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LA PROSPETTIVA TEOLOGICA DELL’ARTE SACRA

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LA PROSPETTIVA TEOLOGICA DELL’ARTE SACRA

Una riflessione di Rodolfo Papa, docente di Storia delle Teorie estetiche presso l’Urbaniana

di Rodolfo Papa

Nel precedente articolo, abbiamo tracciato qualche linea teorica relativa alle dinamiche culturali che hanno coinvolto e coinvolgono l’arte cristiana. Il sistema d’arte cristiano, assorbendo osmoticamente influssi diversi capaci di confluire nell’espressione della Weltanschauung cristiana, ha innovato la cultura e il mondo delle arti. Questa complessa dinamica ha arricchito notevolmente la teoria e la tecnica artistica.
La prospettiva è il frutto maturo di questa capacità innovativa dell’arte cristiana; la prospettiva, infatti, fa parte del proprium dell’arte cristiana cattolica, universale.
Come ho recentemente scritto in Discorsi dell’arte sacra1, la prospettiva nasce all’interno dell’arte cristiana da un’esigenza intima di carattere spirituale e dopo una profonda riflessione teologica.
Tra la fine del XII e l’inizio del XIII sec., accadono numerose e determinanti innovazioni tecniche, tali da portare verso una profonda maturazione tutta l’arte cristiana.
Assistiamo, infatti, alla nascita della prospettiva lineare in senso stretto, alla nascita di una più consona teoria delle luci e delle ombre ed a uno sviluppo delle varie tecniche pittoriche.
Ho più volte sottolineato come la spiritualità dei neonati Ordini Mendicanti2, in modo particolare la spiritualità francescana, e anche alcune riflessioni già fatte da alcuni vescovi nella II metà del XII secolo, conducano ad una profonda comprensione della necessità di rappresentare lo spazio corporeo dell’Incarnazione come evento che stravolge la storia.
Questa esigenza rappresentativa è la vera causa della nascita della prospettiva. Gli studi di ottica, le teorie della visione, provenienti per esempio dalla cultura araba, vengono assorbiti in questa esigenza teologica e spirituale, producendo qualcosa di profondamente nuovo e originale.
La prospettiva, infatti, rappresenta spazi tridimensionali che sanno essere contemporanei allo spettatore, nei quali lo stesso spettatore è coinvolto: la Sacra Storia è raccontata come presente, e chi guarda ne diventa protagonista.
La stessa intuizione da cui è nato il Presepe di Greccio muove la nascita e lo sviluppo della prospettiva.
Anche alcuni teorici nostri contemporanei, quali Didi-Hubermann, pur all’interno di una visione anacronistica della storia3, riconoscono alla esperienza mistica di san Francesco una valenza generatrice di una più profonda riflessione sulla corporeità in campo teorico-artistico4.
Lo storico dell’arte francese Daniel Arasse ha dedicato molti studi all’analisi della prospettiva, tra cui il più famoso ed interessante è L’Annunciazione italiana. Una storia della prospettiva5. Esaminando in maniera completa e compiuta il tema dell’Annunciazione tra XII e XVI secolo, Arasse individua una serie di categorie iconologiche, inserendo la prospettiva in una dimensione teologica; egli afferma: «quella che propongo di definire “prospettiva teologizzata” … instaura, nella proporzionalità regolata dell’opera, uno scarto che visualizza la venuta dell’incommensurabile divino nel mondo umano della misura»6. Nota Omar Calabrese: «L’innovazione della prospettiva assume il carattere di un’invenzione miracolosa, perché conferisce ordine, sintassi alla storia, ma allo stesso tempo fa apparire la realtà come se parlasse da sola, dal momento che è capace di nascondere il fatto che siamo in presenza di un discorso»7 .
La prospettiva è uno dei massimi risultati che l’arte cristiana abbia prodotto. Volendo dipingere il senso più intimo del Vangelo, ci si è interrogati sul “come”: come rappresentare?
La soluzione è interna, sta nell’articolazione di altre due domande “cosa rappresentare?” e “perché rappresentare?”. Dall’articolazione stessa del messaggio di Fede nasce il “come” annunciarlo.
La prospettiva non è un elemento “altro” poi aggiunto estrinsecamente a un nucleo essenziale, ma nasce all’interno dell’arte cristiana, come una sorta di strumento formato proprio per poter annunciare l’Emanuele, il Dio con noi.

1 R. Papa, Discorsi sull’arte sacra, Cantagalli, Siena 2012, pp. 143-144.
2 R. Papa, Maestro di Isacco. Padre di Benedizione, in R. Papa; M. Dolz, Il volto del Padre, Ancora, Milano 2004, pp. 75-89. R. Papa, La nascita dell’arte moderna, ovvero l’influenza degli ordini mendicanti nell’invenzione dell’arte cristiana, in “ArteDossier” Giunti Firenze, XXIV, n. 258, settembre 2009, pp. 56-60.
3 La percezione delle immagini avviene in un tempo diverso da quello della produzione delle medesime immagini, e tra i tempi si creano sovrapposizioni inevitabili ed interazioni interpretative. Per certi versi l’anacronismo è insopprimibile: «L’anacronismo è necessario, l’anacronismo è fecondo quando il passato si rivela insufficiente, ovvero quando costituisce un ostacolo alla comprensione del passato»; tuttavia l’anacronismo va gestito con intelligenza. Cfr. G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini [2000], trad.it., Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 22
4 G. Didi-Huberman, L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive [2007] trad. it , Bruno Mondadori, Milano 2008,
5 D. Arasse, L’Annunciazione italiana. Una storia della prospettiva, VoLo publisher, Firenze 2009.
6 Ibid., p. 187.
7 O. Calabrese, Tempi luoghi e soggetti dell’Annunciazione, in D. Arasse, L’Annunciazione italiana, p. 13

Publié dans:arte sacra, Teologia |on 5 novembre, 2018 |Pas de commentaires »

IL BEATO ANGELICO: LA SACRA LUCE DELLA PITTURA

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IL BEATO ANGELICO: LA SACRA LUCE DELLA PITTURA

febbraio 7, 2016 da restaurars di Laura Corchia

“Angelicus pictor quam finxerat ante Johannes, nomine non Jotto non Cimabove minor.”

(Domenico di Giovanni da Corella, Theotokon, 1469)

La critica ha considerato a lungo il Beato Angelico come un pittore attardato rispetto alla pittura progressista prodotta dal contemporaneo Masaccio. In realtà fu uno dei primi artisti fiorentini ad assimilarne la lezione e rielaborarla alla luce delle personali esperienze.
Guido di Pietro, più comunemente noto come frate Giovanni da Fiesole o Beato Angelico, nacque tra il 1385 e il 1400 nella cittadina di Vicchio nel Mugello.
Come osservava il Vasari, già nel 1417, prima di prendere i voti, Beato Angelico figurava come pittore a Firenze: “arebbe potuto comodissimamente stare al secolo, e oltre a quello che aveva guadagnarsi ciò che avesse voluto con quell’arti che ancor giovinetto benissimo far sapeva; e nondimeno, per sua soddisfazione e quiete, essendo di natura posato e buono, e per salvar l’anima sua principalmente volle farsi religioso dell’ordine de’ Frati Predicatori.”
La sua formazione è debitrice di Lorenzo Monaco e di Gherardo Starnina: dal primo apprese l’uso di colori innaturali e accesi e di una luce fortissima. Le sue opere, pervase da un forte sentimento religioso, si caratterizzano per una visione più attenta al dato reale.
Nel 1420 divenne frate nel convento di San Domenico di Fiesole e nel 1427 fu coinvolto nella ricostruzione del convento domenicano di San Marco. L’intera decorazione interessò gli spazi collettivi e privati e, per la prima volta nella storia, le celle monastiche accolsero affreschi sulle pareti che avevano il compito di favorire la riflessione e la meditazione dei monaci. L’Angelico adottò un linguaggio essenziale e simbolico, fatto di colori tenui e di una smorzata lucentezza.
Nel 1447 fu chiamato a Roma da papa Niccolo V per affrescare la cappella Niccolina. Anche in questo caso, l’artista diede propria di una straordinaria duttilità, dando vita ad un ciclo di chiaro stampo umanistico. A tal proposito, il Landino disse di lui: “angelico et vezoso et divoto et ornato molto con grandissima facilità”.
La sua arte, profondamente intrisa della nuova cultura prospettica quattrocentesca, non dimentica però le raffinatezze dello stile medievale che si era lasciato alle spalle. In questo difficile e raffinato equilibrio tra passato presente dunque sta tutto il segreto della sua personalissima idea di pittura. I suoi personaggi hanno corpi solidi ma, nello stesso tempo, risultano sempre sospesi in un’atmosfera di solenne spiritualità. I colori vivaci e la luce perennemente mattutina rimandano ad una visione simbolica della realtà, nelle quale fede e ragione coesistono con estrema naturalezza.
Beato Angelico si spense a Roma il 18 febbraio 1455. La sua lastra tombale è ancora oggi visibile, vicino all’altare maggiore. Su di essa si legge: “Qui giace il venerabile pittore Fra Giovanni dell’Ordine dei Predicatori. Che io non sia lodato perché sembrai un altro Apelle, ma perché detti tutte le mie ricchezze, o Cristo, a te. Per alcuni le opere sopravvivono sulla terra, per altri in cielo. la città di Firenze dette a me, Giovanni, i natali”.
“…l’Angelico rappresenta, grosso modo, nel quadro delle correnti intellettuali della prima metà del Quattrocento, la filosofia tomista in opposizione alla filosofia neo-platonica personificata dall’Alberti. Ma egli stabilisce altresì la possibilità di mediazione tra le due espressioni. È lui che, tra il realismo di Donatello e le teorie di storicità dell’Alberti, ha creato il compromesso del naturalismo, aprendo così la via a un’arte che non è più una rappresentazione immobile, ma, al contrario, un discorso animato, un colloquio umano. È lui che traccia la strada che più tardi percorreranno tutti i grandi pittori di “racconti” del Quattrocento, da Benozzo Gozzoli al Ghirlandaio; ed è ancora lui, infine, che ha identificato nella luce quel principio di qualità che permette all’esperienza umana, limitata e attaccata alla “quantità”, di elevarsi fino a comprendere l’idea suprema dell’essere. Piero della Francesca partirà di qui per raggiungere quell’identità di spazio e di luce che è la sintesi di tutti i grandi temi dell’arte nei primi anni del XV secolo: la ricerca di una conoscenza che ha dell’umano e del divino, di una forma che possa esprimere altrettanto bene il dramma e il contrasto della vita umana, e le leggi eterne e razionali della natura”. (Giulio Carlo Argan, Fra Angelico, 1955).

Publié dans:arte sacra |on 17 septembre, 2018 |Pas de commentaires »

L’ARTE MODERNA O LA “SOFIA” DISSACRATA – Pavel Evdokimov

http://oodegr.co/italiano/tradizione_index/arte/artemodernaevd.htm

L’ARTE MODERNA O LA “SOFIA” DISSACRATA

Pavel Evdokimov

Sin dalle origini la teologia occidentale ha manifestato una certa indifferenza dogmatica verso la portata spirituale dell’arte sacra di quell’iconografia che, malgrado il lungo martirologio, è assai venerata in Oriente. Provvidenzialmente, l’arte occidentale segnò tuttavia un ritardo sul pensiero teologico e, fino al XII secolo, rimase fedele alla Tradizione comune sia all’Oriente che all’Occidente. Questa tradizione comune è pienamente viva nella magnifica arte romanica, nella meraviglia della cattedrale di Chartres, nella pittura italiana che coltiva ancora la “maniera bizantina”.
Ma a partire dal XIII secolo, Giotto, Duccio, Cimabue, introducono l’artificiosità ottica, la prospettiva, la profondità, il gioco del chiaro-scuro, il “trompe-l’oeil” (l’illusione ottica). Se l’arte diviene più raffinata, più attenta all’elemento immanente, è meno portata verso la presa diretta del trascendente[1]. Recenti studi scoprono una forte influenza dell’intellettualismo domenicano anche nella visione di Frate Angelico. Rompendo con i canoni della tradizione, l’arte non viene più integrata al mistero liturgico. Sempre più autonoma e soggettiva, abbandona la “biosfera” celeste. Gli abiti dei santi non fanno più sentire sotto le loro pieghe i “corpi spirituali” e persino gli angeli appaiono come esseri fatti di carne e di sangue. I personaggi sacri si comportano esattamente come tutti, vengono abbigliati e collocati nell’ambiente contemporaneo dell’artista. Ancora un passo avanti ed il racconto biblico, l’evento miracoloso diviene solo occasione per eseguire sapientemente un ritratto, un’anatomia, un paesaggio. Il colloquio (diretto) da spirito a spirito si affievolisce, la visione del “fuoco delle cose” fa spazio all’emozione, ai trasporti dell’anima, alla commozione. Secondo Maurice Denis, Leonardo da Vinci è il precursore dei Cristi del genere Muncancsy, Tissot, e al termine della stessa linea emozionale, verranno le immagini attuali del “Sacro Cuore”. Parimenti, quando un Crocifisso, col suo realismo voluto, colpisce il sistema nervoso, il mistero ineffabile della Croce perde la sua potenza segreta, si cancella. Quando l’arte dimentica la lingua sacra dei simboli e delle presenze e tratta plasticamente “soggetti religiosi”, essa non è più percorsa dal respiro del Trascendente.
Passata la metà del XVI secolo, i grandi artisti come il Bernini, Le Brun, Mignard, Tiepolo, si esercitano su temi cristiani in totale assenza di sentimento religioso. La così detta arte sacra che oggi si trova nelle chiese è la più sprovvista di dimensione del sacro. Ma lasciamo parlare un teologo: “Tutta la controversia sull’arte sacra che in questo momento fa rabbia in Occidente si muove su un terreno e si dibatte in una alternativa che rivelano parimenti la completa eterogeneità tra le due arti sacre di Oriente e di Occidente. Più precisamente, essa mostra sopratutto che l’arte religiosa di Occidente, qualunque sia la concezione che uno se ne sia fatta, non ha assolutamente nulla di sacro, nel senso in cui sono sacre le icone. Fondamentalmente essa è un’arte soggettiva che mira ad esprimere il sentimento religioso… Mirabilmente tutto dice che l’arte religiosa in Occidente non è incorporata nella liturgia e che non si ha più neppure la nozione che potrebbe esserlo… Attualmente, a San Vitale (Ravenna) non c’è più altare né in generale oggetti liturgici. Con ogni evidenza ci si trova, dunque, in una chiesa dove tutto attende i santi misteri. All’incirca dall’epoca gotica, nelle nostre chiese più belle come in quelle più mediocri, si può benissimo celebrare la messa tutti i giorni, vi si trova di che stimolare o fiaccare la devozione spirituale, ma nulla è diverso dal laboratorio o dal museo, nulla vi riunisce nel mistero le pitture o le sculture che occupano i muri”[2].
Con la fine del XVIII secolo, l’arte perde visibilmente il legame organico tra il contenuto e la forma e si immerge nella notte delle rotture. Certamente, l’arte rimane complessa, e per fortuna mantiene tutte le tendenze, anche se la predominanza di alcune ne modifica il volto. Noi seguiremo unicamente l’evoluzione di quella che sfocia nella pura astrazione.

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Quando il «conoscere» non è più un atteggiamento di adorazione, comunione orante, la conoscenza si separa dalla contemplazione. In cambio di un “sapere per potere” e della crescita di questo potere sulle cose di questo mondo, si rinuncia all’approfondimento dell’interiorità che va fino all’incontro con il Trascendente e in Lui con tutta la realtà fremente di vita. Allora, però, l’essere si svuota del suo contenuto essenziale, perde la sua radice celeste, si snatura, si dissacra e la coscienza non scopre il “Dasein”, l’essere là, se non per rivelarlo come “essere per la morte”, rinserrato dal nulla. Si distrugge il reale dissociandone gli elementi, suscitando discontinuità invalicabili. All’uomo non rimane che la spiritualità dell’anima, per sua natura acosmica, oppure un moralismo di volontà che gli impediscono, entrambi, il colpo trasfigurante della materia. Una filosofia esistenzialista con le sue sostanze chiuse, rette dal principio di causalità. O un pensiero esistenzialista con le sue presenze senza spessore ontologico, non possono aprirsi al dinamismo energetico delle similitudini e delle partecipazioni autenticamente divinizzanti. La liturgia cosmica non trova più cantori perché l’opacità dei corpi non è impregnata dalla luce del Tabor e la gloria non affiora più in una natura dissacrata.
L’arte subisce l’influenza dei “signori” del mondo e della propria saggezza: l’artista, votato più che mai alla solitudine, cerca una specie di “sovra-oggetto”, di “sovra-realtà”, perché per lui la semplice realtà non è più esprimibile direttamente. Eroicamente ma senza molte speranze, si sforza di trovare quel lato segreto che è stato divelto dalle cose di questo mondo. Volendo conoscere l’oggetto secolarizzato, si perde il suo mistero; ma la sola ricerca, per reazione, per disperazione, di questo mistero, fa perdere la cosa e conduce all’astrazione docetista, al gioco fantasmagorico delle ombre senza corpo.

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La rottura con il passato scaturito dal Rinascimento e la nascita dell’arte moderna possono essere datate nel 1874, con la mostra allestita presso Nadar.
Andando dall’inquietudine profonda di Cézanne all’angoscia tragica di Van Gogh, la pittura indipendente, per sua natura soggettiva, mostra un bisogno di rinnovamento che cerca di manifestare stati d’animo sempre insoddisfatti. L’impressionismo e l’espressionismo trasmettono le reazioni soggettive della retina o del sistema nervoso dell’artista. Questa è la pittura del circostanziale, dell’estemporaneo interpretato emotivamente. L’oggetto emulsionato si disperde nel plasma luminoso e cromatico. La tecnica del tocco diviso e giustapposto insegue le vibrazioni colorate della luce e cerca la sintesi nel fissare l’attimo.
Il cubismo, da parte sua, scompone l’unità vivente nei suoi elementi geometrici e ricostruisce il quadro cerebralmente, come un problema matematico. Abbandona i giochi di luce e di colore ed analizza l’oggetto come si presenta all’immaginazione, collocato in uno spazio ridotto a due dimensioni oppure, al contrario, in uno spazio pluridimensionale come l’atomo dei fisici.
Il surrealismo rende irreale questo mondo e gliene sovrappone un altro, inventato, fino ad andare a profilare un’ “aura sovra-esistenziale”.
L’arte si emancipa da ogni “canone”, da ogni regola; se “teurgica”, si lancia in potenze magiche d’incanto, in false trascendenze, veri e propri “falsi parti metafisici”. È la voga delle maschere negre, del potere inebriante della mescalina, delle imitazioni del falso simbolismo occulto, delle composizioni che si ispirano al cemento armato, all’atomo e al razzo, delle immagini plastiche della velocità pura, della scultura col filo di ferro.
L’enorme pressione dell’universo “appiccicoso e soffocante” genera la danza moderna, un movimento indiavolato che però non porta in nessun posto. Questa è la terribile libertà di ogni artista di rappresentare il mondo ad immagine della propria anima devastata, giungendo fino alla visione di una immensa latrina dove brulicano mostri disarticolati. Ovunque si avverte la discontinuità dei ritmi spezzati, sincopati, la dissoluzione delle forme e la scomparsa del contenuto preciso, del soggetto del volto, del senso delle parole in poesia o della melodia nella musica.
Per la moderna coscienza “sfaccettata”, l’oggetto non esiste nella sua forma unica ma assume molteplici aspetti. Prima di scomparire, l’oggetto si impenna in un’ultima agonia, appare attorcigliato e convulso. Insomma il contenuto delle cose e l’epidermide dei volti si decompongono, tutto viene fatto a pezzi, atomizzato, disintegrato. Percepita in questa maniera, la realtà riflette una coscienza, pure essa, lacerata e a sua volta se ne impregna. L’uomo non è più dominatore delle tendenze anarchiche della natura. Egli non le mette più in ordine con il suo spirito, ma le registra e le aggrava col suo rifiuto di intervenire. Prima, le cose interrogavano, come in attesa e l’artista rispondeva ad esse facendole vivere pienamente sotto il suo sguardo creatore, restituendo loro l’innocenza verginale, facendole ritornare “da lui”, verso il loro candore e la loro ingenuità.
L’artista moderno, prima di guardare il mondo, interroga la propria anima ed applica alle cose la propria visione “disintegrante”, si rende complice dell’antica ribellione che vuole liberarsi innanzi tutto del Senso e di ogni principio normativo. Un simile ritorno verso il caos primordiale accelera l’usura del tempo e assottiglia l’essere sino all’indigenza del nulla. La materia si dissolve perdendo i suoi contorni, viene vista nell’atomo temporale di cui è stata esclusa la durata, e dunque il fremito del viso, la familiarità dello sguardo. Ogni suo frammento comincia a vivere un’esistenza particolare. Il celebre Saturno di Goya rode la sostanza dell’uomo. Nel momento delle convulsioni della fine del MedioEvo, attraverso le brecce che si aprono, si dipartono soffi solforosi che portano il brulichio dei desideri liberati, l’eterno vagare delle voglie. Le potenze irrazionali e demoniache irrompono e corrono qua e là per il mondo. Se l’uomo di Goya è spiato dai mostri che emergono dal suo subcosciente, in Bosch, persino il cammino paradisiaco prende la forma di un lungo, interminabile tunnel oscuro a cui si ispireranno Kafka e Freud. La via à tenebrosa, opprimente, molto poco certa riguardo al suo punto di uscita. Non maggiormente rassicurante è l’uomo visto da Picasso e dalla sua “linea di crudeltà”. In quel modo probabilmente i demoni vedono forse il mondo in un’ottica occulta e fuori dall’inaccessibile immagine di Dio.
Il livellamento universale sbriciola l’Unico, l’Ideato, il Sacro e li sostituisce con la magia di un movimento turbinoso su stesso, decentrato. Non si tratta più dell’eternità ridotta a frammenti dal peccato, ma del tempo ridotto in nulla. L’inferno non somiglia forse ad un frammento del tempo soggettivo dilatato ed eternamente fisso, un sogno senza sognatore, l’ultimo rifugio dell’inesistente? L’esistenza ultramoderna non conosce né l’Avvento, né la crescita dell’essere, né la successione degli eventi, ma contiene in sé una coesistenza di frammenti, di schegge che si ricoprono l’una con l’altra senza luogo né sequenza ordinata. La durata orientata cede il posto alla simultaneità, all’istantaneità, al futurismo, e si assottiglia in una pseudo escatologia del ritorno all’elementare. Al limite un cadavere non si muove, si distende. Già Dostoevskij profetizzava che l’uomo avrebbe perso anche la sua forma esteriore se avesse perso la propria fede nell’Integrazione divina. Un tempo i grandi Maestri, prendendo a soggetto una qualsiasi particella dell’essere, davano la sensazione di avere tra le mani il mondo palpitante di vita. Adesso il mondo si restringe su immensi pannelli alla povertà di alcuni frammenti.
Osserviamo la celebre Barbara di bronzo di Jacques Lipchitz. Non ha epidermide, quello che si vede corrisponde ad un volto ma non gli somiglia affatto. Lo scultore si è immedesimato in Barbara e trasmette sensazioni interne. Trasferisce in immagine visiva l’impressione cenestesica. Il groviglio di fili, di nodi, di sporgenze e di vuoti deve rivelarci le sensazioni di Barbara che avanza verso di noi. La sua interiorità viene tradotta senza alcuna analogia con la natura consueta. È un’arte cerebrale, che non cerca un senso, o il mistero del destino, ma la funzione, il rapporto, la dipendenza. Così lo scultore Henry Moore si occupa della proiezione di una sostanza in un’altra e si chiede cosa diventa il corpo umano costruito con la pietra. Simile è anche la pittura intra-atomica o la mistica corpuscolare di Salvador Dalì o di Francis Picabia.
L’arte non figurativa, informale, astratta, col negare ogni oggetto concreto sopprime qualsiasi supporto ontologico. Non è una mela rossa ma il rosso in sé, una macchia colorata nella quale l’artista proietta un significato comprensibile a lui soltanto.
Schopenauer diceva che tutte le arti contengono una tendenza segreta verso la “musicalità”. Ebbene, tra le arti, la musica è la sola a non presentare alcuna imitazione delle forme di questo mondo. Malgrado, o forse grazie a questa assenza, Kandinskij, Malevič, Kupka, Mondrian seguono l’auspicio di Mallarmé: “prendere in prestito dalla musica le sue leggi e i suoi poteri”. Violoncellista dotato, Kandinskij chiama i suoi abbozzi “improvvisazioni” e le sue opere finite “composizioni”. Kupka disegna “Fuga in due colori” e “Cromatismo caldo”. Paul Klee, musicista e compositore, nella sua pittura cerca metamorfosi in perenni germinazioni liriche o esplosive. Mentre il musicista Scriabine parlava della “sinfonia della luce” e di suoni suscitanti associazioni di colori. Survage, Béothy, Cahn, Valensi realizzano questo sogno su pellicole cinematografiche e fanno sperimentazioni su “ritmi colorati”, Richter arriva persino a fare film astratti.
La “musica concreta” elimina la melodia, l’armonia, il contrappunto. Mentre secondo Mozart l’essenza della melodia precede la sua differenziazione in parti, la frammentazione passa alla giustapposizione delle sonorità isolate, alla discontinuità del genere di Stravinskij, infine alla vibrazione pura e al caos dei rumori liberati. È sintomatico che Boris Bilinskij, nelle sue ricerche della “continuità delle forme e dei colori senza soggetto” illustra giustamente Débussy e Ravel presso i quali appare già un mosaico musicale, un susseguirsi di pezzi senza necessità di un legame organico.
Il pittore Tchourlandsky (prima di finire la sua vita in una casa di cura) traduce con i suoi “quadri-sonate” senza soggetto la sua “sensibilità musicale del mondo”. Malevič ha sentito in lui una mistica della notte dove il mondo si ricrea come potrebbe esserlo. È la “mezzanotte” mallarmiana e la sua “goccia di nulla”. Creatore del “suprematismo”, Malevič cerca l’intensità suprema dell’“assenza”. Lo spazio liberato da ogni trama diviene un “contenitore senza dimensioni”, senza componenti spaziali, una forma a priori pura senza soggetto né oggetto. In lui la diagonale traduce l’idea del movimento nella vacuità. È una astrazione depurata all’estremo che trova il suo segno in un quadrato nero su fondo bianco. Scrive «Die Gegen standlose Welt», “Il mondo della non-rappresentazione” e parla del mondo dell’idealità pura spogliata di qualunque realtà rappresentabile. Franz Kupka, studia teologia, impara l’ebraico per leggere la Bibbia e fa il medium in sedute spiritiche. Orfista, dipinge la “Fuga in rosso e blu” e trasferisce le sue esperienze metafisiche servendosi di segni geometrici e di un’affettività astratta. Il mondo cerebrale e ideale viene opposto violentemente al mondo reale e percepito. I piani verticali respingono il peso dello spazio.
In tutti questi artisti, la pittura “non-figurativa” conosce solo proporzioni e rapporti costruttivi, una ritmica dei piani colorati pura, linee discorsive e valori plastici.
Kandinskij ha descritto questo misticismo esangue nel libro, filosoficamente assai debole, intitolato “Sullo spiritualismo nell’arte”. Mondrian, calvinista olandese, membro della “Società di Teologia”, cerca il trascendentale nello stretto rapporto delle linee che si incontrano all’angolo destro. In P. Klee si sente, più che negli altri, la sete di penetrare la sfera primordiale, il “tohû wà bohù”, l’abisso senza forma né contenuto di cui parla la Bibbia all’inizio, la potenzialità pura e ideale. Egli pensa che gli artisti eletti scendano sino a quel luogo segreto dove le potenze primordiali alimentano ogni possibile evoluzione. Per Klee, la forma attuale non è il solo mondo possibile. Si indovina la tentazione demiurgica di intuire e di immaginare un cosmo diverso da quello che Dio ha creato. Alla stessa stregua il surrealismo del tipo di André Breton, di Max Ernst, di Picabia, forza le porte dell’irrazionale con “disorientamenti sistematici” e la curiosità stimolata cerca il nocciolo segreto delle cose – “Ding an sich” – nell’astrazione delle cose stesse. Ebbene, San Gregorio di Nazanzio avverte: “Maledizione all’intelligenza che ha guardato con occhio subdolo i misteri di Dio”[3].
Per Iavlenskij, amico di Kandiskij, l’arte esprime “la nostalgia di Dio”. La diagonale di Malevič o il movimento delle linee che si intersecano all’angolo destro, si fermano davanti al quadrato, secondo Mondrian, segno geometrico ideale dell’Assoluto. Nei grandi fondatori dell’arte astratta, il desiderio di penetrare dietro il velo del mondo reale è visibilmente di natura “teosofica”, occulta. “Allo stadio superiore – scrive P. Klee – c’è il mistero”. Una nuova era della conoscenza di Dio? Può darsi, ma essa si colloca fuori dal Dio incarnato, è una conoscenza dell’ideale e astratta deità fuori dal Soggetto divino…
Più inquietanti sono le forme dell’“esistenzialismo artistico”. L’inconscio sogna lo spazio curvo e la quarta dimensione. Ma la natura potrebbe pure vendicarsi ingannando la curiosità degli uomini. L’immaginazione inebriata delle sue illimitate potenzialità introduce l’allucinazione e il delirio per giungere all’arte grezza di Dubuffet, all’arte primitiva dei malati mentali, agli “incubi mistici” di Hernandez, al bestiario di Kopac, ai “costruttori chimerici” di Giraud, al primitivismo assoluto. Ricordiamo le parole di André Gide: “l’Arte nasce da costrizioni e muore di libertà”. La violenza sessuale ossessiona pittori come Goetz e Ossorio, o scultori come Pevsner, Arp, Stahly, Etienne Martin. Accanto ai “collages” e alla scrittura automatica, l’illogismo di Max Ernst o di Dalì sposa la precisione fotografica degli oggetti con il cambiamento della loro funzione, per esempio “l’orologio liquido”. In Pollok e in tutta la scuola americana Action Painting l’automatismo della velocità ha come scopo quello di escludere la coscienza. I colori vengono gettati sulla tela senza toccarla per evitare qualsiasi intenzione, anche non cosciente.
Georges Mathieu disegna in stato di trance, su una pedana, col suono della musica concreta. Un’immensa tela – 10 x 2 – viene coperta nello spazio di un’ora. Si bucano i tubetti, ne escono fuori i colori che si proiettano, per così dire, da soli, conformi all’ambiente magico di trance. Alla fine, l’artista giace in uno stato completo di prostrazione. La spontaneità impulsiva delle viscere sfiora il caos pre-cosciente. Gli ultimi grandi pannelli di Bernard Buffet, per via di una profanazione voluta, sono i più sintomatici. Il loro unico soggetto mostra uccelli mostruosi che, con sguardo di una immobilità cadaverica, calpestano un corpo di donna, nudo. Tutti veli, anche anatomici, vengono strappati e le posture, ben studiate, giungono alla profanazione massima ed oscena del mistero dell’essere umano. Davanti a questi pannelli, con il loro odore specifico di putrefazione, viene alla memoria un passo della “Scala” di San Giovanni Climaco: “avendo visto la bellezza femminile ha pianto di gioia ed ha lodato il Creatore… Un uomo siffatto è già risuscitato prima della Resurrezione di tutti”.
Se si vuole immaginare la decorazione murale dell’inferno, oggi un certo tipo di arte risponde alla bisogna. Il biblico “Astuto”, che Lutero traduce con “colui che arriccia il naso”, ha ridotto la sua esistenza all’amara professione di burlarsi dell’essere. Lo si può fare anche in buona coscienza e gusto, da artista, in modo impercettibile per sé e per gli altri. Si tratta di una resistenza “all’immagine e somiglianza di Dio”, ancor di più, al Dio “Filantropo” che tesse con la sua luce il suo volto umano. L’arte astratta, per sua natura, non contiene nulla in sé per conoscere “la Parola che si è fatta carne”. Cosa può dire sull’Eucarestia, sulla trasfigurazione del corpo, sulla resurrezione della carne? Una luce taborica senza Cristo, la luminosità dei santi senza i santi, sono raggio prigioniero di uno specchio magico, segno infernale di non pienezza.

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Tra i vari e possibili approcci filosofici, la concezione sofiologica è quella più idonea a definire la natura dell’arte astratta. Secondo questa dottrina, il suo fondamento “ideale”, nel senso platonico del termine, si trova nella sua espressione più classica, ben più in profondità dell’aspetto fenomenale, mobile e cangiante dell’essere. Esso è costituito da principi ideali, normativi, che vengono pure chiamati i “logoi” delle cose e degli esseri. Questo mondo ideale, che esiste al di sopra della forma temporale e spaziale dell’essere a cui dà una struttura e che permea, viene chiamato Sofia (Sapienza) creata. Creata e terrena, essa è a immagine della Sofia celeste e non creata la quale, secondo l’insegnamento patristico, raccoglie le idee di Dio, il suo volere creatore sul mondo. Le due Sofie sono radicalmente separate senza possibilità di confusione. La realtà ideale, creata, ontologicamente non separabile dalle cose, condiziona e struttura l’unità concreta del mondo e lega il molteplice in cosmo.
Ogni conoscenza consiste nel risalire dalle cose empiriche allo loro struttura intelligibile ed a cogliere la loro unità. La presenza dell’ideale in una forma sensibile, la loro armonia, condizionano l’aspetto estetico dell’essere che ogni artista legge e commenta. Ebbene, grazie alla libertà del suo spirito, l’uomo può trasgredire le regole, può anche invertire i rapporti. Proprio perché la sua libertà è massima nella sfera estetica la Bellezza colpisce il cuore umano senza un necessario legame con il Bene e con la Verità.
Cercando l’infinito, l’eroe umano può fermarsi alla Sofia creata, identificarla con Dio, divinizzare la natura. Ben oltre, in questa identificazione luciferina, può anche ritenersi la fonte dell’esplosione cosmica, ritenersi l’Infinito facendo a meno di Dio.
Il lato ideale, intelligibile esiste solo per fondare e unire il mondo visibile. Fuori dalla sua “biosfera di incarnazione”, l’ideale non ha né senso, né fine, né ragione di esistere. L’arte giustamente è un sistema di espressioni, una lingua particolare i cui elementi si collegano alla Sofia e la esprimono proprio come le parole esprimono il pensiero. Contrariamente ai segni convenzionali, le espressioni artistiche offrono il loro contenuto come un messaggio segreto. Rispetto all’icona, esse si possono accostare tutt’al più ai simboli religiosi, luogo in cui il simbolico è sempre presente. In greco le parole che indicano il diavolo e il simbolo hanno la stessa radice, ma il diavolo separa ciò che il simbolo unisce. Un simbolo è il ponte che lega il visibile all’invisibile, il terrestre al celeste, l’empirico all’ideale e veicola l’uno verso l’altro.
Gli iconoclasti credevano molto correttamente ai simboli, ma a causa della loro concezione “ritrattistica” dell’arte (imitazione, copia), negavano all’icona il carattere simbolico e di conseguenza non credevano alla presenza del Modello nell’immagine. Essi non arrivavano a cogliere che accanto alla rappresentazione visibile di una realtà visibile (copia, ritratto), esiste un’arte completamente diversa, nella quale l’immagine presenta il “visibile dell’invisibile”, e che si rivela come simbolo autentico. Essi avrebbero accettato più volentieri l’arte astratta con la sua raffigurazione geometrica, per esempio la croce che non portasse il crocifisso. Ma, la somiglianza iconica contrasta radicalmente con tutto ciò che è ritratto e si collega solamente all’ipostasi (la persona) e al suo corpo celeste. Per questo motivo è impossibile l’icona di un vivente e qualsiasi ricerca di somiglianza carnale, terrestre, viene esclusa. Nell’iconosofia, l’ipostasi “inipostatizza”, rende propria, non una sostanza cosmica (tavola di legno, colore), ma la somiglianza in sé, la forma ideale, la figura celeste dell’ipostasi viene ad assumere il corpo trasfigurato rappresentato nell’icona.
Il Pleroma verso cui tutto protende attualizzerà la sintesi escatologica “del terrestre e del celeste” (I Corinti 15, 42-49). L’arte anticipa profeticamente. Attraverso l’imperfezione attuale, essa profila la perfezione, racconta il mistero dell’essere. Ma se lascia la “biosfera dell’incarnazione” cambia natura e, quando coscientemente rifiuta ogni somiglianza, s’inabissa nell’astratto.
Sappiamo che la filosofia matematica cerca il pensiero puro spogliato di qualsivoglia forma antropomorfica. La scienza affronta sempre di più nozioni che superano la capacità umana di comprensione. L’arte astratta si oppone violentemente all’arte figurativa: “Giuro alla Natura che mai più la rappresenterò” dichiara Kupka. Certamente la cosa senza contenuto sofiologico è piatta ed assurda come le tele di Fougeron e quelle del “realismo socialista”. Ma l’ideale senza la cosa è cieco ed insignificante. È come se l’arte si esercitasse su entelechie di Aristotele che avrebbero perduto il luogo della loro attualizzazione.
Dal punto di vista sofiologico è evidente che l’arte astratta (ab-trahere, tirare, estrarre dal reale) si esercita sulla Sofia dissacrata, deviata dalla sua destinazione, sconvolta nella sua stessa essenza, nel suo rapporto con il reale, fatto che la priva del suo fine e la rende indecifrabile poiché la Sofia ha perduto il suo corpo. Da quel momento, è una falsa magia dell’istante. Dei fantasmi possono sempre offrire un godimento estetico. Ossessionano le vestigia del mondo frammentato ma non offrono che un assai magro interesse. Kandiskij o Paul Klee possono toccare una grande musicalità sol perché sono dotati di genio, ma l’uomo che osserva queste opere non è mai accolto in questo mondo devastato di qualunque presenza e volto. L’occhio può ascoltare le voci del silenzio, l’assenza colorata non fa che distrarre e alla fine stancare. Si può entrare in comunione, accennare ad un gesto di tenerezza per una di quelle donne dipinte da Picasso e definite dal P. Sergio Bulgakov “cadaveri della bellezza”, si può provare desiderio di pregare davanti al quadrato di Malevič? L’arte astratta si esercita sull’arcobaleno estrapolato dal suo contesto cosmico. Si può ammirare il suo spettro solare, analizzarlo e variare all’infinito i suoi colori, ma esso non unisce più il cielo alla terra, non dice nulla di essenziale all’uomo. Ma l’arcobaleno non è un gioco di colori né un oggetto estetico; secondo la Bibbia è il grande simbolo dell’alleanza tra Dio e l’uomo. Nell’iconografia, l’arcobaleno regge il corpo di Cristo Pantocratore nel momento della sua gloriosa venuta. L’astrazione recide le vibrazioni luminose della loro fonte, dell’Oriente liturgico. Cosa può rivelare all’uomo orante che si prosterna davanti al lampo folgorante del volto divino e che dice: “Nella luce conosceremo ogni luce…”. Bello non è solo ciò che piace; più di una festa per gli occhi, esso nutre lo spirito e l’illumina.
Le esposizioni mostrano che le forme moderne non sopravvivono. Più la forma è vuota di contenuto sensato più è illimitata nelle sue combinazioni, nei suoi “come”; ma, dal momento in cui viene chiamata a dire “cosa”, a rivelare una “quiddità”, una soltanto coincide con il suo contenuto: che l’illimitato delle espressioni corrisponde al limitato dell’anima. Di contro, l’illimitato divino assume la sola ed unica espressione dell’Incarnazione: “Certo, per Tua natura, sei illimitato, Signore, ma hai voluto limitarti sotto il velo della carne”. Dio è presente nell’unico volto di Cristo, e con Lui tutto l’umano. La ieraticità dei santi, la loro immobilità iconografica quasi rigida, questa limitazione esteriore della forma svela l’illimitatezza del loro spirito. Dalla loro posizione frontale, senza alcun artifizio, il loro sguardo, ci brucia senza consumarci, come il roveto ardente.

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Nel suo valore intrinseco di simbolo, l’icona va oltre l’arte, ma anche la spiega. Noi possiamo ammirare senza riserve le opere dei grandi Maestri di ogni secolo e farne la vetta dell’Arte. Come la Bibbia si colloca al di sopra della letteratura e della poesia universali, l’Icona si discosta un po’. Salvo alcune eccezioni, l’arte “tout court” sarà formalmente sempre più perfetta dell’arte degli iconografi perché quest’ultima, giustamente, non cerca quella perfezione. Il solo eccesso nocerebbe all’icona, rischierebbe di distogliere lo sguardo interno dalla rivelazione del mistero, come una poesia eccessiva e ricercata nocerebbe alla potenza della parola biblica. La bellezza di una icona consiste in un equilibrio gerarchico estremamente esigente. Entro un certo limite e immediatamente, altro non è che un semplice disegno; al di là e secondo il genio contemplativo dell’iconografo, l’icona stessa impone e irradia l’intrinseca bellezza conforme al soggetto.
Espressiva, l’arte può esprimere contenuti diversi. Libera, può coincidere con l’icona – come una tela di Rembrandt – o allontanarsi da ogni contenuto religioso; al limite, può passare alla funzione puramente segnica o divenire soltanto oggetto estetico, arte per arte, decorazione, pesino può cambiare la sua funzione e cessare di essere arte.
La grande arte figurativa ci offre la visione trasfigurante dei Maestri, coglie la Sofia terrestre nell’armonia dei suoi due aspetti, reale e ideale, la canta e costruisce il Tempio sofianico. Ma questo, per diventare carne trasfigurata, teofanica, deve aprirsi coscientemente, con la fede e la santità dell’uomo alla luce divina, alla Saggezza non creata. La Sofia creata non è che l’ambiguo specchio della Gloria, offuscato dalla caduta, e per questo l’arte stessa rimane profondamente ambigua. Per incontrare la Bellezza faccia a faccia, per arrivare a toccare lo splendore energetico della grazia, occorre varcare le porte segrete del Tempio mediante una trascendenza, un superamento del sensibile e dell’intelligibile: è l’Icona. Non è più l’invocazione ma la Parusia, la Bellezza viene incontro al nostro spirito non per rapirlo ma per aprirlo alla vicinanza ardente del Dio personale. È la discesa della Saggezza celeste che fa della Sofia terrestre il suo ricettacolo splendente, il Roveto ardente. L’arte dell’icona non è autonoma, è inclusa nel Mistero liturgico e sfavilla di presenze sacramentali, fa propria una certa astrazione. Nella sua libertà di composizione, dispone a piacimento gli elementi di questo mondo nella sottomissione totale allo spirituale. Può rappresentare la Vergine dalle tre braccia, far camminare un martire mentre tiene la sua testa tra le mani, dare i tratti di un cane ad uno perduto in Cristo, mettere il cranio di Adamo ai piedi della Croce, personificare il cosmo sotto le sembianze di un vecchio re ed il Giordano in quelle di un peccatore, rovesciare la prospettiva e fare culminare in un solo punto tutti i tempi e tutti gli spazi. Qui la luce è più dell’oggetto, serve da materia colorante per l’icona, la rende luminescente in sé, rendendo inutile ogni sorgente luminosa, come nella Città dell’Apocalisse.
Senza poter provarlo, è evidente che l’arte astratta ha origine nell’iconografia, negli arabeschi musulmani, nel trascendentale. Cogliere questa corrispondenza iniziale, è come riaccendere la cattiva coscienza reciproca. Certo, la bellezza è stata universalmente prostituita e la contemplazione dissacrata.
L’accademismo dell’arte, così come l’accademismo della teologia e della predicazione, l’accademismo della vita cristiana hanno suscitato una giusta rivolta ed una ricerca appassionata e assai tragica del vero. Ma, ogni rivolta contiene in sé la propria trascendenza, l’inferno non esiste se non per la luce che splende nelle tenebre; la speranza del contrario, la dialettica stessa della metanoia infernale costituisce la punta avanzata del segreto soffrire. L’immensa impresa di demolizione inerente l’arte astratta è una forma di ascetismo, di purificazione, di aerazione che dobbiamo ammettere con timoroso rispetto. Risponde alla purezza dell’anima, alla nostalgia dell’innocenza perduta, al desiderio di trovare almeno un raggio o una scintilla di colore che non sia sporcata da una figura complice ed equivoca di quaggiù. Nella maggiore profondità delle aspirazioni, il rifiuto delle forme di questo mondo non è l’esigenza imperiosa del “completamente diverso”. Grida l’impossibilità di vivere da artista in un mondo ateo e chiuso, di esercitarsi sulle “nature morte” che non sono più materia di resurrezione. Per questo l’arte moderna è significativa. Ha portato la liberazione da ogni pregiudizio, ha soppresso gli ornamenti e gli accessori, ha demolito gli orrori dell’accademismo degli ultimi secoli, ha ucciso il cattivo gusto del XIX secolo e, in questo, è rinfrescante. La forma esterna viene disfatta. Ma a questo livello nessuna evoluzione è più possibile, la chiave delle corrispondenze segrete è perduta, la rottura tra il sacro trascendente divino e il religioso immanente umano diviene così radicale che non si può più semplicemente passare da un piano ad un altro. L’accesso alla forma interna, “sofianica” e uraniana, la contemplazione per trasparenza dell’invisibile nel visibile è sbarrata dall’angelo con la spada fiammeggiante. Alla luce delle ultime realizzazioni, solo il battesimo di fuoco può fare risuscitare l’arte[4].
La battuta di arresto dell’iconografia, nel suo stesso slancio, a partire dal XVII secolo, ha una schiacciante responsabilità per il destino dell’arte moderna. Con la sua “impasse”, quest’arte esprime l’attesa disperata di un miracolo. Ma, come ogni miracolo, questo è imprevedibile nella forma. Forse sarà nello sguardo virginale di un santo: in una manciata di humus, egli vedrà la traccia folgorante dello Spirito che, tanto tempo fa, da questa terra umida, scolpì il volto del primo uomo affinché accogliesse la luce dello sguardo divino.
Più che mai l’iconosofia moderna è chiamata a ritrovare la potenza creatrice degli antichi iconografi e ad uscire dall’immobilismo dell’arte dei “copisti”. Se il mondo ha perduto ogni stile quale espressione dell’universale umano e della comunione spirituale delle anime, l’immagine di Dio oggi impone il suo per interpretare alla sua luce il nostro tempo. Fedele alle sue origini, ma briciola dell’eone pentecostale, l’icona saprà chiudere il cerchio sacro sull’evangelo della Parusia e del volto umano di Dio trino? Oggi più di ieri la liturgia ci insegna che l’arte si deteriora non perché è figlia del suo tempo, ma perché è refrattaria alle sue funzioni sacerdotali: rendere l’arte teofanica, mettere l’icona, l’Angelo della Presenza, nel cuore delle speranze ingannate e sepolte. In “abito variopinto” di tutti i colori, Bellezza sofianica della Chiesa, il suo volto è umano: Donna vestita di sole, “gioia di tutte le gioie”, “colei che combatte ogni tristezza” e sfavilla di tenerezza indefettibile.

Traduzione dal Francese del prof. G. M., Palermo, agosto 2006.

ICONOGRAFIA SACRA

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ICONOGRAFIA SACRA

Figlio dell’ebraismo, il quale vieta per decreto divino le immagini di culto, immerso nel mondo pagano politeista, che delle immagini di culto fa al contrario un uso massiccio, il cristianesimo nascente si trova nella difficile ricerca di un’espressione artistica che dia voce alla propria identità.
E’ risaputo che anche le sinagoghe dell’antichità fossero decorate con scene tratte dalle Scritture, ma tali pitture non costituiscono immagini di devozione o culto, quanto piuttosto un’illustrazione del testo sacro. Alla stessa maniera possono essere interpretate le immagini che decorano le catacombe in cui venivano sepolti anche i cristiani, uniche testimonianze pervenuteci dell’arte cristiana dei primi secoli. Sia nei sarcofagi che sulle pareti, troviamo sempre scene accostate senza coerenza storica, ma riunite dall’unico messaggio che gli eventi rappresentati sottendono: la salvezza, la redenzione, la speranza nell’al-di-là. Si tratta dunque di rappresentazioni profondamente evocative, che rimandano a idee che le trascendono.
Qui si intravede, in nuce, il modo in cui il cristianesimo affronterà il suo rapporto con l’arte. Il solo modo, infatti, per poter accettare un’arte figurativa e di culto, fu quello di fare dell’immagine un ponte fra la realtà sensibile e quella spirituale, approfondendo in senso simbolico la forma concettuale dell’arte paleocristiana. Intendo dire: le immagini delle catacombe rimandano a idee, a concetti astratti, per quanto basilari alla fede, e perdono pertanto il loro ruolo di destinazione finale per diventare un semplice veicolo, un mezzo di comunicazione; il passo successivo sarà quello di rafforzare questo aspetto, facendo perdere ancor più alle rappresentazioni la loro credibilità naturalistica-illusionistica (propria del classicismo greco-romano) per farne un puro simbolo, un rimando visibile verso l’Invisibile. In questo caso, la destinazione finale non è più un’idea, ma il mondo dello Spirito, di cui questo mondo è pallido riflesso.
La nascita dell’arte sacra cristiana non è stata lineare. Un’interpretazione letterale dell’antico Testamento e, successivamente, l’affermarsi dell’Islamismo, hanno fatto nascere in seno alla Chiesa dissensi e movimenti di reazione alla diffusione delle immagini. Da sporadici episodi essi culminarono in una vera guerra civile, chiamata Iconoclastia, che per circa un secolo ha coinvolto la parte orientale dell’Impero, cancellando ogni testimonianza dell’arte cristiana creata fino a quel momento. Essa, tuttavia, ha avuto il positivo effetto di far elaborare, da parte dei Padri della chiesa greca e dei teologi dell’epoca, una giustificazione dottrinale sull’uso delle immagini di culto, valida per tutta la Chiesa.
In occidente non arrivò che l’eco malcompreso delle dispute teologiche, e ciò portò a perplessità e dubbi sulla venerazione delle icone, specie portatili, le quali non hanno avuto, nell’alto medioevo, una diffusione paragonabile a quella dell’Impero bizantino. La pittura monumentale ha conosciuto, invece, un successo ininterrotto, in virtù delle parole di Papa Gregorio Magno che permettevano un uso moderato e meno equivocabile delle rappresentazioni. Non per questo furono assenti immagini di culto singole. Imponenti crocefissi, scolpiti o dipinti, ieratiche statue della Vergine in trono o di Santi furono spesso oggetto di intensa venerazione, giustificata o catalizzata spesso dalle reliquie di cui si facevano contenitori.
Solo con il basso medioevo si diffuse la pittura su tavola, anche di dimensioni domestiche. Le crociate, gli scambi commerciali nel Mediterraneo, hanno fatto conoscere la pittura greca in modo diretto e provocato una « bizantinizzazione » della pittura italiana, rinnovando il repertorio figurativo romanico. Solo in questo momento si può parlare di un approccio all’arte sacra paragonabile a quello della Chiesa orientale. Sia nella liturgia, sia nelle abitazioni, sia negli angoli delle strade, le immagini entrano nell’uso quotidiano ed anche la teologica della Scolastica, non estranea a influenze greche, si fece portavoce di un rapporto più intimo con le icone.
Così, anche successivamente alla svolta giottesca, al Rinascimento, al Barocco e fino a oggi, cioè anche dopo che l’arte cristiana d’occidente ha perso la sua connotazione tradizionale per riappropriarsi delle forme del naturalismo illusionistico, la nostra devozione ha trovato conforto e supporto nell’uso delle immagini. La venerazione che i nostri anziani hanno per le statue e i santini non è in fondo diversa da quella che ha un russo o un greco verso le icone.
Tuttavia, le nostre chiese contemporanee sono terribilmente vuote e spoglie di immagini. Sembra si sia innescato un processo sotterraneo di moderna iconoclastia, un fenomeno subliminale, giustificato spesso dalla volontà di esaltare la purezza delle linee architettoniche. Nemmeno l’immagine necessaria del Crocifisso trova la centralità e l’importanza che gli spetta. Ancor peggio, quando si trovano le immagini « sacre », spesso sono di un’aspetto straniante, giustificato come l’espressione della contemporaneità. Sembra, insomma, che ci sia una certa diffidenza nei confronti delle immagini, quasi che la società di oggi non abbia più bisogno di tali superstiziose pratiche, del tutto inibite da messaggi concettuali e forme disarticolate che negano la sacralità stessa della rappresentazione. Ci si dimentica, piuttosto, che la moltiplicazione e la diffusione delle effigi dei Santi sia del tutto benefica, poiché invoca la loro presenza, nella liturgia come nella realtà quotidiana, ci ricorda sempre che il Regno dei Cieli è vicino e che ad esso dobbiamo tendere. 

ARTE E FEDE DI GIANFRANCO RAVASI

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ARTE E FEDE DI GIANFRANCO RAVASI

La creazione artistica come via per raggiungere l’infinito e la trascendenza. Un viaggio tra i più celebri artisti del passato alla riscoperta del più profondo significato dell’atto creativo
Giunto a Roma per i miei studi di teologia alla Pontificia Università Gregoriana proprio l’11 ottobre 1962, quando si inaugurava il Concilio Vaticano II, partecipai successivamente anch’io in Piazza San Pietro l’8 dicembre 1965 alla chiusura solenne di quell’assise, quando i Padri conciliari lanciarono, tra i vari messaggi alle diverse categorie sociali e professionali, queste parole destinate agli artisti: «Il mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che mette la gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all’usura del tempo, che unisce le generazioni e le congiunge nell’ammirazione. E ciò grazie alle vostre mani».
Alle spalle di quel momento solenne c’era un altro evento che l’anno prima avevo seguito solo dall’esterno, vedendo alcune figure importanti della cultura (ho ancor oggi in mente il profilo scavato di Eduardo De Filippo…) che uscivano dalla Cappella Sistina. Là erano stati convocati il 7 maggio 1964 da Paolo VI, che a loro aveva rivolto un appassionato discorso nel quale proponeva di ristabilire una nuova alleanza tra arte e fede, sulla scia di un passato glorioso e nella consapevolezza che la grande sfida dell’artista è quella di «carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità».
Passarono vari anni e nella Pasqua del 1999 Giovanni Paolo II indirizzò una Lettera agli artisti perché con loro si rinverdisse «quel fecondo colloquio che in duemila anni di storia non si è mai interrotto…, un dialogo non dettato solamente da circostanze storiche o da motivi funzionali, ma radicato nell’essenza stessa sia dell’esperienza religiosa sia della creazione artistica». Quel testo rivelava non solo una sorprendente filigrana di rimandi culturali, ma si radicava su un fondamento teologico che permetteva di esaltare la parentela intima tra la fede cristiana e l’arte.
Successivamente, a distanza di dieci anni, nel novembre 2009 Benedetto XVI decideva di incontrare nuovamente gli artisti nella cornice della Sistina, una scelta che mi aveva visto direttamente coinvolto a causa della mia funzione di presidente dei dicasteri vaticani dedicati al confronto con la cultura e col grandioso patrimonio artistico fiorito nei secoli. Senza esitazione, infatti, potremmo ripetere l’appello che nell’VIII secolo il cantore delle immagini sacre, san Giovanni Damasceno, rivolgeva ai cristiani: «Se un pagano viene e ti dice: “Mostrami la tua fede!”, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri».
Questo vincolo così stretto che tocca anche tutte le altre discipline artistiche – lo si deve realisticamente riconoscere – a partire dal secolo scorso si è allentato fino al punto di infrangersi. Da un lato, in ambito ecclesiale si è spesso ricorsi al ricalco di moduli, di stili e di generi delle epoche precedenti, oppure ci si è orientati all’adozione del più semplice artigianato o, peggio, ci si è adattati alla bruttezza che imperversa nei nuovi quartieri urbani e nell’edilizia aggressiva innalzando, ad esempio, edifici sacri simili, come sarcasticamente diceva p. Turoldo, a garage sacrali ove è parcheggiato Dio e vengono allineati i fedeli. Per fortuna non sempre avviene così, ed è proprio l’architettura ad attestare un sussulto di originalità e di creatività, sia pure a livello di eccezione.
D’altro lato, però, tutte le varie arti hanno imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religiosi, i simboli, le narrazioni, le figure e tutto quel “grande codice” che era stata la Bibbia. Hanno abbandonato come pericolosa ogni proposta di un messaggio, considerandolo un capestro ideologico, si sono consacrate a esercizi stilistici sempre più elaborati e provocatori, si sono rinchiuse nel cerchio dell’autoreferenzialità, si sono affidate a una critica esoterica incomprensibile ai più, e si sono asservite alle mode e alle esigenze di un mercato non di rado artificioso ed eccessivo. Un po’ di verità c’era nella definizione coniata da Henri Meyers a proposito dell’artista contemporaneo: «Un uomo che non prostituisce mai la sua arte, eccetto che per denaro». Riconosciute le colpe reciproche che hanno divaricato sempre più fede e arte, è necessario ora andare oltre i sospetti e le distanze e far sì che fede e arti tutte tornino a incontrarsi.
Noi ora non vogliamo ripercorrere l’itinerario che è alle nostre spalle, il cui fulgore è visibile in ogni città europea, né desideriamo ritornare sulle ragioni teologiche di questo incontro tra arte e fede: esso ha il suo cuore nell’Incarnazione che, come scriveva san Paolo ai Colossesi (1,15), rende visibile il Dio invisibile nel volto di Cristo, eikôn, “icona-immagine” divina perfetta. Nel IX secolo un teologo della Chiesa d’Oriente, Teodoro Studita, non esitava ad affermare che «se l’arte non potesse rappresentare Cristo, vorrebbe dire che il Verbo non si è incarnato». Non è neppure nostra intenzione mettere sul tappeto l’insonne questione della definizione e dell’identificazione dell’arte sacra, di quella liturgica, o dell’arte più genericamente spirituale, oppure della letteratura cattolica o di ispirazione religiosa, né tanto meno entrare nel dibattito, spesso incandescente, sul rapporto tra estetica ed etica, tra bello, buono, vero.
Noi ora vorremmo, invece, proprio attraverso la voce di famosi artisti (e quando usiamo questo termine si rimanda non solo alle arti figurative classiche, ma anche alla letteratura, alla musica, al cinema, all’architettura, alla video-art e così via), isolare alcune consonanze radicali e strutturali tra fede e l’espressione creativa artistica, pur consapevoli che molti oggi le esorcizzano o le ignorano. Innanzitutto arte e fede tendono verso l’assoluto, cercano di esprimere l’ineffabile, di “costringere” l’infinito e l’eterno nello stampo della parola, della forma, dell’immagine, del suono. «L’arte è l’Ignoto», diceva il poeta francese Jules Laforgue nei suoi Lamenti lirici, e Paul Klee era consapevole che l’opera dell’artista non è quella di rappresentare il visibile ma di introdurci nell’invisibile, tant’è vero che anche l’arido taglio della tela compiuto da Lucio Fontana simbolicamente era – secondo l’artista stesso – «uno spiraglio per intravedere l’Assoluto».
Credere e creare sono due atti fondamentali che l’uomo adotta per raggiungere la trascendenza, come affermava suggestivamente il poeta Paul Valéry, quando scriveva nei Cattivi pensieri che «il pittore non deve dipingere quello che vede, ma quello che si vedrà». A questo futuro perfetto, all’assoluto cercato dall’uomo la fede dà il nome di Dio che talora è esplicitamente riconosciuto come propria meta anche dallo stesso artista. Bach, sommo musicista e grande credente, non aveva dubbi quando poneva in capo alle sue partiture la sigla SDG, Soli Deo gloria, e dichiarava: «Il finis e la causa finale della musica non dovrebbero mai essere altro che la gloria di Dio e la ricreazione della mente». Lapidario Hermann Hesse nel suo saggio su Klein e Wagner: «Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio».
In questa luce, arte e fede fanno germogliare e custodiscono nel loro grembo un messaggio, una verità alta ed efficace; non interpretano soltanto, ma rivelano e «creano un mondo», per usare un’espressione del filosofo Martin Heidegger. La loro funzione è epifanica, irradiano quella luce che le ha percorse. Significative sono le parole di Kafka nei suoi Preparativi di nozze in campagna: «L’arte vola attorno alla verità… e il suo talento consiste nel trovare un luogo in cui se ne possano potentemente intercettare i raggi luminosi». La polemica contemporanea, secondo la quale l’arte dev’essere libera da ogni messaggio per non essere asservita a nessuna ideologia, spesso merita il giudizio sferzante di Borges che, in Altre inquisizioni, ironizzava: «Chi dice che l’arte non deve propagandare dottrine si riferisce di solito a dottrine contrarie alle sue».
In ultima analisi, noi crediamo religiosamente e creiamo artisticamente per scoprire il senso supremo dell’essere e dell’esistere e non semplicemente per arredare e ornare la nostra anima e le nostre case o città. Illuminante è la confessione di un autore apparentemente lontano da motivazioni trascendenti come Henry Miller, che nella Sapienza del cuore, comparandola con la religione, asseriva che «l’arte non insegna niente, tranne il senso della vita». Ma possiamo procedere oltre e inoltrarci in questo orizzonte ove arte e fede s’incontrano, percorrendo altri itinerari.
Benedetto Croce, nel suo saggio su Schiller (raccolto in Poesia e non poesia), era convinto che «nella vera poesia le espressioni che suonano più semplici ci riempiono di sorpresa e di gioia perché rivelano noi a noi stessi». È questo un altro modo per celebrare la funzione epifanica dell’arte nello svelare il mistero che è in noi; ma nella frase c’è una parola interessante, “sorpresa”. Sappiamo che la fede si nutre di stupore, di contemplazione, di illuminazione. Ebbene, Chesterton nel suo scritto Generalmente parlando aggiungeva: «La dignità dell’artista sta nel suo dovere di tener vivo il senso di meraviglia nel mondo». Si tratta di una grazia che irrompe nel fedele e nell’artista e gli fa vedere il mondo con occhi diversi, scoprendo nuovi mari quanto più si naviga.
È lo stesso sguardo di Dio, ed è curioso notare che le nostre lingue hanno adottato lo stesso termine per indicare l’“ispirazione” delle Scritture Sacre e quella dell’artista. Anzi, nella Bibbia si dice che Besalel, l’artefice dell’arca dell’alleanza e della tenda dell’incontro di Israele col Signore nel deserto, fu «colmato dello spirito di Dio», come i profeti, «perché avesse sapienza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per ideare progetti da realizzare in oro, argento e bronzo, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno ed eseguire ogni sorta di opera» (Esodo 31, 3-5). Nel Primo Libro delle Cronache anche i cantori e i musicisti ricevono una sorta di “ispirazione” divina, tant’è vero che il termine per indicare l’esecuzione musicale è lo stesso che designa l’attività profetica, nb’ (25,1).
Per questo, «ogni poesia è misteriosa: nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere» (così Borges nel prologo alla sua Opera poetica). Si entra, dunque, con la fede e l’arte nel santuario del mistero per cui, come suggeriva il pittore Georges Braque nel suo testo Il giorno e la notte, «l’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura». È la stessa grande inquietudine della fede che sant’Agostino ha mirabilmente espresso nel suo celebre Inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te: la meta comune è, infatti, l’Infinito ed è necessaria la grazia divina per riuscire a raggiungerla. L’analogia, quindi, tra queste due esperienze capitali dell’umanità sono molteplici e non è possibile ignorarle. Anche se ai nostri giorni si cerca di oscurarle, esse sono insite in questi due itinerari dell’anima.
Concludiamo, allora, con le parole della menzionata Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II che, citando il bardo della poesia polacca, Adam Mickiewicz: «Emerge dal caos il mondo dello spirito», si rivolgeva agli artisti con questo auspicio: «La vostra arte contribuisca all’affermarsi di una bellezza autentica che, quasi riverbero dello Spirito di Dio, trasfiguri la materia, aprendo gli animi al senso dell’eterno». E su questa scia Benedetto XVI agli artisti di nuovo raccolti nella Sistina proponeva questa avventura dello spirito: «Non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita! La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi, li esalta e li nutre, li incoraggia a valicare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la meta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente».

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CANTATE A DIO CON ARTE – CARD. RAVASI

http://www.cultura.va/content/cultura/it/dipartimenti/arte-e-fede/testi-e-documenti/ravasiart/cantate-a-dio-con-arte.html

CANTATE A DIO CON ARTE – CARD. RAVASI

PUBBLICATO COL TITOLO: ARRIVARE A DIO CON ARTE SU UNA SCALA DI NOTE SU IL MESSAGGERO, N. 241 (05/09/2011).

«Il canto è la scala di Giacobbe che gli angeli hanno dimenticato sulla terra». È famosa la visione notturna del patriarca biblico: «Una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa» (Genesi 28, 12). L’immagine è assunta da Elie Wiesel, il noto scrittore ebreo Nobel per la pace, per applicarla alla scala musicale in cui le note sono angeli di Dio. Ed effettivamente in tutte le grandi culture alla genesi della musica è connessa una teofania. Per la Bibbia la creazione avviene attraverso un evento sonoro: «In principio … Dio disse: Sia la luce!» (Genesi 1, 3). «In principio era la Parola», ripete l’inno del prologo del Vangelo di Giovanni (1, 1).
Anche nei Veda la divinità è un suono primordiale (Prajapati) che si sfrangia nella molteplicità delle creature, simili a note di un canto cosmico, mentre nel IV Inno omerico è Hermes che estrae dalla materia l’armonia insita, tendendo semplicemente le corde sul guscio di tartaruga nel quale s’era imbattuto. Anche la storia umana è svelata nel suo senso profondo attraverso un’epifania sonora divina, come si legge nel libro biblico del Deuteronomio, che così evoca l’evento del Sinai: «Dio vi parlò di mezzo al fuoco: suono di parole voi ascoltaste, immagine alcuna non vedeste, solo una voce» (4, 12). E l’approdo ultimo della storia è rappresentato dall’Apocalisse attraverso una palinodia per soli, coro e orchestra che pervade tutto quel libro sacro.
In questa luce la musica è strutturalmente un discorso trascendente, è una “teo-logia”, ossia un parlare di Dio, dove il genitivo è contemporaneamente soggettivo (è Dio stesso che si rivela attraverso di essa) e oggettivo (è con la musica che noi intuiamo Dio). Da un lato, quindi, con Edmond Jabès dobbiamo riconoscere che «dopo il silenzio, ciò che più si avvicina a esprimere l’ineffabile è la musica». D’altro lato, aveva ragione l’agnostico scrittore franco-rumeno Emile Cioran quando paradossalmente rimproverava i teologi di aver ignorato che la maggior prova dell’esistenza di Dio era nella musica di Bach: dopo aver ascoltato una sua cantata o una Passione o la Messa in Si minore, «Dio deve esistere».
Ed era proprio Bach, la cui biblioteca era sorprendentemente composta in forma quasi esclusiva di testi sacri e spirituali, a non esitare nell’affermare che «il finis della musica non dovrebbe mai essere altro che la gloria di Dio e la ricreazione della mente». Non per nulla egli spesso imponeva alle sue partiture la sigla SDG (Soli Deo Gloria) e talora via apponeva in finale l’altra sigla J.J. (Jesu Juva!), svelando non solo nei testi ma nella sua intenzione la matrice religiosa della sua opera. È, però, significativo che egli parlasse anche di “ricreazione della mente”.
Senza essere né descrittiva o informativa né parenetica o performativa in senso diretto, la musica ha una funzione trasfiguratrice dell’anima, della mente, del cuore umano. Curiosamente Lutero e Cervantes si incrociavano senza saperlo quando il primo nella sua Frau Musika scriveva che «non può esserci animo cattivo laddove cantano bene gli amici» e il secondo nel suo Don Chisciotte ribadiva che «dove c’è musica non può esserci nulla di cattivo». Eppure si ha anche la consapevolezza che nelle mani fragili e spesso colpevoli dell’uomo la potenza efficace della musica può essere sorgente di tragedia. Non si può dimenticare infatti l’aspetto “dionisiaco”, orgiastico e depressivo della musica, secondo una famosa linea interpretativa della tradizione classica.
La celebre Sonata a Kreutzer del racconto di Tolstoj ne è l’emblema drammatico: «Dicono che la musica abbia per effetto di elevare l’anima… sciocchezze! Non è vero. Agisce, agisce tremendamente … ma niente affatto nel senso di elevare l’anima: non la eleva né l’abbassa: l’esaspera». Ed è per questa via che si può assistere anche a una degenerazione della musica, non tanto nel senso della retorica del cosiddetto “rock satanico” quanto piuttosto nella devastazione dell’armonia facendola scadere nella bruttezza, nella banalità, nel rumore, nel cattivo gusto. Flaubert usava un’immagine vigorosa: «Noi spesso battiamo su una caldaia incrinata una musica da far ballare gli orsi e invece vorremmo commuovere le stelle!».
È un po’ ciò che accade talvolta nella liturgia, soprattutto in questi ultimi tempi. Ed è ingiusto accusare la riforma del Concilio Vaticano II perché nella Sacrosanctum Concilium (nn. 112-121) si offrivano indicazioni significative, a partire dall’asserto di base: «La musica è parte integrante della liturgia, esprime dolcemente la preghiera, favorisce l’unanimità; e il repertorio accumulato nei secoli costituisce un patrimonio di valore da conservare». Le direttrici concrete, poi, passavano attraverso capitoli che sarebbero tutti non solo da condividere ma da attuare in pienezza: la funzione delle scholae cantorum, la seria formazione musicale del clero e degli operatori pastorali, il ruolo del canto gregoriano, l’esaltazione dell’organo come strumento principe del culto cattolico (e anche protestante), il dialogo con la contemporaneità.
Quest’ultimo capitolo, che è decisivo, è stato purtroppo e spesso malamente e affrettatamente declinato; eppure è in sé necessario, come ha attestato la grande eredità della tradizione. Solo per fare un esempio, si pensi, infatti, all’innovazione impressionante (e forse allora anche scandalizzante) introdotta dalla polifonia rispetto alla purezza monodica del canto gregoriano. Ma questo avveniva ad alto livello con autori di grande originalità e preparazione, ed è ciò che è mancato ai nostri giorni. La musica contemporanea con la sua nuova grammatica deve incontrarsi col sacro, che ha canoni, testi e temi propri, per un incrocio che permetta una nuova fioritura.
Il percorso è, certo, arduo e lungo, sia a causa del divorzio che si è operato tra culto e musica di qualità, sia per la secolarizzazione e l’allontanamento radicale della società da ogni visione religiosa, sia per l’auto-reclusione della liturgia in forme scontate o superficialmente innovative oppur di mero ricalco del passato. L’impegno è, dunque, necessario e grave proprio per impedire quello che già nel VI secolo minacciava un originale scrittore cristiano come Cassiodoro che nelle sue Institutiones ammoniva: «Se continueremo a commettere ingiustizia, Dio ci lascerà senza la musica». Il desiderio sempre più diffuso di far rivivere il patrimonio tradizionale da una parte, e dall’altra i contatti sempre più frequenti e appassionati tra musicisti contemporanei e teologi o operatori pastorali fanno sperare che Dio non stia abbandonando l’umanità pur peccatrice. E la sua parola continua a ribadire con forza: «Cantate inni a Dio, cantate inni, cantate inni al nostro re, cantate inni; cantate a Dio con arte!» (Salmo 47, 7-8).

IL SENTIMENTO DELLE COSE, LA CONTEMPLAZIONE DELLA BELLEZZA – JOSEPH RATZINGERm 2002

http://www.ratzinger.us/modules.php?name=News&file=article&sid=229

2002: IL SENTIMENTO DELLE COSE, LA CONTEMPLAZIONE DELLA BELLEZZA|

MESSAGGIO DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER PER IL MEETING 2002.

Ogni anno, nella Liturgia delle Ore del Tempo di Quaresima, torna a colpirmi un paradosso che si trova nei Vespri del lunedì della seconda settimana del Salterio. Qui, l’una accanto all’altra, ci sono due antifone, una per il tempo di Quaresima, l’altra per la Settimana Santa. Entrambe introducono il Salmo 44, ma ne anticipano una chiave interpretativa del tutto contrapposta. E’ il Salmo che descrive le nozze del Re, la sua bellezza, le sue virtù, la sua missione, e poi si trasforma in un’esaltazione della sposa. Nel Tempo di Quaresima il salmo ha per cornice la stessa antifona che viene utilizzata per tutto il restante periodo dell’anno. E’ il terzo verso del salmo che recita: « Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia ». E’ chiaro che la Chiesa legge questo salmo come rappresentazione poetico-profetica del rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa. Riconosce Cristo come il più bello tra gli uomini; la grazia diffusa sulle sue labbra indica la bellezza interiore della Sua parola, la gloria del Suo annuncio. Così, non è semplicemente la bellezza esteriore dell’apparizione del Redentore ad essere glorificata: in Lui appare piuttosto la bellezza della Verità, la bellezza di Dio stesso che ci attira a sé e allo stesso tempo ci procura la ferita dell’Amore, la santa passione (eros) che ci fa andare incontro, insieme alla e nella Chiesa Sposa, all’Amore che ci chiama. Ma il mercoledì della Settimana Santa la Chiesa cambia l’antifona e ci invita a leggere il Salmo alla luce di Is. 53,2: « Non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore ». Come si concilia ciò? Il « più bello tra gli uomini » è misero d’aspetto tanto che non lo si vuol guardare. Pilato lo presenta alla folla dicendo:- « Ecce homo » onde suscitare pietà per l’Uomo sconvolto e percosso al quale non è rimasta alcuna bellezza esteriore. Agostino, che nella sua giovinezza scrisse un libro sul bello e sul conveniente e che apprezzava la bellezza nelle parole, nella musica, nelle arti figurative, percepì assai fortemente questo paradosso e si rese conto che in questo passo la grande filosofia greca del bello non veniva semplicemente rigettata, ma piuttosto messa drammaticamente in discussione: che cosa sia bello, che cosa la bellezza significhi avrebbe dovuto essere nuovamente discusso e sperimentato. Riferendosi al paradosso contenuto in questi testi egli parlava di « due trombe » che suonano in contrapposizione e pur tuttavia ricevono i loro suoni dal medesimo soffio, dallo stesso Spirito. Egli sapeva che il paradosso è una contrapposizione, ma non una contraddizione. Entrambe le citazioni provengono dallo stesso Spirito che ispira tutta la Scrittura, il quale però suona in essa con note differenti e, proprio in questo modo, ci pone di fronte alla totalità della vera bellezza, della verità stessa. Dal testo di Isaia scaturisce innanzitutto la questione, di cui si sono occupati i Padri della Chiesa, se Cristo fosse dunque bello oppure no. Qui si cela la questione più radicale se la bellezza sia vera, oppure se non sia piuttosto la bruttezza a condurci alla profonda verità del reale. Chi crede in Dio, nel Dio che si è manifestato proprio nelle sembianze alterate di Cristo crocifisso come amore « sino alla fine » (Gv 13,1) sa che la bellezza è verità e che la verità è bellezza, ma nel Cristo sofferente egli apprende anche che la bellezza della verità comprende offesa, dolore e, sì, anche l’oscuro mistero della morte, e che essa può essere trovata solo nell’accettazione del dolore, e non nell’ignorarlo.
Una prima consapevolezza del fatto che la bellezza abbia a che fare anche con il dolore è senz’altro presente anche nel mondo greco. Pensiamo, per esempio, al Fedro di Platone. Platone considera l’incontro con la bellezza come quella scossa emotiva salutare che fa uscire l’uomo da se stesso, lo « entusiasma » attirandolo verso altro da sé. L’uomo, così dice Platone, ha perso la per lui concepita perfezione dell’origine. Ora egli è perennemente alla ricerca della forma primigenia risanatrice. Ricordo e nostalgia lo inducono alla ricerca, e la bellezza lo strappa fuori dall’accomodamento del quotidiano. Lo fa soffrire. Noi potremmo dire, in senso platonico, che lo strale della nostalgia colpisce l’uomo, lo ferisce e proprio in tal modo gli mette le ali, lo innalza verso l’alto. Nel discorso di Aristofane del Simposio si afferma che gli amanti non sanno ciò che veramente vogliono l’uno dall’altro. E’ al contrario evidente che le anime di entrambi sono assetate di qualcos’altro che non sia il piacere amoroso. Questo « altro » però l’anima non riesce a esprimerlo, « ha solamente una vaga percezione di ciò che veramente essa vuole e ne parla a se stessa come un enigma ». Nel XIV secolo, nel libro sulla vita di Cristo del teologo bizantino Nicolas Kabasilas si ritrova questa esperienza di Platone, nella quale l’oggetto ultimo della nostalgia continua a rimanere senza nome, trasformato dalla nuova esperienza cristiana. Kabasilas afferma: « Uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura, ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo sia consono aspirare, questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso; Egli stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale e l’intensità del desiderio lascia intuire Chi sia colui che ha scoccato il dardo ».
La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo. Ciò che afferma Platone e, più di 1500 anni dopo, Kabasilas non ha nulla a che fare con l’estetismo superficiale e con l’irrazionalismo, con la fuga dalla chiarezza e dall’importanza della ragione. Bellezza è conoscenza, certamente, una forma superiore di conoscenza poiché colpisce l’uomo con tutta la grandezza della verità. In ciò Kabasilas è rimasto interamente greco, in quanto egli pone la conoscenza all’inizio. « Origine dell’amore è la conoscenza – egli afferma – la conoscenza genera l’amore ». Occasionalmente –così prosegue – la conoscenza potrebbe essere talmente forte da sortire allo stesso tempo l’effetto di un filtro d’amore ». Egli non lascia questa affermazione in termini generali. Com’è caratteristico del suo pensiero rigoroso, egli distingue due tipi di conoscenza: la conoscenza attraverso l’istruzione che rimane conoscenza, per così dire, « di seconda mano » e non implica alcun contatto diretto con la realtà stessa. Il secondo tipo, al contrario, è conoscenza attraverso la propria esperienza, attraverso il rapporto con le cose. « Quindi, fintanto che noi non abbiamo fatto esperienza di un essere concreto, non amiamo l’oggetto così come esso dovrebbe essere amato ». La vera conoscenza è essere colpiti dal dardo della bellezza che ferisce l’uomo, essere toccati dalla realtà, « dalla personale presenza di Cristo stesso » come egli dice. L’essere colpiti e conquistati attraverso la bellezza di Cristo è conoscenza più reale e più profonda della mera deduzione razionale. Non dobbiamo certo sottovalutare il significato della riflessione teologica, del pensiero teologico esatto e rigoroso: esso rimane assolutamente necessario. Ma da qui, disdegnare o respingere il colpo provocato dalla corrispondenza del cuore nell’incontro con la bellezza come vera forma della conoscenza, ci impoverisce e inaridisce la fede, così come la teologia. Noi dobbiamo ritrovare questa forma di conoscenza, è un’esigenza pressante del nostro tempo.
A partire da questa concezione Hans Urs von Balthasar ha edificato il suo Opus magnum dell’Estetica teologica, della quale molti dettagli sono stati recepiti nel lavoro teologico, mentre la sua impostazione di fondo, che costituisce veramente l’elemento essenziale del tutto, non è stata affatto accolta. Questo non è beninteso semplicemente solo, o meglio, non è principalmente un problema della teologia, ma anche della pastorale che deve nuovamente favorire l’incontro dell’uomo con la bellezza della fede. Gli argomenti cadono così spesso nel vuoto perché nel nostro mondo troppe argomentazioni contrapposte concorrono le une con le altre, tanto che all’uomo viene spontaneo il pensiero che i teologi medievali avevano così formulato: la ragione « ha un naso di cera », ossia la si può indirizzare, se solo si è abbastanza abili, nelle più svariate direzioni. Tutto è così assennato, così convincente, di chi dobbiamo fidarci? L’incontro con la bellezza può diventare il colpo del dardo che ferisce l’anima ed in questo modo le apre gli occhi, tanto che ora l’anima, a partire dall’esperienza, ha dei criteri di giudizio ed è anche in grado di valutare correttamente gli argomenti. Resta per me un’ esperienza indimenticabile il concerto di Bach diretto da Leonard Bernstein a Monaco di Baviera dopo la precoce scomparsa di Karl Richter. Ero seduto accanto al vescovo evangelico Hanselmann. Quando l’ultima nota di una delle grandi Thomas-Kantor-Kantaten si spense trionfalmente, volgemmo lo sguardo spontaneamente l’uno all’altro e altrettanto spontaneamente ci dicemmo:- « Chi ha ascoltato questo, sa che la fede è vera ». In quella musica era percepibile una forza talmente straordinaria di realtà presente da rendersi conto, non più attraverso deduzioni, bensì attraverso l’urto del cuore, che ciò non poteva avere origine dal nulla, ma poteva nascere solo grazie alla forza della verità che si attualizza nell’ispirazione del compositore. E la stessa cosa non è forse evidente quando ci lasciamo commuovere dall’icona della Trinità di Rublëv? Nell’arte delle icone, come pure nelle grandi opere pittoriche occidentali del romanico e del gotico, l’esperienza descritta da Kabasilas, partendo dall’interiorità, si è resa visibile e partecipabile. Pavel Evdokimov ha indicato in maniera così pregnante quale percorso interiore l’icona presupponga. L’icona non è semplicemente la riproduzione di quanto è percepibile con i sensi, ma piuttosto presuppone, come egli afferma, un « digiuno della vista ». La percezione interiore deve liberarsi dalla mera impressione dei sensi ed in preghiera ed ascesi acquisire una nuova, più profonda capacità di vedere, compiere il passaggio da ciò che è meramente esteriore verso la profondità della realtà, in modo che l’artista veda ciò che i sensi in quanto tali non vedono e ciò che tuttavia nel sensibile appare: lo splendore della gloria di Dio, la « gloria di Dio sul volto di Cristo » (2, Cor 4,6). Ammirare le icone, e in generale i grandi quadri dell’arte cristiana, ci conduce per una via interiore, una via del superamento di sé e quindi, in questa purificazione dello sguardo, che è una purificazione del cuore, ci rivela la bellezza, o almeno un raggio di essa. Proprio così essa ci pone in rapporto con la forza della verità. Io ho spesso già affermato essere mia convinzione che la vera apologia della fede cristiana, la dimostrazione più convincente della sua verità, contro ogni negazione, sono da un lato i Santi, dall’altro la bellezza che la fede ha generato. Affinché oggi la fede possa crescere dobbiamo condurre noi stessi e gli uomini in cui ci imbattiamo a incontrare i Santi, a entrare in contatto con il bello.
Ora però dobbiamo rispondere ancora ad un’obiezione. Abbiamo già respinto l’affermazione secondo cui quanto finora sostenuto sarebbe una fuga nell’irrazionale, nel mero estetismo. E’ vero piuttosto l’opposto: proprio così la ragione viene liberata dal suo torpore e resa capace di azione. Maggior peso ha oggi un’altra obiezione: il messaggio della bellezza viene messo completamente in dubbio attraverso il potere della menzogna, della seduzione, della violenza, del male. Può la bellezza essere autentica, oppure, alla fine, non è che un’illusione? La realtà non è forse in fondo malvagia? La paura che, alla fine, non sia lo strale del bello a condurci alla verità, ma che la menzogna, ciò che è brutto e volgare costituiscano la vera « realtà » ha angosciato gli uomini in ogni tempo. Nel presente ha trovato espressione nell’ affermazione secondo cui dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto fare poesia, dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto parlare di un Dio buono. Ci si domanda: dov’era finito Dio quando funzionavano i forni crematori? Ora questa obiezione, per la quale esistevano motivi sufficienti ancora prima di Auschwitz, in tutte le atrocità della storia, indica in ogni caso che un concetto puramente armonioso di bellezza non è sufficiente. Non regge il confronto con la gravità della messa in discussione di Dio, della verità, della bellezza. Apollo, che per il Socrate di Platone era « il Dio » e il garante della imperturbata bellezza come « il veramente divino », non basta assolutamente più. In questo modo ritorniamo alle « due trombe » della Bibbia dalle quali eravamo partiti, al paradosso per cui di Cristo si possa dire sia « Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo », sia « Non ha apparenza né bellezza…… il suo volto è sfigurato dal dolore ». Nella passione di Cristo l’estetica greca, così degna di ammirazione per il suo presentito contatto con il divino, che pure le resta indicibile, non viene rimossa, bensì superata. L’esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine – la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante. Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva « sino alla fine » e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l’ultima istanza del mondo. Non la menzogna è « vera », bensì proprio la verità. E’ per così dire un nuovo trucco della menzogna presentarsi come « verità » e dirci: al di là di me non c’e in fondo nulla, smettete di cercare la verità o addirittura di amarla; così facendo siete sulla strada sbagliata. L’icona di Cristo crocifisso ci libera da questo inganno oggi dilagante. Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme a lui e crediamo all’Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza.
La menzogna conosce comunque anche un altro stratagemma: la bellezza mendace, falsa, una bellezza abbagliante che non fa uscire gli uomini da sé per aprirli nell’estasi dell’innalzarsi verso l’alto, bensì li imprigiona totalmente in se stessi. E’ quella bellezza che non risveglia la nostalgia per l’indicibile, la disponibilità all’offerta, all’abbandono di sé, ma ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di piacere. E’ quel tipo di esperienza della bellezza di cui la Genesi parla nel racconto del peccato originale: Eva vide che il frutto dell’albero era « bello » da mangiare ed era « piacevole all’occhio ». La bellezza, così come ne fa esperienza, risveglia in lei la voglia del possesso, la fa ripiegare per così dire su se stessa. Chi non riconoscerebbe, ad esempio nella pubblicità, quelle immagini che con estrema abilità sono fatte per tentare irresistibilmente l’uomo ad appropriarsi di ogni cosa, a cercare il soddisfacimento del momento anziché l’ aprirsi ad altro da sé? Così l’ arte cristiana si trova oggi ( e forse già da sempre) tra due fuochi: deve opporsi al culto del brutto il quale ci dice che ogni altra cosa, ogni bellezza è inganno e solo la rappresentazione di quanto è crudele, basso, volgare, sarebbe la verità e la vera illuminazione della conoscenza. E deve contrastare la bellezza mendace che rende l’uomo più piccolo, anziché renderlo grande e che, proprio per questo, è menzogna.
Chi non ha conosciuto la molto citata frase di Dostoevskij: « La bellezza ci salverà? » Ci si dimentica però nella maggior parte dei casi di ricordare che Dostoevskij intende qui la bellezza redentrice di Cristo. Dobbiamo imparare a vederLo. Se noi Lo conosciamo non più solo a parole ma veniamo colpiti dallo strale della sua paradossale bellezza, allora facciamo veramente la Sua conoscenza e sappiamo di Lui non solo per averne sentito parlare da altri. Allora abbiamo incontrato la bellezza della verità, della verità redentrice. Nulla ci può portare di più a contatto con la bellezza di Cristo stesso che il mondo del bello creato dalla fede e la luce che risplende sul volto dei Santi, attraverso la quale diventa visibile la Sua propria Luce.

BENEDETTO XVI: ARTE E PREGHIERA

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110831_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza della Libertà, Castel Gandolfo

Mercoledì, 31 agosto 2011

ARTE E PREGHIERA

Cari fratelli e sorelle,

più volte ho richiamato, in questo periodo, la necessità per ogni cristiano di trovare tempo per Dio, per la preghiera, in mezzo alle tante occupazioni delle nostre giornate. Il Signore stesso ci offre molte occasioni perché ci ricordiamo di Lui. Oggi vorrei soffermarmi brevemente su uno di questi canali che possono condurci a Dio ed essere anche di aiuto nell’incontro con Lui: è la via delle espressioni artistiche, parte di quella “via pulchritudinis” – “via della bellezza” – di cui ho parlato più volte e che l’uomo d’oggi dovrebbe recuperare nel suo significato più profondo.
Forse vi è capitato qualche volta davanti ad una scultura, ad un quadro, ad alcuni versi di una poesia, o ad un brano musicale, di provare un’intima emozione, un senso di gioia, di percepire, cioè, chiaramente che di fronte a voi non c’era soltanto materia, un pezzo di marmo o di bronzo, una tela dipinta, un insieme di lettere o un cumulo di suoni, ma qualcosa di più grande, qualcosa che “parla”, capace di toccare il cuore, di comunicare un messaggio, di elevare l’animo. Un’opera d’arte è frutto della capacità creativa dell’essere umano, che si interroga davanti alla realtà visibile, cerca di scoprirne il senso profondo e di comunicarlo attraverso il linguaggio delle forme, dei colori, dei suoni. L’arte è capace di esprimere e rendere visibile il bisogno dell’uomo di andare oltre ciò che si vede, manifesta la sete e la ricerca dell’infinito. Anzi, è come una porta aperta verso l’infinito, verso una bellezza e una verità che vanno al di là del quotidiano. E un’opera d’arte può aprire gli occhi della mente e del cuore, sospingendoci verso l’alto.
Ma ci sono espressioni artistiche che sono vere strade verso Dio, la Bellezza suprema, anzi sono un aiuto a crescere nel rapporto con Lui, nella preghiera. Si tratta delle opere che nascono dalla fede e che esprimono la fede. Un esempio lo possiamo avere quando visitiamo una cattedrale gotica: siamo rapiti dalle linee verticali che si stagliano verso il cielo ed attirano in alto il nostro sguardo e il nostro spirito, mentre, in pari tempo, ci sentiamo piccoli, eppure desiderosi di pienezza… O quando entriamo in una chiesa romanica: siamo invitati in modo spontaneo al raccoglimento e alla preghiera. Percepiamo che in questi splendidi edifici è come racchiusa la fede di generazioni. Oppure, quando ascoltiamo un brano di musica sacra che fa vibrare le corde del nostro cuore, il nostro animo viene come dilatato ed è aiutato a rivolgersi a Dio. Mi torna in mente un concerto di musiche di Johann Sebastian Bach, a Monaco di Baviera, diretto da Leonard Bernstein. Al termine dell’ultimo brano, una delle Cantate, sentii, non per ragionamento, ma nel profondo del cuore, che ciò che avevo ascoltato mi aveva trasmesso verità, verità del sommo compositore, e mi spingeva a ringraziare Dio. Accanto a me c’era il vescovo luterano di Monaco e spontaneamente gli dissi: “Sentendo questo si capisce: è vero; è vera la fede così forte, e la bellezza che esprime irresistibilmente la presenza della verità di Dio. Ma quante volte quadri o affreschi, frutto della fede dell’artista, nelle loro forme, nei loro colori, nella loro luce, ci spingono a rivolgere il pensiero a Dio e fanno crescere in noi il desiderio di attingere alla sorgente di ogni bellezza. Rimane profondamente vero quanto ha scritto un grande artista, Marc Chagall, che i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che è la Bibbia. Quante volte allora le espressioni artistiche possono essere occasioni per ricordarci di Dio, per aiutare la nostra preghiera o anche la conversione del cuore! Paul Claudel, famoso poeta, drammaturgo e diplomatico francese, nella Basilica di Notre Dame a Parigi, nel 1886, proprio ascoltando il canto del Magnificat durante la Messa di Natale, avvertì la presenza di Dio. Non era entrato in chiesa per motivi di fede, era entrato proprio per cercare argomenti contro i cristiani, e invece la grazia di Dio operò nel suo cuore.
Cari amici, vi invito a riscoprire l’importanza di questa via anche per la preghiera, per la nostra relazione viva con Dio. Le città e i paesi in tutto il mondo racchiudono tesori d’arte che esprimono la fede e ci richiamano al rapporto con Dio. La visita ai luoghi d’arte, allora, non sia solo occasione di arricchimento culturale – anche questo – ma soprattutto possa diventare un momento di grazia, di stimolo per rafforzare il nostro legame e il nostro dialogo con il Signore, per fermarsi a contemplare – nel passaggio dalla semplice realtà esteriore alla realtà più profonda che esprime – il raggio di bellezza che ci colpisce, che quasi ci “ferisce” nell’intimo e ci invita a salire verso Dio. Finisco con una preghiera di un Salmo, il Salmo 27: “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore e ammirare il suo santuario” (v. 4). Speriamo che il Signore ci aiuti a contemplare la sua bellezza, sia nella natura che nelle opere d’arte, così da essere toccati dalla luce del suo volto, perché anche noi possiamo essere luci per il nostro prossimo. Grazie.

PERCHÉ PAPA FRANCESCO AMA IL GRIDO BLASFEMO DELLA CROCE DI CHAGALL

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=130883

PERCHÉ PAPA FRANCESCO AMA IL GRIDO BLASFEMO DELLA CROCE DI CHAGALL

Il soggetto sembra pensato per scontentare tanto i cristiani quanto gli ebrei. Verrebbe da dire che il mite Chagall ce l’ha con tutti e vuole scandalizzare tutti. Ai cristiani mostra un Cristo non solo martirizzato in quanto ebreo e privo della compagnia di sua madre Maria e del discepolo prediletto Giovanni, ma addirittura… Un Papa che ha per dipinto preferito la Crocifissione Bianca di Marc Chagall deve essere per forza un grandissimo anticonformista. Non ci si lasci ingannare dallo stile naif, intrinsecamente riposante e sinonimo di fuga dalla storia: quella dipinta nel 1938 dal pittore di origine bielorussa e religione ebraica è una delle più scandalose rappresentazioni di Cristo crocifisso che si ricordino. L’ingenuità delle figure, propria di ogni naif, enfatizza il contrasto con la tragicità della narrazione visiva e con la provocazione intellettuale e teologica che il quadro contiene. La Crocifissione di Chagall, realizzata nell’anno della Notte dei Cristalli, colloca la croce con la sua vittima in un paesaggio contrassegnato esclusivamente dalle violenze che in quel tempo si compivano contro gli ebrei europei: sinagoghe in fiamme, persone in fuga singolarmente e a gruppi, case capovolte, i rotoli della torah bruciati. Cristo è palesemente condannato al supplizio in quanto ebreo: il bacino non è ricoperto dal consueto panno bianco, ma da un tallit, lo scialle di preghiera ebraico, e la scritta con la condanna che sormonta la croce è vergata esclusivamente in caratteri ebraici. Ai piedi della croce nessuna delle figure della iconografia cristiana, ma una menorah, il candelabro sacro, che spande la stessa luce bianca, soprannaturale, che dall’alto investe il crocefisso. Nessuna figura mostra attenzione per l’agonia di Cristo, tutti gli danno le spalle impegnati in una fuga per la sopravvivenza; solo mostrano commozione alcune figure volanti sospese nel cielo sopra la crocifissione: si tratta di rabbini e altri personaggi ascrivibili all’Antico Testamento.  Il soggetto sembra pensato per scontentare tanto i cristiani quanto gli ebrei. Verrebbe da dire che il mite Chagall ce l’ha con tutti e vuole scandalizzare tutti. Ai cristiani mostra un Cristo non solo martirizzato in quanto ebreo – dunque non per aver sovvertito l’ordine giudaico – e privo della compagnia di sua madre Maria e del discepolo prediletto Giovanni, sostituiti da imprecisati personaggi dell’Antico Testamento. Ma addirittura propone il suo riassorbimento nella rivelazione veterotestamentaria: la luce divina bianchissima, che rompe il grigiore plumbeo del paesaggio, investendo diagonalmente il crocefisso dall’alto, è la stessa che fa alone attorno alla menorah e che promana dalle fiamme che stanno bruciando alcuni rotoli della Legge – mentre le altre fiamme del dipinto sono gialle. Tutto ciò è altrettanto offensivo per gli ebrei praticanti: considerati colpevoli della sua morte, in nome della croce di Cristo sono stati discriminati e perseguitati per secoli, ed ecco che nei prodromi della peggiore di tutte le persecuzioni che subiranno un loro artista si improvvisa teologo e riebraicizza il sacrificio di Gesù, e lo propone come simbolo della sofferenza giudaica.  Ma a guardare bene, lo stesso Cristo non sfugge al grido di protesta del pittore. Più che morto, Gesù pare addormentato sulla croce: fa venire in mente il Cristo dormiente nella barca in tempesta sul lago di Tiberiade. I segni del martirio sul suo corpo giallognolo sono minimi, sembra non soffrire mentre intorno a lui il mondo brucia o fugge. Addirittura contro la croce è appoggiata una scala, quasi a suggerirgli di scendere e intervenire in soccorso di chi sta perdendo tutto. I simboli di Chagall si prestano a molte letture, e qualcuno potrebbe proporre interpretazioni diverse da queste. C’è chi nelle fiamme di cui è ricco il dipinto ha voluto vedere un richiamo ai forni crematori, che nel 1938 di certo non esistevano. Chi ha parlato di un parallelo fra le persecuzioni antigiudaiche dei nazisti (individuabili nel personaggio che distrugge gli arredi della sinagoga) e quelle dei bolscevichi, raffigurati da soldati con la bandiera rossa nei pressi del villaggio ribaltato. In realtà la citazione dell’Armata Rossa simboleggia probabilmente l’unica e insufficiente speranza umana di resistenza e riscatto di fronte all’ondata antisemita, piuttosto che un fattore della persecuzione. Chagall fu Commissario dell’arte per la regione di Vitebsk all’indomani della rivoluzione bolscevica, prima di emigrare in Francia, e nel 1943, temporaneamente emigrato negli Stati Uniti, contribuì a far raccogliere aiuti per le forze armate sovietiche che combattevano l’invasione nazista.  Papa Francesco non ignora certamente tutte queste complessità dell’olio su tela di Chagall. Non sappiamo su quali giudizi estetici e contenutistici si fondi la sua preferenza per questa opera. Il contrasto fra il crocifisso pacificato e silenzioso e il mondo intorno lacerato e scosso, l’apparente riconciliazione fra Gesù in croce e il suo popolo nel momento di massima persecuzione di quest’ultimo, a sua volta crocefisso, la discreta e insieme inisistita e insistente invocazione a Cristo a scendere dalla croce, devono averlo certamente colpito. Essendo un pastore di anime, ad averlo colpito di più dovrebbe essere stato soprattutto il grido blasfemo e umanissimo dell’artista. Nel cuore di papa Francesco c’è posto anche per gli uomini esasperati.

Publié dans:arte sacra, PAPA FRANCESCO |on 19 décembre, 2013 |Pas de commentaires »

« I BAGLIORI DELLA BELLEZZA INCARNATA » – Teologia del restauro dei beni artistici

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« I BAGLIORI DELLA BELLEZZA INCARNATA »

Teologia del restauro dei beni artistici

in Nuntium 21(2003) 128-137

di Gianni Manzone (PUL)

Nell’allocuzione rivolta ai membri della prima Assemblea plenaria della pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, il 12 ottobre 1995, Giovanni Paolo II afferma che con il concetto di «beni culturali» s’intendono «innanzitutto i beni artistici della pittura, della scultura, dell’architettura, del mosaico e della musica, posti al servizio della missione della Chiesa. A questi vanno poi aggiunti i beni contenuti nelle biblioteche ecclesiastiche e i documenti storici delle comunità ecclesiali. Rientrano, infine, in questo ambito le opere letterarie, teatrali, cinematografiche. prodotte dai mezzi di comunicazione di massa». Essi vanno considerate come il volto storico e creativo della comunità cristiana. La traduzione della fede in immagini arricchisce il rapporto con la creazione e con la realtà soprannaturale, rimandando alle narrazioni bibliche e rappresentando le diverse visioni della devozione popolare (Ad Gentes n.21). Le singole comunità cristiane si riconoscono così nelle manifestazioni dell’arte, e dell’arte sacra in particolare, prodotte lungo i secoli per rispondere alle diverse necessità pastorali e culturali.

Per una conservazione contestuale Se le biblioteche possono essere considerate i luoghi di riflessione e gli archivi i luoghi della memoria, il patrimonio artistico della Chiesa è la testimonianza concreta espressa dalle comunità cristiane allo splendore della bellezza nei luoghi del culto, della pietà, della vita religiosa e dello studio. Attraverso la protezione dei beni artistici l’azione della Chiesa favorisce un nuovo umanesimo in vista della nuova evangelizzazione. La Chiesa in tutto l’arco della sua storia «si è servita delle differenti culture per diffondere e spiegare il messaggio cristiano»(GS n.58). Infatti «la fede tende per sua natura ad esprimersi in forme artistiche e in testimonianze storiche aventi un’intrinseca forza evangelizzatrice e valenza culturale di fronte alle quali la Chiesa è chiamata a prestare la massima attenzione»( giovanni paolo II, motu proprio Inde a pontìficatus nostri initio, 25.3.1993). Per questo, specialmente nei paesi di antica, ma già anche in quelli di recente evangelizzazione, si è venuto ad accumulare un abbondante patrimonio di beni culturali caratterizza­ti da un particolare valore nell’ambito della loro finalità ecclesiale.   Le manifestazioni dell’arte sacra sono intimamente legate al vissuto eccle­siale, poiché documentano visibilmente il percorso fatto lungo i secoli dalla Chiesa nel culto, nella catechesi, nella cultura e nella carità. Esse documentano l’evolversi della vita culturale e religiosa, oltrechè il genio dell’uomo. Di conseguenza non possono essere intese in sen­so «assoluto», cioè sciolte dall’insieme delle attività della Chiesa, ma vanno pensate in relazione con la totalità della vita ecclesiale e in riferimento al patrimonio storico-artistico di ogni nazione e cultura. È necessario quindi un approccio complessivo a questo “tesoro” che si inserisce nell’ambito delle attività pastorali, con il compito di riflettere la vita ecclesiale.    I «beni culturali, posti al servizio della missione della Chiesa» comunicano il sacro, il bello, l’antico, il nuovo. Sono quindi parte integrante delle manifestazioni culturali e della testimonianza dei credenti. La comunità cristiana comprende l’importanza del proprio passato, matura il senso di appartenenza al territorio in cui vive, percepisce la peculiarità pastorale del patrimonio artistico. Si tratta dunque di creare una coscienza critica al fine di valorizzare il patrimonio storico-artistico prodotto dalle diverse civiltà che si sono avvicendate nel tempo, grazie anche alla presenza della Chiesa, sia come committente illuminata sia come custode attenta delle vestigia antiche (Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, La funzione dei musei ecclesiastici 2001).    I beni culturali ecclesiali sono patrimonio specifico della comunità cristiana. Nello stesso tempo, in forza della dimensione uni­versale dell’annuncio cristiano, appartengono in qualche modo all’intera umanità. Il loro fine è ordinato alla missione ecclesiale nel duplice e concorrente dinamismo di promozione umana ed evange­lizzazione cristiana. Il loro valore mette in risalto l’opera d’inculturazione della fede. Es­si sono dunque «luogo ecclesiale» in quanto sono parte integrante della missione del­la Chiesa nel tempo e nel presente, e presentano la bellezza dei processi creativi umani intesi a esprimere la «gloria di Dio» (Slavorum Apostoli n.21).    In quest’ottica l’accesso ad essi richiede una particolare predisposizione interiore, poiché qui si vedono non soltanto cose belle, ma nel bello si è chiamati e invitati a percepire il sacro. La loro visita non può quindi intendersi esclusivamente come proposta turistico-culturale, poiché molte delle opere in visione sono espressione di fede degli autori e rimandano al sensus fidei della comunità. Tali opere vanno quindi lette, comprese, fruite nella loro complessità e globalità, onde comprenderne l’autentico, originario e ultimo significato. “Il venerato ricordo di ciò che ha detto e fatto Gesù, della prima comunità cristiana, della Chiesa dei martiri e dei padri, dell’espandersi del cristianesimo nel mondo, è efficace motivo per lodare il Signore e ringraziarlo delle « grandi cose » che ha ispirato al suo popolo”. I beni artistici non devono acquisire, a causa della secolarizzazione, un significato quasi esclusivamente estetico. Il loro valore estetico non può essere distaccato totalmente dalla sua funzione pastorale, oltreché dal contesto storico, sociale, ambientale, devozionale del quale è peculiare espressione e testimonianza.

La cultura della memoria È a tutti noto l’impegno della Chiesa, durante l’intero arco del­la sua storia, nei confronti del proprio patrimonio storico e artistico, come appare evidente dai documenti dei sommi pontefici, dei concili ecumenici, dei sinodi locali e dei singoli vescovi. Tale cura si è espressa sia nella committenza di opere d’arte, destinate princi­palmente al culto e al decoro dei luoghi sacri, sia nella loro tutela e conservazione. «La volontà da parte della comunità dei credenti, e in particolare delle istituzioni ec-clesiastiche, di raccogliere sin dall’epoca apostolica le testimonianze della fede e coltivarne la memoria, esprime l’unicità e la continuità della Chiesa che vive questi tempi ultimi della storia”. Attraverso i beni culturali la Chiesa esercita il magistero pastorale della memoria e della bellezza. “Nella mens della Chiesa la memoria cronologica porta dunque a una rilettura spirituale degli eventi nel contesto dell’ eventum salutis e impone l’urgenza della con­versione al fine di pervenire all’ ut unum sint» (Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici 1997).    Il patrimonio artistico è segno del divenire storico, dei cambiamenti culturali, della caducità contingente. In coerenza con la logica dell’incarnazione, rappresenta una «reliquia» del precedente vissuto ecclesiale, ordinata all’odierno sviluppo dell’opera di inculturazione della fede. Narra la storia della comunità cristiana attraverso ciò che testimoniano le diverse ritualizzazioni, le molteplici forme di pietà, le variegate congiunture sociali, le spe­cifiche situazioni ambientali. Presenta la bellezza di quanto è stato creato a) per il culto, al fine di evocare l’inesprimibile «gloria» divina; b) per la catechesi, al fine di infondere me­raviglia nel racconto evangelico; c) per la cultura, al fine di magnificare la grandezza della creazione; d) per la carità, al fine di evidenziare l’essenza del Vangelo. Appartiene alla complessità irriducibile dell’operato della Chiesa nel tempo per cui è «realtà viva» (Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, Necessità di inventariare i beni culturali 1999).    La Chiesa fin dai tempi più antichi comprese l’importanza dei beni culturali nell’espletamento della sua missione. Infatti a tutto ciò che «attraverso i secoli in qualsiasi modo le appartenne» diede dignità d’arte, imprimendovi «come un riflesso della propria bellezza spirituale» (Circolare della Segreteria di Stato di sua Santità ai rev.di ordinari d’Italia 1–IX-1924). Essa inoltre non solo è stata committente d’arte e di cultura, ma anche si è prodigata per la salvaguardia e la valo­rizzazione dei propri beni culturali, come si può evincere da una pur rapida indagine storica.    Dell’importanza data dalla Chiesa alle opere d’arte sono valida testimonianza le pitture delle catacombe, lo splendore delle chiese e il pregio delle suppellettili sacre. Il Liber pontificalis e gli Inventari conservati nell’Archivio segreto vaticano documentano quale assidua cura ponessero i papi nell’ornare le chiese e come gli oggetti d’arte fossero ben presto considerati patrimonio da curare con attenzione. In epoca antica un primo intervento da parte del magistero papale sul riconoscimento del valore dell’arte sacra avvenne per opera del papa Gregorio Magno (590-604). A concludere la lotta iconoclasta, che travagliò per molti decenni la Chiesa d’Oriente, con notevoli ripercussioni in Occidente e a dettare i criteri dell’iconografia cristiana fu poi il concilio Niceno II (787). Per tutto il Medioevo è noto come gli ordini monastici (specialmente i benedettini) e gli ordini mendicanti abbiano coltivato una grande attenzione verso i beni artistici, fino a caratterizzarne lo stile e a emanare norme che talvolta sono entrate a far parte delle stesse regole religiose. Gli storici vedono, inoltre, nella preghiera d’istituzione degli ostiarii (databile forse nella metà del III secolo) un primo impegno per la tutela dei beni da parte della Chiesa. Ben presto apparvero numerosi interventi normativi dei Pontefici, specialmente per quanto riguarda l’alienazione o la donazione di beni culturali: infliggevano gravi pene, non esclusa la scomunica, a coloro che procedevano a tali atti senza le debite autorizzazioni. Non solo i pontefici, ma anche i concili ecumenici si occuparono della tutela dei beni culturali. Al riguardo possono essere ricordati il concilio Costantinopolitano IV (869-70) e il secondo concilio di Lione (1274). In particolare il concilio di Trento, oltre a ribadire con un decreto la sua posizione contro l’iconoclastia, aggiunse un elemento nuovo e assai importante, cioè l’appello fatto ai vescovi di istruire i fedeli sul significato e sull’utilità delle immagini sacre per la vita cristiana. Il 28 novembre 1534 il papa Paolo III nominò per la prima volta un commissario per la conservazione dei beni culturali anti­chi.    La preoccupazione della Chiesa che quanto era ordinato al culto dovesse essere d’indiscutibile valore artistico è evidente nelle istruzioni sulla musica sacra di Pio X del 22 novembre 1903 e nell’enciclica di Pio XII Mediator Dei (1947). L’attuale Codice di diritto canonico del 1983. nel canone 1283, nn. 2-3, ribadisce la norma del Codice del 1917, aggiungendo tra i beni da inventariare anche tutti quei beni mobili che comunque riguardano i beni culturali. L’inventariazione «accurata e detta­gliata» è di fondamentale importanza, poiché, mentre consente un’analitica ricognizione del patrimonio storico-artistico, promuove l’acquisizione di una «cultura della memoria» (Necessità di inventariare i beni culturali, o.c. ). Il dissolversi dell’unità culturale in tante società del mondo moderno, a causa della frammentazione ideologica ed etnica, può essere efficacemente bilanciata con la riscoperta del proprio pas­sato, delle radici comuni, della vicenda storica, della memoria cul­turale di cui il patrimonio storico-artistico è espressione. Questo, ricorda Giovanni Paolo II, visibilizzando l’azione pastorale della Chiesa in un determinato territorio, “dà un volto concreto e fruibile alla memoria storica del cristianesimo» (Messaggio ai partecipanti alla Assemblea plenaria della Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, 25.9.1997).

La Bellezza che salva I beni culturali, in quanto espressione della memoria sto­rica, permettono di riscoprire il cammino di fede attraverso le ope­re delle varie generazioni. Per il loro pregio artistico, rivelano la ca­pacità creativa di artisti, artigiani e maestranze locali che hanno saputo imprimere nel sensibile il proprio senso religioso e la devozione della comunità cristiana. Per il contenuto culturale, consegnano alla società attuale la storia individuale e comunitaria della sapienza umana e cristiana nell’ambito di un particolare territorio e di un determinato periodo storico. Per il loro significato liturgico, sono ordinati specialmente al culto divino. Per la loro destinazione universale, consentono a ciascuno di esserne il fruitore senza diventarne il proprietario esclusivo. Il valore che la Chiesa riconosce ai propri beni culturali spiega «la volontà da parte della comunità dei credenti, e in particolare delle istituzioni ecclesiastiche, di raccogliere fin dall’epoca apostolica le testimonianze della fede e coltivarne la memoria, esprime l’unicità e la continuità della Chiesa che vive questi tempi ultimi della storia» (La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici).    In questo contesto la Chiesa considera importante la trasmissione del proprio patrimonio di beni culturali. Essi rappresentano infatti un anello essenziale della catena della tradizione; sono la memoria sensibile dell’evangelizzazione; diventano uno strumento pastorale. Ne consegue allora «l’impegno di restaurarli, custodirli, catalogarli, difenderli» ai fini di una loro «valorizzazione, che ne favorisca una migliore conoscenza e un adeguato utilizzo tanto nella catechesi quanto nella liturgia» (giovanni paolo II, Allocuzione ai partecipanti all’Assemblea plenaria della Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, 12.10.1995). Il patrimonio storico-artistico, radicato sul territorio e direttamente collegato all’azione della Chiesa, non si riduce alla semplice «raccolta di antichità e curiosità». Anche se tanti manufatti non svolgono più una specifica funzione ecclesiale, essi continuano a trasmettere un messaggio che le comunità cristiane viventi in epoche lontane hanno voluto consegnare alle successive generazioni. A questo fine Giovanni Paolo II esorta: “Siano ben realizzate la raccolta e la custodia dell’intero patrimonio artistico e storico in tutto il territorio, per essere a disposizione di tutti coloro che ne hanno interesse”( Pastor bonus n. 102).    Per adempiere alla propria missione pastorale, la Chiesa è im­pegnata a mantenere il patrimonio storico-artistico nella sua fun­zione originaria, indissolubilmente connessa con la proclamazione della fede e con il servizio della promozione integrale dell’uomo. Viene così sottolineata la dimensione specifica del bene culturale di carattere religioso, anteriore agli stessi usi ai quali sarà ordinato. Il tesoro d’arte ereditato dalla Chiesa va conservato, perché esso «è come la veste esteriore e l’orma materiale della vita so­prannaturale della Chiesa» (Circolare della Segreteria di Stato 1924).    In forza del suo valore pastorale, il patrimonio storico-artistico è ordinato all’animazione del popolo di Dio. Esso giova all’educazione alla fede e alla crescita del senso di appartenenza dei fedeli alla propria comunità. In molti casi esso è espressione dei desideri, dell’ingegno, dei sacrifici e soprattutto della pietà di per­sone di ogni condizione sociale, che si riconoscono nella fede. Il tesoro artistico d’ispirazione cristiana da dignità al territorio e co­stituisce un’eredità spirituale per le future generazioni. Esso è ri­conosciuto come mezzo primario d’inculturazione della fede nel mondo contemporaneo, poiché la via della bellezza apre alle di­mensioni profonde dello spirito e la via dell’arte d’ispirazione cristiana istruisce tanto i credenti quanto i non credenti. Soprattutto nell’ambito della celebrazione dei divini misteri, i beni culturali contribuiscono a far risplendere per dignità, decoro e bellezza, i segni e i simboli delle realtà spirituali (Sacrosanctum Concilium n.122).

Le tracce del Transitus Domini «La Chiesa, maestra di vita, non può non assumersi anche il ministero di aiutare l’uo­mo contemporaneo a ritrovare lo stupore reli­gioso davanti al fascino della bellezza e della sapienza che si sprigiona da quanto ci ha con­segnato la storia. Tale compito esige un lavoro diuturno e assiduo di orientamento, di in­coraggiamento e di interscambio» (Messaggio…, 25.9.1997). Si tratta “di riprendere i germi di verità seminati dalle singole generazioni, di lasciarsi illuminare dai bagliori della bellezza incarnata nelle opere sensibili, di riconoscere le tracce del transitus Domini nella storia degli uomini” (paolo VI, Discorso ai partecipanti al Convegno degli archivisti ecclesiastici.26.9.1963).    La cura del patrimonio storico-artistico ecclesiastico è un fatto di civiltà, che coinvolge la Chiesa in primo piano. Essa si è sempre dichiarata «esperta in umanità» (PP n.13) ha favorito in tutte le epoche lo sviluppo delle arti liberali e ha promosso la cura di quanto è stato creato per adempiere alla missione evangelizzatrice. Infatti, come ricorda Giovanni Paolo II, «quando la Chiesa chiama l’arte ad affiancare la pro­pria missione, non è soltanto per ragioni di estetica, ma per obbedire alla « logica » stessa della rivelazione e dell’incarnazione» (giovanni paolo II, Allocuzione L ‘importanza del patrimonio artistico nell’e­spressione della fede e nel dialogo con l’umanità, 12.10.1995).    La testimonianza di fede delle passate generazioni attraverso reperti sensibili viene riscoperta e rivissuta. I beni culturali conducono inoltre alla percezione della bellezza diversamente im­pressa in opere antiche e moderne, così che orientano cuore, mente e volontà a Dio. «Dai siti archeologici alle più moderne espressioni dell’arte cristiana, l’uomo contemporaneo deve poter rileggere la storia della Chiesa, per essere così aiutato a riconoscere il fascino misterioso del disegno salvifico di Dio»(Messaggio…, 25.9.1997). Questi ricordano, attraverso scarni reperti o insigni opere, le passate epoche evidenziando, con la bellezza di quanto si è conservato, la forza creativa dell’uomo congiunta alla fede dei credenti. In questa prospettiva i musei e i “tesori” della Chiesa assolvono pertanto a una funzione magisteriale e catechetica, fornendo anche una prospettiva storica e un godimento estetico. Tali espressioni artistiche «sono tanto più orientate a Dio e alla sua lode e gloria, in quanto nessun altro fine è loro assegnato se non contribuire il più efficacemente possibile a indirizzare pienamente le menti degli uomini a Dio” (Sacrosanctum Concilium n.122).

GIANNI  MANZONE 

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