II nella Lettera agli Artisti, un medio metaforico carico di senso. Non dunque un iperrealismo ossessionato da un sempre sfuggente particolare, ma un sano realismo che nel corpo delle cose e nel volto degli uomini sa leggere e alludere, e riconoscere la presenza di Dio.
Nel messaggio agli artisti è detto: “Voi [gli artisti] l’avete aiutata [la Chiesa] a tradurre il suo divino messaggio nel linguaggio delle forme e delle figure, a rendere avvertibile il mondo invisibile”. Mi sembra che in questo passaggio si tocchi il cuore dell’arte sacra. Se l’arte, ogni arte, informa la materia, esprime l’universale mediante il particolare, l’arte sacra, l’arte al servizio della Chiesa, compie anche la sublime mediazione tra l’invisibile e il visibile, tra il divino messaggio e il linguaggio artistico. All’artista è chiesto di dare forma a una materia ri–creando addirittura quel mondo invisibile ma reale che è la suprema speranza dell’uomo.
Tutto ciò mi sembra conduca verso una affermazione dell’arte figurativa —ovvero un’arte che si impegna a “figurare” la realtà— quale massimo strumento di servizio, quale migliore possibilità di un’arte sacra. L’arte realistica figurativa, infatti, riesce a servire adeguatamente il culto cattolico, perché si fonda sulla realtà creata e redenta, e, proprio confrontandosi con la realtà, riesce a evitare gli opposti scogli degli eccessi. Proprio per questo si può affermare che il più proprio dell’arte cristiana di tutti i tempi è un orizzonte di “realismo moderato” o se volgiamo di “realismo antropologico”, all’interno del quale si sono sviluppati, nel tempo, tutti gli stili propri dell’arte cristiana (data la complessità dell’argomento si rimanda ad altri articoli).
L’artista che voglia servire Dio nella Chiesa, non può che misurarsi con l’“immagine” la quale rende avvertibile il mondo invisibile. All’artista cristiano è, dunque, chiesto un particolare impegno: quello di rappresentare la realtà creata e attraverso essa e in essa quell’“oltre” che la spiega, la fonda, la redime. L’arte figurativa non deve neanche temere come inattuale la “narrazione”, l’arte è sempre narrativa, tanto più quando si pone al servizio di una storia avvenuta, in un tempo e in uno spazio. Per la particolarità del compito, all’artista è chiesto anche di sapere “cosa narrare”: conoscenza evangelica, competenza teologica, preparazione storico-artistica e ampia conoscenza di tutta la tradizione iconografica della Chiesa. D’altra parte, la teologia stessa tende a farsi sempre più narrativa.
L’opera d’arte sacra, dunque, costituisce uno strumento di catechesi, di meditazione, di preghiera, essendo destinata “al culto cattolico, all’edificazione, alla pietà e all’istruzione religiosa dei fedeli”; gli artisti, come ricorda il più volte citato messaggio della Chiesa agli artisti, hanno “edificato e decorato i suoi templi, celebrato i suoi dogmi, arricchito la sua liturgia” e devono continuare a farlo.
Così anche noi oggi siamo chiamati a realizzare nel nostro tempo opere e capolavori atti a edificare l’uomo e a rendere Gloria a Dio, come recita ancora la Sacrosanctum Concilium: «Anche l’arte del nostro tempo di tutti i popoli e paesi abbia nella Chiesa libertà di espressione, purché serva con la dovuta reverenza e il dovuto onore alle esigenze degli edifici sacri e dei sacri riti. In tal modo potrà aggiungere la propria voce al mirabile concerto di gloria che uomini eccelsi innalzarono nei secoli passati alla fede cattolica» (n. 123).

* Rodolfo Papa è storico dell’arte, docente di storia delle teorie estetiche presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Urbaniana, Roma; presidente della Accademia Urbana delle Arti. Pittore, membro ordinario della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon. Autore di cicli pittorici di arte sacra in diverse basiliche e cattedrali. Si interessa di questioni iconologiche relative all’arte rinascimentale e barocca, su cui ha scritto monografie e saggi; specialista di Leonardo e Caravaggio, collabora con numerose riviste; tiene dal 2000 una rubrica settimanale di storia dell’arte cristiana alla Radio Vaticana

PAROLE PER IL FUTURO: L’ARTIGIANATO

http://www.zenit.org/article-31620?l=italian

PAROLE PER IL FUTURO: L’ARTIGIANATO

Una riflessione firmata da Rodolfo Papa, docente di Storia delle Teorie estetiche presso l’Urbaniana

di Rodolfo Papa

ROMA, lunedì, 9 luglio 2012 (ZENIT.org) – È ben noto come alcuni eventi economici, politici e militari abbiano fortemente condizionato l’approccio alla questione industriale, ma c’è ancora molto spazio per la riflessione sui possibili rapporti tra industria ed arte. Entro questi rapporti, credo sia capitale soffermarsi a considerare l’artigianato: proprio l’artigianato è quell’elemento mediano tra industria e belle arti, insostituibile sul piano produttivo, ma anche teoreticamente indispensabile per porre correttamente la questione.
Negli ultimi due secoli, si è affermata come vincente l’idea che la produzione seriale di tipo industriale possa universalmente risolvere ogni tipo di problema. Sulla base della constatazione che la produzione a basso costo fosse automaticamente capace di produrre più profitto e sulla convinzione che l’incremento dell’industria pesante aumentasse la potenza delle nazioni, si è privilegiato il prodotto industriale seriale rispetto a quello artigianale.
Passata l’ondata dell’entusiasmo, si è adesso giunti al momento in cui tutte le scelte fatte in passato debbano essere pagate sul tavolo della storia, e il risultato è che un mercato basato solo sulla produzione a basso costo stia di fatto implodendo a causa di effetti collaterali a quelle politiche economiche: aver pensato che l’industrializzazione forzata di una intera nazione fosse il modo per portarla ad un adeguamento di sviluppo economico “moderno” è stato un errore clamoroso.
Entro questo momento di ripensamenti e riflessioni, io credo importante condurre una riflessione teoretica sull’artigianato, che è stato marginalizzato a puro folklore nella prospettiva industrialista. Può un prodotto industriale sostituire in ogni campo la produzione artigianale? Vorrei limitarmi a considerazioni di carattere propriamente “culturale”.
Sicuramente le funzioni di certi oggetti di uso quotidiano possono – e di fatto sono- essere svolte con pari efficienza e minor costo da prodotti industriali, rispetto a manufatti. Così, sulle nostre tavole, o sui banconi del bar, bicchieri prodotti serialmente trovano il loro giusto posto, senza dover scomodare maestri vetrai.
Ma ci sono alcuni elementi che l’industria non può produrre o riprodurre, e tutti attengono all’unicità e alla bellezza. La produzione industriale è strutturalmente finalizzata alla produzione di oggetti in serie e la bellezza in alcun modo può essere prodotta nella prospettiva seriale meccanizzata o informatizzata.
L’industria non può competere con l’artigianato per quanto riguarda l’unicità e la bellezza.
Innanzitutto questo non è economico. Se un’industria paradossalmente producesse pezzi unici o oggetti belli, la spesa non varrebbe l’impresa. Per quanto mi riguarda, mi sono interessato specificatamente della produzione industriale tessile alcuni anni fa, con la conclusione (forse scontata) che la produzione di un numero zero bello (nel caso specifico un paramento sacro: un piviale istoriato) nella prospettiva di una successiva produzione quantitativa, ebbene tale produzione del pezzo inizialmente unico avrebbe richiesto costi tali da non giustificarne la produzione. Mi fu risposto che era molto più economico e di più sicuro successo cercare la collaborazione di un artigiano.
E’ il mondo dell’artigianato, e non quello industriale, il vero alleato della creazione artistica. Non solo perché storicamente le due figure si sovrappongono, e perché in certa misura ogni artista deve essere in parte artigiano, ma perché teoreticamente la produzione di pezzi unici e belli richiede la manifattura. Non è certo un caso che il mondo del design, concettualmente legato alla produzione industriale, abbia sempre privilegiato una apparenza asciutta, minimalista, priva di decorazioni.
Nelle idee di inizio ‘900, promosse da Adolf Loos e poi dalla Bauhaus di Gropius e di Itten [1] è implicita la tautologia che la produzione industriale a basso costo non deve essere costosa, e che la produzione seriale non deve cercare l’unicità. La bellezza dell’arte non è producibile dall’industria. Il pezzo unico, fatto a mano e realizzato da artisti e/o artigiani di qualità non ha rivali.
L’unico modo di realizzazione di un pezzo unico e bello è nelle mani dell’artigiano, e questo è anche il modo meno costoso. La produzione seriale non può garantire la qualità della bellezza, proprio perché è soggetta ad una logica e ad una tecnologia che esclude l’unicità e cerca sempre la facilità.
Le belle arti e l’artigianato di qualità hanno il pregio di non essere schiave della produzione seriale né della logica del basso costo, quindi sono capaci di inventare cose belle e, non essendo soggette al condizionamento meccanico della produzione seriale, possono produrre pezzi unici di alta qualità.
Riqualificare la produzione artigianale sarebbe dunque non solo un’opera di giustizia non solo verso la umana necessità di bellezza, ma anche una operazione economicamente intelligente.
I luoghi di formazione sono i primi interessati alla rinascita dell’artigianato. In Italia si vedono dappertutto segni di grande vitalità.
Valga come esempio, la Scuola Orafa Arces di Palermo che opera dal 1995 con lo scopo di formare futuri artigiani, promuovendone le qualità individuali e aiutandoli a scegliere i propri obiettivi professionali. Esito della Scuola è la creazione di nuove botteghe artigianali o l’inserimento di apprendisti orafi, o restauratori o progettisti, in quelle già esistenti.
Recentemente, è stato istituito a Palermo anche un Master di II livello [2], della durata di un anno, in “Storia e Tecnologie dell’Oreficeria”, che nasce dalla collaborazione del Dipartimento di Chimica “Stanislao Cannizzaro” dell’Università di Palermo con il Collegio Universitario Arces.
Il percorso è multidisciplinare, ed offre 32 materie distribuite tra umanistiche, scientifiche e tecniche. Infatti, l’artigiano è uno che “sa fare”, ed unisce dunque una sapienza di tipo umanistico, una solida conoscenza scientifica ed una provata capacità di realizzazione. Quest’ultima viene particolarmente curata con la partecipazione a ben 250 ore di laboratorio di argenteria ed oreficeria
Si tratta di una sfida ad un mercato del lavoro in rapida evoluzione, che deve allo stesso tempo tenere conto del patrimonio storico e artistico, senza disdegnare, ovviamente, del contributo della ricerca scientifica e delle nuove tecnologie. Ma tutto volto alla coltivazione dell’unicità e della bellezza del prodotto, che solo l’artigianato può garantire.
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L’arte specchio della fede e sua manifestazione

http://www.credereoggi.it/upload/2004/articolo144_91.asp

L’arte specchio della fede e sua manifestazione

Sante Babolin

Lo svolgimento del tema richiede che si definisca l’arte e che si determini come la fede possa dirsi nell’arte e con l’arte. Impossibile quindi non pronunciarsi su quando un’arte si possa dire cristiana.

1. La parola dell’arte
Storicamente l’arte fu definita come fenomeno di conoscenza (Aristotele) o di godimento (Platone); a me piace definirla dal versante della conoscenza, come fenomeno di linguaggio; e questo non esclude una presenza di fruizione nella conoscenza dell’arte che, comunque, provoca sempre un’attitudine contemplativa in colui che l’ammira. È proprio per questo che alcuni amano vedere nell’arte un’azione ludica o, come oggi si ama dire, una fiction, nel senso che ci porta in un mondo di apparenze, che però svelano le realtà proprie dell’uomo: l’arte è rivelazione dell’uomo all’uomo, in tutte le sue potenzialità positive e negative. Per questa ragione l’artista gode – direi – di uno spirito profetico, di uno sguardo penetrante: «Il pittore è pittore, perché vede ciò che altri solo sente o intravede, ma non vede»[1].
Siamo così condotti a focalizzare lo specifico della creazione artistica. Propriamente parlando, la creazione compete unicamente a Dio: l’uomo non crea, ma sfiora alla superficie l’essere, plasmandolo secondo suoi modelli mentali. Con ciò riconosciamo che l’arte viene da un atto creativo dell’uomo, che lo rende un po’ simile a Dio, in quanto essa crea nuovi mondi, nei quali la realtà naturale e culturale viene interpretata, trasformata e trasferita in un significato nuovo; «l’arte rapisce le cose alla vicenda naturale, cui sono sottoposte, e le sottomette ad un’altra vicenda che essa governa in assoluta libertà»[2]; in una parola, l’arte ri-crea la materia che lavora: la pietra perde il suo peso, la sua durezza e freddezza; la tela perde ogni rugosità e opacità; le parole e i suoni perdono ogni rumore; i colori, ogni loro proprio splendore. È per questo processo che il mondo della fede può entrare nella creazione artistica.
In forza di questa profonda analogia tra l’atto creativo dell’artista e quello di Dio, l’arte in genere può favorire l’incontro dell’uomo con il suo creatore, purché ciò non sia positivamente escluso, altrimenti l’uomo rischia di considerare se stesso creatore assoluto di tutto; e il rischio è serio: il problema dell’idolatria, nell’arte e dell’arte, è più grave e più ampio del problema della verità e della moralità nell’arte e dell’arte. L’arte infatti, per se stessa, apre l’uomo verso la fonte dell’essere, di cui gli fa cogliere l’inesauribile novità: in fondo, l’artista è un esecutore della creazione di Dio e può eseguirla bene o male.
Con ciò possiamo affermare che il mondo della bellezza e dell’arte, poco o tanto, sempre ha a che fare con la religione (e anche l’ateismo è una religione). La ragione di questo inevitabile collegamento è che «il concetto dell’essere, nella sua assolutezza, condiziona il concetto del nostro rapporto con l’essere, nell’esperienza artistica ed estetica. Il Dio-Demiurgo, che plasma le cose guardando le idee e imprimendone il conio sulla materia informe, condiziona l’estetica della visione e dell’imitazione. Il Dio-Intelletto di Aristotele condiziona l’estetica dei tipi intellettivi e della verosimiglianza. Il Dio-Spirito del cristianesimo condiziona l’estetica dell’espressione e della creazione, l’estetica della parola assoluta»[3]. Se poi teniamo presente che la bellezza è intrinseca all’arte, quest’ultima o sarà un’espressione della bellezza o sarà un’espressione bella di ciò che bello non può essere.
Con L. Stefanini ritengo però che, nella concezione cristiana della vita, l’arte è soprattutto una parola assoluta, un’espressione definitiva, un microcosmo; la sua specifica qualifica è l’assolutezza, rispetto ad ogni altro tipo di espressione o espressività. Questa connotazione rende l’arte una forma simbolica che contiene in se stessa la chiave della sua interpretazione. L’arte non può quindi essere compresa come semplice fatto semiotico, né può essere interpretata o eseguita con una semplice operazione di decodifica; e questo è decisivo per capire come l’arte influisca sulla costruzione o distruzione di una comunità: l’arte consolida la persona e realizza intesa e comunione tra le persone.
Pur riconoscendo che l’arte è un’espressione della bellezza, si deve avere presente che anche il brutto entra nel campo estetico, così come il male entra nel campo etico: male e brutto sono idee negative, perché dicono privazione di bene e di bello. Perciò l’arte cristiana è innanzitutto un fatto espressivo di un bello sublime, di un bello che deve misurarsi con il brutto: assumendo una terminologia di Nietzsche, possiamo dire che nell’arte cristiana c’è posto più per una bellezza dionisiaca che per una bellezza apollinea. Per dare ragione di questa affermazione, che può sorprendere, è necessario definire il sublime e riconoscerlo come elemento costitutivo della bellezza cristiana. Conclusione: nell’arte cristiana è più importante la verità che la bellezza.
Seguendo l’estetica metafisica del mio maestro e predecessore, il padre J.B. Lotz[4], considero il bello come il trascendentale sintetico dell’essere, anzi l’essere dell’essere, la perfezione di ogni possibile perfezione. Ciò significa che il bello è la pienezza dell’essere e, in particolare, la pienezza di verità e bontà: bello è il vero che più vero non può essere nella sua intrinseca identità, è il bene che più buono non può essere nella sua intrinseca unità. Ora il sublime non è – come di solito si pensa – il bello che più bello non può essere, ma è invece il bello che supera il brutto, la luce che elimina le tenebre, la vita che vince la morte. Il sublime implica l’idea della forza, non della forma. A questo punto è chiaro che alla realtà cristiana si addice più l’idea del sublime che l’idea del bello.
Per un’arte cristiana è evidente infatti che la bellezza celebrata sarà sempre, più o meno direttamente, la bellezza di colui che è «il più bello tra i figli dell’uomo», di Gesù Cristo, rivelazione del Padre. Però si tratterà sempre di una rivelazione che si attua pienamente nel mistero pasquale, mediante la morte e la risurrezione di Cristo; di qui la connotazione di sublimità, che informa tutta l’arte cristiana, convertendola in una mistagogia permanente fino a far divampare, nel cuore del credente, la perfetta somiglianza con Cristo.
Un’arte, quindi, è cristiana quando esprime il novum christianum che è l’incarnazione (passione, morte e risurrezione) del Verbo di Dio, l’unione ipostatica della natura umana e divina nella persona del Figlio di Dio, la congiunzione energetica del divino e dell’umano in Gesù Cristo. Ora, l’espressione di questa singolare bellezza si compie nella tradizione viva della chiesa; tradizione nel senso del dono della salvezza sempre donato (traditum), posto nella chiesa dal Cristo e da essa offerto a ogni uomo. Però la tradizione si attua storicamente dentro una cultura e diventa così espressione particolare di una civiltà: si direbbe che la tradizione è un dono culturalmente confezionato. Perciò alla tradizione viva della chiesa si accede attraverso le tradizioni, che variano nel tempo, nello spazio e nello strutturarsi del loro contenuto antropologico che le veicola. L’arte cristiana è una di queste tradizioni e può assumere diverso spessore, nella misura in cui è impegnata nella testimonianza di quella fede che deve essergli intrinseca.
Per capire meglio questo fatto, ritengo importante distinguere un’arte cristiana sacra (o di culto) e un’arte religiosa (o di devozione)[5]: la prima, esprime quello che le sacre Scritture e i testi liturgici annunciano con parole, e lo rende presente per l’azione sacramentale della chiesa; la seconda, invece, l’arte di devozione, esprime la fede personale dell’artista. L’arte sacra nasce dalla fede della chiesa, espressa e celebrata nell’azione liturgica, e vive per essa, mentre l’arte religiosa nasce più dalla fede d’un singolo credente e ne perpetua, in qualche modo, la sua personale testimonianza. Ovviamente tutta l’arte sacra è anche religiosa, mentre non vale il contrario. In breve, possiamo dire che tra arte religiosa e arte sacra c’è la medesima differenza che esiste tra una poesia e un inno liturgico, al limite tra religione e fede.

3. Il dirsi della fede nell’arte
Ogni arte, anche profana, è parola; ed è vivificata da una dichiarazione che dall’artista, per quel dono di natura che si usa chiamare genio, passa all’opera e dall’opera continua a parlare; questo è il processo che produce l’arte. Da ciò si comprende subito come l’arte sia anche un mezzo di comunicazione e di dialogo tra l’artista e i fruitori della sua opera, in quanto essa consente a chiunque la percepisca di ri-vivere l’ispirazione che la fa esistere, di condividere quindi il mondo interiore dell’artista.
L’arte sacra, che è tale in senso stretto, esprime una «parola», suggerita all’artista dalla celebrazione della fede nella comunità ecclesiale; ovviamente l’artista può immetterla nell’opera, nella misura in cui tale parola è diventata sua parola, attraverso l’assimilazione spirituale nella condivisione della fede. Perciò l’arte sacra rappresenta un archetipo o una visione che trascende l’artista e che è un dato vissuto dalla comunità dei fedeli cui egli appartiene. Perciò l’artista, nella produzione dell’arte sacra, svolge un servizio o ministero a favore della sua comunità di fede; ministero che non lo declassa a puro strumento ma che lo eleva a servitore della parola, del credo che sostenta la fede di tutti. Per questo un simile artista offre il suo talento (genio) a tutta la comunità: anche il suo carisma, nella coralità dei doni, va a beneficio di tutto il corpo mistico di Cristo.
Qualcosa di analogo avviene anche nella produzione dell’arte di devozione, però con una piccola ma significativa differenza: la parola espressa viene più dall’artista che dalla celebrazione comunitaria della fede. Si può dare il caso che posteriormente la chiesa celebrante riconosca come sua tale parola, come quando una poesia viene assunta a inno liturgico; mi piace pensare che questa diacronia simpatica (discontinuità di percezione) sia un sintomo di quella connotazione profetica che, ritengo, sia intrinseca a ogni autentico talento artistico; perciò si dovrebbe prestare attenzione all’arte per capire i segni dei tempi.

3. Il comunicarsi della fede per l’arte
La comunicazione umana è certamente legata alla parola e all’istituzione intenzionale dei segni. Già sant’Agostino sosteneva che il fine principale del parlare, per gli uomini, è «significare ad altri tutto quello che meditano in cuor loro (quaecumque animo concipitur)»[6]. Ora, proprio nell’uso dei segni si determina la differenza dei processi comunicativi; a me interessa richiamare i due vettori fondamentali della comunicazione umana, secondo la classica distinzione posta da S. Kierkegaard: il vettore diretto e quello indiretto.
La comunicazione diretta avviene tra uno che parla (loquens) e uno che ascolta (audiens), come nel caso emblematico del maestro che istruisce il discepolo. Si sa che per insegnare bene si deve conoscere ciò che si insegna e colui al quale si insegna, però questo non richiede al maestro, e tanto meno al discepolo, di manifestare esteriormente tutto ciò che sente o pensa nel suo animo. Questo significa che si utilizzano delle nozioni (e quindi concetti e argomentazioni), che s’intendono comunicare; pertanto la comunicazione diretta è intenzionale e concettuale. Per questa ragione Kierkegaard, cui interessa chiarire come si comunica la fede, lega la comunicazione diretta al pensiero oggettivo[7]; e la comunicazione è diretta, anche quando «si dà un segno per effondere e trasferire nell’animo di un altro ciò che ha nel proprio animo colui che dà il segno (ad depromendum et traiciendum in alterius animum id quod animo gerit qui signum dat)»[8]. In breve, la comunicazione diretta privilegia l’uso dei concetti e si può verificare e valutare.
La comunicazione indiretta, invece, si attua con il coinvolgimento personale dei comunicanti, senza intenzionalità e senza la chiarezza e la forza delle nozioni e delle argomentazioni: è l’espressione di un’interiorità che si lascia dire, con l’unica attenzione a pronunciare parole vere, a riflettere su quanto si dice o non si dice, non solo avendo attenzione ai protocolli di comportamento o alle reazioni dell’interlocutore (prima riflessione), ma anche a quello che si vive e si pensa interiormente (seconda riflessione); e questo significa accogliere le esigenze di una doppia riflessione[9]. Impossibile quindi una comunicazione indiretta senza quella diretta, come è impossibile una seconda riflessione senza la prima riflessione.
In altre parole, il vero parlare è un dire che si lascia dire; un lasciarsi dire reso possibile da una riflessione, che va oltre l’espressione verbale e verifica continuamente il rapporto esistente tra quello che si dice (verbum oris) e quello che resta da dire (verbum mentis). Perciò la parola è vera (autentica), quando il parlante concede all’interlocutore la possibilità di entrare nel santuario della sua interiorità; e quando si toglie questa apertura, il parlare diventa recitare; e gli interlocutori normalmente avvertono quando chi parla recita.
Anche nell’opera d’arte c’è un’interiorità che va oltre ciò che è immediatamente fruibile; quando questo «oltre» manca o è quasi assente, abbiamo qualcosa che si chiama arte ma arte non è. Nel caso dell’arte cristiana, l’attenzione deve cadere proprio sulla profondità del mistero rappresentato. Per questa via si può capire il fascino, che ancor oggi esercitano le icone su credenti e non credenti: attrae la profonda interiorità del credente che continua a vibrare nella rappresentazione del mistero che l’icona offre. Non a caso l’icona veniva considerata «preghiera», perché faceva (e fa tutt’ora) pregare; è questa elevazione dell’animo che rende mistagogica l’arte sacra. E qui si rende necessaria una riflessione sulla funzione mistagogica e didascalica dell’arte cristiana.
Come nella comunicazione abbiamo costatato che i vettori diretto e indiretto sono inseparabili, analogamente nell’arte cristiana le dimensioni didascalica e mistagogica sono inseparabili; vedo però necessario individuare un giusto equilibrio nella loro compresenza. Qui può esserci utile il riferimento all’equilibrio che raggiunge, nel rito funzionante, la compresenza della parola e del gesto: come la parola non riduce al minimo il gesto (né il gesto, la parola), analogamente l’intento catechetico (didascalia) non dovrebbe ridurre al minimo l’elevazione dell’animo (mistagogia). Mi sembra che questo giusto equilibrio si sia attuato nell’arte iconografica tradizionale, nel canto gregoriano e nelle chiese (fino allo stile gotico), mentre mi sembra stenti a manifestarsi in tanti tentativi dell’arte cristiana odierna. Anche nelle soluzioni notoriamente apprezzate spesso manca esattamente la dimensione mistagogica: nei casi più felici, c’è un’arte che si fa ammirare, ma che non fa pregare; e questo in un tempo in cui gli uomini cercano la preghiera. Le cause culturali della perdita di questa dimensione mistagogica sono molte e lontane nel tempo.
Per iniziare una riflessione più approfondita, potremmo partire dall’ultima riforma liturgica, che ha privilegiato, giustamente, la parola, trascurando però il linguaggio delle immagini, dei gesti e dei simboli[10], e che di fatto non ha ancora provocato un vero rinnovamento liturgico, capace di dare senso e colore alla vita quotidiana dei fedeli che ancora frequentano la messa domenicale. Se riconosciamo – come sostiene B. Croce – che abbiamo l’arte che siamo, il problema della presenza di un’arte sacra, per l’uomo d’oggi, si risolverà favorendo la rinascita del senso del sacro[11], più che attraverso interventi mirati sugli artisti o sulle opere d’arte, anche se sarebbe sempre auspicabile una formazione specifica per quei fedeli che mettono a disposizione della ritualità liturgica e della fede cristiana il loro talento artistico.
Quest’ultimo aspetto suggerisce che una ri-vitalizzazione dell’arte sacra non è possibile se non si riscopre il cammino mistagogico nella ritualità cristiana, compresi gli spazi e i tempi sacri. Credo che questa esigenza abbia una forte giustificazione antropologica e meriti perciò una particolare attenzione.
Per concludere, credo che si debba insistere sul rinnovamento liturgico, privilegiando ora il linguaggio dei simboli. L’operazione è un po’ difficile, perché esige, innanzitutto, una chiara conoscenza della dinamica esistente tra concetti e simboli (e tra simboli e archetipi), in modo che sia equilibrata e indovinata la loro presenza. Infatti, una presenza dei concetti, che riduca al minimo i simboli, provoca un rito da proscenio, un’arte concettuale, una gestualità insignificante e un’atmosfera arida; mentre una presenza dei simboli, che riduca al minimo i concetti (come spesso e incautamente si fa nella catechesi), provoca un rito incomprensibile, un’arte ermetica, una gestualità fantasiosa e un’atmosfera surreale. Soltanto il ritorno corretto dei simboli favorirà l’avvento di un’arte sacra che risponda alle esigenze dell’uomo d’oggi.

Sante Babolin

ordinario di Filosofia presso la
Pontificia Università Gregoriana – Roma

(NOTE SUL SITO)

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