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DAL BISOGNO ALLA SOVRABBONDANZA

http://www.caritas-ticino.ch/about_us/storia2.htm

Il Vescovo Eugenio Corecco ha sviluppato l’idea che “La carità non ha come misura il bisogno dell’altro, ma la ricchezza dell’amore di Dio” in due momenti che ricordiamo con commozione, il primo nel 1991 parlando all’equipe di Caritas Ticino e il secondo un anno dopo al convegno del cinquantesimo, pubblicato sul libro “Diocesi di Lugano e Carità: sguardo al futuro” titolo anche della sua relazione. Li leggiamo qui di seguito.

DAL BISOGNO ALLA SOVRABBONDANZA

Mons. Eugenio Corecco , vescovo di Lugano, partecipando all’incontro di formazione degli operatori di Caritas Ticino del 14 giugno 1991, ripercorrendo i cento anni di dottrina sociale della chiesa, dalla Rerum Novarum alla Centesimus Annus, ha sviluppato il concetto di carità, solidarietà e comunione quale punto nodale dell’intervento sociale del cristiano che non può accontentarsi della nozione di giustizia: la risposta al bisogno sociale deve essere una risposta « sovrabbondante » al bisogno più profondo della persona.

La dignità dell’uomo
Così il vescovo Corecco si esprimeva: « I problemi del mondo, come i problemi delle nostre singole persone tra di loro, non sono risolvibili con la semplice nozione di giustizia. La nozione di giustizia ci fa fare la guerra: io prendo quello che mi spetta; la nozione di solidarietà mi aiuta ad affrontare la situazione in modo diverso mettendo prima di tutto in discussione la mia posizione e la mia persona. L’elemento fondamentale per ogni discorso sociale è che ciò che conta è la dignità dell’uomo, ciò che produce l’ingiustizia è il non rispetto della dignità dell’uomo, ma questa dignità dell’uomo può essere colta solo se si capisce che l’uomo si realizza, realizza il suo destino, attraverso la solidarietà, attraverso la gratuità e per finire in un rapporto di carità o di comunione con le altre persone. La carità, dunque la Caritas come una delle forme istituzionalizzate di questo discorso, è la denuncia del mondo, la denuncia più radicale, perché si può fare la rivoluzione per la giustizia e va bene, si può denunciare l’ingiustizia del mondo, però se si pongono veramente dei gesti di carità personale verso le altre persone, si contesta il mondo a un livello più radicale, si contesta una moralità laica che teorizza l’individualismo: per cui la carità è la forma più profonda, più radicale, inappellabile in fondo, di denuncia del mondo. »

La sovrabbondanza di Cristo
« Per capire che cos’è la solidarietà, la carità, la comunione, bisogna pensare che non hanno come misura, contrariamente alla giustizia, il diritto dell’altro: io sono giusto quando rispetto il diritto di quell’altro, per cui è il diritto dell’altro che determina il mio comportamento. La solidarietà e la carità non hanno come metro di misura il bisogno dell’altro, ma hanno come metro di misura la sovrabbondanza con la quale Cristo si è manifestato tra gli uomini. Per salvare l’umanità Dio non aveva bisogno di fare assolutamente niente, ma ha mandato il Figlio a morire sulla croce. Dunque c’è dentro una sovrabbondanza che è totale, perché non era necessario parlando in termini puramente filosofici: se Dio vuole salvare il mondo lo salva, lo dichiara salvo, fa un pensiero, dichiara salvo il mondo, lo perdona. Ma ha manifestato questo fatto attraverso una sovrabbondanza inimmaginabile tanto che fa scandalo,- si parla dello « scandalo della croce ». La croce è uno scandalo perché non si capisce come Dio possa essere morto sulla croce: in effetti non si capisce, uno ci crede o non ci crede, ma non lo può capire nessuno. Si può capire che è avvenuto un fatto dell’altro mondo, ma si comincia a dubitarne perché è fuori dalle categorie umane; quindi uno ci crede o non ci crede. Comunque la croce fa scandalo proprio per la sovrabbondanza, per cui la misura della carità non è il bisogno che incontriamo. Il bisogno che incontriamo ci provoca e dobbiamo partire da quello, ma di per sé non possiamo limitarci a quello, perché siamo chiamati a qualche cosa di più, ad essere sovrabbondanti. Questo è un altro modo per dire le dimensioni e la natura della solidarietà, della carità e della comunione.

Inadeguatezza e conversione
Magari nella vita riusciamo a realizzare solo un millimetro di questa cosa, ma l’importante è realizzare quel millimetro che ci sentiamo, di realizzare. Poi ogni persona ha dentro una chiamata sua e gli è data la capacità di realizzare due millimetri, tre millimetri, ma non è quello che conta. Quello che conta è la premessa per realizzare anche solo un millimetro e realizzarlo in termini veramente organici a quello che la Caritas può essere e deve essere. L’importante è capirlo, intravedere il valore di questo discorso, intravedere la sublimità, la sovrabbondanza del discorso in quanto tale. Guardando la persona di Cristo che manifesta Dio nella storia, primogenito di tutte le creature, nel senso che è l’uomo per eccellenza, guardando lui possiamo capire cosa siamo di per sé chiamati a fare. Dovrei scoraggiare me stesso per primo, perché tutti siamo inadeguati, ma il problema è di accettare che dovrebbe essere così e dobbiamo misurarci con questo fatto e con questi valori. In questo sta la conversione. Altrimenti riduciamo il tutto a una piccola cucina di cose da fare, di cose da tralasciare, a un moralismo che non ci salva, che non salva la nostra persona. Se la nostra persona entra in una dinamica di questo tipo, allora e come se avesse, una radice in più per vivere. Vive con dentro una prospettiva, un risvolto, una forza dunque, una virtù che le restituisce tutte le potenzialità umane. L’uomo è grande, è a immagine e somiglianza di Dio, dice la Bibbia, vuol dire che è capace di queste cose, può vivere questi valori come Cristo Figlio di Dio ha vissuto questi valori, per cui è immagine e somiglianza per quello. La dignità dell’uomo è dentro questa possibilità di grandezza. I Santi sono persone che hanno vissuto una umanità incredibile, anche se socialmente non contavano niente ».

DIOCESI DI LUGANO E CARITÀ: SGUARDO AL FUTURO
(estratto dal libro del 50° di Caritas Ticino pag. 199)
Mons. Eugenio Corecco
L’assillo di guardare al futuro, « alla ricerca di strade nuove per esprimere la carità », potrebbe nascere da un nostro dubbio interiore.
La carità è ancora atta a garantire la presenza della Chiesa nella società tenendo conto del contributo che essa deve dare alla soluzione dei problemi sociali del mondo contemporaneo? Una risposta semplicistica e perciò palesemente inadeguata, potrebbe essere quella di ricordare che la Chiesa, in realtà, dà il suo contributo alla soluzione dei problemi sociali non solo attraverso la Caritas, ma anche e soprattutto attraverso i sindacati cristiani, i quali, da sempre, lottano per la realizzazione della giustizia sociale.
Questa risposta potrebbe ingenerare l’equivoco di credere che il sindacato cristiano sia preposto alla realizzazione della giustizia, mentre la carità e la Caritas abbiano, come compito, solo quello di garantire il superfluo. Di qui il dubbio sottile, eventualmente contenuto nella formulazione del tema di questo Convegno.
In una società che pretende (almeno nei paesi ricchi come il nostro) di realizzare in modo sempre più globale il Walfare State (malgrado le ricorrenti crisi congiunturali), in uno Stato cioè sempre più sociale, la Caritas ha ancora una prospettiva di avvenire? Per definizione, infatti, il superfluo potrebbe anche non esistere, mentre sempre essenziale e imprescindibile è la giustizia.
Ma noi sappiamo che per il cristiano la virtù della carità non appartiene al novero delle cose superflue. Il pilastro fondamentale della vita del cristiano non sono le quattro virtù cardinali della prudenza, giustizia, fortezza e temperanza (formulate dalla filosofia stoica, da Seneca in particolare) e recepite anche dal pensiero cristiano. Il pilastro fondamentale della vita del cristiano sono le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità.
La carità appartiene perciò all’essenza stessa dell’esperienza cristiana. Non è possibile, di conseguenza, per il cristiano, regredire semplicemente al livello della pratica delle virtù cardinali (cui appartiene anche la giustizia) e muoversi perciò solo sul terreno della razionalità umana e del diritto naturale, prescindendo dalla pratica della carità, che appartiene all’ambito della esperienza soprannaturale, cioè della redenzione e della grazia.
La carità non coincide con il superfluo, è l’essenza stessa della vita del cristiano. Costituisce perciò l’elemento essenziale della presenza del cristiano e della Chiesa nel mondo e del suo contributo alla realizzazione del bene comune.
Non esiste dubbio sul futuro della carità e perciò, in modo derivato, della Caritas, in quanto forma istituzionalizzata per attivare questa virtù teologale. La Caritas è un albero che non può essere tagliato; anzi, deve crescere e dare frutti sempre più abbondanti, così come ci insegna la parabola del Vangelo. Siamo tuttavia tutti consapevoli che, in una cultura positivista come quella in cui viviamo, un argomento « a priori » non ha più la forza convincente di un tempo. Dobbiamo di conseguenza reperire la risposta alla nostra domanda, percorrendo altri itinerari di ricerca.
La dottrina sociale della Chiesa che, paradossalmente, sembrereb be essere stata elaborata per porre le fondamenta di una concezione cristiana non della carità, ma della giustizia, ha subito, proprio su questa tematica, una profonda evoluzione.
La svolta nevralgica è avvenuta nel 1963 quando Papa Giovanni XXIII, nella Pacem in Terris, per fondare la dignità della persona umana non ha più utilizzato solo gli argomenti classici della filosofia, ma ha fatto ricorso anche alla Rivelazione. Il fondamento ultimo della dignità della persona umana, salvata dal sangue di Cristo versato sulla croce, sta nella sua filiazione divina.
Questa argomentazione di Giovanni XXIII ha introdotto nella dottrina sociale un nuovo criterio epistemologico. Da quello puramente filosofico razionale (sia pure illuminato dalla fede), il Magistero pontificio è passato alla adozione di una conoscenza direttamente derivata dalla Rivelazione, perciò dalla fede. Dalla filosofia è avvenuta una evoluzione verso la teologia.
Il risultato è sorprendente. Se la prima pagina della dottrina sociale della Chiesa, quella scritta da Leone XIII con la « Rerum Novarum » parla della giustizia, l’ultima pagina della stessa, se si prescinde dalla « Centesimus annus », quella scritta da Papa Giovanni Paolo II, cinque anni or sono, con la
« Sollicitudo Rei Socialis », propone il discorso della carità. Per liberare il proletariato dalla schiavitù in cui, nel secolo scorso (secolo del progresso), era stato assoggettato dal mondo padronale, Leone XIII ha invocato il criterio della giustizia e, su questa linea, si sono mossi anche i Papi successivi. Pio XI, commemorando la « Rerum Novarum », quarant’anni dopo (1931), con la « Quadragesimus Annus », affermava ancora, e giustamente, che non si può nascondere l’ingiustizia con la carità e che alla carità non spetta l’obbligo di coprire con un velo la violazione della giustizia.
Tutto ciò è profondamente vero, ma è evidente che in quel contesto il discorso sulla giustizia e sulla carità erano ancora condotti su due piani diversi, senza convergere verso una sintesi. Ciò dipende dal fatto che l’analisi della situazione di ingiustizia sociale, in cui versava la società, era fatta con criteri di natura prevalentemente economica e politica, mentre nella « Sollicitudo Rei Socialis », Papa Giovanni Paolo II ha introdotto un altro criterio di analisi.
Nel solco di Papa Giovanni XXIII, che, come abbiamo visto, aveva dichiarato la Redenzione di Cristo quale fondamento ultimo della dignità della persona umana, Giovanni Paolo II, nei numeri 35 40 della « Sollicitudo Rei Socialis », invece di una lettura economica, ha dato una lettura teologica delle cause della ingiustizia sociale esistente nel mondo.
Papa Giovanni Paolo II sostiene che la radice più profonda dei disordini sociali non è di natura economica o politica, ma di natura morale e teologica. Alla radice sta il peccato personale degli uomini; stanno le « strutture di peccato » che via via si sono consolidate nella società, ma alla cui origine emerge sempre il peccato personale dell’uomo.
La nozione di peccato non è filosofica, ma teologica, poiché il peccato noN ha come referente valori impersonali, come potrebbe essere per es. quello della giustizia, ma sempre il Dio personale; anzi, il Dio trinitario, dal cui seno si è rivelato il Figlio, nella incarnazione, per portare all’uomo la Grazia della redenzione.
Con la « Sollicitudo Rei Socialis » la dottrina sociale della Chiesa è stata così collocata all’interno del binomio con il quale da sempre è stata fatta la lettura cristiana della storia: il binomio del peccato e della Grazia. La Grazia, intesa come perdono e aiuto dell’uomo, per la conversione del suo cuore.
La storia dell’umanità, in effetti, è la storia del coinvolgimento di tutti gli uomini nelle conseguenze, sia del peccato che della Grazia.
Il coinvolgimento nel peccato si realizza, socialmente e politicamente, nelle « strutture di peccato » che creano condizionamenti e ostacoli per la realizzazione del bene comune e dello sviluppo dei popoli.
Il coinvolgimento della Grazia avviene, socialmente e politicamente, nella solidarietà tra gli uomini. Quello della solidarietà è l’unico criterio possibile per superare la brama del profitto e la sete del potere, in quanto aspetti negativi più caratteristici della vita sociale contemporanea. Si tratta, infatti, di una solidarietà che deve realizzarsi non solo tra le singole persone, ma anche tra i gruppi intermedi e tra le nazioni, tra Nord e Sud; di una solidarietà intesa come opzione preferenziale per i poveri, nel senso non solo materiale ma anche spirituale della parola.
Dalla nozione di giustizia, la dottrina sociale della Chiesa è evoluta perciò verso la nozione di solidarietà.
Ma di quale solidarietà intende parlare la « Sollicitudo Rei Socialis? » La solidarietà è senza dubbio una virtù umana, che potrebbe essere anche annoverata accanto alle quattro virtù cardinali già menzionate, attorno alle quali Seneca ha tentato la sintesi di tutta la sua filosofia morale.
Tuttavia, la solidarietà, afferma Giovanni Paolo II, tende a superare se stessa per rivestire la dimensione specificamente cristiana della gratuità totale, e perciò della carità, che è il segno distintivo dei discepoli di Cristo (Gv 13, 35). Il re ferente di questa solidarietà cristiana non è più perciò soltanto l’individuo umano, con i suoi diritti e la sua fondamentale uguaglianza rispetto a tutti, ma l’uomo, in quanto viva immagine di Dio Padre; in quanto persona riscattata dal sangue di Cristo e posta sotto l’azione permanente dello Spirito Santo.
Questo uomo, non più definito filosoficamente, ma teologicamente, deve essere amato, anche se nemico, con lo stesso amore con cui lo ama il Signore. Per lui bisogna essere disposti anche al sacrificio supremo: « dare la vita per i propri fratelli » (1 Gv 3, 13). Non è un caso che la « Sollicitudo Rei Socialis », a sostegno di questi concetti, introduce l’esempio di Massimiliano Kolbe, che ha dato la vita per un uomo a lui estraneo, in nome di Cristo, considerandolo come fratello.
Su questa base teologica si prospetta l’emergere di un nuovo modello di solidarietà e di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi l’azione sociale del cristiano. Un modello che va al di là dei vincoli umani naturali, poiché ha come fondamento la carità. Per la prima volta nella dottrina sociale della Chiesa, la « Sollicitudo Rei Socialis » propone al mondo, come modello di riferimento, la forma della socialità tipica dell’esperienza cristiana; propone la comunione come modello per realizzare il bene comune di tutta l’umanità.
Se la Chiesa osa segnalare il proprio modello di comunione come esempio valido universalmente per realizzare la giustizia sociale, lo fa perché possiede la coscienza di essere chiamata dal Signore ad essere, come dice la Lumen Gentium, segno e sacramento di salvezza per il mondo intero.
« I meccanismi perversi » della società e le « strutture di peccato » potranno essere vinte, afferma la « Sollicitudo Rei Socialis », solo mediante l’esercizio della solidarietà umana che, per il cristiano, può logicamente configurarsi solo come comunione e perciò solo come frutto della carità.
A questo punto non possiamo non sottrarci, ancora una volta, ad una domanda precisa: ma cos’è la carità?
Come per la solidarietà, anche in merito alla carità le possibilità di equivoco sono grandi.
La carità non consiste solo nel fare qualche cosa per gli altri. È più di questo. Non può essere confusa con altruismo. Il fare, l’agire, l’intervenire, il dare, sono solo i modi in cui si realizza la carità, non sono la sua origine.
Non rileggeremo mai con sufficiente attenzione il celebre testo del cap. 13 della prima lettera ai Corinzi: « Anche se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli… anche se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza… anche se trasportassi le montagne con la fede, ma non avessi la carità, non sarei niente. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo alle fiamme per gli altri, ma non avessi la carità, non mi gioverebbe a nulla ».
È un testo che non lascia scampo. Il cristiano in quanto cristiano, non è nulla anche se facesse le cose più grandi di questo mondo, anche se distribuisse tutti i suoi beni in elemosina, o realizzasse la perfetta giustizia sociale. Non saremmo nulla, poiché per vocazione non siamo stati chiamati a dare o a realizzare la giustizia in quanto tale o a praticare l’elemosina, bensì a condividere con gli altri la nostra persona, in nome di Cristo.
La virtù teologale della carità esige dal cristiano di riconoscere l’altro come parte di se stesso; parte della propria persona e della propria umanità. Il cristiano deve lasciarsi determinare dal fatto che Cristo, sulla croce, ha stabilito un’unità oggettiva tra lui e gli altri. Il punto genetico della carità sta nel riconoscere l’unità stabilita tra gli uomini da Gesù Cristo. Il cristiano è chiamato ad amare l’uomo ed a fare unità con lui e, così, a realizzare anche la giustizia sociale, non grazie alla propria generosità, ma in nome di Gesù Cristo. La carità consiste nell’aprirsi all’altro, non in nome dei propri sentimenti naturali, ma in nome di Gesù Cristo. Per questo il cristiano è chiamato addirittura ad amare anche il suo nemico.
La carità è, di conseguenza, un gesto che nasce da una concezione diversa di noi stessi. Il punto che siamo perciò chiamati a convertire è prima di tutto la concezione che abbiamo di noi stessi. Una concezione capace di generare in noi una coscienza nuova circa la nostra persona, diversa da quella presente nel mondo.
La carità, così intesa, è la conseguenza della nostra adesione, nella fede, alla persona di Gesù Cristo, e della nostra speranza circa il fatto che, come afferma S. Paolo, « le tribolazioni del tempo presente sono senza paragone rispetto alla gloria che ci attende nella vita futura » (Rm 8, 18).
Solo in forza delle virtù teologali della fede, della speranza e della carità è possibile per il cristiano valutare in modo adeguato il destino globale dell’uomo. Sono i criteri che ci permettono di realizzare questo destino, dando una risposta adeguata anche alla « questione sociale ».
La nozione di solidarietà, proposta dalla « Sollicitudo Rei Socialis », sfocia nella nozione di comunione e di carità cristiana, superando tutti gli schemi dottrinali precedenti. Rimane evidentemente vero che non è possibile praticare la carità se non si realizza la giustizia, ma l’enciclica « Sollicitudo Rei socialis » afferma chiaramente anche che, per il cristiano, la giustizia deve essere vissuta e realizzata come, e in forza della carità. È l’insegnamento inequivocabile di S. Paolo: « Anche se dessi tutti i miei beni agli altri, ma non avessi la carità, non sarei nulla ».
Perché nulla? Perché senza la carità non mi porrei come segno di Cristo di fronte alle esigenze di giustizia sociale presenti nel mondo. In quanto cristiani siamo, infatti, chiamati a rendere presente Cristo nel mondo.
Attraverso ogni intervento sociale siamo chiamati a porre nel mondo un segno rivelatore della salvezza.
Il vero problema perciò non è quello di sapere se continuerà ad esistere, anche in avvenire, uno spazio di intervento sociale per la Caritas, ma piuttosto di riuscire a precisare sempre meglio la sua modalità di intervento nel mondo. La Caritas, in effetti, ha come missione di essere lo strumento istituzionale attraverso il quale la Chiesa interviene nel mondo, ponendosi esplicitamente come attuazione concreta delle virtù teologali e, in particolare, della carità.
I settori e i criteri d’intervento della Caritas, in seno alla società, possono cambiare, come, del resto, sono costantemente cambiati, anche nel corso di questo primo mezzo secolo di esistenza della nostra Caritas diocesana. L’esperienza non lascia nessun dubbio sul fatto che in via primaria, oppure anche solo in via di supplenza rispetto alla società civile e allo Stato, esisterà sempre uno spazio di intervento specifico della Caritas. Ciò è vero anche nell’ipotesi che avvenisse una totale realizzazione del Welfare State.
La ragione sta sia nel fatto che l’uomo è irriducibile ad un progetto culturale, sociale e politico di ogni tipo, sia nel fatto che l’amore per il prossimo è costitutivo dell’esperienza cristiana. La Caritas ha perciò un ruolo insopprimibile, indipendentemente dal fatto che si esprima secondo forme istituzionalizzate oppure solo individuali.
Il problema dell’avvenire non è quello della sopravvivenza della Caritas in quanto istituzione. Sarà sempre possibile individuare nuovi bisogni dell’uomo e della società e nuovi spazi d’intervento. Il vero problema è quello di riuscire a fare della Caritas un’espressione sempre più eloquente della missione pastorale della Chiesa. Anche se la Caritas copre un settore particolare, non può mai limitarsi a fare gesti solo particolari. Ogni gesto deve, nella misura del possibile, contenere ed esprimere il tutto.
La transizione, nella dottrina sociale della Chiesa, da una visione d’intervento fondata sul diritto naturale e perciò sulla virtù della giustizia, ad una visione fondata sulla solidarietà cristiana e perciò sulla comunione e la carità, rende il ruolo della Caritas insostituibile, perché è chiamata a realizzare non solo la giustizia umana, ma la solidarietà cristiana, che nella sua espressione più precisa assume la caratteristica della comunione e della carità.
Qualunque dovesse essere la natura e il settore dei suoi interventi in campo sociale, la Caritas è chiamata, con urgenza sempre più grande, ad esprimere nella società due valori specifici del cristianesimo, la cui rilevanza sociale non è misurabile infatti con criteri puramente razionali.
Il primo è la gratuità verso l’uomo in difficoltà, poiché è stata gratuita anche la redenzione offertaci da Cristo. Il secondo è quello dell’eccedenza, poiché eccedente è l’amore di Cristo verso di noi. La carità non ha come misura il bisogno dell’altro, ma la ricchezza e l’amore di Dio.
È, infatti, limitante guardare all’uomo e valutarlo a partire dal suo bisogno, poiché l’uomo è di più del suo bisogno e l’amore di Cristo è più grande del nostro bisogno.
Sarà sempre possibile dare nei confronti dell’uomo e dei suoi bisogni, spirituali e materiali, una testimonianza di gratuità e di eccedenza. Anzi, è un dovere al quale siamo chiamati in forza della nostra vocazione cristiana.
Ne consegue, più che mai, che la carità, anche nella forma istituzionale assunta nella Caritas, non può essere eliminata dall’esperienza di una Chiesa particolare e non può perciò essere eliminata dalla nostra Diocesi.

Eugenio Corecco, vescovo della diocesi di Lugano dal 1986, dr. jur. can. già professore all’Università di Friborgo e all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, presidente della Consociatio internationalis Studio Juris Canonici Promovendo, fondatore nel 1992 e Gran Cancelliere dell’Istituto Accademico di Teologia di Lugano.

 

Publié dans:Arcivecovi e Vescovi, CARITAS |on 4 juin, 2015 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – L’ASSEMBLEA STRAORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI SULLA FAMIGLIA

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2014/documents/papa-francesco_20141210_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO UDIENZA GENERALE.10 DICEMBRE 2014

Piazza San Pietro

Mercoledì, 10 dicembre 2014 – -

L’Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia

Cari fratelli e sorelle, buongiorno.

abbiamo concluso un ciclo di catechesi sulla Chiesa. Ringraziamo il Signore che ci ha fatto fare questo cammino riscoprendo la bellezza e la responsabilità di appartenere alla Chiesa, di essere Chiesa, tutti noi.
Adesso iniziamo una nuova tappa, un nuovo ciclo, e il tema sarà la famiglia; un tema che si inserisce in questo tempo intermedio tra due Assemblee del Sinodo dedicate a questa realtà così importante. Perciò, prima di entrare nel percorso sui diversi aspetti della vita familiare, oggi desidero ripartire proprio dall’Assemblea sinodale dello scorso mese di ottobre, che aveva questo tema: “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto della nuova evangelizzazione”. E’ importante ricordare come si è svolta e che cosa ha prodotto, come è andata e che cosa ha prodotto.
Durante il Sinodo i media hanno fatto il loro lavoro – c’era molta attesa, molta attenzione – e li ringraziamo perché lo hanno fatto anche con abbondanza. Tante notizie, tante! Questo è stato possibile grazie alla Sala Stampa, che ogni giorno ha fatto un briefing. Ma spesso la visione dei media era un po’ nello stile delle cronache sportive, o politiche: si parlava spesso di due squadre, pro e contro, conservatori e progressisti, eccetera. Oggi vorrei raccontare quello che è stato il Sinodo.
Anzitutto io ho chiesto ai Padri sinodali di parlare con franchezza e coraggio e di ascoltare con umiltà, dire con coraggio tutto quello che avevano nel cuore. Nel Sinodo non c’è stata censura previa, ma ognuno poteva – di più doveva – dire quello che aveva nel cuore, quello che pensava sinceramente. “Ma, questo farà discussione”. E’ vero, abbiamo sentito come hanno discusso gli Apostoli. Dice il testo: è uscita una forte discussione. Gli Apostoli si sgridavano fra loro, perché cercavano la volontà di Dio sui pagani, se potevano entrare in Chiesa o no. Era una cosa nuova. Sempre, quando si cerca la volontà di Dio, in un’assemblea sinodale, ci sono diversi punti di vista e c’è la discussione e questo non è una cosa brutta! Sempre che si faccia con umiltà e con animo di servizio all’assemblea dei fratelli. Sarebbe stata una cosa cattiva la censura previa. No, no, ognuno doveva dire quello che pensava. Dopo la Relazione iniziale del Card. Erdö, c’è stato un primo momento, fondamentale, nel quale tutti i Padri hanno potuto parlare, e tutti hanno ascoltato. Ed era edificante quell’atteggiamento di ascolto che avevano i Padri. Un momento di grande libertà, in cui ciascuno ha esposto il suo pensiero con parresia e con fiducia. Alla base degli interventi c’era lo “Strumento di lavoro”, frutto della precedente consultazione di tutta la Chiesa. E qui dobbiamo ringraziare la Segreteria del Sinodo per il grande lavoro che ha fatto sia prima che durante l’Assemblea. Davvero sono stati bravissimi.
Nessun intervento ha messo in discussione le verità fondamentali del Sacramento del Matrimonio, cioè: l’indissolubilità, l’unità, la fedeltà e l’apertura alla vita (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 48; Codice di Diritto Canonico, 1055-1056). Questo non è stato toccato.
Tutti gli interventi sono stati raccolti e così si è giunti al secondo momento, cioè una bozza che si chiama Relazione dopo la discussione. Anche questa Relazione è stata svolta dal Cardinale Erdö, articolata in tre punti: l’ascolto del contesto e delle sfide della famiglia; lo sguardo fisso su Cristo e il Vangelo della famiglia; il confronto con le prospettive pastorali.
Su questa prima proposta di sintesi si è svolta la discussione nei gruppi, che è stato il terzo momento. I gruppi, come sempre, erano divisi per lingue, perché è meglio così, si comunica meglio: italiano, inglese, spagnolo e francese. Ogni gruppo alla fine del suo lavoro ha presentato una relazione, e tutte le relazioni dei gruppi sono state subito pubblicate. Tutto è stato dato, per la trasparenza perché si sapesse quello che accadeva.
A quel punto – è il quarto momento – una commissione ha esaminato tutti i suggerimenti emersi dai gruppi linguistici ed è stata fatta la Relazione finale, che ha mantenuto lo schema precedente – ascolto della realtà, sguardo al Vangelo e impegno pastorale – ma ha cercato di recepire il frutto dalle discussioni nei gruppi. Come sempre, è stato approvato anche un Messaggio finale del Sinodo, più breve e più divulgativo rispetto alla Relazione.
Questo è stato lo svolgimento dell’Assemblea sinodale. Alcuni di voi possono chiedermi: “Hanno litigato i Padri?”. Ma, non so se hanno litigato, ma che hanno parlato forte, sì, davvero. E questa è la libertà, è proprio la libertà che c’è nella Chiesa. Tutto è avvenuto “cum Petro et sub Petro”, cioè con la presenza del Papa, che è garanzia per tutti di libertà e di fiducia, e garanzia dell’ortodossia. E alla fine con un mio intervento ho dato una lettura sintetica dell’esperienza sinodale.
Dunque, i documenti ufficiali usciti dal Sinodo sono tre: il Messaggio finale, la Relazione finale e il discorso finale del Papa. Non ce ne sono altri.
La Relazione finale, che è stata il punto di arrivo di tutta la riflessione delle Diocesi fino a quel momento, ieri è stata pubblicata e viene inviata alle Conferenze Episcopali, che la discuteranno in vista della prossima Assemblea, quella Ordinaria, nell’ottobre 2015. Dico che ieri è stata pubblicata – era già stata pubblicata -, ma ieri è stata pubblicata con le domande rivolte alle Conferenze Episcopali e così diventa proprio Lineamenta del prossimo Sinodo.
Dobbiamo sapere che il Sinodo non è un parlamento, viene il rappresentante di questa Chiesa, di questa Chiesa, di questa Chiesa… No, non è questo. Viene il rappresentante, sì, ma la struttura non è parlamentare, è totalmente diversa. Il Sinodo è uno spazio protetto affinché lo Spirito Santo possa operare; non c’è stato scontro tra fazioni, come in parlamento dove questo è lecito, ma un confronto tra i Vescovi, che è venuto dopo un lungo lavoro di preparazione e che ora proseguirà in un altro lavoro, per il bene delle famiglie, della Chiesa e della società. E’ un processo, è il normale cammino sinodale. Ora questa Relatio torna nelle Chiese particolari e così continua in esse il lavoro di preghiera, riflessione e discussione fraterna al fine di preparare la prossima Assemblea. Questo è il Sinodo dei Vescovi. Lo affidiamo alla protezione della Vergine nostra Madre. Che Lei ci aiuti a seguire la volontà di Dio prendendo le decisioni pastorali che aiutino di più e meglio la famiglia. Vi chiedo di accompagnare questo percorso sinodale fino al prossimo Sinodo con la preghiera. Che il Signore ci illumini, ci faccia andare verso la maturità di quello che, come Sinodo, dobbiamo dire a tutte le Chiese. E su questo è importante la vostra preghiera.

 

SAN CARLO BORROMEO VESCOVO – 4 NOVEMBRE

http://www.santiebeati.it/dettaglio/24950

SAN CARLO BORROMEO VESCOVO

4 NOVEMBRE

Arona, Novara, 1538 – Milano, 3 novembre 1584

Nato nel 1538 nella Rocca dei Borromeo, sul Lago Maggiore, era il secondo figlio del Conte Giberto e quindi, secondo l’uso delle famiglie nobiliari, fu tonsurato a 12 anni. Studente brillante a Pavia, venne poi chiamato a Roma, dove venne creato cardinale a 22 anni. Fondò a Roma un’Accademia secondo l’uso del tempo, detta delle «Notti Vaticane». Inviato al Concilio di Trento, nel 1563 fu consacrato vescovo e inviato sulla Cattedra di sant’Ambrogio di Milano, una diocesi vastissima che si estendeva su terre lombarde, venete, genovesi e svizzere. Un territorio che il giovane vescovo visitò in ogni angolo, preoccupato della formazione del clero e delle condizioni dei fedeli. Fondò seminari, edificò ospedali e ospizi. Utilizzò le ricchezze di famiglia in favore dei poveri. Impose ordine all’interno delle strutture ecclesiastiche, difendendole dalle ingerenze dei potenti locali. Un’opera per la quale fu obiettivo di un fallito attentanto. Durante la peste del 1576 assistette personalmente i malati. Appoggiò la nascita di istituti e fondazioni e si dedicò con tutte le forze al ministero episcopale guidato dal suo motto: «Humilitas». Morì a 46 anni, consumato dalla malattia il 3 novembre 1584. (Avvenire)

Patronato: Catechisti, Vescovi
Etimologia: Carlo = forte, virile, oppure uomo libero, dal tedesco arcaico
Emblema: Bastone pastorale

Martirologio Romano: Memoria di san Carlo Borromeo, vescovo, che, fatto cardinale da suo zio il papa Pio IV ed eletto vescovo di Milano, fu in questa sede vero pastore attento alle necessità della Chiesa del suo tempo: indisse sinodi e istituì seminari per provvedere alla formazione del clero, visitò più volte tutto il suo gregge per incoraggiare la crescita della vita cristiana ed emanò molti decreti in ordine alla salvezza delle anime. Passò alla patria celeste il giorno precedente a questo.
(3 novembre: A Milano, anniversario della morte di san Carlo Borromeo, vescovo, la cui memoria si celebra domani).
Nella storia civile e anche in quella della Chiesa troviamo vari personaggi cui i posteri hanno decretato il titolo di Magno. Non li enumero qui perché sono facili da ricordare e poi non sono moltissimi. Al santo che vi presento, San Carlo Borromeo, non è stato dato il titolo di Grande, ma secondo me lo meriterebbe, almeno nell’ambito della storia ecclesiastica. È un personaggio centrale del 1500, una delle figure più eminenti, la cui opera, specialmente per Milano, ha superato la forza dell’oblio.
Carlo nacque ad Arona, sul Lago Maggiore, nel 1538, in una nobile e ricca famiglia. Il padre, Gilberto, era noto per la profonda religiosità e per la sua generosità verso i poveri. Anche la madre, Margherita, era piissima: purtroppo morì quando Carlo aveva solo nove anni. Questo influsso dei genitori rimarrà fondamentale nella sua educazione.
A 12 anni, Carlo fu nominato commendatario di un’abbazia benedettina di Arona, che fruttava una rendita di 2000 scudi.
Una cifra considerevole. Nonostante l’età, però, il ragazzo aveva già le idee chiare.
Infatti, appena ricevuta l’investitura, corse dal padre per dirgli che aveva deciso di spendere quei soldi in aiuto dei poveri. Non c’è male per un dodicenne. I suoi pari di oggi sono anni luce lontano da lui.
Arrivati i 14 anni si recò a studiare prima a Milano poi a Pavia, portando con sé solo un piccola somma di denaro. Ma a lui questa condizione di strettezza economica (relativamente al suo rango) non pesava più di tanto. Nella condizione di studente rivelò ben presto i suoi numerosi talenti: grande intelligenza, carattere tenace e riflessivo, era portato all’essenziale, a non perdersi cioè in tante banalità ed esperienze superficiali, non infrequenti a quell’età. Nel 1559, diventò dottore “in utroque jure” ed aveva solo 21 anni.
A Roma, intanto, alla fine dello stesso anno ci fu il cambio di guardia in Vaticano. Era stato eletto un nuovo Papa, Pio IV, nella persona di Gianangelo de’ Medici, suo zio materno. Questo fatto impresse una svolta alla sua vita. Fu infatti chiamato dallo stesso Papa nella Città Eterna insieme al fratello Federico.

Carriera ecclesiastica a Roma
Nel caso di Pio IV ci troviamo davanti ad un raro caso di nepotismo positivo per la Chiesa. Il Papa promosse immediatamente i due nipoti: Federico (1561) ebbe la carica di capitano generale della Chiesa, Carlo non ancora ventiduenne, fu nominato cardinale con un incarico che oggi potremmo chiamare di Segretario di Stato. Poco dopo gli affidò anche l’amministrazione della diocesi di Milano con l’obbligo di restare però… a Roma. E questa non era l’unica carica. Ne ebbe parecchie altre con l’inevitabile cumulo anche dei rispettivi benefici economici. Gli storici dicono che l’accordo tra Papa e nipote fu sempre perfetto. Carlo nonostante le cariche rimaneva sempre un uomo di cultura.
Al tal fine fondò un’accademia a carattere umanistico-letterario, composta da amici, chiamata Notti Vaticane. Si era anche comprato un fastoso palazzo con servitù a seguito, in cui organizzava fastosi e festosi ricevimenti. Erano i tempi: il tutto non per vanità ma perché lo riteneva opportuno per la carica che ricopriva e per la fama e decoro della famiglia da cui proveniva.

L’evento decisivo
L’improvvisa morte del fratello Federico (1562) gli fece cambiare radicalmente vita. La interpretò come un segno da parte di Dio per riformare la propria vita ancor più in senso evangelico. Così cambiò radicalmente: addio ai festosi ricevimenti, addio ai divertimenti anche moralmente leciti, addio alle Notti Vaticane che divennero un cenacolo di cultura religiosa. Ridusse il proprio tenore di vita, intensificando la penitenza, i digiuni e le rinunce. Riprese inoltre, con più impegno, la propria formazione teologica e pastorale. Era pur sempre vescovo di una diocesi anche se non esercitava direttamente.
Il Papa vide perplesso la trasformazione in senso ascetico del prezioso nipote (che qualche volta chiamava “il mio occhio destro”). Scosse la testa: il tutto gli sembrava esagerato. Giunse persino a sgridarlo (addebitando l’eccessivo zelo ascetico ai consigli dei suoi direttori spirituali e all’influsso di personaggi contemporanei del calibro di Ignazio di Loyola, Gaetano da Thiene, Filippo Neri: guarda caso tutti Santi dichiarati tali dalla Chiesa). Il Papa lo scoraggiò, lo rimproverò, ma lo lasciò fare, e alla fine lo… imitò.
Ma il più grande merito di Carlo Borromeo fu che convinse il Papa a riconvocare il Concilio di Trento sospeso nel 1555. Se questo lavorò tanto e bene e se finì gloriosamente e proficuamente per la Chiesa (1563) il grande merito fu di Carlo. Egli ne fu la mente organizzatrice e l’ispiratore.
Nel luglio 1563, fu ordinato sacerdote e poco tempo dopo vescovo. Voleva fare il pastore di anime nella sua diocesi di Milano e ne aspettava l’occasione.
Il Concilio era finito ma bisognava assicurarsi che anche il successore di Pio IV avesse l’intenzione di continuare la riforma che ne era scaturita. Carlo credeva nell’azione dello Spirito Santo nella direzione della Chiesa, ma, nello stesso tempo, faceva umanamente quello che lui stesso pensava utile. Al vecchio e ammalato zio infatti suggerì i nomi dei nuovi cardinali del futuro conclave: doveva promuovere solo quelli favorevoli alla riforma della Chiesa voluta dal Concilio di Trento. Fatto questo gli chiese di poter presiedere, come legato papale, il consiglio provinciale che si teneva a Milano (la sua diocesi) per attuare le disposizioni conciliari. Lo zio Papa acconsentì. E Carlo partì. Ma poco tempo dopo dovette in tutta fretta fare ritorno a Roma (in compagnia di Filippo Neri) perché il Papa era ormai alla fine. Pio IV infatti morì tra le sue braccia il 9 dicembre 1565.
Morto un Papa, se ne fa un altro, così dice il proverbio. E così fu. Il 7 gennaio 1566, il Nostro avrebbe potuto farsi eleggere Papa con facilità, la sua “lobby” infatti era fortissima. Ed inoltre, era degnissimo. Ma lo Spirito Santo e lui non vollero. Fu eletto il Card. Michele Ghislieri, domenicano, favorevole all’attuazione del Concilio di Trento. E Carlo fu uno dei suoi “sponsor”.

Un pastore “di ferro” che dà la sua vita
Nell’aprile del 1566, raggiunse Milano, dove iniziò subito la grande opera di riforma secondo il Concilio di Trento. Fu un organizzatore geniale e un lavoratore instancabile tanto che Filippo Neri esclamò: “Ma quest’uomo è di ferro”.
Organizzò la sua diocesi in 12 circoscrizioni, curò la revisione della vita della parrocchia obbligando i parroci a tenere i registri di archivio, con le varie attività e associazioni parrocchiali. Si impegnò molto nella formazione del clero creando il seminario maggiore e minore. Fu soprattutto instancabile nel visitare le popolazioni affidate alla sua cura pastorale e spirituale, iniziando la sua prima visita nel 1566 subito dopo l’arrivo a Milano.
La sua visita in una parrocchia era preparata spiritualmente con la preghiera e con la predicazione che doveva portare ai sacramenti. Il vescovo all’inizio faceva una riunione con i notabili del paese ai quali chiedeva tra l’altro: “Come si comportano in chiesa i parrocchiani? Ci sono eretici, usurai, concubini, banditi o criminali? Ci sono seminatori di discordia, parrocchiani che non osservano la Quaresima?… I padri di famiglia educano bene i propri figli? Non c’è lusso esagerato nel vestire da parte degli uomini e delle donne? Se ci sono delle istituzioni di beneficenza e di aiuto sociale, sono ben amministrate?”. E altre domande simili. Come si vede concrete.
Tutto bene quindi nella sua opera di riforma? Non proprio. Incontrò difficoltà e talvolta anche ostilità. Come nel caso dell’attentato che subì il 26 ottobre 1569 ad opera di quattro frati dell’Ordine degli Umiliati. Uno di questi gli sparò mentre era in preghiera nella sua cappella privata. Motivo? Il Borromeo voleva riformare quell’ordine religioso ormai decaduto. Ma le riforme proposte furono viste dagli Umiliati come umiliazioni. La pallottola gli forò il rocchetto, ma lui rimase illeso miracolosamente ed il popolo lo interpretò come un segno dall’alto della bontà delle sue riforme. E gli Umiliati, di nome, furono umiliati anche di fatto e per sempre con la loro cancellazione definitiva.
Ma lo spessore della sua personalità di pastore e del suo amore più grande che “dona la vita per i suoi amici”, la mostrò in occasione della peste del 1576. Assente dalla città perché in visita pastorale, rientrò subito, mentre il governatore spagnolo e il gran cancelliere fuggivano via.
Fece subito testamento sapendo che la peste non aveva riguardo per nessuno, nemmeno per l’alto clero: organizzò l’opera di assistenza, visitò personalmente e coraggiosamente i colpiti dal terribile morbo, aiutò tutti instancabilmente fino al punto da meritarsi un rimprovero dal Papa di Roma.
Nonostante tutta l’attività pastorale, il Borromeo fece quattro viaggi a Roma e quattro a Torino. Era molto devoto della sacra Sindone. Fu proprio nel 1578 che i duchi di Savoia la portarono a Torino perché al vescovo di Milano, che aveva chiesto di venerarla personalmente, fosse risparmiato il difficile e pericoloso attraversamento delle Alpi (motivo ufficiale), ma anche per difenderla dalle brame dei Francesi (motivo politico). L’esposizione della reliquia fatta a Torino nel 1978 fu per ricordare questo suo arrivo nella città.
A causa della sua attività pastorale senza sosta, dei frequenti viaggi, delle continue penitenze, la sua salute peggiorò rapidamente. La morte lo colse preparatissimo il 3 novembre del 1584, ed il suo culto si diffuse rapidamente fino alla canonizzazione fatta nel 1610 da Paolo V.
Carlo Borromeo moriva fisicamente ma la sua eredità, fatta di santità personale e di azione instancabile per la Chiesa era più viva che mai, e sarebbe continuata nei secoli. Fino ad oggi.

Autore: Mario Scudu sdb 

Publié dans:Arcivecovi e Vescovi, Santi |on 4 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

NEI CONFRONTI DEL CREATO SERVE UN « ANTROPOCENTRISMO RELATIVO »

http://www.zenit.org/it/articles/nei-confronti-del-creato-serve-un-antropocentrismo-relativo

NEI CONFRONTI DEL CREATO SERVE UN « ANTROPOCENTRISMO RELATIVO »

I Vescovi ungheresi esortano a un rapporto responsabile con l’ambiente

12 Novembre 2009

di Roberta Sciamplicotti

ROMA, giovedì, 12 novembre 2009 (ZENIT.org).- Nei confronti del creato, l’atteggiamento dei cristiani deve essere basato su un « antropocentrismo relativo », che si discosti sia dal considerare solo l’essere umano non curandosi di ciò che lo circonda che dal pensiero che nega le differenze ontologiche tra l’uomo e l’ambiente.
La Conferenza dei Vescovi Cattolici Ungheresi lo ricorda in una Lettera circolare sulla Difesa del Mondo Creato, alla cui stesura hanno collaborato per vari anni diversi membri dell’Accademia delle Scienze d’Ungheria, docenti universitari, teologi e gli stessi Vescovi.
Nella lettera, i presuli sottolineano che « il degrado in rapida accelerazione dell’ambiente naturale e i cambiamenti climatici a livello globale sono diventati al giorno d’oggi una realtà ».
Per ridurre « e, se possibile, evitare un comportamento che danneggia l’ambiente e impoverisce il clima » servono « sforzi significativi » e « strategie efficienti per adattarsi alle circostanze dei cambiamenti climatici ».
« Perché l’umanità possa superare questo test, dobbiamo partecipare tutti – ricordano -. La sfida che affrontiamo è sostanziale, ma la nostra azione guidata dai valori e l’autolimitazione possono influire positivamente sulla situazione ».
Difendere l’ambiente, ricordano i Vescovi ungheresi, « significa più che assicurare semplicemente condizioni di vita degne alle generazioni presenti e future », perché è fondamentale per « la protezione e la promozione del bene comune e della dignità umana ».

L’ »antropocentrismo relativo »
I presuli ricordano quindi l’ »ecoteologia » e l’ »ecoetica » cristiane, sottolineando che queste prendono le distanze dall’ »antropocentrismo radicale », che considera l’ambiente naturale solo in funzione dei « benefici diretti per la generazione attuale ».
Questo comportamento, infatti, « contraddice la responsabilità affidata agli uomini dal Creatore ».
Allo stesso modo, la posizione cristiana si differenzia nettamente dal « pensiero ecocentrico », che non considera le « fondamentali differenze ontologiche tra gli uomini e la parte dell’ambiente naturale che è esterna all’uomo ».
Il comportamento dei cristiani nei confronti della natura deve quindi basarsi su « un ‘antropocentrismo relativo’ in termini di modello filosofico di pensiero e di teocentrismo se guardato dal punto di vista della fede, che riconosce anche il valore intrinseco della natura ».
Spiegando la definizione « antropocentrismo relativo », i presuli sottolineano che si parla di antropocentrismo perché l’uomo « è l’unica creatura sulla Terra che Dio ha desiderato di per sé », mentre l’aggettivo « relativo » si riferisce al fatto che, anche se l’uomo si differenzia dalla parte non umana dell’ambiente dal punto di vista « ontologico, etico e biologico », allo stesso tempo « forma un’unità con esso, tenendo conto della natura di ogni essere e del suo collegamento reciproco in un sistema ordinato, che è il cosmo ».
In questo senso, il concetto di teocentrismo si riferisce al senso del valore intrinseco della natura, in base al quale questa non è a somiglianza di Dio, « ma una realtà dipendente da Dio – e non dall’uomo ».
Preservare il creato, riconoscono i Vescovi ungheresi, ha un significato di riconoscimento e di lode, perché « possiamo preservare in modo credibile solo ciò che riconosciamo come buono e che vale la pena di lodare ».
L’etica cristiana relativa all’ambiente, aggiungono, si basa su tre valori collegati tra loro: il « valore strumentale della natura » in quanto « parte del bene pubblico, che serve la protezione e l’evoluzione della dignità umana »; il « valore simbolico della creazione », perché si riferisce direttamente a Dio e permette quindi di approfondire il rapporto con Lui; la nozione teologica di « nuova creazione », che indica il « futuro escatologico » dell’ambiente, « che ci fornisce una comprensione più profonda, religiosa del futuro del mondo che ci circonda ».

Un nuovo ordine economico
Per i Vescovi ungheresi, « difendere l’ambiente e il clima è anche parte della promozione del bene comune, che si può realizzare solo attraverso un ordine economico che serva l’interesse credibile dell’uomo ».
I presuli citano quindi gli elementi fondamentali di questo ordine, sottolineando la « limitazione dell’obiettivo dell’economia di mercato al cosiddetto utile » e il cambiamento del ruolo del profitto.
Se l’economica utilitaristica contemporanea ha fissato l’obiettivo della sua massimizzazione, sostengono, nell’economia di servizio il profitto è « uno strumento che aiuta a realizzare valori e il bene comune ».
In questo contesto, i presuli concludono esortando ad « adottare un atteggiamento universale, globale, in cui Dio e l’ordine morale e naturale da Lui creato raggiungano la preminenza ».

IL DISCORSO DELLA MONTAGNA E IL DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO – Bruno Forte

http://www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=574:il-discorso-della-montagna-e-il-dialogo-ebraico-cristiano&catid=65:archivio-notizie&Itemid=195

IL DISCORSO DELLA MONTAGNA E IL DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO

Bruno Forte

Discorso a un dialogo pubblico con il biblista ebreo americano Jacob Neusner – Auditorium di Roma, 18 gennaio 2010

L’insegnamento di un Maestro ebreo?

Il Mahatma Gandhi, padre dell’India moderna e apostolo della non-violenza, ricordando il suo primo incontro con il « discorso della montagna », diceva che gli era andato dritto al cuore: « The Sermon on the Mount went straight to my heart… ». E aggiungeva: « È stato grazie a questo discorso che ho imparato ad amare Gesù ». Questa testimonianza mostra in maniera eloquente come la lettura dei capitoli 5-7 del Vangelo di Matteo possa essere decisiva per l’incontro col Profeta galileo e il suo messaggio. Si può perfino dire che la storia delle interpretazioni del discorso della montagna è la storia delle diverse auto-comprensioni del cristianesimo.
L’esegeta protestante Joachim Jeremias riconduce a tre modelli fondamentali queste interpretazioni[1]. Il primo riflette una concezione perfezionistica: « Gesù dichiara ai suoi discepoli ciò ch’egli esige da loro » (67). Il discorso sarebbe « legge, non evangelo » (68). Gesù si presenterebbe né più né meno che come un maestro della Torah. Questa interpretazione non è però condivisibile, perché contrasta col fatto che nello stesso sermone « Gesù osa opporsi alla Torah » (70). Una seconda lettura è quella ispirata alla teoria dell’inattuabilità: è l’interpretazione dell’ortodossia luterana. Gesù « vuole rendere consci i suoi ascoltatori della loro inettitudine a compiere con le loro forze quanto Dio esige… (e così) indurli a disperare di sé » (72) per confidare in Dio solo. Il Nazareno, però, « s’attende che i suoi discepoli attuino ciò ch’egli chiede » (73), come è evidente nella parte finale del discorso stesso: « Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano » (Mt 7,13: cf. tutto il brano da 13 a 27). Anche questa interpretazione, allora, non può essere accolta. Infine, l’interpretazione dell’etica temporanea, propria degli « escatologisti conseguenti » di fine Ottocento (quali Johannes Weiss e Albert Schweitzer), legge nel discorso un insieme « di leggi d’eccezione, valide in epoca di crisi », nella forma di un « incitamento alla tensione estrema delle forze prima della catastrofe » (74). Il discorso della montagna, però, non sembra aver nulla di un’ »etica dell’ultima ora »: al contrario, « in Gesù l’accento essenziale non cade sull’affaticarsi degli uomini, ma sulla certezza che la salvezza di Dio è presente » (75s).
Caratteristica comune alle tre interpretazioni è quella di considerare il discorso come una sorta di legge, ponendo così « Gesù nell’ambito del tardo giudaismo » (76). Che questa operazione sia legittima e in parte feconda lo mostra la possibilità di rintracciare nelle parole del Profeta galileo numerose eco della tradizione ebraica: Paul Billerbeck – nel Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash[2]- ha potuto raccogliere in corrispondenza alle scarse cinque pagine del discorso della montagna ben trecento e nove pagine di analogie e paralleli rabbinici! Il rapporto con l’insegnamento dei maestri ebrei è dunque decisivo per comprendere e valutare l’insegnamento di Gesù sul monte: e tuttavia non è sufficiente. Perché? In che senso Gesù non è un Rabbi come gli altri? E in che senso, invece, si pone in continuità con la Torah di Mosè?

Gesù rompe con la Torah
A queste domande prova a dare risposta Jacob Neusner nel suo libro Un Rabbino parla con Gesù[3]: l’originalità di questo lavoro sta nel fatto che l’Autore si immagina contemporaneo del Maestro galileo e intavola con lui una discussione serrata. Nella prospettiva rabbinica questo è un atto di profondo rispetto e di forte tensione spirituale: « Una buona, argomentata discussione è considerata dalla Torah il mezzo più giusto di rivolgersi a Dio, ossia un atto di grandissima devozione » (34). Peraltro, la fiducia nell’intelligenza è un tratto comune a ebraismo e cristianesimo: « Come i cristiani noi diamo importanza alla ragione e alla fede razionale… noi diamo valore all’uso dell’intelligenza, allo scambio di pensieri, di affermazioni, di ragioni, di prove, di analisi; noi consideriamo la discussione un esercizio nell’uso di ciò che ci fa simili a Dio, cioè la nostra intelligenza » (41).
La tesi di Neusner è che « Gesù insegna la Torah al pari di altri maestri, ma pretende di porsene al di sopra » (29). Intento dichiarato del Rabbino è perciò quello di « riaffermare semplicemente la Torah del Sinai sopra e contro il Gesù di Matteo » (43). E questo in nome del principio espresso all’inizio del trattato della Mishnah (200 d.C.) chiamato Avot (detti dei Padri dell’ebraismo): « Fate una siepe intorno alla legge » (1,1). Secondo Neusner Gesù ha distrutto questa siepe, disponendo della Torah in maniera inaudita e perfino insegnando a violare alcuni dei Comandamenti: il terzo, che impone la santificazione del sabato, il quarto, quello dell’amore verso i genitori, e infine la prescrizione della santità. Gesù pretende di prendere il posto del sabato (cf. Mt 12,8: « Il Figlio dell’uomo è signore del sabato ») e dei genitori (cf. Mt 10,37: « Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me’ ») e fa consistere la santità nella sequela di sé: in tal modo egli dissolve ciò che tiene unito Israele in quanto Israele, mettendo in pericolo l’essenziale della fede del popolo dell’alleanza.
A proposito, poi, di Matteo 5,38-39 (« Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra ») e 43-44. 48 (« Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano » e « Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste »), Neusner afferma che un tale insegnamento non concorda con la Torah perché « è un dovere religioso resistere al male, combattere per il bene, amare Dio e combattere quelli che diventeranno nemici di Dio… La Torah richiede sempre dall’Eterno Israele di combattere per la causa di Dio; la Torah ammette la guerra, riconosce l’uso legittimo della forza » (57). Più in generale, le antitesi del discorso della montagna appaiono intollerabili al Rabbino: « La frase di Gesù ‘voi avete inteso che fu detto… ma io vi dico’ si pone in aperto contrasto con la frase di Mosè sul monte Sinai » (61). Gesù parla « attraverso un ‘io’, ma la Torah parla soltanto a ‘noi’, a noi che formiamo Israele » (63). « Solo Dio può esigere da me quello cha sta chiedendo Gesù » (86). « L’alternativa è tra ‘Ricordati di santificare il sabato’ e ‘Il Figlio dell’uomo è il signore del sabato’. Non possiamo scegliere entrambi » (105). « In discussione è la rivendicazione di autorità da parte di Gesù » (107). Il nocciolo della questione è dunque questo: « Cristo prende il posto della Torah » (109). La conclusione del Rabbino Neusner è tranciante: « Un grande maestro non è colui che dice qualcosa di nuovo, ma colui che dice quello che è vero » (112s). Perciò Gesù non è per lui un maestro credibile e la differenza con la fede del popolo eletto è radicale: « Il messaggio della Torah riguarda sempre l’Eterno Israele, mentre il messaggio di Gesù riguarda quelli che lo seguono » (126).

Gesù radicalizza la Torah
Non così vede le cose un altro pensatore ebreo, Pinchas Lapide, che nel suo libro Il Discorso della Montagna. Utopia o Programma?[4] mette parimenti a confronto l’insegnamento di Gesù con la tradizione rabbinica: diversamente da Neusner, egli sottolinea che Gesù si colloca totalmente all’interno del pensiero ebraico, portandolo solo alle estreme conseguenze. Dunque, non la Torah, ma l’interpretazione che Neusner ne dà sarebbe in contrasto con quello che Gesù dice nel discorso della montagna. Per Lapide il Maestro galileo non chiede altro che « un’esistenza ebraica di fede… È un ideale realizzabile, un’utopia realistica che non deve rimanere sulla carta se l’ebreo credente trova il coraggio di superare se stesso… nell’instancabile imitazione di Dio che nell’ebraismo è considerata il più santo dei comandamenti. In questa grande spinta messianica verso l’incarnazione voluta da Dio di tutti i figli di Adamo e verso l’umanizzazione di questa terra… Gesù di Nazaret è stato ‘l’ebreo centrale’, come lo definisce Martin Buber, colui che ci invita tutti a imitarlo » (15). La tesi di Lapide è pertanto che « il discorso della montagna non è altro che la spiegazione della Torah fatta da Gesù di Nazaret, che prendendo spunto dal duplice comandamento dell’amore ha come obiettivo la sua concretizzazione, allo scopo di favorire la manifestazione del regno di Dio sulla terra » (24). Nell’insegnamento sul monte siamo di fronte alla semplice « riscrittura escatologica di tutti i comandamenti dell’amore… che dalle tavole di pietra del Sinai verranno impressi nel cuore degli uomini » (36).
Se Neusner contrappone troppo, Lapide concilia altrettanto: la radicalità di Gesù rispetto alla Torah non è un semplice sviluppo nella continuità, ma implica un elemento di assoluta novità. È Joachim Jeremias a sottolineare come la differenza fra Gesù e il giudaismo non stia nei singoli precetti, ma nel presupposto fondamentale che sta dietro ad essi e che nella testimonianza del Profeta galileo è l’avvento del Regno di Dio nella sua persona[5]: « A ogni detto del discorso della montagna… è sottintesa la predicazione del regno di Dio… la testimonianza che Gesù diede di sé con la parola e coi fatti » (89). « Al kerygma fa seguito la didaché » (90): e il kerygma « apre il discorso della montagna sotto la forma delle beatitudini e delle frasi relative alla splendida sorte di chi è discepolo di Cristo » (90). « Solo per la grandezza del dono divino diviene comprensibile la gravità della richiesta di Gesù » (91). La differenza fondamentale fra l’insegnamento di Gesù e la Torah di Mosè sta allora nel fatto che « il discorso della montagna non è legge, ma evangelo… La legge affida l’uomo alle sue proprie forze e lo incita a impegnarsi fino all’estremo. L’evangelo invece pone l’uomo di fronte al dono di Dio e lo incita a fare, di tale inesprimibile dono, il fondamento della vita. Sono due mondi… Dalla riconoscenza del figlio di Dio redento ha inizio una nuova vita. Ecco il significato del discorso della montagna » (93). La Torah dice: « Fa’ quanto insegno, e vivrai ». Gesù dice: « Vivi la vita che ti dono, e farai quello che ti chiedo ». Gesù non abolisce la Torah, non abbatte la siepe intorno alla Legge, come vorrebbe Neusner. E neppure radicalizza la Torah innalzando di qualche gradino le sue esigenze. Gesù dona la vita nuova che viene da Dio per realizzare e superare la Torah.

In Gesù il compimento della Torah
Siamo così giunti al punto decisivo: « Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento » (Mt 5,17). È il punto che si sforza di chiarire Joseph Ratzinger – Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret[6]: fra la semplice contrapposizione e la concordanza, la relazione fra l’insegnamento di Gesù sul monte e quello di Mosè al Sinai va intesa come novità non nella rottura, ma nel compimento. « La ‘Torah del Messia è del tutto nuova, diversa – ma proprio così ‘porta a compimento’ la Torah di Mosè » (126). « Non è più la ‘carne’ – la discendenza fisica da Abramo – a decidere, ma lo ‘spirito’: l’appartenenza all’eredità di fede e di vita di Israele attraverso la comunione con Gesù Cristo, il quale ha ‘spiritualizzato’ la Legge trasformandola così in un cammino di vita aperto a tutti. Nel Discorso della montagna Gesù parla al suo popolo, a Israele, in quanto primo portatore della promessa. Ma nel consegnargli la nuova Torah, lo apre in modo che ora da Israele e dagli altri popoli possa nascere una nuova grande famiglia di Dio » (127).
La continuità implicita nell’idea di compimento sta nel fatto che proprio in base alla Torah si può dire che « Israele non esiste semplicemente solo per se stesso, per vivere delle ‘eterne’ disposizioni della legge – ma per diventare luce dei popoli » (143). Gesù « ha portato il Dio di Israele ai popoli così che tutti i popoli ora lo pregano e nelle Scritture di Israele riconoscono la sua parola, la parola del Dio vivente. Ha donato l’universalità, che è la grande e qualificante promessa per Israele e per il mondo… È questo che lo qualifica come il ‘Messia’ e dà alla promessa messianica una spiegazione, che ha il suo fondamento in Mosè e nei Profeti, ma che dona a essi anche un’apertura completamente nuova » (144). La comunione con Gesù è comunione filiale col Padre e come tale « è un sì al quarto comandamento su una base nuova e a un livello più elevato. È l’ingresso nella famiglia di coloro che a Dio dicono Padre e possono dirlo nel ‘noi’ di coloro che con Gesù e mediante l’ascolto a Lui prestato sono uniti alla volontà del Padre e così stanno nel nucleo di quella obbedienza a cui la Torah mira » (145). Insomma, sono le stesse promesse contenute nella Legge che implicano il suo compimento: « Nella struttura intrinseca della Torah, nella sua evoluzione mediante la critica profetica e nel messaggio di Gesù che riprende entrambe, si trova insieme l’ampiezza per i necessari sviluppi storici e la base stabile che garantisce la dignità dell’uomo a partire dalla dignità di Dio » (156).
Perciò, Matteo ci presenta Gesù come il nuovo Mosè. E, perciò, la fedeltà alla Torah non può fermarsi all’applicazione legalistica di essa, ma deve aprirsi al compimento della promessa fatta a Israele dal suo Dio per bocca dello stesso Mosè: « Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto » (Dt 18,15). L’ebraicità di Gesù è dunque fuori discussione, e si deve essere grati a chi – come Neusner o Lapide – la rivendica con onestà e rispetto. Parimenti, però, è innegabile la novità del suo insegnamento e della sua opera: non si tratta né di una semplice radicalizzazione di quanto già detto a Israele, né di una blasfema violazione dei comandamenti dati sul Sinai. La novità è la persona stessa di Gesù e l’avvento del tempo messianico che in Lui si offre, come tempo della grazia e della misericordia del Dio dell’alleanza: è la novità dell’amore effuso dall’alto attraverso di Lui nei cuori di chi crede. È quel possibile, impossibile amore – impossibile agli uomini, reso possibile dal dono divino – che il discorso della montagna descrive come frutto dell’accoglienza della buona novella che Gesù annuncia, che Gesù è. Gesù di Nazaret, Ebreo per sempre, è il Figlio di Dio dall’eternità, fattosi uomo per aprire a chiunque creda la porta del cielo. La differenza – accettata o rifiutata – sta tutta qui: come sta qui l’esigenza imprescindibile per un discepolo del Maestro galileo di amare Israele e la sua fede per sempre.

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1) Il discorso della montagna, in Id., Gesù e il suo annuncio, Paideia, Brescia 1993, 65-93.
2) H.L. Strack – P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash, Beck, München 1922, 1. Bd. Das Evangeluium nach Matthäus.
3) San Paolo, Cinisello Balsamo 2007 (originale inglese: A Rabbi talks with Jesus, McGill-Queen’s University Press 2000).
4) Paideia, Brescia 2003.
5) Il discorso della montagna, in Id., Gesù e il suo annuncio, Paideia, Brescia 1993, 65-93.
6) Rizzoli, Milano 2007.

RISCOPRIRE IL SENSO DEL SACRIFICIO – Messaggio per la quaresima 2012 – Vescovo di Padova

http://www.diocesipadova.it/diocesi_di_padova/news___in_evidenza/00005483_Riscoprire_il_senso_del_sacrificio.html

RISCOPRIRE IL SENSO DEL SACRIFICIO

Messaggio per la quaresima 2012

Antonio Mattiazzo
Vescovo di Padova

Con il mercoledì delle Ceneri, il 22 febbraio, entriamo nel Tempo della Quaresima, il cui scopo è un ripensamento della nostra vita per prepararci a celebrare degnamente la Pasqua. È fortemente avvertito il bisogno di un cambiamento. Nella luce della fede si comprende che Dio stesso ci offre la grazia di un rinnovamento profondo e salutare della nostra vita.
In questo tempo di grave crisi economica sono risuonati frequentemente appelli ed esortazioni ad affrontare dei sacrifici, come necessari per una ripresa. In antecedenza, nell’era del benessere e del consumismo, si poteva ascoltare chi lamentava: “Si è perso il senso del sacrificio”. È un tema che vale la pena di meditare in questo tempo di Quaresima.
La parola ‘sacrificio’ è tipica del linguaggio religioso. Ma che cosa significa esattamente in tale contesto? E come si rapporta alla sfera profana?
Generalmente si pensa di saperlo, interpretando ‘sacrificio’ come equivalente di ‘rinuncia-privazione’ di qualche bene, di qualcosa che piace. Ma è proprio così?
Con questa riflessione vorrei dare una risposta a queste domande al fine di trovare il senso genuino di sacrificio, le sue motivazioni ideali e le sue applicazioni.
1. La parola sacrificio vuol dire letteralmente ‘sacrum facere’, rendere sacro qualcosa o qualcuno, offrendolo alla divinità. È da osservare che l’idea e la pratica del sacrificio si incontra nelle varie religioni, nell’Induismo, nel Buddismo Zen, nell’Islam e nelle cosiddette religioni naturali, seppure con accentuazioni e sfumature diverse. Si può dire che il sacrificio fa parte della storia dell’umanità, a cominciare da Caino e Abele (cfr. Gen 4,3-4), tanto che, secondo alcuni studiosi, le società sono fondate sul sacrificio. Da rilevare, inoltre, che i riti sacrificali rivestivano un carattere istituzionale-pubblico. I cristiani che rifiutavano di sacrificare agli dei, nell’Impero romano, erano condannati a morte.
Il sacrificio viene inteso, solitamente, come “immolazione di una vittima”, e questo ha a che vedere con la vita e con la morte. Lo scopo del sacrificio è, essenzialmente, la comunicazione con il Sacro, con la Divinità per adorarla e ottenere i suoi benefici.

2. Nell’Antico Testamento il sacrificio, collegato con il sacerdozio e il tempio, assume una notevole importanza, ed è regolato da una legislazione del culto sacrificale contenuta, specialmente, nei libri del Levitico e Numeri. I sacrifici sono di tipo diverso. L’“olocausto” si ha quando la vittima è bruciata totalmente, per cui tutto è offerto a Dio. Il sacrificio di “comunione” è l’offerta di lode, di devozione, di compimento di un voto a Dio. Vi è, poi, il sacrificio di “espiazione” per i peccati.
È da notare che, agli inizi dell’umanità, secondo la Bibbia, vigeva un regime vegetariano e il sacrificio consisteva in un’offerta di vegetali. Il passaggio ai sacrifici cruenti di animali viene interpretato dal fatto che l’umanità post-diluviana non era guarita dalla violenza, per cui l’abbattimento di animali le viene consentito, ma con la proibizione di consumo del sangue.
La Bibbia conosce la pratica dei sacrifici umani (cfr. Sal 106,37s.), ma essa è severamente proibita come pratica idolatrica. È questo il senso del “sacrificio di Abramo” (cfr. Gen 22,1-13): al posto del figlio Isacco, in obbedienza a Dio, egli sacrifica un ariete.
Dio, per mezzo di Mosè, prescrive al popolo di Israele:
«Quando sarai entrato nella terra che il Signore, tuo Dio, sta per darti, non imparerai a commettere gli abomini di quelle nazioni. Non si trovi in mezzo a te chi fa passare per il fuoco il suo figlio o la sua figlia» (Dt 18,9s.).
Importanza tutta particolare è il sacrificio pasquale dell’agnello immolato, per mezzo del quale il popolo di Israele è stato liberato dalla schiavitù, ha fatto l’alleanza con Dio ed è entrato nella Terra promessa. In questo sacrificio c’è l’unione del rito cruento (agnello immolato) e dell’offerta vegetale (pane e vino). Esso è un ‘memoriale’ da essere celebrato ogni anno.
Nello stesso tempo, i Profeti hanno elaborato una interpretazione personalizzata e spirituale del sacrificio mettendo in luce quello che doveva essere il suo valore profondo di obbedienza a Dio e di amore al prossimo. Samuele dice a Saul:
«Il Signoregradisceforsegliolocausti e i sacrifici quanto l’obbedienza alla voce del Signore? Ecco, obbedire è meglio del sacrificio» (1Sam 15,22).
Il profeta Osea, con la stessa ispirazione, enuncia questa intenzione di Dio che sarà riproposta da Gesù stesso:
«Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti» (Os 6,6; cfr. Mt 9,13; 12,7).
Osea propone, anche, il “sacrificio di lode”:
«Preparate le parole da dire e tornate al Signore; ditegli: “Togli ogni iniquità, accetta ciò che è bene: non offerta di tori immolati, ma la lode delle nostre labbra”» (Os 14,3).
Questo senso del sacrificio viene espresso nei salmi:
«La mia preghiera stia davanti a te come incenso, le mie mani alzate come sacrificio della sera» (Sal 141,2).
In questa stessa linea, è sacrificio davanti a Dio “il cuore contrito” nella confessione dei propri peccati:
«Tu non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, tu non li accetti.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi» (Sal 51,18-19).

3. Il sacrificio di Cristo e dell’Eucaristia
È familiare al cristiano la figura di Gesù che sulla croce offre la sua vita come un sacrificio di redenzione. È l’“Agnello immolato” della Pasqua che porta a compimento e sostituisce la figura dell’agnello dell’antica alleanza. Viene crocifisso nell’ora in cui, nel tempio di Gerusalemme, si offrivano i sacrifici. Occorre che comprendiamo bene il senso genuino del sacrificio di Cristo sulla croce, che ha posto fine a tutti gli altri sacrifici.
Il sacrificio di Cristo consiste, essenzialmente e primariamente, nell’offerta di se stesso e della sua vita in obbedienza e amore a Dio Padre e a noi per la nostra salvezza. Con l’oblazione di se stesso, Gesù opera il passaggio dal sacrificio di cose esteriori a un’oblazione di sé esistenziale, che prende il centro della vita per donarlo a Dio e ai fratelli. Il sacrificio di Cristo è il dono totale di sé, della sua persona fino alla morte, dono ispirato da un amore senza misura, che va «fino all’estremo» (Gv 13,1).
In conseguenza della sua obbedienza a Dio e del suo amore, della sua solidarietà con noi peccatori, Cristo ha subìto e accettato la croce. Quindi, Cristo non ha scelto la sofferenza e la croce, – nel Getsemani ha pregato il Padre di allontanargli questo calice (cfr. Mt 26,39) – ma l’ha accettata come espressione di obbedienza e di amore. Il sacrificio di Cristo sulla croce, che ripara il rifiuto di Adamo e stabilisce la piena comunione con Dio e tra gli uomini, è avvenuto una volta per tutte e per tutti. Non ha senso che sia ripetuto. Il sacrificio della Santa Messa non è la ripetizione, ma la ripresentazione nel tempo e nello spazio, dell’unico sacrificio di Cristo.
Nella celebrazione dell’Eucaristia, che rende presente e attuale l’immolazione di Cristo sulla croce, la parola sacrificio ritorna con frequenza riferita a Cristo ma, anche, ai partecipanti:
«Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi.
… Questo è il mio sangue versato per voi».
E dopo la consacrazione, il celebrante prega:
«Egli faccia di noi un sacrificio perenne a Te gradito».

4. Il culto della vita: amore, obbedienza, carità, preghiera.
In virtù dei sacramenti dell’Iniziazione cristiana e, soprattutto, partecipando all’Eucarestia, riceviamo la grazia di far passare nel nostro vissuto esistenziale l’atteggiamento di donazione di Gesù Cristo.
Le indicazioni del Nuovo Testamento vanno nella direzione, già indicata dai profeti, di una interiorizzazione del senso essenziale del sacrificio, da tradursi in atteggiamenti vitali verso Dio e verso il prossimo. Viene, quindi, proposto di rendere la vita una espressione liturgica, la liturgia della vita. Qui si vede una re-interpretazione della separazione tra sacro e profano. San Pietro così si esprime:
«Quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo» (1Pt 2,5).
Sacrificio spirituale è la preghiera, “sacrificio di lode”.
San Paolo propone analogamente un “culto spirituale” consistente nel “sacrificio vivente” che è l’offerta del proprio vissuto espresso dal corpo.
«Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro cultospirituale» (Rm 12,1).
Parte integrante del “sacrificio spirituale” è l’esercizio della carità.
È interessante, in questa ottica, rilevare come san Paolo qualifichi la colletta delle comunità cristiane greche, a favore della Chiesa di Gerusalemme, come “attività liturgica”, come ‘Eucaristia’ (cfr. 2Cor 9,12).
Similmente egli denomina come ‘azione liturgica’ l’assistenza che gli ha prestato Epafrodito (cfr. Fil 2,25. Per significare l’assistenza si usa il termine “leiturgon”).
Sant’Agostino, in riferimento polemico con i sacrifici pagani, ha espresso con la sua acutezza il senso cristiano del sacrificio.
«Vero sacrificio – scrive – è ogni azione compiuta per unirsi a Dio in santa comunione, ossia riferita a quel sommo bene che ci può rendere veramente beati» (cfr. De civitate Dei, LX,6).
È l’uomo stesso, in quanto vive consacrato a Dio, ad essere un sacrificio vivente. Riferendosi al testo di Rm 12,1, che abbiamo citato, Agostino scrive che è un sacrificio la temperanza con cui trattiamo il nostro corpo. Sacrificio è soprattutto l’amore. Ancor più «la stessa anima diviene un sacrificio quando si rivolge a Dio per essere accesa dal fuoco del suo amore» (Ivi).
Con grande profondità, poi, Agostino considera come vero sacrificio le «opere di misericordia, sia verso noi stessi sia verso il prossimo, fatte in riferimento a Dio» (Ivi). Ne consegue – egli scrive – che «tutta la città redenta, cioè l’assemblea e la società dei Santi, viene offerta a Dio come sacrificio universale» (Ivi).
Agostino esprime qui la grandiosa visione del “Cristo totale” che unisce Capo e membra in un unico corpo e rende, quindi, i cristiani partecipi dello stesso sacrificio di Cristo: «Questo è il sacrificio dei cristiani» (Ivi).

5. Educare allo spirito del sacrificio
Sulla base delle considerazioni che abbiamo espresso, è possibile e importante recuperare il senso e il valore del sacrificio, anche se non è facile cambiare mentalità. Anche noi cristiani non sempre l’abbiamo compreso e proposto nel suo genuino significato. Notiamo, anzitutto, che l’evoluzione socio-culturale ha condotto, con il processo di secolarizzazione, a una visione della vita di tipo “profano” che astrae dalla religione e dal sacro. In questa ottica, il sacrificio, nel senso religioso sacrale, non appare più significante. Nella concezione secolarizzata il termine viene assunto come impegno e rinuncia a qualcosa e, persino, alla vita stessa per una “nobile causa”: la Patria, lo Stato, per ottenere uno status sociale etc. Quanto alla concezione cristiana del sacrificio, come s’è detto, essa lo ha interpretato in chiave personalistica spirituale ed etica, ma in riferimento, anzitutto, a Dio.
Il sacrificio, interpretato alla luce dei profeti e di Gesù, significa, essenzialmente, l’offerta, il dono di se stessi, della propria persona a Dio e al prossimo. Possiamo dire che è l’applicazione del 1° comandamento: «Io sono il Signore tuo Dio, […] non avrai altri dei di fronte a me» (Es 20,2s.; Dt 5,6s.), oppure, come l’esprime il Vangelo: «..adorare il Padre in spirito e verità» (Gv 4,23).
Dare il primato a Dio significa riconoscere la Sorgente della vita e dei valori, rende liberi dalla schiavitù degli idoli, che sono falsi assoluti, infonde luce di sapienza per valutare rettamente la realtà.
Il senso genuino, l’ispirazione e l’anima del sacrificio è l’amore, il dono di sé che, in un mondo caratterizzato dalla menzogna, dall’egoismo, dalla violenza, comporta rinuncia e sofferenze, anche dolorose.
Il cristianesimo propone una concezione della persona che si realizza pienamente nel dono di sé (cfr. Concilio Vaticano II, GS, 24), sacrifica se stessa per gli altri, non sacrifica gli altri per il proprio benessere. Una conseguente affermazione della fede cristiana, consona alla verità che «Dio è amore» (1Gv 4,8), è che «la legge fondamentale della umana perfezione, e perciò anche della trasformazione del mondo, è il nuovo comandamento dell’amore» (GS, 38).
Il Papa Benedetto XVI, nell’Enciclica “Caritas in veritate”, ha proposto, nella sfera economica e dello sviluppo, il significato e il valore del dono valorizzando la categoria della fraternità.
Queste considerazioni portano a chiedersi: in che cosa consiste il vero progresso sociale? Può essere computato solo in termini di Pil, di economia e di tecnologia? La nostra società ha realmente progredito, in termini di valori, in questi anni?
Questa considerazione porta, anche, ad interrogarsi sul tema educativo che, oggi, attraversa una fase critica, al punto che i Vescovi italiani hanno proposto un decennio (2010-2020) per affrontare l’esigenza educativa. Come educare o ri-educare allo spirito di sacrificio?
È chiaro che, se sacrificio viene inteso primariamente o solo come rinuncia-privazione, appare una proposta non percorribile.
Il problema è quello di un’antropologia, esplicita o implicita, secondo cui il movente ultimo della realtà sarebbe il principio del piacere, inteso in senso riduttivo psico-fisico, avulso dalla dimensione spirituale, relazionale e comunitaria della persona. Già sant’Agostino aveva compreso che noi, nel nostro agire, siamo determinati, più che dalle idee, da quello che ci procura diletto; ma egli intendeva il diletto in senso integrale, quello, cioè, che dà un senso di realizzazione piena all’esistenza.
In realtà, quello che procura diletto è la percezione che ciò che scegliamo e facciamo, anche se faticoso, ha un senso. La crisi più grave, personale e sociale, che affligge la persona, è il vuoto interiore, l’oscuramento e lo smarrimento del senso della vita; è questa la frustrazione più deleteria che si manifesta, anche, in una malattia diffusa: la depressione.
Ad essere frustrate vuote e depresse non sono le persone che si sacrificano per l’amore di Dio e per gli altri spinti da un ideale di servizio, ma quanti, pur avendo ricchezze e piaceri, non hanno uno scopo per cui vivere e donare se stessi.
Il nocciolo del problema educativo sta qui. Il resto appartiene ai metodi e alla didattica.
La nostra società, veneta in particolare, che ha sperimentato nell’ultimo ventennio una “grande trasformazione” (cfr. D. Marini, La grande trasformazione, Padova, 2012) in aspetti fondamentali, non solo demografici e di stili di vita ma, anche, di visione e di senso della vita, appare, oggi, piuttosto incerta e smarrita. Certamente il vivere è diventato più complesso e faticoso. La visione secolarizzata della vita si rivela insufficiente e incapace di rispondere ai desideri più profondi della persona e al senso pieno della vita. Per questo, la domanda di senso e di spiritualità è diventata una esigenza più acuta.
In questa situazione, le comunità cristiane sono chiamate e sfidate a proporre e a testimoniare esperienze di “vita nuova secondo lo Spirito”, in una rinnovata evangelizzazione.
La crisi economica incombente rappresenta una prova molto seria. Il governo attuale persegue l’obiettivo dell’equità. E, in verità, è necessario correggere situazioni di grave sperequazione e ingiustizie sociali, di ricchezze nascoste, di favoritismi, di evasioni fiscali. In questo caso, non si tratta tanto di ‘sacrifici’, quanto, piuttosto, di giustizia e di giusta riparazione. Dovrebbe essere chiaro che attività economica ed etica non sono separabili.
Una questione molto seria si pone riguardo all’obiettivo della crescita. La crescita economica non dovrebbe essere disgiunta dalla crescita di autentici valori che ispirano una “vita buona”.
Abbiamo visto che la storia registra il fatto di sacrifici umani offerti agli idoli; e questo fa pensare all’uomo moderno di aver superato questa fase di sacro selvaggio dell’umanità.
Ma è proprio così? A ben considerare non si compiono forse, oggi, dei sacrifici di vittime umane a qualche idolo? Pensiamo all’idolo della razza e all’antisemitismo che hanno indotto genocidi, pulizia etnica e Shoa, pensiamo al terrorismo e alla violenza perpetuata in nome di una falsa concezione di Dio o di interessi politici, economici, etc.
Pensiamo, anche, all’aborto volontario. Non è, forse, una vita umana innocente sacrificata all’idolo dell’egoismo, del benessere e del tornaconto personale?
Qui si pone una questione di enorme rilevanza. Se accettiamo il male giustificandolo con argomenti che riteniamo ragionevoli, si pone la domanda: ci può mai essere vero progresso dell’umanità? E se al male non c’è soluzione, non è questa una visione di radicale pessimismo? A questi inquietanti interrogativi è proprio il Sacrificio di Cristo sulla Croce che dà la risposta, sacrificio che ha conseguito la Risurrezione.
Gesù Cristo, accettando di essere immolato sulla Croce come vittima innocente, sarà sempre dalla parte delle vittime della menzogna, della violenza, dell’ingiustizia, capace di ridare quella vita che è stata loro tolta.

6. Attingere dall’Eucaristia, dalla purificazione del cuore e dalla preghiera lo spirito del sacrificio
La Quaresima è il tempo propizio e di grazia, offerto da Dio, per ritrovare le sorgenti più rinnovatrici della nostra vita. È l’invito, anzitutto, a riscoprire la grandezza del Sacrificio di Cristo, che è il suo infinito amore misericordioso per noi peccatori. Il sacrificio di Cristo lo incontriamo vivo e attuale nell’Eucaristia.
Prendervi parte con una fede viva vuol dire ricevere da questa inesauribile sorgente divina la capacità di vivere lo spirito del sacrificio, di fare, cioè, della nostra vita e della nostra attività un dono che non può essere distrutto dalla morte e, neppure, dalla violenza e dall’ingiustizia, perché il Crocifisso, apparentemente sconfitto, è Risorto ed è, dunque, il vero Vincitore.
Nella celebrazione dell’Eucaristia viene assunto e offerto a Dio il lavoro. Nel pane e nel vino il celebrante presenta a Dio il “frutto della terra e del lavoro dell’uomo”. Ecco il senso grande del lavoro: «nel lavoro umano il cristiano ritrova una piccola parte della croce di Cristo e l’accetta nello stesso spirito di redenzione nel quale Cristo ha accettato per noi la croce» (Giovanni Paolo II, Enciclica Laborem exercens, 27). Partecipando all’Eucaristia preghiamo, anche, perché tutti possano avere un lavoro onesto e dignitoso.
C’è un altro aspetto del “sacrificio eucaristico” che è importante considerare e interiorizzare.
All’offerta del pane e del vino, collocata sull’altare affinché divengano corpo di Cristo, la Chiesa chiede che si uniscano le offerte per i poveri, che rappresentano anch’essi il corpo di Cristo e sono da collocare nel cuore della Chiesa, custoditi e venerati con la carità. È importante far comprendere e vivere questo atteggiamento, come scrive Benedetto XVI: «La frazione del pane eucaristico deve proseguire nello “spezzare il pane” della vita quotidiana, nella disponibilità a condividere quanto si possiede, a donare e così vivere. È semplicemente l’amore in tutta la sua immensità che si manifesta in questo gesto, e con esso il nuovo concetto cristiano di culto e di cura per il prossimo» (Prefazione al libro diJ.P. Cordes,L’aiuto non cade dal Cielo, Cantagalli, 2012).
In questa prospettiva raccomando le proposte della “Quaresima di fraternità” della Diocesi.
È un vero peccato che la Domenica, Giorno del Signore, sia ormai praticamente considerata giorno di mercato, al pari degli altri. La ritengo una scelta profondamente sbagliata, non un guadagno ma una perdita non solo per la fede cristiana ma, anche, per dare senso alla vita e all’attività umana. Ritengo, inoltre, ingiusto che si privino tante persone del loro diritto di santificare la domenica partecipando alla Santa Messa e godendo della gioia delle relazioni familiari. Considero contraddittorio difendere il crocifisso come oggetto ma non il Crocifisso Risorto dell’Eucaristia domenicale; la Realtà vale infinitamente più del segno.
In questa Quaresima c’è un sacrificio che tutti siamo chiamati a compiere: è il sacrificio del «cuore contrito e umiliato» (Sal 51,19) per i nostri peccati. Questo è davvero sacrificio gradito a Dio.
La Sacra Scrittura considera la “durezza del cuore” come particolarmente grave, in quanto denota insensibilità e indifferenza verso Dio e verso il prossimo. Ascoltiamo la voce di Dio che ci chiama alla conversione in questo tempo di Quaresima. Lo fa con i richiami della sua Parola, lo fa, anche, con quel senso di tristezza, di vuoto e di frustrazione che proviamo nel nostro intimo quando la nostra vita non è orientata a Dio e non lo accogliamo. È un richiamo alla conversione di modelli e stili di vita anche l’attuale crisi. Incoraggio, inoltre, a riscoprire il senso profondo del digiuno per liberare la nostra vita da tante cose inutili e vane che ci appesantiscono.
E poi vorrei esortare a offrire a Dio il “sacrificio della lode”, della preghiera.
Dio non ne ha bisogno, ma gradisce la preghiera per riversare sulla nostra vita il suo amore, la sua luce, la sua forza divina.
Cerchiamo, in questa Quaresima, di dedicare più tempo a rientrare in noi stessi e a riscoprire la sorgente viva della preghiera.
La Quaresima è un cammino di fede che conduce, sulle orme di Cristo, alla Pasqua di Risurrezione. Intraprendiamola con fiducia e ne trarremo un rinnovato senso di vita e di speranza.

PARLAMI DELLA CHIESA CHE AMI… – PARLAMI DELLA CHIESA CHE AMI…

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PARLAMI DELLA CHIESA CHE AMI…

DI BRUNO FORTE

Mi dici: parlami della Chiesa che ami! Sì, amo la Chiesa: la amo come un figlio ama la madre che gli ha dato la vita. La trovo bella e degna d’amore anche quando qualche ruga copre il suo volto o quando mi sembra di non capire fino in fondo le sue scelte e i suoi tempi. Perciò Ti parlerò di lei come mi detta l’amore….

Mi dici: parlami della Chiesa che ami! Sì, amo la Chiesa: la amo come un figlio ama la madre che gli ha dato la vita. La trovo bella e degna d’amore anche quando qualche ruga copre il suo volto o quando mi sembra di non capire fino in fondo le sue scelte e i suoi tempi. Perciò Ti parlerò di lei come mi detta l’amore. Se penso al dono che la Chiesa mi ha fatto generandomi alla vita divina col battesimo, o all’aiuto che mi ha dato facendomi crescere nella fede alla scuola della Parola di Dio, se rifletto su come mi ha nutrito e mi nutre col pane della vita che è il corpo stesso di Gesù o mi ricordo di tutte le volte che ha perdonato i miei peccati col sacramento della riconciliazione, se medito sulla grazia della mia vocazione e missione fra gli uomini, riconosciuta e sostenuta dalla Chiesa, come avviene per la vocazione di tutti i consacrati e degli sposi cristiani, sento la gratitudine riempirmi il cuore e l’impulso ad amarla e a renderla sempre più credibile e bella mi appare superiore a ogni ragione contraria.
È mia convinzione profonda, maturata nell’esperienza degli anni e alimentata dalla fiamma viva della fede e dell’amore, che la Chiesa non nasce da una convergenza di interessi umani o dallo slancio di qualche cuore generoso, ma è dono dall’alto, frutto dell’iniziativa divina: dire che la Chiesa è il popolo di Dio non è per me una espressione qualunque, una definizione astratta, ma la confessione umile che è lei ad avermi fatto incontrare il Dio vivente, Signore, origine e meta del Suo popolo! Pensata da sempre nel disegno del Padre, la Chiesa è stata preparata attraverso l’alleanza con il popolo eletto Israele, affinché, compiutisi i tempi, fosse donata a tutti gli uomini come la casa e la scuola della comunione con Dio grazie alla missione del Figlio venuto nella carne e all’effusione dello Spirito Santo.
Sì: credo la Chiesa, “credo Ecclesiam”, come dicevano sin dall’inizio i cristiani, credo che essa è opera di Dio e non dell’uomo, inaccessibile nel suo cuore pulsante ad uno sguardo puramente umano. Credo che la Chiesa è “mistero”, tenda di Dio fra gli uomini, frammento di carne e di tempo in cui lo Spirito dell’Eterno ha preso dimora. E perciò so che la Chiesa non si inventa né si produce, ma si riceve: è dono che va accolto incessantemente con l’invocazione e il rendimento di grazie, in uno stile di vita contemplativo ed eucaristico. Allo sguardo della mia fede, generata nel cuore della Chiesa Madre per l’azione della Trinità divina, la Chiesa mi appare come “icona della Trinità”, immagine vivente della comunione del Dio che è Amore, popolo generato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Proprio così so che la varietà dei doni e dei servizi suscitati in ciascuno di noi battezzati dall’azione dello Spirito Santo, e tanto più accolti e vissuti quanto più viviamo di fede, di amore e di preghiera, non solo non compromette, ma esprime la profonda unità che viene da Dio per tutti i battezzati. E riconosco quali segni e servitori di questa unità i pastori, dal Papa, Vescovo della Chiesa di Roma, che presiede nell’amore alla comunione di tutta la Chiesa, ai Vescovi in comunione con Lui, ai Sacerdoti che in ogni comunità sono inviati dal Vescovo. Nell’amore al Papa e al Vescovo, segno di Cristo Pastore, nella docilità alla loro guida, quanti hanno ricevuto i diversi doni entrano in dialogo fra di loro e crescono nella comunione. È la comunione di un popolo di credenti adulti e responsabili nella fede e nell’amore, capaci di pronunciare con la vita tre grandi “no” e tre grandi “sì”.
Il primo “no” è quello al disimpegno, cui nessuno ha diritto, perché i doni ricevuti da ognuno vanno vissuti nel servizio degli altri: a questo “no” deve corrispondere il “sì” alla corresponsabilità, per cui ognuno si faccia carico per la propria parte del bene comune da realizzare secondo il disegno di Dio. Il secondo “no” è alla divisione, cui nessuno può sentirsi autorizzato, perché i carismi vengono dall’unico Signore e sono orientati alla costruzione dell’unico Corpo, che è la Chiesa: il “sì” che ne consegue è quello al dialogo fraterno, rispettoso della diversità e volto alla costante ricerca della volontà del Signore per ciascuno e per tutti. Il terzo “no” è quello alla stasi e alla nostalgia del passato, cui nessuno deve acconsentire, perché lo Spirito è sempre vivo ed operante nella vita e nella storia: a questo “no” deve corrispondere il “sì” alla continua riforma, per la quale ognuno possa realizzare sempre più fedelmente la chiamata di Dio, e la Chiesa tutta possa celebrarne la gloria. Attraverso questo triplice “no” e questo triplice “sì”, la Chiesa si presenta come icona viva della Trinità, comunione di uomini e donne, adulti e responsabili nella loro diversità, uniti fra loro nell’amore.
Quanto bisogno c’è di questa comunione! Di fronte all’arcipelago, che è spesso la società in cui ci troviamo, in cui ognuno sembra estraneo all’altro e fatica a uscire da sé nel dono dell’amore, la comunione della Chiesa rappresenta veramente la buona novella contro la solitudine: è così che vorrei si mostrasse a tutti la Chiesa, e a questo scopo vorrei portare con generosità il mio contributo di discepolo e di pastore per suscitare e coltivare con tutti relazioni di rispetto e di reciproco amore, che siano un’immagine eloquente della comunione trinitaria, e accendano in chi è lontano il desiderio del Dio dei cristiani e dell’esperienza di Lui, offerta nella Chiesa dell’amore. In questo consiste la missione affidata alla Chiesa: essere luce delle genti per la forza della fede e della carità, attrarre gli uomini a Dio con vincoli di amore, mostrando credibilmente a tutti la bellezza dell’incontro con Gesù, capace di cambiare il cuore e la vita.
Sì: sogno la Chiesa che amo sempre più missionaria, non in uno spirito di conquista che sappia di logica di potere umano, ma in una passione d’amore, in uno slancio di servizio e di dono, che vuol dire a tutti quanto è bello essere discepoli di Gesù e quanto il Suo amore possa riempire il cuore e la vita! Certo, la Chiesa è e resta un popolo in cammino, pellegrino verso la patria del cielo. Ogni presunzione di essere arrivati va considerata una tentazione: sogno la Chiesa impegnata nella sua continua purificazione e nel suo rinnovamento, inappagata da qualsiasi conquista umana, solidale con il povero e con l’oppresso vigile, sovversiva e critica verso tutte le realizzazioni miopi di questo mondo. Beninteso, questo non significherà disimpegno o critica a buon mercato: la vigilanza che ci è chiesta in quanto discepoli di Gesù è costosa ed esigente. Si tratta di assumere le speranze umane e di verificarle al vaglio della Sua risurrezione, che da una parte sostiene ogni impegno autentico di liberazione dell’uomo, dall’altra contesta ogni assolutizzazione di mete terrene. La patria, che fa stranieri e pellegrini in questo mondo, non è sogno che alieni dal reale, ma forza stimolante e critica dell’impegno per la giustizia e per la pace nell’oggi del mondo. Sogno che la Chiesa sia sempre più popolo della carità, testimone della gioia e della speranza, che non delude, libera e generosa nel suo impegno al servizio della giustizia per tutti, del dialogo fra tutti e della pace che solo così può nascere stabilmente fra gli uomini.
Chiesa dell’amore, che nel Simbolo della fede professiamo una, santa, cattolica e apostolica, e che il Redentore del mondo, dopo la sua risurrezione, diede da pascere a Pietro, affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida, “colonna e sostegno della verità” come dice l’Apostolo (cfr. 1Tm 3,15), la Chiesa cattolica è non di meno aperta al riconoscimento di tutto il patrimonio di grazia e di santità che lo Spirito ha reso e rende presente nelle tradizioni cristiane, che non sono in piena comunione con lei. Con esse dialoga offrendo loro i doni di cui è portatrice e ricevendo da esse la testimonianza del bene, che il Signore opera in loro, in vista del comune annuncio del Vangelo di Gesù a tutti gli uomini. Fedele poi alla propria origine divina e alla propria missione, la Chiesa avverte l’esigenza del dialogo con Israele, con cui sa di avere un rapporto privilegiato ed esclusivo, perché la fede del popolo eletto è – come dice l’apostolo Paolo – la “primizia”, la “santa radice”, su cui il buon olivo del cristianesimo è innestato (cfr. Rm 11,16-24). Senza rinunciare alla novità del messaggio evangelico, il popolo di Dio che è la Chiesa può crescere nella conoscenza del mistero di Dio e nella speranza della vita insieme al popolo d’Israele, che resta avvolto dalla grazia dell’elezione divina. Sogno una Chiesa viva nel dialogo, tesa a realizzare il progetto di Dio, che è progetto di unità e di pace per tutti.
Infine, nell’epoca del mondo percepito come “villaggio globale”, caratterizzata anche da un nuovo incontro fra i credenti delle diverse religioni, la Chiesa si riconosce chiamata con essi al comune servizio all’uomo a favore della giustizia e della pace e alla testimonianza del divino nella storia. Fondate sull’iniziativa misteriosa di Dio verso ogni uomo e sull’atteggiamento di inquietudine, di desiderio e di accoglienza del Mistero santo presente in ogni cuore, le grandi religioni universali sono accomunate da una sorta di spiritualità dell’ascolto, che implica l’apertura radicale del cuore al Dio che parla, nella disponibilità a lasciarsi gestire la vita da Lui in obbedienza d’amore. Certamente per i credenti in Cristo l’ascolto non è solo l’attitudine dell’uomo davanti a Dio, ma è anche lo stare in Dio, nello Spirito, uniti al Figlio, dinanzi al Padre. Il cristiano non rinuncerà perciò mai ad annunciare con la parole e con la vita, con dolcezza e rispetto, che Dio si è coinvolto nella storia degli uomini con l’incarnazione del Verbo e la missione dello Spirito: è questo, però, un annuncio di amore, che dovrà coniugare la proclamazione del Vangelo, a cui tutti hanno diritto, con l’autenticità del dialogo, per far avanzare l’intera famiglia umana verso la pienezza del tempo in cui “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28) e il mondo intero sarà la Sua patria.
Questa Chiesa del dialogo e della missione è la Chiesa dell’amore per cui Gesù ha pregato: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola” (Gv 17,21). È la Chiesa di cui mi riconosco figlio, che amo e propongo a tutti come dono d’amore per imparare ad amare nel cuore di Dio. È la Chiesa che vedo realizzata nella donna Maria, Vergine Madre del Figlio, che accoglie il dono di Dio e lo dona, pronta sempre a intercedere per noi. È la Chiesa che vorrei costruire insieme anche a Te, con l’aiuto di Dio, cui Ti invito a rivolgerti con me nella forza dello Spirito e nella fiducia dell’intercessione di Gesù, Sommo ed eterno Sacerdote: Dio, Trinità Santa, da Te viene la Chiesa, popolo pellegrino nel tempo chiamato a celebrare senza fine la lode della Tua gloria. In Te vive la Chiesa, icona del Tuo amore, comunione nel dialogo e nel servizio della carità. Verso di Te tende la Chiesa, segno e strumento della Tua opera di riconciliazione e di pace nella storia del mondo. Donaci di amare questa Chiesa come nostra Madre e di volerla con tutta la passione del cuore Sposa bella del Cristo, senza macchia né ruga, una, santa, cattolica e apostolica, partecipe e trasparente della vita dell’eterno Amore nel tempo degli uomini, perché sia luce di salvezza per tutte le genti.
(Teologo Borèl) Agosto 2006 – autore: mons. Bruno Forte

« È STATO UN PAPA CHE HA SVELATO LA CARITÀ COME CONTENUTO DELLA FEDE »

http://www.zenit.org/it/articles/e-stato-un-papa-che-ha-svelato-la-carita-come-contenuto-della-fede

« È STATO UN PAPA CHE HA SVELATO LA CARITÀ COME CONTENUTO DELLA FEDE »

IL MESSAGGIO DI MONSIGNOR MASSIMO CAMISASCA, VESCOVO DI REGGIO EMILIA, SULLA RINUNCIA DI BENEDETTO XVI

REGGIO EMILIA, 13 FEBBRAIO 2013 (ZENIT.ORG).

Riportiamo di seguito il messaggio diffuso da monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia, in occasione della rinuncia di papa Benedetto XVI.
***
La prima parola che voglio dire è di ringraziamento a Dio per averci concesso questo Papa, per averci donato la sua profondità intellettuale e spirituale, la sua finezza d’animo, la sua umiltà. Io personalmente devo molto a lui. Gli sono grato per l’affetto che ha sempre dimostrato per la mia persona.
L’annuncio delle dimissioni che il Papa ha dato questa mattina al concistoro dei Cardinali mi riempie di silenzio e di preghiera. Di silenzio perché sono consapevole di partecipare a un momento grande della storia della Chiesa. Essa infatti è segnata soprattutto dal rapporto di ogni uomo con Dio, dall’adesione alla sua volontà.
Il Papa, nella profondità della sua coscienza cristiana, ha percepito che rispondere oggi a Dio significava per lui ritirarsi. È una scelta drammatica e, nello stesso tempo – ne sono sicuro – apportatrice di pace per il suo animo credente. Esce così dalla scena del governo della Chiesa un grande Papa, che verrà ricordato per tante ragioni.
Alla morte di Giovanni Paolo II, dopo 27 anni di magistero incisivo e planetario, tutti ci chiedevamo: “Chi potrà succedere a un simile Papa? Chi potrà imprimere un suo stile dopo una tale altezza di presenza e di parola?” Benedetto XVI, con grande umiltà, ha saputo disegnare una sua linea di interpretazione del sommo pontificato. Una linea che è passata attraverso la catechesi. Egli verrà ricordato nei secoli, a mio parere, come un nuovo Leone Magno, un nuovo Gregorio Magno, un vescovo che ha saputo introdurre i cristiani in una visione profonda e sintetica dell’esperienza della Chiesa, mettendo al centro di essa la liturgia e la preghiera.
Benedetto XVI è stato un Papa che ha svelato la carità come contenuto della fede. Lo ha detto nel messaggio per la Quaresima e mostrato con questo suo ultimo atto di governo. Egli ha espresso ciò che è essenziale nel cristianesimo: il legame con la Tradizione, la centralità della liturgia, la necessità della grazia che salva, la superiorità della vita personale di fronte ad ogni burocrazia o sovrastruttura.
Nello stesso tempo egli ha parlato a tutti gli uomini, mostrando la grande stima che il cristianesimo ha della ragione umana e combattendo contro ogni riduzione di essa. Il Logos è il cuore del cristianesimo: è questo il principio che combatte ogni assolutizzazione politica della religione. Ha posto continuamente sul tappeto il tema della convivenza tra i popoli e le religioni.
Inizia ora un tempo di preghiera nella Chiesa, affinché sia concesso dallo Spirito di Dio un nuovo Papa che sappia continuare l’opera dei suoi predecessori con la santità che i papi del Novecento hanno saputo incarnare in modo così mirabile.

LA CROCE UN APPELLO ALLA SEQUELA – DI MONS. BRUNO FORTE

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LA CROCE UN APPELLO ALLA SEQUELA

DI MONS. BRUNO FORTE

I cristiani sanno di dover vivere nel segno della croce le opere e i giorni del loro cammino. Sanno anche che nulla è più lontano dall’immagine del discepolo del Crocifisso che una Chiesa tranquilla e sicura, forte dei propri mezzi e delle proprie influenze.
La croce è il luogo in cui Dio parla nel silenzio: quel silenzio della finitudine uma­na, che è diventata per amore la sua finitudine. Il mistero ­nascosto nelle tenebre della croce è il mistero del dolore di Dio e del suo amore per gli uomini. L’un aspetto esige l’altro: il Dio cristiano soffre perché ama e ama in quanto soffre. Egli è il Dio che patisce con noi e per noi, che si dona fino al punto di uscire totalmente da sé nell’alienazione della mor­te, per accoglierci pienamente in sé nel dono della vita.
Nella morte di croce il Figlio è entrato nella ‘’fine” dell’uomo, nell’abisso della sua povertà, del suo dolore, della sua solitudine, della sua oscurità. E soltanto lì, bevendo l’amaro calice, ha fatto fino in fondo l’esperienza della nostra condizione uma­na: sulla via del dolore è diventato uomo fino alla possibilità estrema. Ma proprio così anche il Padre ha conosciuto il dolore: nell’ora della croce, men­tre il Figlio si offriva in incondizionata obbedienza a lui e in solidarietà con i peccatori, anche il Pa­dre ha fatto storia! Egli ha sofferto per l’Innocente consegnato ingiustamente alla morte: e tuttavia ha scelto di offrirlo, perché nell’umiltà e nell’ignominia della croce si rivelasse agli uomini l’amore trinita­rio di Dio per loro e la possibilità di divenirne partecipi. E lo Spirito, consegnato da Gesù morente al Padre suo, non è stato meno presente nel nascon­dimento di quell’ora: Spirito dell’estremo silenzio, egli è stato lo spazio divino della lacerazione dolo­rosa e amante, che si è consumata fra il Signore del cielo e della terra e colui che si è fatto peccato per noi, in modo che un varco si aprisse nell’abisso e ai poveri si schiudesse la via del Povero verso la pienezza della vita.

È SULLA VIA DELLA CROCE CHE TROVEREMO DIO
 Questa morte in Dio non significa in alcun modo la morte di Dio che “l’uomo folle” di Nietzsche va gridando sulle piazze del mondo: non esiste né mai esisterà un tempio dove si possa cantare nel­la verità il “Requiem aeternam Deo”! L’amore che lega l’Abbandonante all’Abbandonato, e in questi al mondo, vincerà la morte, nonostante l’apparen­te trionfo di questa. La sorprendente identità del Crocifisso e del Risorto mostra apertamente quan­to sulla croce è rivelato “sub contrario” e garantisce che quella fine è un nuovo inizio: il calice del­la passione di Dio si è colmato di una bevanda di vita, che sgorga e zampilla in eterno (cf. Gv 7,37-­39). Il frutto dell’albero amaro della croce è la gioiosa notizia di Pasqua: il Consolatore del Crocifisso viene effuso su ogni carne per essere il Conso­latore di tutti i crocefissi della storia e per rivelare nell’umiltà e nell’ignominia della croce, di tutte le croci della storia, la presenza corroborante e trasformante del Dio cristiano. In questo senso, la sofferenza divina rivelata sulla croce è veramente la buona novella: «Se gli uomini sapessero… – scrive Jacques Maritain – che Dio “soffre” con noi e molto più di noi di tutto il male che devasta la ter­ra, molte cose cambierebbero senza dubbio, e molte anime sarebbero liberate».
La “parola della croce” (1 Cor 1,18) chiama co­sì in maniera sorprendente il discepolo alla sequela: è sulla via della croce – nella povertà, nella de­bolezza, nel dolore e nella riprovazione del mondo – che troveremo Dio. Non gli splendori delle perfezioni terrene, ma precisamente il loro contrario, la piccolezza e l’ignominia, sono il luogo privilegiato della sua presenza fra noi, il deserto fiorito dove egli parla al nostro cuore. La perfezione del Dio cristiano si manifesta proprio nelle sofferenze, che per amore nostro egli assume: la finitudine del patire, la lacerazione del morire, la debolezza della povertà, la fatica e l’oscurità del domani, sono al­trettanti luoghi, dove egli mostra il suo amore, per­fetto fino alla consumazione totale. Nella vita di ogni creatura umana può ormai essere riconosciu­ta la croce del Dio vivo: nel soffrire diventa possibile aprirsi al Dio presente, che si offre con noi e per noi, e trasformare il dolore in amore, il soffrire in offrire.

EGLI VIVE CON NOI E IN NOI LE AGONIE DELLA VITA
Lo Spirito del Crocifisso opera il miracolo di questa rivelazione salvifica: egli è il Consolatore della passione del mondo, colui che proclama la verità della storia dei vinti, confondendo la storia dei vincitori. Egli vive con noi e in noi le agonie del­la vita, facendo presente nel nostro patire il patire del Figlio, e perciò aprendovi un’aurora di vita, rivelazione e dono del mistero di Dio. La “kènosi” dello Spirito nelle tenebre del tempo degli uomini non è che il frutto della “kènosi” del Verbo nella storia della passione e morte di Gesù di Nazaret, l’estrema conseguenza del più grande amore, che ha vinto e vincerà la morte.
La Chiesa e i singoli discepoli del Dio trinitario, che soffre per amore nostro, vengono allora a con­figu­rarsi come il popolo della “sequela crucis”, la comunità e il singolo sotto la croce: preceduti da Cristo nell’abisso della prova, attraverso cui si apre la via della vita, i cristiani sanno di dover vivere nel segno della croce le opere e i giorni del loro cam­mino. Nulla è più lontano dall’immagine del discepolo del Crocifisso che una Chiesa tranquilla e sicura, forte dei propri mezzi e delle proprie influenze: «La cristianità stabilita dove tutti sono cristiani, ma in interiorità segreta, non somiglia alla Chiesa militante più che il silenzio della morte all’eloquenza della passione» (Kier­kegaard). La Chiesa sotto la croce è il popolo di coloro che, con Cristo e nel suo Spirito, si sforzano di uscire da sé e di entrare nella via dolorosa dell’amore: una comunità di discepoli del Dio Crocifisso al servizio dei poveri, capace di confutare con la vita i falsi sapienti e potenti di questa terra. Una Chiesa sotto la croce dice anche una comunità feconda nel dolore dei suoi membri: la sequela del Nazareno, fonte di vita che vince la morte, esige di percorrere con lui l’oscuro cammino della passione: “Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me” (Mt 10,38 e Lc 14,27).
Il discepolo dovrà dunque “completare nella sua carne quello che manca ai patimenti del Cristo” (Col 1,24): lo farà se riuscirà a portare la più pesante di tutte le croci, la croce del presente a cui il Padre lo chiama, credendo anche senza vedere, lottando e sperando, anche senza avvertire la germinazione dei frutti, nella solidarietà con tutti colo­ro che soffrono (cf. 1 Cor 15,26), nella comunione a Cristo, compagno e sostegno del patire umano, e nell’oblazione al Padre, che valorizza ogni nostro dolore. Questa croce del presente è il travaglio della fedeltà e insieme l’esperienza della persecuzione messa in atto dai “nemici della croce di Cristo” (Fil 3,18). La “via crucis” della fedeltà è fatta dalla lotta interiore e dalle agonie silenziose dei momenti di prova, di solitudine e di dubbio, ed è sostenuta dalla preghiera perseverante e tenace di una povertà che aspetta la misericordia del Padre: la stessa “via crucis” della fedeltà di Gesù, con la differenza che egli fu solo a percorrerla, mentre noi siamo preceduti e accompagnati da lui. Questa prossimità del Signore crocifisso ai sofferenti specialmente a quelli che si trovano nella fragilità della malattia è la buona novella che come discepoli siamo chiamati ad annunciare a tutti e sempre. La croce della persecuzione è invece la conseguenza dell’amore per la giustizia e della relativizzazione di ogni presunto assoluto mondano da parte dei discepoli del Crocifisso: la loro spe­ranza nel Regno che viene, li fa inquietanti verso le miopie di tutti i vincitori e i dominatori della storia. “Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi…E sarete odiati da tutti a causa del mio nome” (Mc 10,16.22; cf. 16ss).

Il Crocifisso si identifica con i crocifissi della storia
La Chiesa sotto la croce diventa così, per la sua stessa fame e sete del mondo nuovo di Dio e per la grazia di cui è strumento, il popolo che aiuta a portare la croce e che combatte le cause ini­que delle croci di tutti gli oppressi: essa si confron­ta con le prigionie di ogni sorta di legge e con le schiavitù di ogni sorta di potere, e, come il suo Si­gnore, si pone in alternativa umile e coraggiosa nei loro confronti. Il Crocifisso non esita a identificarsi con tutti i crocefissi della storia, fino al punto di poter riconoscere nell’altro bisognoso d’amore e di cura il sacramento di lui, il “sacramento del fratello”.
Chi ama il Crocifisso e lo segue, non può non sentirsi chiamato a lenire le croci di tutti coloro che sof­frono e ad abbatterne le cause inique con la parola e con la vita. La croce della liberazione dal peccato e dalla morte esige la liberazione da tutte le croci frutto di morte e di peccato: l’ imitatio Christi crucifixi non potrà mai essere accettazione passiva del male presente! Essa si consumerà, al contrario, nell’attiva dedizione alla causa del Regno che viene, che è anche impegno operoso e vigilante per fare del Calvario della terra un luogo di risurrezione, di giustizia e di vita piena. La compassione verso il Crocifisso si traduce nella compassione operosa verso le membra del suo corpo nel­la storia: per una Chiesa, che si dibatte nel proble­ma del rapporto fra la sua identità e la sua rilevanza, fra la fedeltà e la creatività audace, questo significa il riconoscimento della possibilità risolutrice. La Chiesa si ritroverà perdendosi, porrà la sua identità esattamente nel metterla al servizio degli altri, per ritrovarla all’unico livello degno dei segua­ci del Crocifisso: l’amore.
Essere cristiani, allora, non vorrà dire soltanto andare da Dio perché lui ci faccia compagnia nel­la nostra solitudine, cercando in lui consolazione e pace: il cristiano va dal Dio sofferente anche per fargli compagnia nel suo dolore. È quello che hanno insegnato i mistici.
Al discepolo, cha fa compagnia al suo Signore schiacciato sotto il peso della cro­ce, è rivolta però la parola della promessa, dischiusa nella risurrezione, contraddizione di tutte le croci della storia: parola di consolazione e di impegno, che ha sostenuto già la vita, il dolore e la morte di tutti quanti ci hanno preceduto nel combatti­mento della fede. “Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione” (2 Cor 1,5). “Siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; persegui­tati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi; portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si ma­nifesti nel nostro corpo” (2 Cor 4,8-10). In colui che si sforza di vivere così, la Croce di Cristo non è stata resa vana (cf. 1 Cor 1,17): in lui si manifesterà anche la vittoria dell’Umile, che ha vinto il mondo (cf. Gv 16,33), quella vittoria promessa dal Vangelo della sofferenza di Dio, sorgente di forza cui si appella e potrà sempre appellarsi l’invocazione della fede pellegrina nel tempo.

« GIOIA PER LA GRATUITÀ DI DIO » – Omelia di mons. Zimowski …

http://www.zenit.org/article-34615?l=italian

« GIOIA PER LA GRATUITÀ DI DIO »

Omelia di mons. Zimowski nella Messa organizzata dall’ASL Roma 3 nella Chiesa di Santo Spirito in Sassia

ROMA, mercoledì, 19 dicembre 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo di seguito l’omelia pronunciata questa mattina dall’arcivescovo Zygmunt Zimowski, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari, nella Messa organizzata dall’ASL Roma 3 e da lui presieduta nella Chiesa di Santo Spirito in Sassia.
***
Carissimi confratelli sacerdoti e i religiosi, ed in particolare voi incaricati della cappellania ospedaliera,
Carissimi Direttore dell’ASL Roma 3  e suoi collaboratori, staff medico ed ausiliare
Carissimi ammalati e familiari,
carissimi fratelli e sorelle,
Ringrazio di cuore il Direttore, dott.ssa Maria Sabia, per avermi invitato a presiedere questa Santa Messa in preparazione al Natale, invito che ho accolto con entusiasmo come Presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari perché sono contento di poterla celebrare qui, con tutti voi, carissimi amici.
GIOIA PER LA GRATUITÀ DI DIO
“O Germoglio di Iesse,.. vieni a liberarci, non tardare!”
Siamo ormai vicinissimi al Natale e, a partire da oggi, le letture ci presentano ogni giorno parallelismi e contrasti evidenti, per guidarci alla comprensione dei piani di Dio. Le letture odierne ci presentano il caso di due donne, sterili, ma in favore delle quali Dio interviene e compie il miracolo di renderle feconde. Si tratta dell’annuncio della nascita di Sansone e di Giovani Battista, due figli che possiamo descrivere grandi “doni di Dio” per l’umanità.
1. Due figli “dono di Dio”
In entrambi i casi si tratta dunque di donne sterili, con l’aggravante dell’età per Elisabetta, moglie di Zaccaria; in entrambi casi l’angelo del Signore annuncia la nascita di figli che saranno consacrati a Dio perché sono dono del cielo. Il primo, Sansone, sarà destinato, grazie alla sua forza straordinaria, a difendere il popolo israelita dagli attacchi dei filistei; il secondo, Giovanni, camminerà davanti a Cristo con lo spirito e la forza di Elia per preparare un popolo ben disposto quando arriverà il Signore Gesù Cristo.
Comprendiamo dunque che la gloria di Dio si manifesta là dove il Signore compie meraviglie di grazia in ciò che è umanamente considerato debole, ‘povero’. In questo modo Dio rende feconda la verginità, ricca la povertà, forte la debolezza, vittoriosa la sconfitta e gloriosa la croce.
Proprio nella debolezza umana, mostra la potenza e la gratuità del suo amore per noi, Colui il quale “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5, 45). Tutto questo è motivo di gioia per i ‘semplici’, che si aprono a Dio con mitezza e Amore. Poiché la scelta gratuita di Dio è diretta all’uomo, specialmente se povero o sofferente, non perché si sia buoni ma perché buono è chi ci ama così tanto.
2. Gioia per la gratuità di Dio
Tuttavia, per ricevere il dono di Dio, bisogna aprirsi a Lui con fede generosa e lieta fiducia. Quel dono dall’alto suscita gioia, e questa gioia si deve notare nel cuore e nella vita dell’uomo e della donna che sono destinatari della benevolenza del Signore; una felicità che è il carisma di testimonianza di cui oggi ha bisogno il nostro mondo senza speranza e frustrato nella sua fame di felicità dai suoi falsi surrogati.
Non possiamo dubitare di Dio, anche se, come Zaccaria ed Elisabetta, dobbiamo aspettare tutta una vita. Il suo amore per noi non viene mai meno. Tuttavia, anche comprendendo che Dio ci ama molto, a volte dubitiamo come Zaccaria, se davvero Egli vorrà usare il proprio potere a nostro favore.
Osservando con attenzione, Zaccaria appare una figura contraddittoria: infatti, Zaccaria è nel tempio e prega, chiedendo che dal suo matrimonio possa finalmente venire un discendente. Ma nel momento in cui l’angelo ne annuncia l’esaudimento, Zaccaria manca di fiducia e viene punito.
Ritroviamo qui un grande insegnamento sulla preghiera, carissimi fratelli e sorelle: dobbiamo chiedere al Signore con la sicura fiducia di essere esauditi specialmente in questo Anno della Fede. Questa è la preghiera cristiana, la preghiera cioè di chi sa di essere amato, ascoltato e sempre esaudito da un Padre buono e misericordioso. In questo senso il Padre Nostro insegnato da Gesù è insuperabile scuola e modello di preghiera cristiana gradita al cuore di Dio.
Anche noi siamo soggetti ad innumerevoli tentazioni legate all’incredulità e tante forme di mutismo nella preghiera sono frutto di questa incapacità a credere e a meravigliarci davanti alle opere di Dio.
L’atteggiamento di Zaccaria contrasta con l’assoluta fiducia e la disponibilità di Maria, la madre di Gesù, che dà il suo “sì” incondizionato: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”.
Carissimi fratelli e sorelle, il precursore del Messia compì pienamente la propria missione ma il suo contributo non è terminato. Giovanni Battista è un uomo per ogni tempo, una figura perennemente attuale, nell’Avvento e sempre non solo. Perché è l’impegno della Chiesa e della comunità cristiana, è proprio il compito anche nostro di essere messaggeri di gioia per il dono di Dio e di agire come suoi precursori oggi nei nostri ambiti familiari, lavorativi e, più in generale, sociali.
La vostra ASL Roma 3 gestisce in effetti uno degli ospedali più antichi del mondo, l’Ospedale di Santo Spirito in Sassia, del quale non ripeterò qui la gloriosa storia.
Mi limiterò a ricordare che questo antico Arcispedale ha avuto l’onore di conoscere la presenza e il servizio rivoluzionario dei grandi santi della Carità come San Filippo Neri e San Camillo de’ Lellis. Riflettiamo su tutto ciò con ammirazione e gratitudine al Signore per un passato così ricco di vera testimonianza cristiana, che ha reso questi muri un rifugio accogliente per tanti malati, pellegrini, poveri e persone abbandonate.
È del resto anche compito nostro il portare la speranza, l’essere messaggeri della gioia di Cristo medico divino in tutti i centri di cura e di assistenza che, parimenti colpiti dalla crisi, rischiano di diventare luoghi di patimento privi della più piccola luce che la speranza emana. Talvolta ci sentiamo sfidati e scoraggiati dalle difficoltà legate al nostro lavoro e dall’apparente incapacità di cambiare le cose. Ma come ancora più in occasione della nascita del Battista, lasciamo che la potenza divina agisca su questi nostri limiti umani.  Rendiamo dunque i nostri luoghi di cura più umani, più accoglienti e rispettosi della dignità delle persone che si affidano non solo alle nostre competenze tecniche, ma anche alla nostra capacità di comprensione e alla Carità di Cristo che deve animare il nostro lavoro.
Cari amici, come ha detto il Santo Padre Benedetto XVI il 17 novembre scorso ai partecipanti alla nostra XXVII Conferenza Internazionale, “questa assistenza sanante ed evangelizzatrice è il compito che sempre vi attende. Ora più che mai la nostra società ha bisogno di «buoni samaritani» dal cuore generoso e dalle braccia spalancate a tutti, nella consapevolezza che, come spiegato nella sua Enciclica Spe Salvi, «la misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente».
È questa un’esortazione alla quale pare quanto mai difficile rispondere ma che ribadiamo nella consapevolezza delle forti ripercussioni  che la crisi economica e finanziaria europea ed internazionale  sta avendo nelle politiche sanitarie nazionali. Rinnoviamo in proposito la nostra preoccupazione per le riforme in atto in quanto si ha l’impressione che si tenga conto unicamente dell’aspetto economico del mondo della salute trascurando chi lo anima, dunque chi ne costituisce l’essenza vitale, a partire dalla persona sofferente.
Si parla della riduzione di posti letto ma non si parla di chi sarà privato della possibilità di essere ricoverato, curato o comunque assistito in modo consono al proprio stato di salute. Eppure si tratta di un figlio o di una figlia, di un fratello o di una sorella oppure dei nostri genitori, che appartengono alla generazione che, con il proprio sudore e impegno, ha contribuito a far rinascere anche questo Paese dalle macerie e dalla tremenda sofferenza inflitta dalla Seconda Guerra Mondiale. Ecco che oggi sono loro ad essere bisognosi del nostro aiuto, a loro dobbiamo venerazione e gratitudine che devono essere tradotte oggi nel garantire un’assistenza sanitaria adeguata.
Due anni fa, il nostro Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari ha dedicato la XXV edizione della sua Conferenza Internazionale al tema: “Per una cura della Salute equa ed umana alla luce dell’Enciclica Caritas in Veritate”. Nel Messaggio rivoltoci in tale occasione, Papa Benedetto XVI ha ribadito diversi punti essenziali e, tra questi, l’importanza di una “vera giustizia distributiva che garantisca a tutti, sulla base dei bisogni oggettivi, cure adeguate. Di conseguenza – ha continuato il Santo Padre, – il mondo della salute non può sottrarsi alle regole morali che devono governarlo affinché non diventi disumano”.
Per ben rispondere a tale richiamo, che parrebbe assumere, ogni giorno che passa, sempre più il tono di una sfida “occorre lo sforzo congiunto di tutti ma occorre anche una profonda conversione dello sguardo interiore. Solo se si guarda al mondo con lo sguardo del Creatore, che è sguardo d’Amore – ha in proposito evidenziato Papa Benedetto XVI, – l’umanità imparerà a stare sulla terra nella pace e nella giustizia, destinando” opportunamente le risorse “al bene di ogni uomo ed ogni donna”. Ha poi concluso rilevando come un corretto modello di  sviluppo debba essere “fondato sulla centralità dell’essere umano, sulla promozione e sulla condivisione del bene comune” ma anche “sulla consapevolezza del necessario cambiamento degli stili di vita e sulla prudenza, virtù che indica gli atti da compiere oggi in previsione di ciò che può accadere domani”.
Ecco, carissimi fratelli e sorelle, malati e operatori sanitari, sappiamo tutti quanti  quanto non sia agevole una tale vostra missione, soprattutto in questo momento di grande incertezza nell’ambito lavorativo, ma il Signore, come ascoltò la preghiera di quella buona coppia di coniugi anziani, Elisabetta e Zaccaria, rendendoli genitori del precursore di Gesù, si rivolge a noi, ascolta la nostra preghiera, ci riempie della sua gioia e ci chiama ad essere suoi collaboratori nel donare la grazia salvifica di questo Natale agli altri, diventando anche noi evangelizzatori, contribuire a combattere i mali del mondo in cui viviamo.
Nell’antifona “O” di oggi invochiamo Cristo come “Germoglio della radice di Iesse”. La radice richiama il fondamento, ciò senza il quale non c’è vita. Così è per noi il riferirsi a Gesù, senza di Lui, carissimi  fratelli e sorelle, viene a mancarci il fondamento della vita, siamo perduti. Per questo lo invochiamo, vieni… non tardare, o Signore!
Che questa consapevolezza ci accompagni nella preparazione al Natale, facendo sì che noi lasciamo che Cristo, sorgente inestinguibile della vita, sani le infertilità dei nostri cuori e trionfi sulla nostra debolezza, sulla nostra sterilità spirituale, sulle nostre preoccupazioni e paure.

Tutto ciò affidiamo alla Madonna Santissima, Protettrice degli infermi.
E così sia.

Publié dans:Arcivecovi e Vescovi, NATALE 2012 |on 20 décembre, 2012 |Pas de commentaires »
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