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« ASCOLTARE IN PROFONDITÀ QUELLO CHE VIENE COME DONO DI SAPIENZA » (Omelia di Mons.João Justino de Medeiros Silva)

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« ASCOLTARE IN PROFONDITÀ QUELLO CHE VIENE COME DONO DI SAPIENZA »

Omelia di monsignor João Justino de Medeiros Silva nella veglia di preghiera con gli studenti universitari

ROMA, domenica, 2 dicembre 2012 (ZENIT.org).– Il pellegrinaggio degli studenti delle università pontificie e degli atenei romani alla tomba di San Pietro è stato preceduto venerdì 30 novembre da una veglia di preghiera nella basilica di San Paolo fuori le Mura. Nell’occasione, il vescovo ausiliare di Belo Horizonte (Brasile), monsignor João Justino de Medeiros Silva, ha tenuto l’omelia, il cui testo riportiamo di seguito.
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Carissimi fratelli e sorelle!
Il Signore ci ha radunati in questa basilica di San Paolo fuori le mura, nella festa di San Andrea Apostolo per offrirci ancora una volta l’opportunità di stare in preghiera insieme alla sua Madre Santissima. Come discepoli del Signore nel mondo delle università ci incontriamo in quest’ora per pregare Maria Madre della Sapienza affinché siamo capace di rendere la vera testimonianza del suo Figlio, Gesù Cristo, come giovani e come universitari.
Il fatto che siamo in questa Basilica dell’apostolo Paolo e giusto nella festa di un altro apostolo, San Andrea, ci ricorda la dimensione apostolica della nostra fede. Apostolica perché rimanda alla vita, storia, testimonianza e martirio degli apostoli di Gesù. Apostolica perché le radici della Chiesa Cattolica sono trovate proprio in loro, che hanno vissuto con il Signore e a Lui hanno offerto tutta la vita e tutto l’impegno personale a causa del vangelo della vita e della verità. Apostolica perché mandata al mondo in missione. Così, anche noi partecipiamo dell’apostolicità della Chiesa. Nelle scie degli apostoli andiamo nelle vie del mondo ad annunciare Gesù Cristo. E tutti noi sappiamo quanto è esigente rimanere fedele a Lui che ci ha chiamati “sale della terra e luce del mondo”.
Il brano di Luca che abbiamo appena sentito ci presenta Maria, la Madre del Signore, nell’atteggiamento proprio di chi cerca capire le cose secondo Dio. Trovato il suo Figlio nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, ad insegnare, Maria e Giuseppe restarono stupiti. Come comprendere quello che accadeva. Luca ci risponde come Maria capiva le cose che succedevano. Infatti, l’ evangelista ci informa: “Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore.” Niente di romantico vuol dire “nel cuore”. Anzi, “nel cuore” vuol dire l’esigenza del silenzio, la determinazione personale di cercare il vero senso delle cose. “Custodire nel cuore” vuol dire non fare troppo rumore, ma lasciare che le cose trovino il suo posto secondo la volontà di Dio, decantare l’esperienza. Significa saper convivere col “mistero”, quale dono di Dio. “Custodire nel cuore” significa ascoltare in profondità quello che viene come dono di sapienza, come dono dello Spirito.
Così, possiamo comprendere perché Maria è riconosciuta come Madre della Sapienza. Proprio perché suo cuore è tutto ascolto, è tutto verso Dio, è senza la macchia del peccato. La sua attenzione rivolta a Dio che ci parla anche per mezzo dei fatti, non si perde nelle distrazioni dei nostri desideri disordinati. Lei è capace di concentrarsi totalmente nel senso della verità e guardare le persone, il mondo, la storia con gli occhi di Dio. Lei è guidata per la decisione radicale manifestata nel sua risposta all’angelo: “Ecco l’ancella del Signore. Si compia in me la tua volontà”.
Quando a Belo Horizonte cercheremo di affrontare il tema del Congresso Mondiale delle Università “Nuovi tempi, nuovi sensi” avremo la sfida di cercare l’intelligenza del cuore. E in questa strada, Maria ci precede, perche Lei à maestra in questa esperienza. Lei ha saputo silenziare per comprendere. E una volta compreso il senso delle cose, ha saputo vivere al fianco del suo Figlio, sino alla croce. Ecco che la Madre della Sapienza è anche la Mater Dolorosa, la Pietà. A Belo Horizonte, nella più bella montagna di Minas Gerais troverete la Madonna della Pietà che vi aspetta per insegnarvi anche la sapienza della croce e della risurrezione. Noi vi aspetteremo li al Santuario della Madonna della Pietà!
Porteremo in Brasile questa bellissima icona Maria Sedes Sapientia. Le nostre Università e Facoltà nel ricevere l’icona avranno la possibilità di pregare, di riflettere e di annunciare che la strada della vera sapienza passa attraverso l’incontro con il Signore. Il Concilio Vaticano II ci ha insegnato che “in realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo” (Gaudium et Spes, 22). Cerchiamo di fare comprendere ai nostri giovani universitari che tutta ricerca della verità sull’uomo passa necessariamente per l’incontro con Gesù Cristo.
Lasciamoci guidare dalle parole del Santo Padre Benedetto XVI che nel messaggio per la prossima Giornata Mondiale della Gioventù ci ha scritto: “All’inizio del Vangelo di Giovanni vediamo Andrea il quale, dopo aver incontrato Gesù, si affretta a condurre da Lui suo fratello Simone (cfr. 1,40-42). L’evangelizzazione parte sempre dell’incontro con il Signore Gesù: chi si è avvicinato a Lui e ha fatto esperienza del suo amore vuole subito condividere la bellezza di questo incontro e la gioia che nasce da questa amicizia. Più conosciamo Cristo, più desideriamo annunciarlo. Più parliamo con Lui, più desideriamo parlare di Lui. Più ne siamo conquistati, più desideriamo condurre gli altri a Lui.” (Messaggio Del Santo Padre Benedetto XVI per la XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù, 2013).
Ringraziamo Dio e tutti voi, in particolare il Vicariato di Roma per l’accoglienza e preparazione di questa veglia di preghiera. Vi aspettiamo a Belo Horizonte, a luglio prossimo per Il Congresso Internazionale delle Università Cattoliche ed anche a Rio de Janeiro per la Giornata Mondiale della Gioventù. Maria, Madre della Sapienza, ci accompagni ogni giorno. San Paolo e Santo Andrea ci aiutino a rimane fedeli nella testimonianza del Signore Gesù Cristo. Amen.
+ João Justino de Medeiros Silva, vescovo aussiliare di Belo Horizonte, Brasile

« IL DIO DI GESÙ CRISTO È INSIEME AGAPE E LOGOS (del Patriarca di Venezia)

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« IL DIO DI GESÙ CRISTO È INSIEME AGAPE E LOGOS »

Secondo il Patriarca di Venezia, intervenuto al Sinodo, va potenziata la lettura della Bibbia

di mons. Francesco Moraglia

CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 15 ottobre 2012 (ZENIT.org) – Riportiamo di seguito l’intervento del Patriarca di Venezia, mons. Francesco Moraglia, alla nona Congregazione Generale del Sinodo dei Vescovi (13 ottobre 2012).
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L’intervento riguarda i nn. 153-157 dell’Instrumentum laboris: il punto “Fede e conoscenza”. Sulla linea del magistero costante della Chiesa e, più recentemente, di Giovanni Paolo II (Fides et ratio) e di Benedetto XVI (Lectio magistralis, Regensburg, il 12 settembre 2006), auspico che la nuova evangelizzazione riservi maggior spazio alla catechesi, con speciale attenzione alla complementarietà fede, ragione. Siamo grati all’impegno di chi con competenza e sensibilità si fa carico della pastorale dell’alta cultura, favorendo il dialogo con gli intellettuali e gli scienziati cristiani, con quanti sono in onesta ricerca.
Anche sul piano della catechesi ordinaria ci si deve incamminare verso una più condivisa coscienza circa la dimensione culturale della fede, affinché il credente non viva una sudditanza psicologica e si percepisca in ritardo sul quadrante della storia. Non di rado, il cattolico vive una sorta di complesso d’inferiorità nei confronti della modernità e postmodernità per un personale, non risolto conflitto tra fede e ragione. Il silenzio del cattolico-medio, nel dare ragioni della sua speranza, è fragorosissimo.
Oltre a potenziare il primo annuncio, la lettura della Bibbia, la lectio divina, – sulla linea della Dei Verbum e dell’esortazione post-sinodale Verbum Domini- ritengo necessario, in ordine alla nuova evangelizzazione, rinsaldare il legame strutturale tra ragione e fede. Si tratta di far entrare la cultura nella pastorale ordinaria; ciò, oggi, risponde a una diaconia cristiana nei confronti della storia, di fronte a una cultura che si elabora sempre più a partire dal sapere delle scienze e della tecnica, generando un pensiero strumentale e funzionale. In tale situazione, in Italia, la maggioranza dei giovani, compiuta l’iniziazione cristiana smarrisce il rapporto con la Chiesa, la fede, Dio.
Molteplici le cause; ritengo, però che, in non pochi casi, la fede non sia supportata da una catechesi amica della ragione, capace di una vera proposta antropologica e in grado di legittimare la plausibilità della scelta cristiana. E’ necessario rilanciare il CCC dando maggiore spazio ai contenuti affinché la fede non si riduca ad una fede “fai da te”; la fides quae non di rado è carente nelle nostre catechesi; è importante la metodologia ma non a scapito dei contenuti o dell’esperienza elevata a luogo teologico. Se con Dio o senza Dio tutto cambia, è doveroso ricentrare la catechesi su Dio e su quanto la rivelazione cristiana dice di Lui, non dimenticando che il Dio di Gesù Cristo – come ricorda Benedetto XVI – è insieme Agape e Logos.

« DIO FORTIFICA OGNI BATTEZZATO, CATTOLICO O ORTODOSSO »

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« DIO FORTIFICA OGNI BATTEZZATO, CATTOLICO O ORTODOSSO »

Il discorso dell’Arcivescovo Józef Michalik, Presidente della Conferenza Episcopale Polacca, al primo incontro con Kirill I, Patriarca di Mosca e di tutta la Russia

di Don Mariusz Frukacz

VARSAVIA, venerdì, 17 agosto 2012 (ZENIT.org) – “Le Chiese e le nazioni hanno bisogno di ‘insegnanti’ che predichino e vivano secondo la verità libera dalla colorazione ideologica. Hanno bisogno della verità del Vangelo predicata in amore. Il primo Insegnante della Chiesa è Gesù Cristo, che non ha evitato di porre alcuni quesiti difficili. I tempi odierni richiedono coraggiosi testimoni e profeti che vedono le minaccie e portano al mondo la potenza di Dio, mostrando la salvezza nella conversione in Cristo unico Salvatore dell’uomo”.
È stato questo il cuore del discorso dell’Arcivescovo Jozef Michalik, Presidente della Conferenza Episcopale Polacca, rivolto al Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, Kirill I, durante la riunione delle gerarchie della Chiesa Cattolica in Polonia e della Chiesa Ortodossa, svoltosi ieri, giovedì 16 agosto, presso la Sede del Segretariato dell’Episcopato Polacco in Varsavia.
“Se oggi il Patriarca della Chiesa Ortodossa Russa – ha aggiunto l’Arcivescovo – la grande Chiesa di oltre mille anni di storia, dei grandi santi e dei martiri, vuole insieme con la Chiesa cattolica in Polonia, indirizzare un messaggio pastorale ai fedeli di entrambe le Chiese e a tutte le persone di buona volontà, questo passaggio diventa una grande testimonianza della fede” .
Esso, ha proseguito, “non è solo un gesto, ma una preoccupazione comune per il mondo in cui viviamo, per confermare la fedeltà al Vangelo e all’etica, cioè alla vita di fede secondo la legge di Cristo”.
Il Presidente della Conferenza Episcopale Polacca ha rimarcato che la Chiesa Ortodossa in Russia è “fedele alla sua predicazione del Vangelo di Cristo, ama il suo popolo e lo difende coraggiosamente dal pericolo della modernità mal intesa, dal progresso liberale” e da tutte quelle situazioni “dove manca la sensibilità della presenza di Dio”.
Monsignor Michalik ha voluto ricordare, inoltre, che “i vescovi della Chiesa Cattolica in Polonia stanno cercando onestamente di discernere i segni dei tempi, e con tutta la devozione si sforzano di soddisfare le raccomandazioni del Magistero pontificio, che si riflettono nella preoccupazione corrente per la nuova evangelizzazione.”
Ha poi affermato: “Amando la nostra Chiesa, amiamo il rapporto esistenziale con la nazione, la Patria e l’Europa. E nello spirito di responsabilità per l’anima di una nazione, diamo vita ad una nuova era che offre la possibilità di trovare, oggi, nuove motivazioni per riaffermare le nostre radici cristiane e conferma che la fonte della nostra dignità e del nostro potere sono nella potenza di Dio, che ci ha dato il Suo Figlio e Salvatore, e fortifica tutti i battezzati, cattolici e ortodossi, con il dono dello Spirito Santo”.
“Che gioia – ha esclamato in conclusione il presule – che oggi possiamo pregare insieme Gesù Cristo, che ci assicura la Sua presenza, dove due o tre sono riuniti nel suo nome » (cfr Mt 18, 20). Quindi l’augurio finale: “Che possiamo svogere questa preghiera per tutta l’umanità insieme con Maria Madre di Dio, e che questa unione con Cristo nella preghiera sia una fonte di speranza per completare i nostri compiti”.

Publié dans:Arcivecovi e Vescovi, ATTUALITÀ |on 17 août, 2012 |Pas de commentaires »

« LA FEDE SI INTERESSA DI TUTTO CIÒ CHE APPARTIENE ALL’UOMO » – Omelia del Patriarca di Venezia per la Festa del Santissimo Redentore

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« LA FEDE SI INTERESSA DI TUTTO CIÒ CHE APPARTIENE ALL’UOMO »

Omelia del Patriarca di Venezia per la Festa del Santissimo Redentore

VENEZIA, lunedì, 16 luglio 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l’omelia tenuta ieri sera dal Patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, nella Festa del Santissimo Redentore, che viene celebrata la terza domenica di luglio a memoria del pericolo scampato di una pestilenza che colpì la città lagunare nel 1575.
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Siamo negli anni 1575-76: la storia narra che Venezia era flagellata dal morbo della peste e che i rimedi umani non riuscivano a venirne a capo. In tale situazione, il popolo cristiano, che sempre partecipa di un soprannaturale senso della fede, invocò la protezione dell’Unico che poteva salvarlo. Anche il Senato della Repubblica decise di affidarsi alla misericordia di Dio con promessa solenne d’edificare una Chiesa al Redentore e “… ogni anno, nel giorno che questa città fosse stata dichiarata libera da contagio, Sua Serenità et li successori suoi anderanno solennemente a visitare predetta chiesa, a perpetua memoria del beneficio ricevuto” (Proprio della Chiesa patriarcale di Venezia, Festa del Santissimo Redentore, 44-45).
Così, il doge Sebastiano Venier avviò l’opera che sciolse il voto solenne – deliberato nel settembre 1576 dal Senato e affidato al predecessore Alvise Mocenigo – che impegnava la Repubblica a costruire il tempio dedicato al Redentore perché intercedesse per la cessazione della pestilenza e il popolo veneziano, accompagnato dai maggiorenti, a recarsi annualmente in pellegrinaggio innanzi al sacro volto. Alla fine della pestilenza, i morti raggiungevano il numero di cinquantamila: un veneziano su tre erano morti per il contagio. La prima pietra del tempio venne posta nel maggio del 1577, mentre la costruzione terminò quindici anni dopo, nel 1592; da subito, Venezia solennizzò la festa nella terza domenica di luglio.
In questa festa, ogni anno, la storia della città si fa evento e coinvolge non solo i veneziani ma, anche, i numerosissimi turisti che si recano in pellegrinaggio alla Giudecca attraversando il ponte di barche appositamente costruito. E’ un appuntamento in cui la storia di Venezia rivive e in cui la religiosità popolare s’esprime, bisognosa, come ogni movimento di popolo, di discernimento, di purificazione, di sostegno; un momento in cui tutti sono chiamati e coinvolti.
Per i Veneziani del sedicesimo secolo essersi riferiti al Solo in grado di aiutarli, quando ogni altra risposta risulta insufficiente, ha un significato che appartiene all’uomo di ogni tempo che è intrinsecamente segnato da fragilità, debolezze, limiti creaturali a cui si aggiungono quelli che provengono dalla situazione di peccato che – rimosso col battesimo – permane nelle conseguenze come propensione al male.
Certamente quello che poteva essere considerato un ostacolo insormontabile nel passato – ad esempio nel sedicesimo secolo – oppure lo è ancora in una determinata circostanza, può non esserlo più oggi – nel ventunesimo secolo – o in altre differenti circostanze. Secondo l’immagine biblica, l’uomo è simile a un vaso di creta che può sbrecciarsi o frantumarsi in mille pezzi.
Oggi, noi, uomini del terzo millennio che assistiamo, quasi increduli, ai progressi delle tecno-scienze, portiamo in noi – nonostante i risultati conseguiti – le nostre tante fragilità, paure e domande che, non di rado, rimangono prive di risposte, anche se il nostro problema, oggi, non è più il contagio della peste.
Attualmente, per noi, costituisce rilevante disagio una società che non riesce più a garantirci un futuro e si qualifica sempre meno con i caratteri della fiducia e della progettualità condivise e sempre più come incerto, un futuro che “viene meno” proprio quando ci interroghiamo su di esso.
Il nostro timore riguarda il non “aver futuro”. Ma non “aver futuro” significa veder precipitare nel non senso anche il proprio presente che smarrisce la sua capacità di interessarci alla vita, al bene comune, all’educazione delle nuove generazioni, nei confronti delle quali siamo chiamati a trasmettere i valori che hanno dato forma alla nostra città, alla sua storia, alla nostra convivenza civile.
Mentre la peste portava lo sfacelo dei corpi, la mancanza di futuro, il senso diffuso della precarietà, dell’incertezza, dell’impotenza, la convinzione che nulla sia più governabile a livello economico e sociale, afferra la vita soprattutto dei giovani, che si sentono “buttati” nell’esistenza, non più capaci di solcarla procedendo verso una meta, ma sentendosi sbattuti qua e là dalle onde dell’incertezza.
Ora, il cristiano è plasmato dalla fede che chiama in causa tutto l’uomo; la fede si interessa di tutto ciò che appartiene all’uomo. L’annuncio cristiano, così, riguarda la retta ragione e la legge naturale ma, nello stesso tempo, non si riduce solamente a ciò, essendo, appunto, annuncio di Gesù Cristo e su di Lui. Secondo tale linea, la fede non si pone “accanto” all’umano, giustapponendosi ad esso ma, piuttosto, “intercetta” l’umano e lo porta a “compimento”, incominciando col “sanarlo”. Anche l’umano entra, a pieno titolo, nella salvezza; la fede non si limita, così, a considerare l’apice superiore dell’uomo, disattendendo ciò che viene prima di esso.
La nostra esistenza di ogni giorno caratterizza quindi la vita eterna, il nostro destino ultimo; consideriamo, per esempio, che l’atto di fede non può esser posto se non da una persona che sia libera, conscia, consapevole, padrona di sé. In termini teologici: la grazia suppone la natura, la perfeziona e porta a compimento.
La dottrina sociale della Chiesa, in tal modo, è parte integrante dell’annuncio di fede cristiana ed è a servizio di ogni uomo e di tutto l’uomo; non si può, infatti, pensare che un figlio di Dio, da solo, con le sole sue forze, possa “far sua” tale peculiare condizione che porta a compimento la sua stessa struttura creaturale.
L’enciclica Sollicitudo rei socialis, promulgata da Giovanni Paolo II, in occasione del ventesimo anniversario della Populorum progressio, puntualizza l’esistenza, la natura e il senso della dottrina sociale della Chiesa; essa fa chiarezza e – dopo tante differenti opinioni -, finalmente, con tale enciclica si costituisce un punto di partenza autorevole per ulteriori, successive, riflessioni. L’enciclica di Giovanni Paolo II – scritta nell’anno 1987 – insegna che la dottrina sociale cattolica non può esser considerata o avvicinata a una «terza via» tra capitalismo liberista e collettivismo marxista, oppure, come una risposta in opposizione, seppur non radicale, rispetto alle due precedenti vie.
La dottrina sociale della Chiesa costituisce una categoria a sé; non è, quindi, da inserire tra le ideologie. E’, piuttosto, l’esito dell’accurata formulazione dei risultati e di una riflessione sulle complesse realtà dell’esistenza umana sia nella società civile sia nel contesto internazionale, nella prospettiva, ovviamente, della fede e della tradizione ecclesiale.
Giovanni Paolo II, infine, spiega: “… scopo principale [della dottrina sociale della Chiesa] è d’interpretare tali realtà, esaminandone la conformità o difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo sull’uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente; per orientare, quindi, il comportamento cristiano. Essa appartiene, perciò, non al campo dell’ideologia, ma della teologia e specialmente della teologia morale. L’insegnamento e la diffusione della dottrina sociale fanno parte della missione evangelizzatrice della Chiesa” (Sollicitudo rei socialis, n.41).
La dottrina sociale della Chiesa, attraverso la ragione e la rivelazione – le due fonti tramite le quali riceve la luce sulla totalità del reale -, è in grado di mettere a fuoco e oggi, in questo tempo di crisi più che mai, le tematiche della polis, vale a dire, del vivere sociale considerando l’uomo secondo la totalità delle sue dimensioni: spirito, anima e corpo e non solo secondo la dimensione economica del vivere il così detto homo oeconomicus.
La dottrina sociale della Chiesa – che, come detto, fa parte della teologia morale – è annuncio di Cristo alla polis; entra, così, in contatto con tutti gli uomini; ora, per riuscire in ciò deve proporsi a tutti i soggetti che incontra, senza bisogno di porre tra parentesi gli elementi di fede per servirsi solo di quelli di ragione.
Per ciò che riguarda il suo compito, o funzione “pubblica”, la dottrina sociale della Chiesa lo assolve facendosi spazio di confronti e dialogo tra ragione e fede, nella comunità dei credenti e nella società civile. Lo svolge, ancora, nel rapporto reciproco tra comunità credente e società civile, ossia, per quanto riguarda la proposta culturale o di scelte politiche.
La festa del Redentore è occasione per ribadire il ruolo essenziale della dottrina sociale della Chiesa, in quanto, oggi, più che mai, si attraversa una crisi finanziaria ed economica imponente; tutti siamo chiamati a far in modo che tali crisi non deteriorino ulteriormente il tessuto della società, trasformandosi, appunto, in crisi sociale.
Dobbiamo far nostra la saggezza antropologica, culturale, sociale e, prima ancora, del vivere che ispira l’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa che non offre una ricetta applicativa o indicazioni pratiche da porre in essere a partire dalle necessità del momento presente ma, piuttosto, mira a fornire un orizzonte di senso e di sapienza per quanto riguarda il rapporto ragione e fede come, pure, all’interno della vita del credente, della comunità ecclesiale e della città, soprattutto in tempo di marcata secolarizzazione.
Attraverso i principi della dottrina sociale cristiana – e questo è il messaggio della festa del Redentore di quest’anno – noi possiamo fare molto per la nostra città e per la nostra gente. Questo avviene riscoprendo ed educando i giovani a valori che, con troppa disinvoltura, sono stati messi da parte nel vivere sociale e, invece costituiscono vere e proprie linee di cambiamento che dicono quanto sia doveroso l’impegno educativo per la comunità ecclesiale ma anche per quella civile.
Lasciamo qui parlare gli uomini, con le scelte che li hanno plasmati; è il caso di Giuseppe Toniolo, recentemente annoverato tra i beati della Chiesa; egli ha saputo esprimere la vera laicità in un progetto culturale “compiuto” a servizio dell’uomo. Il primato della persona, l’attenzione al bene comune attraverso i principi di solidarietà e sussidiarietà. Egli sosteneva, con forza, l’intrinseco legame fra etica ed economia: tale legame affonda le sue radici nel Vangelo e, nell’attuale crisi, questo insegnamento oggi mostra tutto il suo valore.
Come la morale cristiana non è costituita solo dall’etica naturale – anche se non può farne a meno – allo stesso modo, il cristianesimo non è solamente etica, ma annuncio di Cristo; Gesù Cristo, il salvatore, è pure il Logos creatore dal quale provengono tutte le cose. Non è, quindi, possibile separare l’etica sociale dalla legge morale naturale e la fede cristiana; proprio da tale connessione si spiega come Toniolo, a partire dalla fede, abbia pensato un’economia, una politica e una società civile a servizio delle quali si è speso – anche in solitudine – per tutta la vita, nell’ottica del bene comune.
La figura del nuovo beato risulta, oggi, particolarmente attuale; non sfugge, infatti, quanto il suo pensiero sociale sia una risposta valida nei confronti dell’attuale periodo di crisi. E proprio tale situazione di crisi chiede di ripensare oggi tanti “dogmi” del mondo finanziario, economico e del mercato del lavoro, ad esempio, quello del puro profitto, per aprirsi a un profitto di tipo sociale; più in generale ripensare un welfare che, sempre più, si misuri sulle nuove problematiche della globalizzazione.
L’anno della fede che si aprirà a ottobre – a cinquant’anni dall’inaugurazione del Concilio Vaticano II e a venti dalla promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica – ci richiama a quanto diceva Giovanni Paolo II nella lettera di fondazione del Pontificio Consiglio per la Cultura: “Una fede che non diventa cultura, è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta” (Giovanni Paolo II, Lettera autografa di fondazione del Pontificio Consiglio della Cultura, 20 maggio 1982, AAS (74) 1982, 683-688).
Il Toniolo, quindi, ha saputo tradurre la visione di fede in scelte socio-economico conseguenti, poiché la vera fede non dimentica le sue conseguenze sociali. Col Toniolo ci troviamo di fronte a un alto pensiero, a una coerenza di vita, a un fedele laico cristiano fra i più significativi della fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.
In realtà – come ebbi già modo di dire qualche settimana fa a Pieve di Soligo nella messa di ringraziamento per l’avvenuta beatificazione – il Toniolo ha lasciato solamente che il Vangelo diventasse il criterio della coscienza morale nell’economia e nella politica; in lui troviamo il pensiero sociale cristiano, ossia, il Vangelo come riferimento etico imprescindibile; questa è la grande lezione che lascia al nostro tempo chiamato a compiere scelte coraggiose.
Con lui viene indicata una strada che, soprattutto oggi, va percorsa senza timori; si tratta di rispondere alle questioni che la modernità ha posto – in questi decenni – e che la contemporaneità porrà sempre più in quelli a venire.
Vi è grande sintonia fra il pensiero del Toniolo e quello di Benedetto XVI, il quale – nella Deus caritas est – al numero 28 dell’enciclica afferma: “Il giusto ordine della società e dello stato è compito centrale della politica. Uno stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe a una grande banda di ladri… La giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica. La politica è più che una semplice tecnica… lo Stato si trova di fatto inevitabilmente di fronte all’interrogativo: come realizzare la giustizia qui ed ora?” (Deus Caritas est, n.28).
Ora se l’affermazione di Benedetto XVI, formulata a proposito della politica, la confrontiamo col cuore del pensiero economico del Toniolo si coglie facilmente la profonda sintonia tra le due posizioni. La tesi del Toniolo era: l’elemento etico è fattore intrinseco dell’economia. D’altra parte, politica ed economia hanno, fra loro, uno stretto rapporto. La politica economica è sempre frutto di scelte e decisioni non casuali; uno degli atti politici più rilevanti di un governo è proprio l’approvazione della Legge Finanziaria.
I primi anni di docenza del Toniolo coincidono con l’inizio del pontificato di Leone XIII; il magistero di questo Papa era tutto rivolto all’incontro col mondo moderno che si era allontanato dalla Chiesa. Il Toniolo fu – per la sua competenza in ambito sociale ed economico – fra i collaboratori più stretti del Papa nella stesura dell’enciclica Rerum novarum.
Nel 1906, il nuovo papa, Pio X – come il Toniolo di origine trevigiana – lo chiamò ad organizzare le file del movimento cattolico; si avvertiva il bisogno di nuove prospettive dopo che era stato deciso lo scioglimento dell’Opera dei Congressi. Egli, quindi, diede vita a un laicato cattolico in grado d’esprimersi in ambito sociale a servizio della persona e del bene comune; fu questa un’opera decisiva per gli anni successivi in cui i cattolici dovranno passare dall’ambito sociale a quello politico, attraverso un progressivo coinvolgimento del laicato cattolico a partire proprio dall’esperienza amministrativa.
Come prima aveva partecipato all’Opera nazionale dei Congressi – movimento cattolico in cui confluivano tutte le forze impegnate in ambito sociale -, ora, si adoperava a far muovere i primi passi alle nuove forme di aggregazioni laicali; si tratta dell’Unione Economica, dell’Unione Elettorale, della Gioventù Cattolica Italiana e anche dell’Unione Popolare di cui fu il primo presidente.
Fondamentale, nel pensiero di Toniolo, è il termine democrazia che egli declina nei differenti ambiti del vivere sociale, poiché non risuoni come vuota parola e, invece, risulti ricca di contenuti nell’ambito dell’umana convivenza e possa esprimere, realmente, la vita di una comunità che, prima d’appartenere alla politica, appartiene alla società civile che precede quella politica.
Così – per Toniolo – la democrazia è, essenzialmente, svolgimento sociale e politico delle realtà spirituali che accompagnano il cristianesimo: una realtà fondante l’intero discorso sociale cristiano, un impegno di vita che nasce dal Vangelo, dalla persona di Cristo, dall’uso della retta ragione.
Per democrazia cristiana, il Toniolo intende la realizzazione dell’ordine etico e sociale ispirato al cristianesimo; un ordinamento giuridico e politico al quale appartengono tutte le classi, anche la più fragile che, quindi, viene riconosciuta e rappresentata in tale ordinamento.
Una tale idea di democrazia cristiana – che nulla ha a che fare con un partito politico, è bene sottolinearlo – indica, invece, l’impegno di vita all’interno di una comunità che trae la sua ispirazione dal Vangelo e dalla vita di Cristo.
Seppur con linguaggi e in contesti differenti, appare lo stretto legame con l’insegnamento di Benedetto XVI nella Deus caritas est che – al n. 28 -, così si esprime: “Lo Stato si trova di fronte all’interrogativo: come realizzare la giustizia qui e ora? Ma questa domanda presuppone l’altra più radicale: che cosa è la giustizia? In questo punto politica e fede si toccano… la fede ha la sua specifica natura d’incontro col Dio vivente… Ma al contempo essa è una forza purificatrice per la ragione stessa… la libera di suoi accecamenti e perciò l’aiuta ad essere meglio se stessa… ” (n.28).
Si percepisce, in tal modo, il legame – al di là dal differente linguaggio – tra il pensiero di Toniolo – quando l’economista veneto parla di impegno di vita attuato all’interno della comunità, ispirato al Vangelo e alla stessa vita di Cristo – e quello di Papa Benedetto. L’attualità del pensiero del Toniolo viene così affermata e già questo, pur in un mutato contesto storico, dice ancor più il valore di uno dei massimi maestri del cattolicesimo sociale moderno.
Il messaggio di questa festa del Redentore 2012 è, in estrema sintesi: guardare tanto ai grandi temi della dottrina sociale cristiana che permettono d’affrontare, con prospettiva nuova, la difficile situazione che lavoratori, famiglie, società stanno vivendo, ormai da troppo tempo. E guardare tanto anche a quelle persone – come il beato Giuseppe Toniolo – che, con le loro scelte, hanno visto e indicato, con lungimiranza, delle prospettive che pongono al centro la persona e non il profitto fine a se stesso.S

« PASQUA SIGNIFICA PASSAGGIO DALLA MORTE ALLA VITA »

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« PASQUA SIGNIFICA PASSAGGIO DALLA MORTE ALLA VITA »

La crisi greca: l’opinione di padre Ioannis Spiteris, vescovo di Corfù-Zante-Cefalonia

ROMA, martedì, 20 marzo 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo un’intervista con il vescovo cattolico di Corfù-Zante-Cefalonia, monsignor Ioannis Spiteris, O.F.M. Cap, che si esprime sulla crisi finanziaria che sta attraversando la Grecia e le sue ripercussioni sulla società ellenica. L’intervista è stata realizzata da Ruggiero Doronzo e pubblicata in “L’Aurora Serafica. Rivista dei frati Minori Cappuccini di Puglia”, marzo/aprile 2012, p. 17-19.
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Caro Padre Ioannis, abbiamo visto nelle scorse settimane che in Grecia la difficile situazione economica ha prodotto tensioni sociali, cosa ci può dire a riguardo?
Disgraziatamente quello che di recente hanno mostrato al mondo i mezzi di comunicazione (incendi, saccheggi, inaudita violenza, scontri con la polizia…) con la crisi economica centra poco. Si tratta di un piccolo gruppo di black bloc, neanche tutti greci, che da circa 20 anni, ogni volta che ad Atene è in corso una manifestazione di protesta pacifica, approfittano per compiere incredibili vandalismi. Essi disgraziatamente bruciano edifici neoclassici di grande significato storico, assaltano negozi, danneggiano monumenti tra i quali la nostra cattedrale cattolica.
La vera tensione sociale sta nella rabbia, nella disperazione, nell’angoscia della povera gente. Tutta la Grecia è una pentola che bolle e non sappiamo come finirà. Tra aprile e maggio ci saranno le elezioni e proprio in quell’occasione la gente esprimerà la sua rabbia. Forse il risulto delle elezioni sarà una grave situazione di ingovernabilità.
Il dissesto economico sembra sia stato causato da una cattiva gestione delle fi nanze statali, Lei è d’accordo?
Io non sono un economista per cui non capisco molto il complesso mondo finanziario. Tuttavia non è molto difficile individuare alcuni dei motivi che ci hanno condotto al disastro attuale. Innanzitutto l’attuale grave crisi economica mondiale non ha fatto altro che peggiorare la già disastrosa situazione greca. I partiti politici che hanno governato la Grecia negli ultimi decenni, nella gestione economica hanno obbedito ad un vergognoso clientelismo. Per avere i voti hanno aumentato in maniera sproporzionata i salari, le pensioni, le offerte sociali e hanno assunto un numero esorbitante di impiegati statali (in Grecia questi sono più che in Germania). Eppure i servizi pubblici hanno continuato a non funzionare, paralizzati dalla burocrazia e dalla corruzione. Anche i cittadini hanno contribuito con l’evasione fiscale, che sembra essere uno sport nazionale! Naturalmente un paese povero, come la Grecia, senza industria pesante, che progressivamente ha abbandonato l’agricoltura (importiamo persino i limoni dal Brasile!) non poteva vivere se non aumentando vertiginosamente i prestiti.
Cosa pensa del modo in cui ora i governanti greci stanno gestendo l’emergenza?
I partiti politici che hanno governato il Paese in questi ultimi anni conoscevano verso quale baratro eravamo condotti, eppure non hanno fatto un discorso chiaro alla gente per spiegare loro quale fosse veramente la situazione, assumendosi le proprie responsabilità e prendendo, in quel periodo, le risoluzioni meno disastrose per l’economia. I paesi creditori, però, non erano più disposti a concedere dei prestiti senza porre alla Grecia gravissime condizioni (tagli dei salari, delle pensioni, licenziamenti, tasse senza precedenti, tagli drastici alla spesa pubblica anche a quelle riguardante la sanità…). Il dilemma di fronte al quale siamo stati posti era: scegliere o questi sacrifici o il pieno fallimento con conseguenze imprevedibili, uscendo dall’euro e il tornando alla dracma.
Le opinioni degli economisti divergono su quale delle due soluzioni avrebbe avuto le conseguenze meno disastrose. Non ho un’opinione personale a proposito. Conosco solo la disperazione della nostra gente ridotta alla miseria. Personalmente dubito che tutti questi sacrifici imposti alla popolazione, specialmente l’atroce esazione fiscale, possano veramente risanare l’economia greca! L’uscita del tunnel è molto lontana!
I sacrifici imposti alla gente sono giustificati e sostenibili oppure sono iniqui?
Una cosa è certa: per la Grecia è impossibile pagare il suo debito. Si tratta di più di trecento miliardi di euro. La maggior parte dei prestiti servono per pagare solo gli interessi ai paesi e alle istituzioni creditrici! Queste stanno spremendo la Grecia fino all’inverosimile con interessi da strozzini. I nostri governanti subiscono molto passivamente le condizioni imposte dai paesi creditori senza quasi negoziare. La Grecia è completamente commissariata (sotto speciale sorveglianza!) dai rappresentanti dei governi finanziatori, specialmente dalla Germania. Praticamente, per certi versi, la nazione ha perduto la sua autonomia. Alcuni affermano che è inutile accettare rigori e austerità per continuare a servire un debito impagabile.
Crede che i paesi più ricchi dell’Europa si stiano servendo delle difficoltà greche per i loro scopi politici ed economici?
Nel passato i creditori della Grecia conoscevano che questo paese non poteva mai restituire l’immenso debito accumulato nei loro riguardi, eppure prestavano ugualmente con un comportamento da strozzini e, per di più, alcuni paesi creditori costringevano la Grecia a comprare da loro armi costosissime e spesso obsolete!
Certamente chi presta alla Grecia non lo fa per scopi caritativi e disinteressati. I paesi ricchi dell’Europa e il Fondo Monetario Internazionale vogliono riavere i loro soldi e per di più guadagnarvi, e non c’è dubbio che lo fanno alle spalle di un paese dissanguato.
Tra cattolici e ortodossi c’è unità di intenti in questo grave momento storico?
Bisogna notare che la Chiesa Ortodossa in Grecia ha molta più possibilità di noi cattolici per aiutare i bisognosi. In quasi tutti i grandi magazzini esiste un posto dove coloro che fanno la spesa lasciano qualcosa per i poveri. Tutto quello che si raccoglie viene consegnato alla Caritas della Chiesa Ortodossa, che si chiama «apostolì» (missione), per essere distribuito. Anche nella carità noi cattolici dobbiamo fare tutto da soli, con le magre offerte dei pochi cattolici, ma speriamo che la Caritas italiana e altre istituzioni cattoliche come la Comunità di Sant’Egidio e il Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani possano aiutarci.
Qui a Corfù esiste una piccola collaborazione con la Metropolia Ortodossa. Abbiamo creato in comune un negozio di generi alimentari per i poveri. Inoltre in Grecia vive un grande numero di extra comunitari, la maggior parte illegali, che ora sono ancora più bisognosi di aiuto. Un gruppo di cattolici collabora con una parrocchia ortodossa: le signore cucinano ogni giorno nelle proprie case e poi distribuiscono il cibo negli ambienti di questa parrocchia ortodossa.
Come vive la sua chiesa diocesana questa situazione così delicata?
Noi, come Chiesa, abbiamo un doppio problema: assistere la nostra gente che soffre e far sopravvivere la nostra Chiesa come istituzione. Cominciamo da quest’ultimo problema perché condiziona anche il primo. Mentre la Chiesa Ortodossa è sovvenzionata dallo Stato (i vescovi e i preti sono impiegati statali, come pure una parte degli impiegati dei metropoliti sono pagati dallo Stato), non succede lo stesso per il clero cattolico e gli impiegati delle nostre diocesi. Per di più i nostri sacerdoti e i religiosi non hanno nessuna assistenza sanitaria e la Diocesi deve pensare al loro sostentamento. In passato le uniche entrate erano gli affitti degli immobili.Oggi, però, molti di quegli immobili sono vuoti e le tasse che dobbiamo pagare sono altissime. Allora, si potrebbero vendere gli immobili, ma nessuno può comprarli, a meno che non si venda per un pezzo di pane.
Questa situazione condiziona la possibilità che abbiamo di venire incontro alla gente che ogni giorno bussa alle porte delle nostre chiese. Eppure la Caritas, le altre nostre istituzioni, le parrocchie e i conventi fanno l’impossibile per aiutare chiunque, senza distinzione, chiede il nostro aiuto.
Come sarà vissuta la Pasqua di quest’anno dalle comunità cristiane?
Il popolo greco sente la Pasqua molto più del Natale. La crisi economica non credo che cambierà sostanzialmente i sentimenti religiosi, tutt’al più porterà a risparmiare sulle spese inutili e, qualche volta, anche su quelle necessarie. Nella lettera pastorale in occasione della Quaresima scrivevo ai miei fedeli: «Ripetiamo spesso che stiamo attraversando la più grande crisi economica dopo quella attraversata in occasione del disastro della Seconda Guerra mondiale. Questo è vero, ma come cristiani, in occasione della Quaresima possiamo scorgere anche alcuni aspetti positivi per la nostra vita e per la preparazione alla Pasqua. Ci viene offerta un’occasione per liberarci dal superfluo, per ritrovare l’essenziale per la nostra vita, per scoprire che ci sono milioni di fratelli e sorelle nel mondo che stanno molto peggio di noi. Dobbiamo capire che, oltre l’economia, esistono altri valori molto più preziosi, come la scoperta continua di Dio nella preghiera, nell’amore verso il prossimo, condividendo con lui ciò che abbiamo e ciò che siamo; e specialmente ci si offre un’occasione per scoprire di nuovo che esiste la Provvidenza di un Padre amoroso in cui possiamo e dobbiamo avere fiducia…».
Qual è il suo augurio per la Pasqua?
Nel sopracitato messaggio ai miei fedeli scrivevo ancora: «Pasqua significa passaggio dalla morte alla vita, da ogni forma di “crisi” alla certezza dell’amore liberante di Dio, il solo che è fedele alle promesse, che non ci potrà mai deludere. Solo dentro il cuore piagato di Cristo risorto troviamo tutte le ricchezze che nessuna crisi ci può togliere. Solo dentro quella fonte inesauribile di Amore troveremo il modo per passare dalla crisi alla salda certezza della speranza. Credere alla risurrezione di Cristo significa che, dentro questo clima generale di disperazione e di odore di morte, noi possiamo annunziare e distribuire la vita, solidali con i nostri fratelli, testimoniando la nostra fede viva, lottando per la giustizia e la pace». L’augurio pasquale qui in Grecia è: «Cristo è risorto! È veramente risorto!». Questo augurio avrà senso solo se Cristo risorge “veramente” nella nostra vita, solo se lo lasciamo illuminare le nostre tenebre, solo se diventa per noi forza che ci solleva dalla tomba dove ci ha condotto l’egoismo umano. Questo è il mio augurio pasquale: che Cristo risorga veramente per ciascuno di noi, per la nostra società, per i nostri due cari paesi, per il mondo intero.
Veramente, BUONA PASQUA ai lettori de l’Aurora Serafi ca e ai confratelli Cappuccini della Provincia di Puglia.
[Tratto da: “L’Aurora Serafica. Rivista dei frati Minori Cappuccini di Puglia”, marzo/aprile 2012, p. 17-19]

Mercoledì delle Ceneri (di S.E. Mons. Mark A. Pivarunas, CMRI, 1996)

http://www.cmri.org/ital-96prog2.html

Il Tempo Liturgico di Quaresima

di S.E. Mons. Mark A. Pivarunas, CMRI

Mercoledì delle Ceneri

21 febbraio 1996

Carissimi beneamati in Cristo,

Il Tempo Liturgico di Quaresima fa iniziare la solenne preparazione della Chiesa per la gloriosa festa della Risurrezione del Nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, e vi sono molti aspetti spirituali e dottrinali della Quaresima che dobbiamo considerare per trarre opportunamente beneficio da questo tempo penitenziale.
Il primo aspetto della Quaresima è principalmente spirituale. Esso si riferisce alla storia della Quaresima, al suo scopo e fine principale. Il secondo aspetto è principalmente dottrinale e ci ricorda le tristi conseguenze del peccato — il peccato originale dei nostri progenitori, Adamo ed Eva, e i peccati attuali che noi stessi commettiamo.
Quando e da chi fu istituito il tempo di Quaresima?
Molti degli antichi Padri della Chiesa, in particolare S. Girolamo, Papa S. Leone Magno, S. Cirillo di Alessandria, e S. Isidoro di Siviglia, confermano che il tempo di Quaresima venne istituito dagli Apostoli stessi, fin dagli albori della Chiesa. Essi decretarono un digiuno universale per il sempre crescente gregge di Cristo, affinchè servisse come preparazione spirituale per la festa della Risurrezione dai morti di Nostro Signore. Gli Apostoli stabilirono che, dato che il numero quaranta (40) è un numero assai ricco di significato sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, questo solenne tempo penitenziale dovesse anch’esso consistere di 40 giorni.
Quando Iddio Onnipotente ripulì dapprima il mondo dal peccato per mezzo del Diluvio Universale ai giorni di Noè, piovve 40 giorni e 40 notti. Similmente, quando Mosè e gli Israeliti vagarono nel deserto in cammino verso la Terra Promessa, viaggiarono per 40 anni nella selvatica desolazione. Infine, abbiamo il perfetto esempio di Cristo stesso, che digiunò per 40 giorni nel deserto prima di accingersi alla Sua vita pubblica.
Il concetto di digiuno è assai esplicito negli insegnamenti di Nostro Signore. Nel Vangelo di S. Matteo, leggiamo che i discepoli di S. Giovanni Battista un giorno si avvicinarono a Gesù e gli chiesero:
“‘Perché noi ed i Farisei digiuniamo spesso, ma i tuoi discepoli non digiunano?’ E Gesù disse loro: ‘Possono gli amici dello sposo affliggersi, mentre lo sposo è con loro? Ma verranno i giorni, quando lo sposo sarà loro tolto, e allora essi digiuneranno ’” (Matt. 9:14-15).
Molti altri esempi tratti dalla Sacra Scrittura dimostrano il vantaggio spirituale che viene dal digiuno.
In una circostanza, durante la vita di Nostro Signore qui sulla terra, gli Apostoli si trovarono in una situazione molto imbarazzante. Essi cercavano di esorcizzare un posseduto, e non ci riuscivano. Quando Gesù fu giunto sulla scena, subito cacciò fuori il diavolo e più tardi disse agli Apostoli:
“Questo genere di demoni non si può scacciare se non con la preghiera e il digiuno” (Matt. 17:20).
Negli Atti degli Apostoli, troviamo che gli Apostoli combinavano la preghiera col digiuno come preparazione spirituale per l’ordinazione dei preti:
“Quando ebbero loro ordinato dei preti in ogni chiesa, ed ebbero pregato e digiunato, li raccomandarono al Signore, nel quale avevano creduto” (Atti 14:22).
“Mentre stavano ministrando al Signore, e digiunando, lo Spirito Santo disse loro: ‘Separatemi Saulo e Barnaba, per l’opera per la quale li ho scelti.’ Allora essi, digiunando e pregando, ed imposte le mani su di loro, li mandarono via” (Atti 13:2-3).
Nostra Santa Madre, la Chiesa Cattolica, prende seriamente le parole di Nostro Signore:
“Ma verranno i giorni, quando lo Sposo sarà loro tolto, e allora essi digiuneranno ” (Matt. 9:15).
Le leggi della Chiesa riguardo al digiuno ecclesiastico sono le seguenti: in giorno di digiuno, è permesso solo un pasto completo, con due pasti minori senza carni (colazioni), sufficienti per mantenersi in forze, ma le due piccole colazioni insieme non devono eguagliare un altro pasto completo. Queste leggi del digiuno obbligano sotto pena di peccato grave tutti coloro la cui età è compresa tra 21 e 59 anni, e che non sono legittimamente scusati. In questa legislazione, vediamo la grande prudenza della Chiesa Cattolica e come ben equilibrato sia ciò che si richiede ai fedeli. Quando gli anni della crescita fisica importante sono ordinariamente trascorsi, la Chiesa obbliga i suoi giovani adulti all’età di 21 anni a cominciare a digiunare, e quando gli adulti ordinariamente entrano nell’età della salute che declina, la Chiesa fa terminare quest’obbligo all’età di 60 anni. Coloro che sono legittimamente scusati dal digiuno, sono le persone malate o convalescenti che hanno salute delicata, le donne incinte o allattanti, e la gente che compie lavori pesanti che, a causa del digiuno, non sarebbe capace di esercitare la propria occupazione (agricoltori, mugnai, muratori, ecc.) posto che lavorino davvero per gran parte della giornata. Inoltre, professori, insegnanti, studenti, predicatori, confessori, medici, giudici, avvocati, ecc., sono scusati se il digiuno li ostacola nel loro lavoro.
Se sorgesse un qualsiasi dubbio relativo ad un caso particolare riguardo al digiuno, i fedeli possono comunque sempre far ricorso al loro confessore.
Lo scopo del digiuno è ottimamente riassunto da S. Tommaso d’Aquino:
“Si pratica il digiuno per un triplice scopo. In primo luogo, allo scopo di imbrigliare la concupiscenza della carne, come dice l’Apostolo: ‘Nelle angustie, nella prigionia, nelle sommosse, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni, vivendo nella castità, col sapere, con longanimità, con dolcezza, nello Spirito Santo, nella carità non finta’ (2 Cor. 6:5,6), poichè il digiuno è il guardiano della castità. Perchè, secondo S. Girolamo: ‘Venere è fredda quando Cerere e Bacco sono assenti.’ Il che vale a dire, la concupiscenza viene raffreddata dall’astinenza dalle carni e dal bere. In secondo luogo, dobbiamo far ricorso al digiuno affinchè la mente possa elevarsi più liberamente alla contemplazione delle cose celesti: così viene detto (Dan. 10) di Daniele che ricevette una rivelazione da Dio dopo un digiuno di tre settimane. In terzo luogo, allo scopo di soddisfare per i peccati: come è scritto (Gioele 2:12): ‘Convertitevi a Me con tutto il cuore, nel digiuno, e nel pianto e nell’afflizione.’ Lo stesso dichiara S. Agostino in un sermone (De Oratione et Jejunio): Il digiuno ripulisce l’anima, eleva la mente, assoggetta la carne allo spirito, rende il cuore contrito e umile, disperde le nubi della concupiscenza, spegne il fuoco del desiderio carnale, accende la luce della vera castità’” (Summa Teologica, Questione 147, Articolo 1).
Il secondo aspetto della Quaresima da considerare, è il male del peccato — sia il peccato originale che il peccato attuale. Si definisce peccato qualsiasi pensiero, parola, azione, desiderio, o omissione proibita dalla legge di Dio. Quando i nostri progenitori, Adamo ed Eva, peccarono, essi offesero gravemente Iddio Onnipotente. Perché sebbene il loro atto di mangiare del frutto proibito fosse un atto finito in se stesso, la loro offesa fu contro un Essere Infinito — Dio. Questa offesa, le conseguenze della quale furono l’ignoranza, la sofferenza, la morte ed una forte inclinazione al peccato, non solo privò loro ed i loro discendenti dei doni preternaturali, ma anche, e cosa più importante, privò Adamo ed Eva e la loro discendenza di quel dono più prezioso tra tutti i doni — la grazia santificante — mediante il quale l’uomo partecipa nella propria anima alla vita stessa di Dio. S. Paolo dice:
“A causa d’un uomo il peccato entrò nel mondo, e con il peccato la morte, e così la morte passò a tutti gli uomini, nel quale tutti hanno peccato” (Rom 5:12).
Quando l’uomo commette peccato, specialmente il peccato mortale, offende anche la Divina Maestà e infligge un danno spirituale alla sua anima (la morte spirituale in caso di peccato mortale). Fu proprio per soddisfare per i peccati del genere umano che Gesù Cristo sacrificò la Sua vita sulla Croce.
Se apprezzassimo veramente le sofferenze e la morte di Nostro Signore, avremmo bisogno di meditare seriamente sulla Passione. Uno dei modi per compierlo è di considerare la sacra immagine di Cristo Crocifisso quale si vede sulla Santa Sindone di Torino. Questo lenzuolo macchiato di sangue identifica con precisione le ferite inflitte a Nostro Signore secondo i Santi Vangeli.
Vi possiamo vedere a nostro vantaggio i segni delle molteplici piaghe lungo il Suo Sacro Corpo, le ferite causate dalle spine che circondarono la Sua Testa, i segni dei chiodi nelle Sue Mani e Piedi, e finalmente, l’ampia ferita nel Suo Sacro Costato.
La grande tragedia dei nostri tempi è che la maggioranza del genere umano vive come se non ci fosse Dio, non ci fossero i Comandamenti, né cose come il peccato. Ma non guardiamo alla maggioranza del genere umano — guardiamo a noi stessi. Quando avessimo la sventura di commettere un peccato, noi non potremmo addurre l’ignoranza. Nostro Signore non può dire di noi ciò che disse dei suoi uccisori:
“Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno!” (Luca 23:34).
Nel cominciare la nostra solenne preparazione per la celebrazione della Risurrezione di Nostro Signore — la più grande festa dell’intero anno liturgico — uniamo alle nostre preghiere, meditazioni e letture spirituali, la piena penitenza del digiuno e dell’astinenza. Coloro che non sono obbligati a digiunare dovrebbero compiere qualche speciale sacrificio che mortifichi particolarmente la loro natura umana decaduta, che è così incline al peccato.
Finalmente, nel fare penitenza durante questo tempo di Quaresima, ricordiamoci delle parole di Nostro Signore ai discepoli:
“Quando digiunate, non fate i tristi come gli ipocriti. Che si imbruttiscono la faccia, affinchè possano mostrare agli uomini che essi digiunano. In verità vi dico, che hanno già ricevuto la loro ricompensa. Ma voi, quando digiunate, profumatevi il capo e lavatevi la faccia. In modo che non agli uomini appaia che digiunate, ma al Padre vostro che è nel segreto: e il vostro Padre, che vede nel segreto, vi ricompenserà” (Matt. 6:16-18).

In Christo Jesu et Maria Immaculata,
+ Mark A. Pivarunas, CMRI

Il Te Deum, canto della gratutudine e della speranza (Dionigi Tettamanzi)

dal sito:

http://www.liturgiagiovane.it/  

Il Te Deum, canto della gratutudine e della speranza 
 
Omelia del Cardinale – Autore: Dionigi Tettamanzi 

«Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio» (Numeri 6,14-25).
 
Carissimi, è con questa benedizione, rivolta dai sacerdoti al popolo degli Israeliti, che la liturgia della Chiesa conclude questo anno e apre l’anno nuovo.
 
È una benedizione che dice la vicinanza di Dio non solo al popolo eletto ma all’intera umanità, e dunque anche a ciascuno di noi. Si tratta di una vicinanza del tutto inimmaginabile da noi uomini, ma che Dio nel suo immenso amore ha voluto: vicinanza assolutamente straordinaria, insieme sconcertante e affascinante. È quella del mistero del Natale: Dio si fa uomo e all’uomo viene data l’inaudita possibilità di divenire figlio di Dio: «Dio – ci ricorda l’apostolo Paolo – mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Galati 4,4-5).
 
 Riviviamo, come Chiesa, la gioia e la lode dei pastori di Betlemme
La Chiesa ci invita a prolungare la nostra contemplazione del Natale, a rivivere nel nostro cuore l’esperienza spirituale dei pastori che, in risposta all’annuncio dell’angelo circa la nascita di Gesù, «andarono senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia» (Luca 2,16). Quel bambino è l’Emmanuele, il Dio-con-noi, il Dio che si è fatto uomo. Un’esperienza intessuta di grande gioia e di lode a Dio: «I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro» (2,20).
Gioia grande e lode a Dio sono anche i sentimenti che devono riempire il nostro animo di credenti in questa celebrazione eucaristica di fine d’anno. Siamo chiamati a dire con la voce, il cuore e la vita il nostro “grazie” a Dio per il dono vivo e personale che ci ha elargito: il dono del Figlio, un dono che è fonte e compimento di tutti gli altri doni con i quali l’amore di Dio colma la nostra esistenza quotidiana: quella di ciascuno di noi, delle singole famiglie, delle nostre comunità, della Chiesa e del mondo. Il canto del Te Deum, che oggi risuona nelle Chiese di ogni parte della terra, vuole essere un segno della gratitudine gioiosa che rivolgiamo a Dio per tutti i doni che ci ha offerto in Cristo. Davvero «dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia» (Giovanni 1,16).
Vorrei ora esprimere i motivi di ringraziamento circa la vita della nostra Diocesi, in riferimento all’anno che questa sera si chiude, alla luce di tre parole dal forte contenuto ecclesiale: “comunione”, “missione”, speranza”.
La comunione costituisce l’essenza stessa della Chiesa: essa è costituita da coloro che, accogliendo la parola di Cristo e il suo Spirito vivificante, diventano figli del Padre ed entrano così nella misteriosa comunione d’amore della Trinità beata. Per questo la Chiesa è segno di comunione per tutti: come ci ricorda il Concilio, la Chiesa «è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium, 1).
All’interno della Chiesa particolare, poi, la comunione si realizza pienamente quando giunge a generare al suo interno collaborazione e corresponsabilità. L’agire stesso della Chiesa, cioè la sua missione, scaturisce infatti dalla comunione per allargarsi al cuore del mondo e porta frutto nella misura in cui si attua secondo la triade inscindibile di comunione-collaborazione-corresponsabilità.
La missione poi, specie nel momento presente, consiste nel portare una parola di speranza agli uomini e alle donne di oggi. Lo ha ricordato il Santo Padre nella sua splendida enciclica Spe salvi: «La speranza in senso cristiano è sempre anche speranza per gli altri. Ed è speranza attiva, nella quale lottiamo perché le cose non vadano verso “la fine perversa”. È speranza attiva proprio anche nel senso che teniamo il mondo aperto a Dio. Solo così essa rimane anche speranza veramente umana» (n. 34).
Motivi di rendimento di grazie e prospettive di impegno
Alla luce delle tre parole comunione-missione-speranza vorrei ricordare alcuni avvenimenti per cui sento il dovere e la gioia di ringraziare con voi il Signore e prospettare, insieme, alcuni impegni che ci aspettano per il 2008.
1.   Anzitutto la “visita ad limina” che ha riguardato insieme le dieci Diocesi lombarde. È stata un evento di comunione che non ha coinvolto solo i Vescovi, ma anche, attraverso un folto pellegrinaggio, le intere Chiese di Lombardia, raccolte intorno al Papa.
Indimenticabili l’incontro personale dei Vescovi con Benedetto XVI e le sue parole rivolte a tutti i pellegrini lombardi nella basilica di San Pietro. Parole impegnative, ma di grande speranza, che ci hanno richiamato a rilanciare la ricca tradizione cristiana delle nostre terre, annunciando il Vangelo con fiducia e coraggio. Ha detto il Santo Padre: «Ho visto nel colloquio con voi, cari Fratelli nell’Episcopato, come la Chiesa in Lombardia è realmente una Chiesa viva, ricca del dinamismo della fede e anche di spirito missionario, capace e decisa a trasmettere la fiaccola della fede alle future generazioni e al mondo del nostro tempo».
2.   Un secondo avvenimento per cui vorrei ringraziare il Signore è il pellegrinaggio diocesano in Terra Santa (12-19 marzo). Occasionato dal ricordo degli ottant’anni del Card. Carlo Maria Martini e dai cinquant’anni della mia ordinazione sacerdotale, è stato un’esperienza molto intensa di comunione tra noi, di profondo contatto con la terra benedetta che custodisce la memoria viva della nascita, della vita e della morte e risurrezione del Signore Gesù. Siamo tornati a casa carichi di speranza e pronti a riprendere con fiducia l’impegno di evangelizzazione. Possiamo ben dire che quello che abbiamo udito, visto, udito, toccato sentiamo di doverlo annunciare agli altri perché entrino nella comunione con il Padre e il Figlio e lo Spirito (cfr. 1Giovanni 1,1-4).
3.   Un’esperienza simile ci attende il prossimo mese di giugno 2008, con  il pellegrinaggio diocesano a Lourdes nell’anno giubilare dell’apparizione della Vergine a Bernadette (1858) e nel cinquantesimo anniversario del pellegrinaggio promosso dall’Arcivescovo Montini a conclusione della Missione di Milano del 1957. Maria Santissima, che «di speranza è fontana vivace» (cfr. Paradiso, canto XXXIII), ci aiuti ad affrontare con fiducia e coraggio la missione di annunciare il Vangelo agli uomini e alle donne del nostro tempo.
4.   Vorrei anche ricordare, per il suo alto significato ecumenico, il pellegrinaggio in Russia previsto per i sacerdoti alla fine del prossimo mese di agosto. Nel mio indimenticato incontro con il Patriarca Alessio II nell’autunno del 2006, era nato il desiderio forte di coinvolgere anche i preti in una intensa esperienza di comunione tra la Chiesa ambrosiana e la Chiesa ortodossa russa.
Sono convinto che il cammino ecumenico, oltre alle iniziative di vertice, deve dar vita in continuità a iniziative locali di reciproca conoscenza e a segni concreti di comunione, che aprano alla speranza della piena unità di tutti i credenti in Cristo e li rendano nel mondo attuale testimoni più credibili del Vangelo. Come scriveva Giovanni Paolo II, “l’unità dei cristiani è un problema essenziale per la testimonianza evangelica nel mondo” (Tertio millennio adveniente, n. 34).    
5.   Un altro motivo di ringraziamento nasce dal percorso pastorale triennale che la nostra Diocesi sta vivendo: “L’amore di Dio è in mezzo a noi. La missione della famiglia a servizio del Vangelo”. Vorrei in particolare ringraziare il Signore perché le nostre comunità non si sono chiuse in se stesse, ma con disponibilità e capacità inventiva si sono messe in ascolto delle famiglie, anche di chi vive situazioni di fatica negli affetti e nelle relazioni. L’ascolto chiede apertura, sintonia, comunione. Se è vero e profondo, l’ascolto è sempre un’esperienza arricchente, che lega le persone, non le lascia sole nei loro problemi, ma le incoraggia, le apre alla speranza. Solo chi sa ascoltare è capace anche di annunciare e di dare speranza.
Mentre ringrazio il Signore, lo prego intensamente perché ci aiuti a continuare in questo stile di accoglienza e di ascolto “secondo la misura del cuore di Cristo”. È  uno stile che si rivela decisivo per la seconda e la terza tappa del percorso pastorale, dedicate alla traditio fidei et amoris nelle famiglie, con una specifica attenzione alla pastorale del battesimo, e alla missione della famiglia “anima del mondo” nelle realtà terrene e temporali, nei diversi ambienti della vita sociale. 
6.   Un’altra ragione per dire “grazie” a Dio proviene dal rinnovamento pastorale della nostra Chiesa. Pur con le inevitabili difficoltà e fatiche, possiamo constatare che l’impegnativo sforzo per un’articolazione più comunionale e missionaria delle nostre parrocchie, mediante una “pastorale d’insieme” che ha nelle “comunità pastorali” il modello di riferimento, si sta progressivamente realizzando.
Questo ci apre alla speranza per il futuro. Come ho ricordato nell’omelia della solennità di San Carlo, intendiamo affrontare la sfida per il calo numerico dei sacerdoti con un generoso impegno di rinnovamento pastorale, evitando ogni atteggiamento di lamentela o di sconforto, bensì raccogliendo dalle stesse difficoltà l’appello per una vera conversione evangelica all’insegna della fiducia e della speranza nel Signore.
7.   Nella stessa linea ringrazio il Signore e imploro la sua grazia per le scelte impegnative che la nostra Diocesi sta assumendo in un triplice campo: in quello della iniziazione cristiana, oggi chiamata a cambiare profondamente per obbedire all’antico principio “Cristiani non si nasce, si diventa” (Tertulliano, Apologetico 18,4); nel campo poi della formazione dei sacerdoti, con l’avvio di una nuova modalità di destinazione dei diaconi e dei presbiteri novelli, pensata in un’ottica di comunione e di missionarietà; nel campo, infine, della presenza dei cristiani nel mondo della scuola e della cultura.  
8.   Che la nostra Chiesa nella sua vastità e nelle sue articolazioni sia in cammino, lo sto constatando attraverso la visita pastorale decanale, che ha già coinvolto quattordici decanati e che nel prossimo anno – ed è una prospettiva per cui chiedo di pregare – si svolgerà con un ritmo ancora più intenso. Ho cercato di condensare in poche pagine la ricca esperienza che sto vivendo nelle “lettere” conclusive della visita, indirizzate alle comunità nel loro insieme e ai diversi operatori pastorali. In queste lettere, oltre a indicazioni particolari legate alle singole situazioni, ripropongo con forza le fondamentali istanze della comunione e della missione, con l’appello prioritario ad affrontare – da parte di tutti e in particolare dei laici – un intenso cammino di formazione spirituale e culturale.  
9.   Altro segno di vivacità ecclesiale della nostra Diocesi, di cui vorrei rendere grazie con voi al Signore, è stata la nomina episcopale di ben sei nostri sacerdoti. Anche questo gioioso avvenimento è stato caratterizzato dalla comunione e dalla missione. Comunione: anzitutto con il Santo Padre, che ha così manifestato attenzione e apprezzamento alla nostra Chiesa ambrosiana e ha consacrato due vescovi per il servizio alla Santa Sede; e comunione con due Chiese particolari, a cui abbiamo donato i nuovi pastori. Missione: i due nuovi vescovi ausiliari che ho chiesto per la nostra arcidiocesi sapranno dare nuovo slancio all’impegni pastorale e culturale.
Vorrei leggere queste nomine episcopali come invito a tutti nel proseguire in quella che, nel giorno del mio ingresso in Diocesi, chiamavo “una grande preghiera per le vocazioni”: “preghiera fiduciosa, costante, personale e comunitaria che, come onda benefica, attraversi e coinvolga attivamente i seminari, le comunità parrocchiali, i gruppi, le famiglie, gli anziani, gli ammalati, ogni singola persona”. Anche la nostra Chiesa, non meno delle altre, ha bisogno di vocazioni sacerdotali, diaconali, nelle varie forme di vita consacrata, nella vita matrimoniale e nelle diverse modalità di impegno laicale.
10. Un altro motivo di ringraziamento, in quest’anno che ha visto la celebrazione del cinquantesimo dell’enciclica Fidei donum di Pio XII, è stato il deciso incremento di presenza in diversi Paesi di sacerdoti, diaconi, famiglie e consacrate provenienti dalla nostra Diocesi. In un momento di difficoltà e di crisi per le vocazioni, la nostra Chiesa ha scommesso e scommette in modo convinto sulla missione e sulla comunione con le diverse Chiese presenti nel mondo, ben sapendo che il Signore non si lascia vincere in generosità.
In particolare vorrei richiamare la luminosa testimonianza di P. Giancarlo Bossi del PIME: la sua liberazione e il suo desiderato ritorno nelle Filippine sono per tutti noi motivo di ringraziamento al Signore e di rinnovato impegno missionario.
11. Dovrei ora aprire un nuovo capitolo, le cui pagine sono un invito al rendimento di grazie al Signore e insieme a vivere la speranza operosa nelle situazioni difficili e pesanti della vita. È il capitolo che vede la presenza della comunità cristiana – in particolare dei gruppi, delle famiglie, delle singole persone – che annuncia il Vangelo e lo rende credibile attraverso le numerose e varie opere di carità e giustizia al servizio della società, soprattutto a favore di quanti fanno, spesso quotidianamente, l’esperienza dura della fragilità: i poveri, i malati, i sofferenti, i senza lavoro e senza casa, i disagiati, gli emarginati, i rifiutati, i disperati.
Riprendendo il discorso della vigilia di sant’Ambrogio rivolto alla città, vorrei riaffermare “il (mio) bisogno di ringraziare di cuore quanti si sono impegnati, in questi mesi, pur in mezzo a tante difficoltà e incomprensioni, per creare nuove condizioni di convivenza e di legalità con i Rom che vivono a Milano, sia all’interno delle istituzioni, sia operando nelle varie organizzazioni caritative e umanitarie. Si tratta di una testimonianza cristiana e civile forte in un contesto di contrasto, da un lato, e di disimpegno, dall’altro, di molti che potevano fare di più. Una testimonianza non astratta e fuori della storia, ma in grado di avviare un’inclusione nella legalità, che diventa dono per tutti e risposta non secondaria alla domanda di sicurezza legittimamente posta da una città spaventata e preoccupata anche per i segnali sconfortanti che vengono dalla cronaca quotidiana”.
Sempre quel discorso attirava l’attenzione sulla città “invisibile”, abitata da poveri “invisibili”, per un sussulto di responsabilità sociale verso i più bisognosi. Dicevo: “C’è una città che “appare”, la città dei grandi progetti, delle luci, delle vetrine; ma c’è una città forse un po’ più piccola, un po’ più invisibile, che magari vorremmo nascondere. Non ignoriamola, anzi abbiamo il giusto coraggio di ripartire da qui. Ripartiamo dalla città degli invisibili, ciascuno dei quali è persona…”.
Apriamo dunque il nuovo anno con una più grande speranza, che vogliamo implorare dal Signore, nella convinzione che la sua è una speranza generata dalla fede e destinata a fruttificare sentimenti e opere di amore, e dunque di accoglienza e di solidarietà.
 
Preghiamo, umili e fiduciosi, con le parole del Te Deum:
Pietà di noi, Signore,
pietà di noi.
Tu sei la nostra speranza,
non saremo confusi in eterno.
 
+ Dionigi card. Tettamanzi
Arcivescovo di Milano

Publié dans:Arcivecovi e Vescovi, Inni, liturgia |on 29 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

SULLA VIA DI EMMAUS. L’EDUCAZIONE E LA BELLEZZA DI DIO (Bruno Forte)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-28078?l=italian

SULLA VIA DI EMMAUS. L’EDUCAZIONE E LA BELLEZZA DI DIO

ROMA, sabato, 24 settembre 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lettera pastorale per l’anno 2011-2012 di mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, dedicata al tema dell’educazione.

* * *
1. Perché l’educazione? Ho scelto l’educazione come tema di questa lettera pastorale perché la sfida della trasmissione ai nostri ragazzi di quanto per noi veramente conta nella vita appare oggi più che mai ardua. È come se la distanza fra le generazioni si fosse improvvisamente accresciuta, sia per l’accelerazione dei cambiamenti in atto, sia per la novità dei linguaggi che il mondo del computer e della rete ci va imponendo. I “nativi digitali” – coloro cioè che sono nati nell’era di “internet” e che vi accedono con strabiliante naturalezza – fanno fatica a intendersi con gli abitanti del vecchio pianeta terra, solcato da confini e lontananze, che risultavano spesso difficilmente valicabili. Quanto viene proposto dall’opera di genitori e educatori desiderosi di far bene, rischia di essere volatilizzato dal mondo della “rete” in cui i nostri ragazzi navigano alla grande, spesso senza adeguata cautela e discernimento. Mentre il “villaggio globale” dei giovani è sempre più omologato su modelli planetari, le identità tradizionali, radicate in storia, usi e costumi, appaiono relativizzarsi e perdere di interesse ai loro occhi. Anche nell’azione pastorale ci sembra a volte di rispondere a domande che nessuno pone o di porre domande che non interessano più nessuno! La realtà di un mondo senza Dio, in cui non di rado ci pare di trovarci, è forse solo il frutto di questo “Dio senza mondo”, che tale risulta a molti cui vorremmo proporlo, che parlano ormai linguaggi totalmente diversi dai nostri. Come affrontare la sfida educativa che ne consegue? Come dire ai nostri ragazzi ciò che veramente ci sta a cuore, vita della nostra vita, senso delle nostre fatiche e speranza dei nostri giorni? È a domande come queste che più volte ci ha invitato a rispondere Papa Benedetto XVI, che all’educazione alla fede ha dedicato tutta la sua vita di teologo e di pastore. È a tali domande che i Vescovi italiani hanno scelto di prestare la loro attenzione prioritaria in questi anni dieci del terzo millennio. È su di esse che vorrei anch’io riflettere con voi con questi pensieri brevi ed essenziali. Scelgo, perciò, di parlarvi della sfida educativa e lo faccio a partire da un’icona biblica, quella dei discepoli di Emmaus, cui si affianca sulla via un viandante dapprima non riconosciuto, Gesù, che li introduce progressivamente alla realtà tutta intera del suo mistero (Luca 24, 13-35). Mi sembra che il modello del Figlio di Dio, che si fa educatore dei due discepoli tanto simili a noi e ai nostri ragazzi, come noi “stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti”, possa aiutarci a capire come rispondere alla sfida tanto urgente e decisiva dell’educazione.
2. In cammino sulla via di Emmaus: la posta in gioco. Ciò che il racconto di Emmaus ci fa anzitutto capire è che l’educazione è un cammino: essa non avviene nel chiuso di una relazione esclusiva e rassicurante, decisa una volta per sempre, ma si pone nel rischio e nella complessità del divenire della persona, teso fra nostalgie e speranze, di cui è appunto figura il cammino da Gerusalemme a Emmaus percorso dai due discepoli e dal misterioso Viandante. Siamo tutti usciti dalla città di Dio, in quanto opera delle Sue mani, e andiamo pellegrini verso il domani nell’avanzare della sera, bisognosi di qualcuno che ci stia vicino, sulla cui presenza affidabile poter contare: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto” (v. 29). Tutti siamo incamminati verso l’ultimo silenzio dell’esistenza che muore! Proprio nel confronto con l’enigma della morte, però, si affacciano alla mente e al cuore due radicali e opposte possibilità: ritenersi “gettati verso la morte” (come pensa il filosofo Martin Heidegger, riflettendo sulla condizione umana) o considerarsi “mendicanti del cielo” (come sostiene per esempio il pensatore cattolico Jacques Maritain), destinati alla vita vittoriosa sulla morte della Gerusalemme celeste. Se l’uomo è solo in questo mondo, l’ultima parola sul suo destino non potrà che essere quella del finale silenzio in cui la sua esistenza si spegnerà. Se invece c’è un Dio d’amore, ogni essere personale è un “tu” unico e singolare cui quest’amore è rivolto, e che come tale vive e vivrà per sempre grazie all’eterna fedeltà dell’interlocutore divino. La tristezza dei due discepoli all’inizio del racconto di Emmaus è quella di chi teme che la morte l’abbia vinta sulla vita; l’entusiasmo con cui ripartono nella notte per andare ad annunciare a tutti di aver incontrato il Risorto è quello di chi sa che la vita ha vinto e vincerà la morte. Fra le due opzioni la scelta è decisiva e va fatta ogni giorno: ecco perché siamo tutti, sempre, in cammino sulla via dell’educazione, per scegliere sempre di nuovo ciò su cui sta o cade il senso ultimo della nostra vita. Ed ecco perché l’annuncio della vita vittoriosa sulla morte deve risuonare ogni giorno, in un’incessante testimonianza vissuta nella condivisione del cammino e nella proposta umile e coraggiosa della buona novella dell’amore: è questa la “nuova evangelizzazione” di cui ogni generazione ha bisogno. Non va mai dato per scontato l’annuncio del senso e della bellezza della vita vista nell’orizzonte di Dio e del Suo eterno amore. Ci sarà sempre bisogno di educatori, che siano persone dal cuore nuovo, capaci di cantare il cantico nuovo della speranza e della fede lungo le vie, talvolta tortuose e scoscese, che i pellegrini del tempo sono chiamati a percorrere. Chi educa non dovrà mai dimenticare che la posta in gioco nell’educazione è la scelta decisiva della persona, l’opzione fondamentale che qualificherà il suo stile di vita e le singole decisioni settoriali. La meta di un’educazione piena e realizzante non può che essere la scelta libera e fedele del bene, la sola che consenta alla persona di entrare nell’obbedienza al disegno di Dio su di lei, dov’è la sua vera pace, come afferma Dante: “E in la sua volontade è nostra pace / ell’è quel mar al qual tutto si move / ciò ch’ella cria e che natura face” (Paradiso, Canto III, 85).
3. Le condizioni del cammino educativo. Il racconto di Emmaus ci fa anche comprendere quali sono le condizioni fondamentali di una relazione educativa. La prima riguarda la dimensione del tempo: occorre aver tempo per l’altro e dargli tempo, accompagnandolo nella durata con fedeltà, vivendo con perseveranza la gratuità del dono del proprio tempo. Oggi si parla di “banca del tempo” per dire quanto è prezioso il mettere a disposizione degli altri gratuitamente anche solo qualche ora della nostra settimana: l’impegno educativo esige un’immensa disponibilità a spendere le risorse di questa banca. Chi ha fretta o non è pronto ad ascoltare e accompagnare pazientemente il cammino altrui, non sarà mai un educatore. Tutt’al più potrà pretendere di proporsi come un modello lontano, alla fine poco significativo e coinvolgente per la vita degli altri. Gesù sulla via di Emmaus avrebbe potuto svelare subito il suo mistero: se non lo ha fatto, è perché sapeva che i due discepoli avevano bisogno di tempo per capire quanto avrebbe loro rivelato, e forse – come dice Sant’Ireneo agli albori della riflessione cristiana – perché anche Dio ha bisogno di tempo per imparare a farsi vicino alla sua creatura così fragile e incostante. Come in ogni rapporto basato sull’amore, anche nel rapporto educativo il dono del tempo è il segno più credibile del proprio coinvolgimento al servizio del bene dell’altro. Comprendiamo così una seconda condizione necessaria a stabilire una vera relazione educativa, del tutto evidente nel racconto di Emmaus: occorre camminare insieme.Prima che essere per l’altro, chi educa deve stare con l’altro. L’educazione avviene attraverso la condivisione, la comprensione e ildialogo: l’essere genitori nella relazione ai figli, l’insegnamento vissuto nel porsi accanto e di fronte a chi apprende, la testimonianza resa a chi vorremmo condurre all’incontro con Cristo, esigono compagnia della vita e della parola… Il fallimento di un’educazione solo autoritaria, che neghi il valore del dialogo e dell’ascolto dell’altro, si dimostra da sé. Sarebbe parimenti sbagliato, però, pensare che l’educazione possa realizzarsi solo fra pari: l’egualitarismo educativo ha combinato disastri. Il dialogo non significa appiattimento delle differenze: non si amano gli altri se non si è se stessi, accettando anche l’inevitabile diversità da loro. “Se mi ami, dimmi di no” è un valido progetto educativo, se inserito in una rete di attenzione e di amore, che non escluda le differenze, ma le porti all’incontro reciprocamente arricchente. Anche in campo educativo è urgente realizzare la “convivialità delle differenze” (don Tonino Bello)!
4. La compagnia di Gesù. Il comportamento del misterioso Viandante sulla via di Emmaus risulta dunque anzitutto quello di chi si fa prossimo all’altro: egli fa compagnia al cammino dei due. “Gesù in persona si accostò e camminava con loro” (v. 15). Accompagnarsi, porre domande, ascoltare le risposte, leggere il cuore dell’altro e farlo ardere con l’annuncio della parola di vita, accendere il desiderio e corrispondervi coi gesti della condivisione: questo è la compagnia della vita, lo spezzare insieme il pane dei giorni (compagnia viene da “cum – pane”, pane condiviso), stando in cammino con l’altro per comprendere e parlare al suo cuore e trasformarlo. Non si tratta insomma tanto di insegnare dall’alto di una cattedra, ma di contagiare la vita con l’eloquenza della vita stessa: “Il mondo di oggi – diceva Paolo VI – ascolta più volentieri i testimoni che i maestri; e, quando ascolta i maestri, lo fa perché sono anche testimoni”. Chi educa deve insomma farsi prossimo: la luce della vita si trasmette nella reciprocità fra i due; nell’attenzione all’altro; nella pazienza di accettare i suoi tempi e di stimolarne le scelte. Come amava ripetere John Henry Newman, “cor ad cor loquitur”, è il cuore che parla al cuore. Accompagnare vuol dire prevenire e accogliere l’altro nell’amore: “Nulla maior est ad amorem invitatio quam praevenire amando”, scrive Sant’Agostino all’amico che gli chiedeva come educare i difficili ragazzi dei suoi tempi (De catechizandis rudibus, 4) – “Non c’è invito più grande all’amore che prevenire amando”. Chi educa deve amare per primo e senza stancarsi, o non educa affatto. Per essere buoni educatori bisogna dare amore ricordandosi sempre dell’amore ricevuto e accettando di lasciarsi continuamente educare dall’amore. Chi sa accogliere, sa anche donare! Per accompagnare fedelmente l’altro, l’educatore deve dimostrargli di apprezzarlo, deve valorizzarlo, perché chi va educato ha bisogno anzitutto di fiducia, di quel sentirsi amato che gli consentirà anche di lasciarsi correggere e ammonire. L’incoraggiamento e l’elogio sono spesso più utili del rimprovero, perché danno la forza di impegnarsi a migliorare. Il rigorismo stanca e deprime. Solo l’amore eleva e incoraggia ed è vita che genera alla vita…
5. La memoria di quanto veramente conta per noi. Gesù non si limita ad accompagnare i due discepoli: egli li stimola, li ammonisce con amore e soprattutto schiude loro il senso della storia della salvezza, per introdurvi il loro cuore inquieto e aprirlo allo stupore davanti al dono dell’amore divino: “Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (v. 27). Facendo memoria delle meraviglie compiute da Dio per il suo popolo, il misterioso Viandante introduce i due nella realtà totale del suo mondo vitale, apre il tesoro del suo cuore e fa loro comprendere ciò che tutti abbiamo ricevuto dal Padre celeste e di cui viviamo veramente. Il “rischio educativo” consiste nell’inserire la persona nella pienezza del reale, e dunque nella tradizione viva della fede e dell’amore che nutrono la vita e ci trasmettono la luce che viene dal passato della salvezza, aprendoci alla novità del futuro della promessa: ci viene da pensare a tutti quelli che ci hanno trasmesso il dono della fede, dai genitori, ai nonni, ai sacerdoti, ai consacrati, agli educatori che hanno segnato la nostra vita. Veramente, l’educazione è opera totale, “cattolica”, nel senso etimologico del termine (“kath’òlou” = in pienezza): formando al grande abbraccio della realtà, grazie all’opera educativa perseverante e integrale, la vita suscita e contagia la vita, il dono ricevuto si fa amore donato, la verità accolta e trasmessa libera e salva. È necessario però che la memoria sia come quella evocata da Gesù, viva, pericolosa, non asettica e inerte: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (v. 32). Solo la parola convinta e la testimonianza credibile di ciò di cui abbiamo fatto esperienza sono in grado di accendere la vita. La memoria va insomma partecipata all’altro con amore, come avviene in Gesù, che al culmine del cammino condiviso si rivela nel gesto dello spezzare il pane benedetto, di offrire e condividere il dono di Dio nel dono di sé. Il Maestro non comunica solo con la parola, ma lo fa anche col gesto: “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” (vv. 30 e 31). Il gesto benedicente si unisce al segno della condivisione del pane, della vita, del cuore. La comunione è forza educativa, rete relazionale attraverso cui è possibile introdurre l’altro alla pienezza della vita: solo in una relazione di amore fedele, di comunione generosa e piena, passa la vita che illumina la vita, tanto fra genitori e figli, quanto in generale fra insegnanti e alunni, fra educatori e discepoli, fra pastori e popolo loro affidato, fra catechisti e catechizzandi…
6. La profezia della vita nuova e piena. Gesù infine schiude ai due discepoli un nuovo futuro, aprendo il loro cuore a una speranza affidabile: egli accende la profezia, contagiando loro il coraggio e la gioia. È scopo dell’educazione schiudere orizzonti, raccogliere le sfide e accendere la passione per la causa di Dio tra gli uomini, che è la causa della verità, della giustizia e dell’amore. Gesù procede per tappe: si fa vicino, spiega le Scritture, alimenta il desiderio, si fa riconoscere e offre ai due l’annuncio di sé, della sua vittoria sulla morte: “Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro… E cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (vv. 15 e 27). “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista” (vv. 30-31). Si accende nei cuori dei due una “grande gioia” (v. 41). È da questa gioia che scaturisce l’urgenza di partire subito per portare agli altri la buona novella di cui sono ormai testimoni: “E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone” (vv. 33-34). L’incontro vissuto esige di essere testimoniato: non puoi fermarti a ciò che hai avuto in dono. Devi a tua volta donarlo, camminando sulle tue gambe e facendo le scelte della tua libertà. L’educazione o genera testimoni liberi e convinti di ciò per cui vivono, o fallisce il suo scopo. Chi educa non deve creare dipendenze, ma suscitare cammini di libertà, in cui ciascuno viva la propria avventura al servizio della luce che gli ha illuminato il cuore. “Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane” (v. 35). L’educazione ha raggiunto il suo fine quando chi l’ha ricevuta è capace di irradiare il dono che lo ha raggiunto e cambiato: “Ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento della storia – affermava il Card. Ratzinger pochi giorni prima della sua elezione a Successore di Pietro, parlando a Subiaco il 1 Aprile 2005 – sono uomini che, attraverso una fede illuminata, rendano Dio credibile in questo mondo… Uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando di lì la vera umanità, uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore… Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini”. Educare, insomma, non è clonare, ma accendere la vita col dono della vita, suscitando i cammini di libertà di un’esistenza significativa e piena, spesa al servizio della verità che sola rende e renderà liberi.
7. Contagiati dal Risorto, educare come lui. L’icona biblica di Emmaus ci consente così una definizione sintetica dell’azione educativa: educare è accompagnare l’altro dalla tristezza del non senso alla gioia della vita piena di significato, introducendolo nel tesoro del proprio cuore e del cuore della Chiesa, rendendolo partecipe di esso per la forza diffusiva dell’amore. Chi vuol essere educatore deve poter ripetere con l’apostolo Paolo queste parole, che sono un autentico progetto educativo: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Corinzi 1,24). Sullo stile educativo di Gesù, quale emerge dal suo rapporto con i discepoli di Emmaus, dobbiamo esaminarci tutti, chiedendoci se e fino a che punto il nostro impegno al servizio dell’educazione sia fatto analogamente di compagnia, memoria e profezia. Facilmente il bilancio ci sembrerà perdente: ci conforta tuttavia il fatto di non essere soli. Dio – che ha educato il suo popolo nella storia della salvezza – continua a educarci e a educare: “Il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Giovanni 14,26). Non rinunciamo dunque a raccogliere la sfida educativa, qualunque sia il livello di responsabilità che ci è dato di vivere. Affidiamoci a Maria, che come Madre è stata anche singolare educatrice del Figlio di Dio fatto uomo, nella quotidianità della vita della Santa Famiglia di Nazaret. E confidiamo nel divino Maestro, dicendogli con semplicità e fiducia: “Signore Gesù, Tu ti sei fatto compagno di strada dei discepoli dal cuore triste, incamminati dalla città di Dio verso il buio della sera. Hai fatto ardere il loro cuore, aprendolo alla realtà totale del Tuo mistero. Hai accettato di fermarti con loro alla locanda, per spezzare il pane alla loro tavola e permettere ai loro occhi di aprirsi e di riconoscerti. Poi sei scomparso, perché essi – toccati ormai da te – andassero per le vie del mondo a portare a tutti l’annuncio liberante della gioia che avevi loro dato. Concedi anche a noi di riconoscerti presente al nostro fianco, viandante con noi sui nostri cammini. Illuminaci e donaci di illuminare a nostra volta gli altri, a cominciare da quelli che specialmente ci affidi, per farci anche noi compagni della loro strada, come tu hai fatto con noi, per far memoria con loro delle meraviglie della salvezza e far ardere il loro cuore, come tu hai fatto ardere il nostro, per seguirti nella libertà e nella gioia e portare a tutti l’annuncio della tua bellezza, col dono del tuo amore che vince e vincerà la morte. Amen. Alleluia”.

Publié dans:Arcivecovi e Vescovi, Bruno Forte |on 24 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

Presentazione del Signore al Tempio – Omelia Tettamanzi 1999

 dal sito:

http://www.diocesi.genova.it/documenti.php?idd=352

Con la profetessa Anna per lodare Dio e per dare l’annuncio della salvezza

Omelia nella S. Messa della Festa della Presentazione al Tempio del Signore – Giornata mondiale per la Vita consacrata.

Cattedrale,
2 febbraio 1999

Dionigi Tettamanzi
Arcivescovo di Genova

Carissimi fratelli e sorelle nel Signore,

nella gioia spirituale di questa celebrazione rivolgo un affettuoso e riconoscente saluto a tutti voi: a voi presenti in questa Cattedrale, alle vostre comunità, a tutti i religiosi religiose e persone di vita consacrata presenti e operanti nella Chiesa di Genova, alle carissime sorelle di vita claustrale -che so unite a noi spiritualmente in questo momento-, in particolare a quanti sono provati dalla malattia e dalla sofferenza. Con voi fisso lo sguardo su Cristo, centro della festa che celebriamo e cuore della nostra vita. Questo sguardo ci conduce a rinnovare, ancora una volta, la nostra fede in Lui, che la liturgia di oggi ci presenta come il purificatore, il « sospirato » di cui si attende « il giorno della sua venuta », il « sommo sacerdote misericordioso e fedele », il « partecipe » della nostra umanità della quale « si prende cura », colui che « soffre personalmente » per essere vicino all’uomo provato, il « conforto di Israele », la « luce che illumina le genti », la « gloria del suo popolo Israele », la « salvezza di tutti i popoli », « la rovina e la risurrezione per molti », il « segno di contraddizione » che svela i misteri del cuore umano, la « grazia di Dio » e l’effusione dello Spirito.
Sì, confessiamo la nostra fede in Cristo Signore, nel Figlio di Dio fatto uomo, fatto bambino per noi: è un bambino come tanti altri in Israele: circonciso l’ottavo giorno dopo la nascita e il quarantesimo giorno presentato e offerto al Signore. Eppure è un bambino unico: perché è Dio, il Salvatore, la luce che illumina le genti. La nostra confessione di fede prolunga e condivide quella che ha riempito il cuore delle persone che il vangelo di oggi ricorda essere state presenti nel tempio di Gerusalemme e partecipi dell’offerta del bambino a Dio. Parlo della fede di Maria, la Madre: una fede che continua e approfondisce i sentimenti di amore e di adorazione della notte di Natale ipsum quem genuit adoravit! Parlo poi della fede umile e grande di Giuseppe, lo sposo fedele della vergine e il padre di Gesù secondo la legge. Parlo ancora della fede di quell’ « uomo giusto e timorato di Dio », che è Simeone: una fede, la sua, generata dallo Spirito Santo che l’aveva condotto al tempio, gli aveva dato la gioia di vedere e di prendere tra le braccia il Messia del Signore, gli aveva ispirato il cantico della consolazione « Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola… ». Parlo, infine, della fede della « profetessa » Anna. Proprio su questa donna, alla quale l’evangelista Luca riserva tre versetti del suo « Vangelo dell’infanzia », vogliamo fermare la nostra meditazione.

Si mise anche lei a lodare Dio
C’è poi l’indicazione della vecchiaia: « Era molto avanzata in età ». Anna è il ritratto e il modello di una vecchiaia serena, benedetta da Dio, gioiosa e pacifica, operosa e piena di speranza. I suoi 84 anni non sono tempo sfuggito come sabbia, che ha lasciato le mani vuote. Anna è ancora attivamente impegnata. A lei si possono applicare le parole del salmista: « Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno vegeti e rigogliosi, per annunziare quanto è retto il Signore » (Sal 92, 15-16). Luca, infatti, ritrae la profetessa Anna come sempre presente nel tempio al servizio ininterrotto di Dio. Così egli scrive: « Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere » (Lc 2, 37). Diversamente da Simeone che viene al tempio per la circostanza mosso dallo Spirito Santo, Anna è già nel luogo sacro. Il tempio è diventato la sua casa, la sua dimora permanente. « Non si allontanava mai »: non solo – forse – dal punto di vista spaziale, ma anche e soprattutto dal punto di vista spirituale. Anna ha fatto della lode a Dio il senso e la ragione d’essere della sua vita quotidiana. Per Luca questa donna incarna la lode: « Sopraggiunta il quel momento – scrive l’evangelista -, si mise anche lei a lodare Dio » (Lc 2, 38). Dunque, la vita di Anna è riempita per intero di preghiera e di penitenza: « notte e giorno ». Ella vive « al cospetto di Dio », completamente per Dio. Essa appartiene ai « poveri di Jahve », a coloro cioè che ripongono tutta la loro fiducia solo in Dio. Così Anna diventa testimone della grande ora di grazia che si sta già compiendo nel tempio. Illuminata dallo Spirito Santo riconosce il Messia nel bambino portato nel tempio da Maria e da Giuseppe. E fa eco a Simeone che aveva « benedetto » Dio, con una specie di « responsorio », con un canto di lode al Signore. L’evangelista non riporta, come aveva fatto per Simeone, le parole testuali di Anna. Ne dà soltanto il senso, quello appunto della « lode ». La profetessa Anna diventa modello e richiamo per la nostra vita di persone consacrate. Infatti, se ogni cristiano col Battesimo è consacrato a Dio e alla sua gloria, la professione religiosa riprende e attua in modo specifico la grazia e la responsabilità della consacrazione battesimale. E questa significa non appartenere a noi stessi, ma appartenere totalmente a Dio. Per questo, Dio e le sue richieste, Dio e i suoi desideri, Dio e i suoi progetti dovrebbero diventare la nostra prima, grande, unica « preoccupazione », la vera « passione » che ci domina, la « ragione » stessa della nostra esistenza.
In questo modo, continuiamo sì a vivere sulla terra e ad impegnarci in tante realtà temporali, ma nel profondo del nostro essere, proprio perché apparteniamo totalmente a Dio, siamo già nel suo mondo, come dice l’apostolo Paolo: la nostra « vita è ormai nascosta con Cristo in Dio » (Col 3, 3). È vero, nella nostra giornata attraversiamo tanti luoghi, i più diversi, ma unico è il luogo che dà senso e forza e fascino ai nostri pensieri e sentimenti, alle nostre decisioni e opere: questo luogo – come era per la profetessa Anna – è il tempio, ossia l’atmosfera spirituale data dall’intimità con Dio. Così ci è dato di vivere la grazia della figliolanza divina donata a noi da Gesù. Con lui ci sentiamo figli amati dal Padre, con lui viviamo da figli desiderosi di vedere e di far vedere il volto del Padre ricco di misericordia. E, in qualche modo, la nostra vita, proprio come quella di Cristo, attraversa il tempo di questo mondo nella gioiosa consapevolezza di « venire dal Padre » e di « ritornare al Padre ». Quel Padre che dall’eternità ci ha pensato e amato, quel Padre che per l’eternità desidera donarci il suo infinito amore. In questa prospettiva la preghiera diventa il respiro dell’anima, qualcosa che ci accompagna sempre, istante per istante, e che ci fa vivere. Non dimentichiamolo mai: la fedeltà e la generosità del nostro pregare sono un’esigenza che deriva dalla consacrazione religiosa e una condizione irrinunciabile della sua autenticità e del suo dinamismo, ed insieme sono la richiesta più forte e urgente che ci viene dalla Chiesa e dalla società: sempre, ma soprattutto nei momenti di disorientamento, di vuoto, di stanchezza morale e spirituale. In realtà, per la freschezza evangelica della Chiesa e per il rinnovamento umano della società occorrono uomini e donne nuovi, immersi nel mistero di Dio e in colloquio permanente con lui, contagiati dall’amore compassionevole e misericordioso del Padre e pronti a fasciare le ferite d’ogni suo figlio: occorrono uomini e donne santi. Anzitutto noi, persone consacrate, dobbiamo, vogliamo essere, con la grazia efficace del Signore, questi uomini e donne nuove, questi uomini e donne santi! Non è questo, in definitiva, l’appello che dal Grande Giubileo del 2000 viene alla Chiesa che varca le soglie del terzo millennio?

Parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme
Luca conclude la presentazione di Anna mettendo in luce un altro importante aspetto della sua figura spirituale. Poiché ha riconosciuto la venuta del Messia e si è sentita colma di gioia, Anna diventa evangelizzatrice, annuncia cioè la « lieta notizia » di Gesù: non può non parlare di Gesù agli altri, così come hanno fatto i pastori di Betlemme e come faranno le discepole di Gesù nel giorno radioso della risurrezione (cf Lc 24, 1-11): « Parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme » (Lc 2, 38). « Mentre Simeone ha chiesto a Dio di lasciarlo pure morire, avendo ormai visto la Salvezza, Anna fa una cosa in più: va in giorno ad annunciare che il Messia è già presente. Ce la possiamo immaginare mentre rivela il misterioso segreto ‘a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme’, cioè a quei gruppi religiosi…(che erano) intenti a cogliere nel loro tempo i segnali lanciati dalle profezie. Anna, insomma, è una prima divulgatrice della Buona Notizia, e in qualche modo la possiamo considerare un’anticipazione degli Apostoli » (D. Agasso, Figli minori del Vangelo, Roma 1997, 17). La profetessa Anna ci si presenta così anche come modello e richiamo al nostro compito di annunciare e testimoniare il Vangelo. Mi piace riferire qui un rilievo di sant’Ambrogio. Nel suo Commento al Vangelo di Luca egli sottolinea il fatto che le persone chiamate ad annunciare e testimoniare il Messia venuto nel mondo appartengono a diversa età, sesso, condizione di vita. In particolare c’è spazio anche per la donna vedova, come è appunto il caso di Anna: Scrive il santo Vescovo di Milano: « La nascita del Signore non è stata attestata soltanto dagli angeli e dai profeti, dai pastori e dai familiari, ma anche dagli anziani e dai giusti. Tutte le età, tutt’e due i sessi, e i prodigi avvenuti ne garantiscono la fede: una vergine diventa feconda, una sterile partorisce, un muto si mette a parlare, Elisabetta profetizza, i magi si prostrano in adorazione, un bimbo esulta benché chiuso nel grembo, una vedova loda Dio, un giusto attende » ( Esposizione del Vangelo secondo Luca, II, 58). E ancora: « Profetò dunque Simeone, aveva profetato una donna maritata, aveva profetato la Vergine: e quindi anche una vedova dovette profetare, affinché nessuna condizione umana e nessun sesso venisse escluso » (Ibid. II, 62).
Si fa allora spontanea per noi la domanda circa le persone consacrate: quale spazio specifico hanno nel compito dell’evangelizzazione? quali aspetti particolari del mistero cristiano sono chiamati ad annunciare e testimoniare? Non sono, forse, i valori tipici della professione religiosa, quali i voti di povertà, di obbedienza e di castità, da viversi con gioia e con entusiasmo nel contesto di una cultura che questi valori non capisce, rifiuta e combatte? Non è, forse, una vita comune più convinta, più amata e più praticata, sia pure in situazioni oggi non facili? Non è, forse, la fedeltà creativa al carisma dei Fondatori che esige il discernimento delle nuove situazioni e urgenze della nostra società, della nostra Città, ed insieme la disponibilità reale a cambiare anche in profondità, assumendo inedite forme di servizio? Di fronte all’invecchiamento e alla crisi vocazionale di molti Ordini e Congregazioni non possiamo non interrogarci su quali forme oggi deve assumere la « profezia » insita in ogni autentica vita consacrata. Non è sempre facile rispondere. Ciò che comunque importa è che queste domande continuino a provocarci e a inquietarci! In particolare, della profetessa Anna l’evangelista scrive: « Parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme ». Dunque per Anna l’attesa della liberazione di Gerusalemme, cioè di Israele, è finita. Ed è finita perché il Liberatore è ormai venuto ed è in mezzo a noi: è quel bambino che Maria e Giuseppe portano al tempio. Ora al di là delle diverse forme di cui esso può e deve rivestirsi, il contenuto fondamentale e perennemente nuovo del nostro annuncio è identico a quello della profetessa Anna: all’uomo affamato e assetato di libertà solo Cristo è la risposta che sazia pienamente e che fa gioia il cuore! solo Cristo è la risposta perché è l’unico Salvatore, ieri, oggi e sempre! Che lo Spirito Santo ci doni di avvertire con singolare chiarezza che Cristo ci è assolutamente necessario perché « è tutto per noi » (Sant’Ambrogio). Solo così lo potremo annunciare e testimoniare agli altri. Solo « vedendo » il Signore, potremo rivolgerci agli altri e dire loro: Venite e vedrete!

“Tota pulchra”. La “via pulchritudinis” e la luce di Maria assunta in cielo (Bruno Forte)

dal sito:

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“Tota pulchra”. La “via pulchritudinis” e la luce di Maria assunta in cielo

ROMA, sabato, 18 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la relazione pronunciata il 16 dicembre da mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, durante la quindicesima seduta pubblica delle Pontificie Accademie svoltasi presso la sede del Pontificio Consiglio della Cultura.

* * *

1. La “via pulchritudinis” e la “Tota Pulchra”. La bellezza è l’evento di una donazione, in cui il Tutto infinitamente al di là di ogni nostra cattura viene a farsi presente in un frammento: nella finitezza di una forma l’Infinito si affaccia; nella fragilità di un evento l’Eterno viene a narrarsi nel tempo. Il Tutto si offre nel frammento! Questo è bellezza, perché – come scrive Hans Urs von Balthasar – “l’esperienza estetica è data dall’unità della massima concretezza della forma singola con la massima universalità del suo significato”[1]. Attraverso il frammento in cui si offre, il bello costituisce una via privilegiata di accesso al significato ultimo dell’esistenza umana, una finestra sulla profondità del vero, che illumina e salva. Con la crisi delle presunzioni totalizzanti della ragione moderna e la caduta dei mondi ideologici da essa prodotti, questa via di approccio alla verità è stata fatta oggetto di una generale riscoperta. Il bello come splendore del vero si risveglia nelle anime! “In un mondo senza bellezza – dichiarava von Balthasar – anche il bene perde la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essere-adempiuto… In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica”[2]. In alternativa a un pensiero che pretendeva di essere totalmente trasparente a se stesso e di abbracciare la realtà intera, si apprezza il valore di ciò che tiene insieme il minimo e l’Infinito, avvicinando quanto è immensamente lontano pur senza annullare le differenze. La bellezza apre all’intelligenza del simbolo (da “syn-bállein”), eccedenza di senso nella pur permanente continuità del significato, tale da tener insieme i distanti senza confonderli. Un pensiero senza ombre o rimanenze non è più ricco di un pensiero simbolico: l’ideale non assorbe il reale, deve anzi riconoscerne l’eccedenza; il concetto è chiamato a trascendersi verso spazi più vasti. Come osserva il teologo ortodosso Pavel Evdokimov, “non è la conoscenza che illumina il mistero, è il mistero che illumina la conoscenza. Noi possiamo conoscere solo grazie alle cose che non conosceremo mai”[3].
L’approccio estetico e la conoscenza simbolica – che risultano dunque oggi più che mai necessari nella ricerca di orizzonti di senso – appaiono adatti in modo peculiare alla riflessione credente intorno alla Madre del Signore, che la narrazione evangelica descrive come la “symbállousa”, colei che tiene insieme nel suo cuore le lontananze senza confonderle: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole (symbállousa) nel suo cuore” (Lc 2,19). Colei che fra tutte le creature è la più prossima al mistero del Verbo incarnato, dove una volta per sempre il Tutto divino si offrì nel frammento di una vicenda umana, non può non essere plasmata da questa vicinanza. La Vergine Madre tiene insieme il cielo e la terra, il Totalmente Altro e il Totalmente Dentro: il disegno dell’Altissimo, cui ella acconsente, la trascende ed insieme la pervade; ad esso ella si apre nell’“eccomi” della fede, accogliendo il dono della pura Grazia. La relazione di Maria col Mistero può essere dunque espressa al meglio proprio da un pensiero simbolico, che non è concorrente o alternativo rispetto a quello storico-critico, ma dipende da esso, sviluppandone l’efficacia. La lettera e lo spirito, lungi dall’opporsi, si richiamano e si arricchiscono reciprocamente nel discorso di fede sulla Madre del Signore, la Tutta Bella abitata dalla grazia dell’Altissimo. Si comprende allora come la via della verità e la via della bellezza, il racconto argomentativo e la ragione simbolica, vengano ad integrarsi quando si parla di Maria nella luce della fede.
Lo aveva intuito magistralmente Paolo VI: “La via della verità, cioè della speculazione biblico-storico-teologica, concerne l’esatta collocazione di Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa… la via della bellezza (è quella) alla quale conduce, alla fine, la dottrina misteriosa, meravigliosa e stupenda… su Maria e lo Spirito Santo. Infatti, Maria è la creatura ‘tota pulchra’; è lo ‘speculum sine macula’; è l’ideale supremo di perfezione che in ogni tempo gli artisti hanno cercato di riprodurre nelle loro opere; è ‘la donna vestita di sole’ (Ap 12,1), nella quale i raggi purissimi della bellezza umana si incontrano con quelli sovrumani, ma accessibili, della bellezza soprannaturale”[4]. Come nell’esperienza del bello il tutto si fa presente nel frammento per via dell’armonia delle forme e delle proporzioni o mediante l’irruzione e l’evocazione dell’infinito nel finito, così in Maria la totalità del Mistero si relaziona a noi grazie all’elezione gratuita di cui Dio l’ha fatta oggetto[5]: nell’umile serva Egli ha fatto grandi cose; nella sua piccolezza si riflette la battaglia cosmica che attraversa la storia intera, nella quale Dio abbatterà i potenti dai troni e innalzerà gli umili.
La via della bellezza e la via della verità, pertanto, conducono entrambe a riconoscere in Maria il valore di un’icona, che rimanda densamente alla Trascendenza entrata nell’immanenza del mondo proprio nel Suo grembo di Vergine Madre. Chi abbia preso sul serio l’avventura della modernità ed il complesso insorgere del post-moderno, avvertirà come l’incontro di queste due vie sia tutt’altro che insensato o marginale: una mariologia simbolico – narrativa[6] spezza il cerchio di ogni presunzione di totalità ideologica, e attraverso i concreti eventi della storia della salvezza si approssima alle insondabili profondità del Mistero, offerte in Maria per la salvezza del mondo. Il discorso argomentativo si congiunge alla narrazione e all’inno: la ragione prigioniera di se stessa si apre nello stupore a ciò che infinitamente la supera. Nella Vergine Madre il bello appare più che mai come lo splendore del vero…
2. La “Tota Pulchra”: Maria, frammento abitato dall’Eterno. Nel grembo della Madre di Dio una volta per sempre il Tutto dell’Eterno si è offerto nel tempo: proprio così, Maria è nel suo essere Vergine, Sposa e Madre il frammento vivente in cui ci è offerta l’infinita bellezza. Afferma San Giovanni Damasceno, che l’Oriente ama chiamare il “sigillo dei Padri”: “Il solo nome della Madre di Dio contiene tutto il mistero dell’economia dell’Incarnazione”[7]. Questa frase riassume una convinzione costante della fede cristiana riguardo alla Vergine Madre: in lei, la “Tota pulchra”, si affaccia nel tempo l’infinita bellezza di Dio e del Suo progetto sull’uomo. Proprio per questo artisti e poeti l’hanno celebrata: un esempio altissimo è costituito da Dante, che nel XXXIII Canto del Paradiso presenta l’incontro paradossale di umiltà e grandezza, di creaturalità e grazia, di tempo ed eternità, compiutosi in Maria: “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’eterno consiglio…”. Prima di lui, San Pietro Celestino aveva celebrato la bellezza di Maria con linguaggio corposo: “Vergine gloriosa, Madre de pietate, / fonte de omne bellezza, giglio de castitate, / castello de Amore, foco de caritate, / altezza de virtude, radice de sanctitate, / scola de sapientia, armario de veritate…”. Francesco Petrarca si rivolge così a Maria: “Vergine bella, che di sol vestita, / coronata di stelle, al sommo Sole / piacesti sí, che ‘n te Sua luce ascose”. Infine, per citare solo due voci dell’epoca moderna, Paul Claudel esclama: “Semplicemente perché tu esisti, madre di Gesù, che tu sia ringraziata”, e il poeta romantico tedesco Novalis dice: “Chi, Madre, t’ha veduta una volta, non subirà mai più l’incanto del male”.
La ragione profonda che conduce la sensibilità di artisti, poeti e mistici a riconoscere in Maria la “tutta bella” sta precisamente nel suo essere il frammento, in cui l’Infinito è venuto a mettere la sua tenda fra noi. È già la testimonianza biblica a far intravedere come in Lei la totalità venga ad offrirsi nell’umiltà della Sua vicenda: da una parte, risulta evidente che non si può parlare di lei che in rapporto al Figlio e all’economia totale della salvezza in lui realizzata; dall’altra, i testi biblici mostrano la concretezza della Sua storia di donna, vergine, madre e sposa. È insomma dal Figlio suo – l’Universale concreto, norma e archetipo dell’umano – che la Vergine Madre riceve una sua specifica e singolare partecipazione all’universalità del disegno salvifico, “benedetta fra tutte le donne” come è “benedetto il frutto del suo grembo”, Gesù (cf. Lc 1,42). Si può dire, allora, che la storia di Maria è “la storia del mondo in compendio, la sua teologia in una sola parola”, e che ella è “il dogma vivente, la verità sulla creatura realizzata”[8]. Maria, insomma, è la “tutta bella” perché è la donna, icona del Mistero: il riferimento al Suo essere donna evidenzia la densa realtà del frammento di cui si parla, la storicità di questa giovane della casa d’Israele, cui è stato dato di diventare la madre del Messia. Maria non è un mito, né un’astrazione, come mostrano i tratti della sua personalità di donna ebrea, che ha saputo vivere nel modo più alto la spiritualità dello “shemà”, dell’ascolto nutrito dalla fede e dalla speranza messianica, sperimentandone in se stessa il compimento e il nuovo inizio. Confermano la storicità della sua figura l’umiltà della sua condizione, la quotidianità delle sue fatiche nella famiglia di Nazaret, l’oscurità dell’itinerario di fede in cui è avanzata, i condizionamenti ricevuti dall’ambiente circostante, l’aver conosciuto in prima persona gli stati differenti dell’esperienza femminile di vergine, madre e sposa.
Il significato universale di Maria sta o cade con la sua singolarità di donna concreta, di “Virgo singularis”: quanto più questo aspetto sarà colto, tanto più il valore di archetipo della “Tota Pulchra” per tutto l’essere umano e per ogni essere umano si lascerà percepire e il mistero in lei riposto si farà scandagliare. È questo gioco di visibile concretezza e di invisibile profondità, che fa parlare di lei come di una icona: Maria è tale perché in lei si attua il duplice movimento, che ogni icona tende a trasmettere, la discesa e l’ascesa, l’antropologia di Dio e la teologia dell’uomo. In lei risplende l’elezione dell’Eterno e il libero consenso della fede in Lui. Come “l’icona è la visione delle cose che non si vedono”[9], così la Vergine Madre si offre allo sguardo della fede come il luogo della divina Presenza, l’arca dell’alleanza, coperta dall’ombra dello Spirito (cf. Lc 1,35 e 39-45. 56), la dimora santa del Verbo tra gli uomini. Guardare a Maria “icona” significa, allora, rivolgere al dato biblico che la riguarda un’attenzione aperta a sondare le profondità divine che in esso si comunicano, così come ha saputo leggerle l’ininterrotta tradizione credente della Chiesa, a partire dalle sue prime origini. Meditando Maria nella Scrittura, diventa possibile rileggere la Scrittura in Maria, cogliere cioè nella concreta figura biblica della Madre del Signore l’intera economia dell’alleanza narrata nello splendore di questo umile e meraviglioso frammento.
3. Il Tutto divino in Maria: la Vergine Madre Sposa e la Trinità. Frammento vivo e vero di umanità, Maria è inseparabilmente il terreno d’avvento del Tutto divino. Proprio così la si può definire donna icona del Mistero: gloria nascosta sotto i segni della storia[10], il mistero implica contemporaneamente la visibilità degli eventi in cui si compie e la profondità invisibile dell’opera divina che in essi si realizza. Il mistero appare già nella scena dell’annunciazione, dove la Trinità si lascia riconoscere come il grembo adorabile che accoglie la Vergine santa, al tempo stesso in cui Maria si offre come il grembo del Figlio di Dio[11]. Fra Maria e la Trinità è stabilito un rapporto di profondità unica: ella è “il santuario e il riposo della santissima Trinità”[12]. La Trinità si fa presente in Lei nella ricchezza delle relazioni che la legano alle tre Persone divine secondo i vari aspetti della sua vicenda terrena: in quanto Vergine, ella sta davanti al Padre come recettività pura e si offre perciò come icona di Colui che nell’eternità è puro ricevere, il Generato, l’Amato, il Figlio eterno, la Parola uscita dal Silenzio. In quanto Madre, Maria si rapporta al Verbo incarnatosi in lei quale sorgente di amore che dona la vita, ed è perciò icona materna di Colui che da sempre e per sempre ha iniziato ad amare, il Generante, l’eterno Amante, il Padre. In quanto arca dell’alleanza nuziale fra il cielo e la terra, Sposa in cui l’Eterno unisce a sé la storia e la ricolma del suo dono, Maria si offre come icona dello Spirito Santo, che è nuzialità eterna, vincolo di carità infinita ed apertura permanente del Dio vivo alla storia degli uomini. Nella Vergine Madre viene così a specchiarsi il mistero stesso delle relazioni divine: nell’unità della sua persona riposa l’impronta dell’unico Dio tripersonale.
Proprio così, Maria è anche la donna Chiesa, la figlia di Sion del tempo messianico giunto al suo inaudito compimento. “Fra la Chiesa e la Vergine, i legami non sono soltanto numerosi e stretti: sono essenziali”[13]. Se da una parte la vita di Maria è “sostanza e rivelazione del mistero della Chiesa”, dall’altra “veramente la Chiesa è la Maria della storia universale”[14]. Come nella Madre del Verbo incarnato, così nel mistero della Chiesa si riflette la comunione trinitaria: icona della Trinità, la comunione ecclesiale trova nell’adorabile mistero la sua origine, il suo modello e la sua patria. Il rapporto fra Maria e la Chiesa è di un’identità simbolica, intuita già dalla testimonianza della fede delle origini, come rivela la scena del dialogo del Crocifisso con Maria e Giovanni ai piedi della Croce: la Donna e il Discepolo amato, figura di ogni discepolo, si coappartengono profondamente. La divina bellezza li avvolge entrambi ed in entrambi vuole risplendere. Come Maria, la Chiesa riflette la bellezza divina: nella notte del mondo, essa è – secondo l’intuizione dei Padri – la luna che accoglie e irradia i raggi del solo Sole, Cristo[15].
Infine, Maria è anche semplicemente la creatura umana davanti a Dio: su di lei scende l’ombra dello Spirito, evocando la prima creazione, quando “lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gen 1,2); in lei è evocata la figura della donna delle origini (cf. Gen 3,15 e l’uso del termine “donna” per designare Maria nel quarto Vangelo); è la serva del Signore, beata perché “ha creduto all’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1,45), l’umile, cui l’Onnipotente ha rivolto lo sguardo, compiendo in lei grandi cose (cf. Lc 1,48s). Nel “sì” di Maria risplende il capolavoro dell’azione creatrice di Dio: la dignità della creatura, resa capace di dare l’assenso libero al progetto dell’Eterno e di diventare perciò in qualche modo collaboratrice di Dio. Questa antropologia di Dio – rivelata nell’annunciazione – manifesta quello che fu il disegno dell’Eterno sin dal primo mattino del mondo. La Vergine Madre si offre come icona dell’uomo, chiamato ad acconsentire all’opera della divina bellezza nella libertà e nella generosità del dono. Per l’eccezionale sua vicinanza all’uomo nuovo e perfetto, Gesù, la biografia totale di Maria – dall’immacolato concepimento all’assunzione corporea nella gloria di Dio – rivela in pienezza il progetto divino sulla creatura umana. Modello e Madre, Maria aiuta in ciascuno dei discepoli il compimento del disegno dell’Eterno, manifestato in lei. La sua bellezza chiama e aiuta la nostra: in entrambe viene a parteciparsi l’infinita bellezza di Dio, Trinità Amore. L’essere umano, rivelato nella donna Maria, è sete del bello, che solo l’eterna bellezza potrà veramente appagare.
4. La “via pulchritudinis” e la luce di Maria assunta in cielo. Maria è dunque l’icona pura dell’infinita bellezza di Dio perché in lei, nella concretezza del suo essere donna, il Figlio eterno è venuto ad abitare nella carne come il Tutto in un frammento. La bellezza di Lei non è che l’irradiazione purissima della presenza di Lui, “il bel Pastore” (Gv 10,11), nel suo grembo accogliente. La verginità perpetua e la maternità divina sono in questo senso il punto di partenza di ogni affermazione circa la “Tota Pulchra”, come peraltro di ogni prerogativa e funzione di Maria. Da queste verità di fede – definite dai due dogmi mariani del primo millennio – si irradiano – come esplicitazione luminosa – le definizioni dogmatiche del secondo millennio riguardo all’immacolata concezione e alla gloriosa assunzione. Non è difficile cogliere la continuità profonda fra le quattro formulazioni dogmatiche, che rinviano tutte all’unità del mistero che si compie in Maria: se “la fede della Chiesa nella Divina Maternità e Verginità di Maria è inscindibilmente collegata con la fede in Cristo e la sua formulazione storico-dogmatica”[16], la formulazione dei cosiddetti dogmi “moderni”, partendo dallo stesso orizzonte cristologico, si muove all’interno del primario interesse antropologico dell’età moderna. Come la concentrazione sulla cristologia nei dibattiti della Chiesa antica reagiva al duplice riduzionismo, rispettivamente dell’umano e del divino in Cristo, propri delle eresie doceta e adozionista, così la domanda antropologica, che anima la riflessione teologica moderna si muove fra i due opposti estremismi della celebrazione della gloria di Dio a prezzo della negazione dell’uomo, caratteristica della Riforma, e della celebrazione della gloria dell’uomo a prezzo della morte di Dio, propria del “secolo dei Lumi”.
La continuità fra le quattro definizioni dogmatiche sta nel mantenimento dello scandalo cristologico quale riferimento normativo e fontale per ogni affermazione della fede: come il dogma dell’età patristica non ha dissolto il Cristo, ma ha mantenuto alto e puro il paradosso della convergenza in Lui della divinità con una umanità integra e vera nell’unità della persona divina, così il dogma mariano dell’età moderna non annulla la rivelazione e l’opera del Cristo, perché mantiene alto e puro il paradosso del rapporto fra l’umano e il divino che in Lui ci è stato partecipato. Se il dogma dell’Immacolata Concezione celebra l’assoluta gratuità dell’elezione divina, affermando in Maria – caso assolutamente singolare ed esemplare – la certezza che Dio viene sempre prima ed è sempre più grande, e reagisce così ad ogni presunzione totalizzante da parte della ragione umana, il dogma dell’assunzione della Vergine nella gloria celeste mostra l’altissima destinazione finale della creatura umana presso il Signore, e perciò la dignità e la responsabilità della persona, che nella libertà può accettare o meno di conseguire questa meta. Il paradosso cristologico è mantenuto intatto; la continuità è sostanziale, pur nella diversità di prospettive e di linguaggio.
Lo sviluppo del dogma mariano è allora “proprio uno sviluppo e non una ‘evoluzione’, cioè un cambiamento eterogeneo… Immacolata Concezione e Assunzione non sono il frutto di un nuovo messaggio di Dio, ma un’integrazione dei dati della storia della salvezza e del destino di Maria, secondo la luce dello Spirito, che illumina la pienezza di quel che Cristo ha insegnato (Gv 14,26 e 16,13)”[17], riguardo all’uomo e al suo destino. Come scrive Giovanni Paolo II nell’Enciclica Redemptoris Mater (1987) “col mistero dell’assunzione al Cielo si sono definitivamente attuati in Maria tutti gli effetti dell’unica mediazione di Cristo … A lui singolarmente unita nella sua prima venuta, per la sua continuata cooperazione con lui lo sarà anche in attesa della seconda: redenta nel modo più sublime in vista dei meriti del Figlio suo, ella ha anche quel ruolo, proprio della madre, di mediatrice di clemenza nella venuta definitiva, quando tutti coloro che sono di Cristo saranno vivificati, e ‘l’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte’ (1Cor 15,26). A tale esaltazione dell’‘eccelsa figlia di Sion’ mediante l’assunzione al Cielo, è connesso il mistero della sua eterna gloria” (n. 41). Nella varietà delle sue formulazioni dogmatiche, la fede della Chiesa riguardo a Maria contempla in Lei l’unico mistero salvifico dell’offrirsi del Tutto divino nel frammento della sua persona e della sua storia veramente umana: è la bellezza che deriva alla “Tota Pulchra” dal Suo Figlio che viene celebrata, tanto nell’affermarne la perpetua verginità e la divina maternità, quanto nell’attestarne l’immacolata concezione e l’assunzione in cielo.
In particolare, nel dogma dell’Assunta viene confessata la biografia totale di Maria, che dall’umiltà della scena dell’annunciazione giunge a partecipare in pienezza alla gloria del Dio tre volte Santo: la bellezza che si affacciava a Nazaret nella giovane donna coperta dall’ombra dell’Altissimo, risplende ora nella Sposa delle nozze eterne. Scriveva ancora Giovanni Paolo II: “Colei che all’annunciazione si è definita ‘serva del Signore’, è rimasta per tutta la vita terrena fedele a ciò che questo nome esprime… Per questo, Maria è diventata la prima tra coloro che, servendo a Cristo anche negli altri, con umiltà e pazienza conducono i loro fratelli al Re, servire al quale è regnare, ed ha conseguito pienamente quello stato di libertà regale, proprio dei discepoli di Cristo: servire vuol dire regnare! Cristo, fattosi obbediente fino alla morte e perciò esaltato dal Padre, è entrato nella gloria del suo Regno… Maria, serva del Signore, ha parte in questo Regno del Figlio. La gloria di servire non cessa di essere la sua esaltazione regale: assunta in Cielo, ella non termina quel suo servizio salvifico, in cui si esprime la mediazione materna, fino al perpetuo coronamento di tutti gli eletti” (ib.).
La Tutta Bella, assunta in cielo, si offre in tal modo ai credenti ed all’umanità intera quale segno di sicura speranza e pegno della partecipazione futura alla bellezza eterna, che in Lei si è resa accessibile nel Figlio. Maria ci mostra la meta, cui dobbiamo tendere, e la via, che lei per prima ha percorso: “In realtà, l’incarnazione del Verbo non può essere pensata a prescindere dalla libertà di questa giovane donna che con il suo assenso coopera in modo decisivo all’ingresso dell’Eterno nel tempo. Ella è la figura della Chiesa in ascolto della Parola di Dio che in lei si fa carne… ascolto attivo, che interiorizza, assimila, ed in cui la Parola diviene forma della vita” (Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Post-sinodale Verbum Domini, 2010, 27). Attraverso l’ascolto della Vergine – Madre il Verbo entra nel tempo: e sarà grazie alla fede di cui Lei è modello che il tempo potrà entrare nell’eternità, come vi è entrata Lei in pienezza nella sua assunzione corporea, quale segno e profezia per tutti noi. Perciò la Chiesa guarda all’Assunta come alla Madre della speranza, alla stella che orienta la navigazione dei pellegrini della fede sul grande mare della storia verso il porto dell’eternità.
“Con un inno dell’VIII/IX secolo – scrive Benedetto XVI concludendo l’Enciclica Spe salvi (2007) – la Chiesa saluta Maria, la Madre di Dio, come ‘stella del mare’: Ave maris stella. La vita umana è un cammino. Verso quale meta? Come ne troviamo la strada? La vita è come un viaggio sul mare della storia, spesso oscuro ed in burrasca, un viaggio nel quale scrutiamo gli astri che ci indicano la rotta. Le vere stelle della nostra vita sono le persone che hanno saputo vivere rettamente. Esse sono luci di speranza. Certo, Gesù Cristo è la luce per antonomasia, il sole sorto sopra tutte le tenebre della storia. Ma per giungere fino a Lui abbiamo bisogno anche di luci vicine – di persone che donano luce traendola dalla sua luce ed offrono così orientamento per la nostra traversata. E quale persona potrebbe più di Maria essere per noi stella di speranza – lei che con il suo ‘sì’ aprì a Dio stesso la porta del nostro mondo?” (n. 49). A Lei, assunta negli splendori eterni, “Madre della speranza”, si rivolge perciò Benedetto XVI, facendosi voce dell’invocazione di tutti i credenti, pellegrini verso la patria: “Santa Maria, Madre di Dio, Madre nostra, insegnaci a credere, sperare ed amare con te. Indicaci la via verso il suo regno! Stella del mare, brilla su di noi e guidaci nel nostro cammino!” (n. 50). A Maria, associata alla gloria del Figlio, contemplata nella sua biografia totale, canta così la fede della Chiesa nei secoli: “Tota pulchra es, Maria / Et macula originalis non est in Te / Vestimentum tuum candidum quasi nix, / et facies tua sicut sol / Tu gloria Ierusalem / Tu laetitia Israel / Tu honorificentia populi nostri / Tu advocata peccatorum” – “Tutta bella sei, Maria, / e il peccato originale non è in te / La tua veste è bianca come la neve / e il Tuo volto come il sole / Tu gloria di Gerusalemme, / tu letizia d’Israele, / tu onore del nostro popolo, / tu avvocata dei peccatori”.
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1) Gloria. 1. La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1975, 217.
2) Ib., 11
3) La donna e la salvezza del mondo, Jaca Book, Milano 1980, 13.
4) Paolo VI, Discorso per la chiusura del VII Congresso mariologico e l’inizio del XIV Congresso mariano, Roma 16.5.1975.
5) Cf. Images et visages de Marie. Étude pluridisciplinaire sur la «via pulchritudinis», in Études mariales 32-33 (1975-1976) 5-84; D. M. Turoldo – S. De Fiores, Bellezza, in NDM 222-231.
6) Ho cercato di offrirne un esempio nel mio volume Maria la donna icona del Mistero. Saggio di mariologia simbolico – narrativa, Milano 19892.
7) S. Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, III, 12: PG 94,1O29 C.
8) P. Evdokimov, La donna e la salvezza del mondo, o.c., 54 e 216.
9) P. Evdokimov, La donna e la salvezza del mondo, o.c., 133. Cf. dello stesso, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona , Paoline, Roma 19823.
10) Cf. Rm 16,25; 1Cor 2,7s; Ef 1,9; 3,3; 6,19; Col 1,25-27; 1Tm 3,16.
11) Si tratta di una scena di significato trinitario: “La sua struttura narrativa rivela in un modo assolutamente chiaro per la prima volta la Trinità di Dio”: H. Urs von Balthasar, Maria nella dottrina e nel culto della Chiesa, in J. Ratzinger – H. Urs von Balthasar, Maria Chiesa nascente, Paoline, Roma 1981, 48s.
12) S. Luigi M. Grignion da Montfort, Trattato della vera devozione alla Santa Vergine, in Id., Opere, 1, Edizioni Monfortane, Roma 1990, n. 5.
13) H. de Lubac, Meditazione sulla Chiesa, Paoline, Milano 1965, 392s.
14) H. Rahner, Maria e la Chiesa, Paoline, Milano 1974, 79 e 68.
15) Cf. H. Rahner, Mysterium Lunae, in Id., L’ecclesiologia dei Padri. Simboli della Chiesa, Paoline, Roma 1971, 145-287.
16) G. Söll, Storia dei dogmi mariani, LAS, Roma 1981, 17.
17) R. Laurentin, La Vergine Maria, o.c., 187s.

Publié dans:Arcivecovi e Vescovi, Maria Vergine |on 20 décembre, 2010 |Pas de commentaires »
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