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La messa in latino, ritorno al sacro contro i sacerdoti del finto progresso

dal sito: 

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La messa in latino, ritorno al sacro contro i sacerdoti del finto progresso

 Intanto il popolo non capisce come mai, pur in presenza di un atto del successore di Pietro, preti, arcipreti e vescovi si permettano di non obbedire al Papa… 

di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro  Se qualcuno pensa che i cattolici affezionati alla messa di San Pio V, quella in latino, siano un plotoncino sparuto di generali in pensione e di duchesse svanite faccia un esperimento. Vada sul web: si troverà al cospetto di giovanotti in grado di maneggiare il computer come pochi, pieni di energie, con lo sguardo rivolto al futuro. Gente che ama la tradizione, ma che vive con i piedi piantati nel presente. E che proprio per questo ha già fiutato il clima vagamente censorio che si respira in molte parrocchie italiane in questi giorni.
È entrato in vigore il motu proprio con cui Papa Benedetto XVI liberalizza la messa di san Pio V, ma una fetta dell’episcopato italiano si appresta a mettere la sordina al documento. Il caso della diocesi di Milano, opportunamente sollevato dal Giornale, ne è l’esempio più vistoso: siamo ambrosiani – hanno fatto sapere dalla curia – dunque niente Messa di San Pio V. Un cavillo che ha il solo scopo di disattendere il documento del Papa. Del resto, quanti vescovi hanno parlato pubblicamente e liberamente di ciò che sta avvenendo? Quanti parroci? Uno solo, che ci risulti, si è assunto questa responsabilità apertamente, applicando subito il motu proprio e ha riempito la chiesa di fedeli, suscitando la reazione dell’apparato di curia.
Anche questo un caso che ha sollevato Il Giornale. Un giornale laico. Come laica è La Stampa, sulla quale Massimo Gramellini, all’indomani della pubblicazione del motu proprio mise nero su bianco il seguente ragionamento: era ora che si suonasse nuovamente la campana del senso del sacro. Era ora di finirla con quei sacerdoti in jeans e chitarra che pensavano di essere più vicini ai loro fedeli e, invece, erano solo più lontani dal Cielo.
Laico Il Giornale, laica La Stampa: forse vorrà dire qualche cosa. Vuol dire che un atto come quello di Benedetto XVI non può essere letto con il paraocchi. E tanto meno con il paraocchi del cosiddetto spirito del Concilio Vaticano II che ha permeato la quasi totalità del mondo cattolico. Per un certo tipo umano da sagrestia, tutto deve essere letto in funzione del Vaticano II, e ciò che non rientra in quei canoni va silenziato. Siccome negli ambienti progressisti cattolici è stato stabilito che il motu proprio del Papa non è conforme allo spirito del Concilio, ecco pagato il Pontefice con la stessa moneta usata per l’ultimo dei reazionari.
Intanto il popolo non capisce come mai, pur in presenza di un atto del successore di Pietro, preti, arcipreti e vescovi dicano pubblicamente che non è cambiato niente, che si continua come prima. Non capisce come mai ci si permetta di non obbedire al Papa. Non capisce come mai sacerdoti e fedeli che manifestano interesse per la liturgia tradizionale vengano messi al bando e perseguitati: avete capito bene, perseguitati. Ci sono giovani che sono costretti ad abbandonare il seminario della propria diocesi per aver manifestato simpatie per l’antico rito.
Purtroppo, c’è un’evidente scollatura fra la gente comune, i fedeli, e un gruppo limitato, ma potente di intellettuali che hanno preso in mano le redini di non poche diocesi e facoltà teologiche. Sono quegli stessi che chiamano la Chiesa «popolo di Dio» ma sotto sotto considerano la gente solo una massa incolta lontana anni luce dalla famosa «fede adulta». Ma questo popolo, in realtà è formato da cattolici ordinari che per anni hanno subìto, mugugnando, tutti gli orrori liturgici perpetrati in nome di un’ideologia ecclesiale che ha avuto le caratteristiche di una vera e propria rivoluzione culturale. Nella quale, la degenerazione liturgica è preceduta, accompagnata e seguita da un errore dottrinale. Molti pastori e intellettuali non riescono o non vogliono capirlo. E vengono scavalcati da questo Papa teologo nel rapporto con il popolo. Mentre loro si attardano in sacrestia a capire chi si gioverà della ricaduta ecclesiologica del motu proprio, Benetto XVI è già in chiesa a parlare con il suo gregge. E più parla chiaro, più il suo gregge lo comprende e lo ama. Come quando discute dei principi non negoziabili. Che cosa vogliono dire le sue prese di posizione sulle questioni etiche se non un non negoziabile «Basta»?
Lo stesso accade per la riconsegna della piena cittadinanza nella Chiesa a una liturgia millenaria come quella della messa tradizionale. In questo caso, Papa Benedetto ha preso una posizione anche più forte. Ha scoperto un nervo che molti cattolici avrebbero preferito lasciare sottopelle: ha detto che un’intelligente fedeltà alla propria storia è più forte e più cattolica dell’infatuazione per un concetto utopistico di progresso. Ha detto che la tradizione è connaturale al cattolicesimo mentre l’ideologia è il suo esatto contrario.
Il Giornale n. 219 del 2007-09-16

Publié dans:Approfondimenti |on 19 septembre, 2007 |Pas de commentaires »

Gli impressionanti dati sulla prostituzione in Italia

dal sito on line del giornale « Avvenire » 

Gli impressionanti dati sulla prostituzione in Italia 

150mila schiave del sesso E fingiamo ancora di non sapere 

Davide Rondoni  

Le autorevoli e limpide risposte della Congregazione per la Dottrina della Fede agli interrogativi che la cura, impegnativa e spesso protratta per anni, delle persone in « stato vegetativo » suscita tra pazienti, parenti, amici, medici e infermieri non sono destinate esclusivamente ai vescovi e a tutti i credenti, ma entrano in dialogo con la ragione e la libertà di ogni uomo e donna che, attraverso l’esperienza amara della sofferenza propria e altrui, si apre alla ricerca del senso dell’umana esistenza quando essa non è più vigile e autosufficiente e diventa mendicante di tutto, anche degli alimenti e dell’acqua.
La domanda più incalzante diviene allora: che cosa è bene fare in queste circostanze? La sospensione della nutrizione orale o per vie diverse, quali quella nasogastrica o gastrostomica, non porrebbe fine a quel inutile tormento che è una vita in cui il paziente non è più in grado di decidere nulla e che, invece, decide del tempo, delle energie e delle risorse di chi lo assiste a domicilio o in strutture sanitarie? Le indicazioni della Congregazione allargano l’orizzonte della risposta secondo l’ampiezza di una ragione che non è mero « calcolo » – per dirla con Heidegger – di costi e benefici, ma osa addentrarsi sui sentieri del bene secondo un « ordinamento » e una « proporzione » che hanno come termine di riferimento la verità e la dignità della vita dell’uomo, di tutto l’uomo e di ogni uomo, che è sempre una persona, ossia «l’unica creatura che Dio abbia voluto per se stessa» (Gaudium et spes, 24). Sempre, anche quando la coscienza di questa verità e dignità unica e irripetibile non affiora attraverso la parola, lo sguardo o i gesti, ma resta «chiusa in sé» (locked-in: così gli inglesi chiamano alcuni di questi pazienti).
In questa prospettiva antropologica è allora possibile comprendere il giudizio etico sulla ordinarietà e proporzionalità della «somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali», che «in linea di principio» è moralmente dovuta «ne lla misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria», lo scopo di idratare e nutrire il paziente per evitargli «le sofferenze e la morte». Cure necessarie per conservare la vita e alleviare la sofferenza, e non terapia futile; la prima opera di misericordia corporale (dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati; cfr. Mt 25, 35) e non l’ultimo accanimento terapeutico sul malato.
La ragionevolezza di questo giudizio affonda le sue radici nel riconoscimento della piena umanità anche dei pazienti con lesioni cerebrali che li privano della vigilanza e della autosufficienza, e qualifica il loro abbandono ad un destino di sofferenza e di morte per disidratazione e inanizione come indegno degli affetti più cari dei familiari e della dedizione incondizionata dei medici al servizio della vita dei malati.
Per questo, una volontà presunta o documentata del paziente che vincolasse giuridicamente i congiunti a chiedere o a consentire e i medici ad attuare la discontinuazione delle «cure ordinarie e proporzionate» – incluse l’idratazione e l’alimentazione nelle forme e nella misura in cui sono necessarie al mantenimento delle funzioni vitali e non aggravano il declino oramai irreversibile del quadro clinico che segnala l’approssimarsi della morte – sarebbe in contrasto con l’obbligo morale e professionale di non far mancare all’ammalato ciò gli è dovuto in virtù della sua inalienabile dignità umana che nulla e nessuno potrà mai cancellare.

 

 

 

La “chimera” degli embrioni ibridi

dal sito:

http://www.zenit.org/article-11897?l=italian

 

 La “chimera” degli embrioni ibridi 

ROMA, domenica, 16 settembre 2007

Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l’intervento del dottor Renzo Puccetti, Specialista in Medicina Interna e Segretario del Comitato “Scienza & Vita” di Pisa-Livorno. 

* * * 

Le recenti notizie giunte dall’Inghilterra riguardanti il permesso accordato a due gruppi di ricerca di effettuare esperimenti utilizzando embrioni ottenuti mediante trasferimento del nucleo di una cellula umana in un ovocita animale e ancora di più le reazioni a sostegno della liceità etica della procedura da parte di alcuni esponenti del mondo scientifico nostrano offrono l’occasione per interrogarci sulle problematiche suscitate da questo genere di ricerche.

La tecnica in discussione prevede l’inserimento di una cellula somatica umana all’interno del citoplasma di una cellula uovo di origine animale privata del proprio materiale genetico contenuto nel nucleo, ma con un residuo materiale genetico animale contenuto nei mitocondri, gli organuli deputati, per semplificare, al rifornimento energetico della cellula. La cellula risultante sarebbe così dotata di un nucleo contenente DNA umano e mitocondri contenenti DNA animale e prenderebbe il nome di cibride (dall’inglese cytoplasmic hybrid). Una volta sottoposto ad un processo di attivazione esso dovrebbe iniziare la sequenza di divisione e moltiplicazione cellulare tipica di qualsiasi embrione e, se in grado di raggiungere lo stadio di blastocisti, sarebbe distrutto per estrarne cellule staminali embrionali (1).

Molti commentatori si sono dichiarati favorevoli a questo genere di ricerca appoggiandosi su tre argomentazioni fondamentali: le possibili cure per le più svariate patologie che da una tale ricerca potrebbero derivare, il superamento attraverso queste ricerche delle difficoltà a reperire un numero sufficiente di cellule uovo umane e il superamento del problema etico rappresentato dalla successiva distruzione di embrioni umani per ottenere cellule staminali embrionali; i cibridi, si sostiene, non avrebbero infatti alcuna possibilità di svilupparsi in un organismo completo e comunque non verrebbero mai impiantati in un utero umano, ma verrebbero distrutti prima del 14° giorno.

Del primo argomento abbiamo discusso già in numerose occasioni (2), insistendo sulla marginalità delle intenzioni ulteriori dell’agente nella valutazione morale di una determinata azione. Dobbiamo piuttosto concentrarci sul contenuto effettivo dell’azione compiuta, comprendere che cosa stiamo facendo, diversamente, ponendo il principio di speranza quale motore inarrestabile della ricerca, ogni ricerca con giusta causa potrebbe vantare una qualche ipotetica e futuribile ricaduta positiva.
Non ci stancheremo mai di dire che la bioetica nasce proprio come scienza del limite nei confronti dell’imperativo assoluto che impone di fare tutto quello che è tecnicamente possibile fare, una posizione che riceve incredibilmente un notevole credito quando ha per oggetto la vita prenatale, ma che scade ad evidente deliramentum quando viene indicata come criterio operativo alla stragrande maggioranza dei ricercatori clinici. O la riflessione bioetica, in cui i medici e i ricercatori siano solo una delle parti coinvolte, esercita la sua saggia azione di controllo, oppure diventa un inutile servitore prezzolato al servizio della tecnica, un patetico signorsì. Non si può che concordare con l’affermazione secondo cui “la scienza cerca la verità” (3), ma la scienza, particolarmente da quando è divenuta manipolativa nei confronti dell’essere umano e in maniera significativa del pianeta terra, ha ormai bisogno di un “cane da guida” che la tuteli dal proprio accecamento quando, appunto convinta di cercare la verità, cerca soltanto l’utilità, andando in questo suo affannarsi contro la verità stessa. Quel ruolo di “cane guida” è proprio della riflessione bioetica, non casualmente nata dalle macerie degli orrori nazisti, dalle pratiche eugenetiche e dalle sperimentazioni svolte senza il consenso delle persone in nazioni a costituzione democratica, avvenimenti che hanno reso evidente come la scienza non abbia più titoli per operare con una delega in bianco.

Il contributo al dibattito sul secondo argomento utilizzato per sostenere la bontà della ricerca mediante i cibridi credo si avvantaggi da una distinzione che è rispettosa dei fatti, in base ai quali i ricercatori compiono durante questi studi almeno due azioni, di cui la prima è la produzione di cibridi e la seconda la loro distruzione allo stadio embrionale per ottenerne cellule staminali embrionali.

La creazione di questi organismi viventi pone il problema dell’identità umana, cioè di che cosa ci identifica come esseri umani. In maniera invero un po’ stucchevole si sente ripetere, con un’ossessione che rasenta la patologia, l’affermazione che la contrarietà della Chiesa a questo tipo di ricerche sarebbe l’espressione di una medioevale mentalità oscurantista. Permettetemi una modesta digressione, accostare il medio evo, ovviamente cristiano, al regresso è operazione dettata o da ignoranza o da mala fede, ridicolizzata dalle ricerche degli studiosi della materia e testimoniata dall’afflusso continuo di visitatori da ogni parte del mondo che ammirano le vestigia di pietra, legno e tempera di quella cultura a fronte della desolazione delle moderne periferie cementificate da cui le persone cercano piuttosto di fuggire.

La questione della presenza di componenti genetiche animali in cellule a contenuto genetico nucleare umano rimanda per certi aspetti all’uso di parti di origine animale inserite artificialmente all’interno del corpo umano (xenotrapianti) di cui la Pontificia Accademia Pro Vita si è occupata in uno specifico documento (4). In esso la liceità morale, da valutare caso per caso, trovava un limite nel pericolo di un possibile salto di agenti infettivi dalla specie animale a quella umana e nella perdita o modifica dell’identità della persona attuata attraverso l’uso di xenotrapianti di gonadi o encefalo, inscindibilmente legati all’identità personale, o di organi ad elevata valenza simbolica personale. Il caso dei cibridi però si discosta da quello degli xenotrapianti perché è ad oggi ignoto se e quanto la presenza di materiale genetico di origine animale nei mitocondri di ogni cellula influenzi e modifichi l’identità umana di questo genere di organismi. L’incertezza è tale che neppure i vari enti che in Inghilterra si sono occupati della questione hanno trovato un minimo accordo tra loro quando hanno cercato di stabilire lo statuto umano o animale dei cibridi (5). Una cosa è comunque certa: negare lo statuto embrionale a tale organismi equivale a negare un’evidenza scientifica, mentre è impresa di pensiero assai ardua non estendere le obiezioni sollevate contro la clonazione umana a questo genere di sperimentazione (6; 7; 8). Le rassicurazioni circa l’assenza di qualsiasi potenzialità organogenetica e di sviluppo embrionale di questi “ibridi citoplasmatici” (9), lungi dal rassicurare, rappresenta nell’orizzonte scientista una nuova sfida, una nuova conquista, che una volta raggiunta potrebbe ad esempio promettere un’infinita disponibilità di organi di ricambio, perché no, dotati anche di prestazioni funzionali superiori rispetto agli originali “solamente” 100% umani. Perché non creare anche embrioni chimerici se la scala automatica della ricerca scientifica è destino che ci conduca al paradiso in terra? È inoltre davvero paradossale che adepti osservanti del culto della tecnica si riducano ad affidarsi all’antiquato salvavita della “natura” (3) per proteggersi da quelle che oggi considerano schizoidi degenerazioni applicative della tecnica proposta, ma che domani saranno considerate probabilmente una già evocata “nuova frontiera” (10) da varcare e conquistare, pena l’accusa sempre utile di oscurantismo. Si giunge così alla seconda e successiva azione dei ricercatori, la distruzione degli embrioni così ottenuti per poterli utilizzare quale fonte di cellule staminali embrionali. È ovvio che i sostenitori della bioetica utilitarista, negando valore personale alla vita umana embrionale in toto, non avranno alcuna difficoltà a concepire la distruzione di questi embrioni, diverso sarà per quanti, e noi fra loro, abbracciano una visone bioetica personalista, tesa a riconoscere e tutelare come valore incondizionato la vita umana dal concepimento alla morte naturale. Credo che, in quanto embrione con potenziale essenza personale, l’atteggiamento del rispetto fondato sul principio di precauzione sia quello che meglio si adatta agli embrioni cibridici; questo, ovviamente, senza nulla togliere al profondo dissenso nei confronti della loro creazione. Ci pare di poter estendere anche a questi organismi le considerazioni espresse da altri (11) circa l’avversione alla clonazione umana sia a scopo riproduttivo che a scopo di ricerca, ma se possibile, la degradazione della dignità umana è in quest’ultima ancora maggiore, dal momento che essa prevede la distruzione pianificata dell’embrione.

Quale nota non secondaria, la HFEA, l’ente di controllo britannico che ha espresso parere favorevole nei confronti di due distinti protocolli di ricerca con cibridi, avrebbe fatto dipendere la propria decisione dal risultato vincolante di una serie di sondaggi rivolti alla popolazione generale costati 150.000 sterline. Il chinarsi della scienza al giudizio delle persone normali dovrebbe essere colto come segno di provvidenziale umiltà, ma per essere tale dovrebbe essere condotto in maniera metodologicamente corretta sì da denotare genuina sincerità. Purtroppo anche in questa occasione duole constatare che non è così. Ad esempio, nel sondaggio considerato espressione del favore popolare inglese a queste ricerche, il 61% del campione si è dichiarato a favore dei lavori “che potessero aiutare a capire alcune malattie, per esempio il Parkinson e la malattia del motoneurone”; si tratta di un modo di porre la domanda di assai dubbia correttezza, che amplifica il principio di speranza e cela quello di precauzione e le oltremodo flebili probabilità di comprendere il Parkinson con questo genere di esperimenti. È assai dubbio che la maggioranza degli Inglesi si sia espressa a favore di questi esperimenti. Apprendiamo che tra il pool di sondaggi vi è anche quello in cui gli 810 partecipanti hanno fornito risposte scritte e tra questi la maggioranza (494 persone) si è espressa contro i cibridi e solo 129 a favore, parimenti tra gli intervenuti ad un altro meeting organizzato dall’agenzia inglese il 47% si è dichiarato contrario contro il 38% di favorevoli. Attribuire questi risultati alla modalità di arruolamento che richiama prevalentemente i gruppi maggiormente interessati al tema (pro o contro), non giustifica la pratica di enucleare coloro che sono in qualche modo favorevoli alla ricerca sugli embrioni per dimostrare che tra costoro il 60% è favorevole alla creazione di ibridi citoplasmatici, introducendo un bias di selezione ancora più forte. All’interno del gruppo randomizzato costituito da sole 44 persone, di risibile ampiezza statistica, la distribuzione iniziale di 18 favorevoli alla sperimentazione, 13 contrari e 13 neutrali, con una “frequente reazione d’istintiva repulsione”, è cambiata in 27 favorevoli e 5 contrari, ma questo solo dopo “avere fornito complete spiegazioni sulla natura e gli scopi del lavoro”, un chiaro scorretto intervento sul campione, non compensato dalla presenza di altri ricercatori con la possibilità di fornire informazioni sui pericoli e sulla probabile inutilità del progetto (12; 13).

È triste, ma ad un’attenta analisi spesso la correttezza scientifica si scopre essere tradita proprio da chi si pavoneggia di esserne l’unico interprete, da coloro che trasformano la scienza in una caricatura deificata, una divinità che troppe volte è costretta ad ammettere: “Scusate, mi sono sbagliata”.

(1) http://leonardodavinci.csa.fi.it/studenti/dna/fattoria/img/coning.jpg.
(2) ZENIT,
Lo “scivolamento etico” nell’eutanasia.
(3) U. Veronesi, Corriere della Sera del 10 Settembre 2003, pag. 12.
(4) P.A.V. “La prospettiva degli xenotrapianti”, 26 Settembre 2001.
http://www.academiavita.org/template.jsp?sez=Documenti&pag=testo/xenotrapianti/xenotrapianti.
(5) A. Morresi. L’embrione chimera cosa sia nessun lo sa, nemmeno in Gran Bretagna. Il Foglio del 11 Settembre 2007 pag. 2.
http://www.mascellaro.it/web/index.php?page=articolo&CodArt=15667.
(6) A. Vescovi. Si tratta di clonazione umana embrioni distrutti senza scopo. Avvenire del 11 Settembre 2007 pag. 3
(7) C. Navarini. ZENIT,
BGM? I bambini geneticamente modificati “in prova” nel Regno Unito.
(8) C. Navarini. ZENIT,
Le ultime frontiere della clonazione: uomini e ibridi.
(9) C.A. Redi. Il falso mito degli embrioni chimera. http://lescienze.espresso.repubblica.it/articolo/Il_falso_mito_degli_embrioni_chimera/1312806
(10) Gruppo dei Ricercatori Italiani sulle Cellule Staminali Embrionali (Gruppo IES). Manifesto per la ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali: dell’eticità di una “nuova frontiera”. Roma, 12 Luglio 2007.
(11) Padre M. Faggioni Comunicazione orale Congresso Cellule Staminali: Quale Futuro Terapeutico?
Anthropological-ethical reflections on production and use of « embryonic » stem cells. Roma, 14-16 Settembre 2006.
(12) Mark Henderson. Watchdog should approve ‘cybrid’ embryos. Timesonline, September 3, 2007.
http://www.timesonline.co.uk/tol/news/uk/health/article2379948.ece?token=null&offset=0.
(13) Mark Henderson. What we really, really want. Timesonline, September 8, 2007.
http://www.timesonline.co.uk/tol/life_and_style/health/our_experts/article2406240.ece
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La Lectio magistralis di Benedetto XVI a Regensburg un anno dopo

dal sito:

http://www.zenit.org/article-11879?l=italian

 La Lectio magistralis di Benedetto XVI a Regensburg un anno dopo 

Intervista a monsignor Giampaolo Crepaldi 

 

ROMA, venerdì, 14 settembre 2007 (ZENIT.org).- Il 12 settembre 2006, in occasione del suo viaggio apostolico in Baviera, Benedetto XVI pronunciò nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg la famosa Lectio magistralis dal titolo “Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni”.

Tutti ricordano l’ampia risonanza che ebbe quel discorso e le polemiche, talvolta molto aspre, che ne seguirono. Ad un anno di distanza, sopiti gli animi, quel Discorso appare come una pietra miliare negli insegnamenti del Pontefice, nella stessa vita della Chiesa.

Secondo monsignor Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, “il suo contenuto intrinseco, al di là delle interpretazioni forzate, la densità del pensiero presupposto ed espresso ne fanno un documento assolutamente imprescindibile, denso di indicazioni di grande respiro circa il rapporto tra la fede cristiana e la ragione umana, tra la Chiesa e il mondo, tra il cristianesimo e le altre religioni”.

Per approfondire il messaggio lanciato dal Papa in quell’occasione, ZENIT ha chiesto a monsignor Crepaldi, che è anche Presidente dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuân”, di commentare quel testo breve ma ponderoso.

Eccellenza, secondo lei la Lectio magistralis di Regensburg è da considerarsi un fatto nuovo nel magistero di questo Papa, oppure come la naturale continuità di quanto già detto in precedenza?

Mons. Crepaldi: Ambedue le cose. La Lectio di Regensburg è un testo di rara efficacia e di grande valore sia teoretico che comunicativo. Nello stesso tempo essa non fa che riproporre, in forma particolarmente incisiva, gli insegnamenti precedenti di Benedetto XVI, compresa l’enciclica Deus caritas est e, direi anche, molti aspetti della teologia di Joseph Ratzinger, a cominciare dal famoso libro Introduzione al Cristianesimo del 1969, che già conteneva tutte le idee espresse a Regensburg.

Crede che le polemiche sorte in seguito al Discorso di Regensburg ne hanno impedito una conveniente ricezione?

Mons. Crepaldi: Credo che le polemiche, nonostante spesso le loro motivazioni non trovassero fondamento nel testo del Discorso del Papa, sono state comunque espressione del riconoscimento della forza veritativa contenuta nel Discorso. A Regensburg il Papa non si è attardato su questioni marginali, ma ha colto in pieno il problema di fondo che consiste nella pretesa cristiana di essere la religione vera. Anche se detto con carità – perché il cristianesimo è anche la religione dell’amore – questo suona male a tante orecchie.

Le polemiche hanno attirato tutti gli sguardi sull’Islam. Questo, secondo lei, ha distolto l’attenzione da altri elementi importanti del Discorso?

Mons. Crepaldi: A livello di opinione pubblica penso di sì. Per questo c’è bisogno di ritornare sulla Lectio con calma. Del resto lungo questo anno che si separa dal 12 settembre 2006, sono stati innumerevoli i libri, i Convegni di alto livello, i numeri monografici di Riviste dedicate al tema di Regensburg. Segno che i problemi segnalati dal Papa non sono di superficie. Un tema, secondo me, è rimasto un po’ in ombra, fagocitato da altri aspetti. All’inizio del suo Discorso il Papa parla della “coesione interiore del cosmo della ragione”, ossia, potremmo dire con una vecchia espressione, dell’unità del sapere. Un tempo l’Università viveva di questa convinzione, oggi non è più così. Vorrei ricordare che la Fides et Ratio sostiene che tale mancanza produce smarrimento nell’uomo e contemporaneo e proprio in una ripresa dell’unità del sapere aveva indicato il grande orizzonte di impegno degli intellettuali cristiani per il nuovo millennio.

Questo problema del dialogo tra le discipline, l’unità del sapere, come lo chiama lei, è possibile da conseguirsi senza la fede cristiana, attraverso quindi la sola ragione?

Mons. Crepaldi: Questo è uno dei temi principali sottesi alla Lectio di Regensburg. e che la ricollega alla “purificazione” della ragione di cui il Papa parla nella Deus caritas est. Ad Aparecida il Papa ha detto che non tenendo conto di Dio la stessa conoscenza della realtà diventa impossibile. La dimensione trascendente assicurata dalla fede è quindi indispensabile affinché la ragione non si chiuda in se stessa, iniziando così un processo di “autolimitazione” che non può non finire nel relativismo nichilista. La fede, come afferma la Fides et Ratio, spinge la ragione a non fermarsi mai. In questo modo la salva da se stessa permettendole di essere se stessa, ossia la purifica.

Non trova che ci sia una contraddizione tra quanto affermato dal Papa a Regensburg e quanto appena detto da lei? A Regensburg il Papa ha indicato nella ragione la possibilità di “valutare” le religioni perché ciò che non è razionale non viene dal vero Dio. Lei invece sta dicendo che è la fede a valutare la ragione distinguendo tra una ragione chiusa ed una aperta alla trascendenza…

Mons. Crepaldi: Non c’è nessuna contraddizione. La fede cristiana pone la pretesa della propria verità e così accetta di essere esaminata dalla ragione. In questo modo, però, essa pone anche il problema della verità della ragione e invita la ragione a guardare dentro se stessa. Una ragione “autolimitata”, come quella razionalista o positivista o nichilista, non è in grado di esaminare la religione per il semplice fatto che non è nemmeno ragione, avendo perso l’idea stessa della propria verità. La fede cristiana accetta di essere esaminata dalla ragione nella sua pienezza, ma tale ragione nella sua pienezza, per esserlo, deve essere aperta alla verità trascendente.

Quindi, il Papa ribadisce il primato della fede anche nel momento in cui afferma che il cristianesimo accetta di essere esaminato dalla ragione?

Mons. Crepaldi: Diciamo che la ragione ha la propria autonomia logica e metodologica, il che rende possibili le varie scienze e nello stesso tempo la loro unità. Tuttavia se la ragione non si fa continuamente aiutare a respirare da un rapporto dialogico con la fede essa inevitabilmente rischia l’asfissia. Parafrasando una frase di Maritain (in Le Paysanne de la Garonne) se la ragione crede di dover chiudere la fede in una cassaforte si mutila da sé. Il bello è che anche se essa chiude la fede nella cassaforte, usa lo stesso una fede. Ecco perché Benedetto XVI ha affermato nei suoi scritti che senza Dio si cade preda degli déi. E questo accade anche per la ragione. Per esempio, il razionalismo o il positivismo, nonostante il parere contrario degli esponenti filosofici di queste due correnti, hanno alla base una fede nel potere assoluto e addirittura salvifico della ragione e della scienza.

La fede, quindi, sta sempre all’inizio, sia per il credente che per il non credente?

Mons. Crepaldi: Direi proprio di sì. Per un motivo semplice e drammatico nello stesso tempo: ogni uomo – scriveva Ratzinger già nel 1969 – deve in qualche maniera prendere posizione di fronte al settore delle decisioni fondamentali. La stessa questione se la ragione sia assoluta oppure no è, prima di tutto una questione di fede, senza escludere naturalmente il successivo apporto della ragione stessa. Senza la fede la ragione non può sapere cosa essa sia.

Nel dialogo con le altre religioni viene prima la fede o la ragione?

Mons. Crepaldi: Leggendo con attenzione la Lectio di Regensburg, ritengo che anche qui il punto di partenza sia la fede. Però da come la fede pone il ruolo della ragione nel dialogo interreligioso, si capisce anche la sua verità e la verità dello stesso dialogo. Anche il dialogo se non è vero non viene da Dio. Per essere vero il dialogo richiede di essere animato dalla verità della ragione che si riconosce nella verità della fede. 

 

ANNIVERSARIO (il 17 settembre) della morte di Adrienne von Speyr

dal sito on line del giornale « Avvenire »:

ANNIVERSARIO


A 40 anni dalla morte, gli ultimi discepoli della Von Speyr tracciano il bilancio della sua figura. E smentiscono i sospetti sul rapporto con il suo interprete, il grande von Balthasar Il cardinale Ouellet: «Nelle sue visioni non sentimento ma fedeltà alla Bibbia». Guerriero: «Un’altra Madre Teresa». Padre Servais: «Ha rivelato la forza del sabato santo». Il teologo Fessio: «Ricreò la spiritualità del ’900». 

Adrienne: e la mistica si fa «moderna» 

Il cardinale Ouellet: «Nelle sue visioni non sentimento ma fedeltà alla Bibbia».
Guerriero: «Un’altra Madre Teresa». Padre Servais: «Ha rivelato la forza del sabato santo». Il teologo Fessio: «Ricreò la spiritualità del ’900». 

Di Filippo Rizzi  

Blaise Pascal sarà stato anche uno spericolato giocatore d’azzardo. Ma la « schedina » su cui meditava non era quella di una comune ricevitoria. Lui non puntava di certo su partite e cavalli. Scommetteva su qualcosa di infinitamente più grande: l’esistenza di Dio. Diceva il filosofo francese: «Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate in favore dell’esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare, che egli esiste». Uno spot? Niente affatto, perché Pascal faceva notare come questa sia una giocata « inevitabile »: «La vostra ragione non patisce maggior offesa da una scelta piuttosto che dall’altra, dacché bisogna necessariamente scegliere». Questa è una scommessa che mette in palio il senso stesso dell’esistenza e pertanto chiama in gioco tutti: credenti e non credenti. Non è dunque un caso se Joseph Ratzinger, ancor prima di essere eletto pontefice, invitava i « laici » a scommettere sull’esempio di Pascal. Benedetto XVI ha da sempre un’attenzione particolare per coloro che non hanno fede. È proprio in questo rapporto privilegiato con i non credenti che si palesa il suo essere «moderno», come ben fa notare Fabrizio Mastrofini in questo saggio. E il « manifesto » della sua apertura e modernità è racchiuso nel discorso di Ratisbona, pronunciato un anno fa. La lezione del Papa era un invito a tutti gli uomini di buona volontà a superare la distanza fra fede e ragione in nome del bene comune. Perché una razionalità chiusa in se stessa, non solo non è in grado di spiegare la realtà, ma è stata causa di fallimenti e lutti nella storia. Benedetto XVI è consapevole che in Occidente si è affermato un modo di vivere come se Dio non esistesse. Ecco allora che occorre ripensare la condizione di non credente come qualcuno che convive in ogni persona, secondo la felice intuizione del cardinale Martini. Il libro fa così un bilancio del nuovo papato: chiamato a raccogliere la pesa nte eredità di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI sta smentendo ogni pregiudizio, offrendo ogni giorno una testimonianza che è mite e al tempo stesso ferma sui principi evangelici. Le sfide del nostro tempo sono tante: il rapporto con l’islam, le manipolazioni della scienza, le nuove povertà. Riuscirà il Papa, a portarne il peso, si chiede Mastrofini, senza suscitare l’immagine di una Chiesa che dispensa comandi e proibizioni ? La strada indicata da Ratzinger è quella ribadita a Loreto. Nel rispetto della libertà, la Chiesa non si stancherà mai di proporre mete più alte. Chiedendo il coraggio a tutti. Memori di Pascal, l’impavido scommettitore: «L’ultimo passo della ragione è il riconoscere che ci sono un’infinità di cose che la sorpassano».

Ratzinger
per non credenti
Laterza. Pagine 126. Euro 10,00

Proprio il 17 settembre di quarant’anni fa si spegneva nella sua Basilea, all’età di 65 anni, la donna che svelò ai teologi il mistero del Sabato Santo.
La complessa e affascinante figura di Adrienne von Speyr - medico, sposata, che dopo un lungo cammino a 38 anni da protestante si farà cattolica – si colloca ancora oggi nella luce delle visioni mistiche che permettono di illuminare il senso più profondo della discesa di Gesù agli inferi. E ovviamente nel rapporto centrale con il suo direttore spirituale, il grande teologo svizzero Hans Urs von Balthasar: l’uomo che grazie alla sua grande formazione intellettuale, soprattutto patristica, permetterà di dare corpo e di sistematizzare, di fornire in un certo senso un alfabeto al senso mistico della Speyr.
«Per me Adrienne – scriverà il teologo di Lucerna – non ha avuto paura di illuminare gli angoli più bui della Rivelazione». Il sodalizio tra i due spingerà lo stesso Balthasar ad affermare, all’indomani della morte della donna: «La maggior parte di quanto ho scritto è una traduzione di ciò che è presente in modo immediato, meno « tecnico », nell’opera potente di Adrienne von Speyr».
E oggi, a 40 anni di di stanza da quella scomparsa, rimangono ancora vivi tra molti discepoli (per il prossimo anno la rivista Humanitas ha in cantiere un numero monografico con scritti inediti della mistica svizzera) gli insegnamenti di Adrienne, soprattutto per l’impronta profetica che la sua missione ha lasciato in eredità alla Chiesa e al laicato cattolico. Architrave portante della sua spiritualità fu, non a caso, quella di essere – da autentica seguace della spiritualità ignaziana – una contemplativa in actione, cioè di vivere contemporaneamente la piena appartenenza a Dio e al mondo.
«A testimonianza di tutto questo mi viene in mente che poco dopo la sua entrata nella Chiesa cattolica – rivela oggi uno degli allievi del teologo svizzero e presidente dell’Associazione Lubac-Balthasar-Speyr, il gesuita belga Jacques Servais -, tornando in macchina dal suo ufficio medico, Adrienne fu improvvisamente fermata da una luce irruente, tanto che un passante scorgendo qualcosa d’insolito fuggì spaventato. Quindi udì una voce pronunciare in francese le parole Tu vivras au ciel et sur la terre (« Vivrai in cielo e sulla terra »). Parole strane ma che sono forse la chiave della missione ricevuta assieme a padre Balthasar: fondare un’istituzione di vita consacrata, la Comunità di San Giovanni».
Il 1945 segna appunto la nascita di questa piccola ma importante comunità, la Johannes Gemeinschaft, per cui la Speyr detta le regole. Ma per capire, in controluce, il segreto di Adrienne von Speyr è forse necessario leggere i suoi scritti in atteggiamento di preghiera. «Credo che il suo segreto, a 40 anni dalla sua scomparsa, sia proprio questo – sottolinea un altro discepolo, il teologo gesuita americano Joseph Fessio -: scoprire la trasparenza mariana della sua azione. Solo un uomo in preghiera può capirne la profondità. In fondo tutta la sua vita è stata un fiat alla volontà di Dio. Maria è il suo modello. E mi per metto di dire che indirettamente la sua mistica ha rinnovato, in chiave moderna e laicale, la spiritualità di cui vive oggi la stessa Compagnia di Gesù».
Ma dalla grandezza di Adrienne affiora oggi prepotentemente anche l’esperienza mistica del corpo, la teologia della croce, il suo totale abbandono, pur sofferente, alla volontà di Dio. «Pensando agli scritti di Madre Teresa di cui si è venuti a conoscenza proprio in questi giorni e che tanto hanno fatto discutere – spiega Elio Guerriero, direttore dell’edizione italiana di Communio nonché biografo e curatore delle opere di von Balthasar – vedo un ponte ideale che lega le due donne. Entrambe sentono il peso del silenzio di Dio. Adrienne, nei suoi scritti, come in ciò che è testimoniato nell’opera di Balthasar Teodrammatica, chiede a tutti i cristiani di stare sulla soglia, di pensare che « i misteri bisogna lasciarli a Dio ». Il silenzio di Dio diventa per lei presenza, pienezza, consolazione. Un silenzio che vive dentro di sé pensando all’angoscia del Getsemani, provata da Gesù. C’è una frase che fa sintesi del suo pensiero: « Se Dio si è donato: io sono invitato a donarmi »».
Una tensione, quella della Speyr, sempre inserita nelle cose ultime e in un fiduciosa speranza nel mondo dell’aldilà. «Non c’è un ottimismo di maniera nei suoi scritti – sottolinea ancora padre Servais -, l’attesa di una salvezza a buon mercato, ma rimane forte l’idea di « sperare per tutti ». Nel Sabato Santo Dio ci dice che la salvezza, operata dal Signore con la morte e risurrezione, è universale. « Egli è l’unico Redentore e invita tutti al banchetto della vita immortale »».
Il motto di Adrienne von Speyr, che rappresenterà anche il suo stile di vita, è Faire sans dire («Fatti, non parole»). Non una tendenza al nascondimento, quanto a una discreta caritas e all’intima solidarietà con gli uomini, anzitutto i poveri. E ispirazione di questo comportamento fu anche la lettura di Bernanos e di Péguy: «Adrienne era una donna dotata di una naturale allegria, molto concreta, con un grande sense of humour e un temperamento equilibrato. – ricorda un terzo discepolo, il sulpiziano cardinale e arcivescovo di Quebec Marc Ouellet -. La von Speyr ha vissuto in povertà, per esempio d’inverno non metteva i vestiti più caldi e amava fare la carità nell’anonimato. Ha vissuto inoltre una grande disponibilità per il servizio nella sua professione medica, a volte correndo rischi e pericoli. A differenza dei mistici del XVI secolo e di tutto il periodo seguente al Concilio di Trento, quello della cosiddetta devotio moderna, non c’è nella sua esperienza mistica una dimensione soggettiva ma una fedeltà al messaggio ricevuto e alla Sacra Scrittura. Ed è forse questo il suo tratto più caratteristico».
Adrienne muore il 17 settembre 1967, memoria liturgica di santa Ildegarda di Bingen, medico e mistica, che ella venerava in modo particolare. «Quando è morta i membri del suo Istituto secolare, la Comunità di San Giovanni – testimonia Ouellet -, sono caduti dalle nuvole apprendendo da un saggio di Balthasar a lei dedicato la mole e la natura straordinaria dei doni mistici della fondatrice. Ricordo una conversazione avuta con padre Balthasar, nella quale avevo creduto bene di chiedergli del suo rapporto personale con Adrienne nel contesto dei sospetti e delle insinuazioni mosse all’epoca e riguardo a certe critiche. Il grande teologo mi disse che poteva rispondere solo con la sua testimonianza, ma in qualità di confessore di Adrienne poteva certificare che lei possedeva la stessa innocenza e il candore di santa Teresina di Lisieux».

 

 

La luce dell’oscurità di Madre Teresa (Parte II)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-11840?l=italian

 La luce dell’oscurità di Madre Teresa (Parte II) 

Padre Kolodiejchuk parla della sua gioia nella sofferenza 

 

ROMA, martedì, 11 settembre 2007 (ZENIT.org).- Senza la sofferenza il nostro lavoro sarebbe solo un’opera sociale e non l’opera di Gesù Cristo, aveva detto Madre Teresa di Calcutta.

La fondatrice delle Missionarie della Carità aveva espresso queste parole in una lettera indirizzata ad un suo direttore spirituale e ora pubblicata – insieme ad altre lettere – in un volume intitolato “Come Be My Light” (“Vieni, sii la mia luce”), edito e presentato da padre Brian Kolodiejchuk.

In questa intervista rilasciata a ZENIT, padre Kolodiejchuk, sacerdote Missionario della Carità e postulatore della causa di canonizzazione della beata Madre Teresa di Calcutta, parla del suo nuovo libro e della vita interiore di Madre Teresa, tenuta finora nascosta al mondo.

La prima parte di questa intervista è stata pubblicata il 10 settembre.

Il libro “Come Be My Light” riporta nel titolo la richiesta che Gesù fece a Madre Teresa. In che modo la sua sofferenza redentrice in favore degli altri, vissuta in un’oscurità estrema, si collega a questa sua particolare vocazione?

Padre Kolodiejchuk: Durante gli anni ’50 Madre Teresa si era abbandonata a Dio, accettando la sua oscurità. Padre Neuner – uno dei suoi direttori spirituali – l’aveva aiutata a comprendere questo, collegando la sua oscurità con la sua chiamata a saziare la sete di Gesù.

Lei era solita dire che la più grande povertà è quella di sentirsi indesiderati, non amati, non curati. E questo è esattamente ciò che lei sperimentava in relazione a Gesù.

La sua sofferenza di riparazione – la sua sofferenza per gli altri – era parte integrante del modo in cui viveva la sua vocazione per i più poveri dei poveri.

Quindi per lei la sofferenza non era solo la povertà fisica e materiale, ma anche quella interiore, propria delle persone che si sentono sole, non amate, rifiutate.

Aveva rinunciato alla sua luce interiore, in favore di coloro che vivono nell’oscurità, e diceva: “Io so che sono solo sentimenti”.

In una lettera a Gesù aveva scritto: “Gesù ascolta la mia preghiera. Se è a Te gradito, se il mio dolore e la mia sofferenza, la mia oscurità e separazione dà a Te una goccia di Consolazione, mio caro Gesù, fa di me ciò che Tu vuoi e per tutto il tempo che vuoi, senza guardare ai miei sentimenti e al mio dolore”.

“Io sono tua. Incidi sulla mia anima e sulla mia vita le sofferenze del Tuo cuore. Non badare ai miei sentimenti; non tenere conto del mio dolore”.

“Se la mia separazione da Te porta altri verso di Te e se nel loro amore e nella loro vicinanza Tu trai gioia e piacere, allora Gesù io sono disponibile, con tutto il mio cuore, a soffrire tutto ciò che soffro, non solo ora, ma per tutta l’eternità, se possibile”.

In una lettera alle sue consorelle, rende il carisma dell’Ordine più esplicito: “Mie care figlie, senza la sofferenza il nostro lavoro sarebbe solo un’opera sociale, molto buona e utile, ma non sarebbe l’opera di Gesù Cristo, non sarebbe parte della redenzione. Gesù ci ha voluto aiutare, condividendo la vita, la solitudine, l’agonia e la morte”.

“Di tutto ciò Egli si è fatto carico, sopportandolo anche nella notte più oscura. Solo facendosi uno con noi Egli compie la sua redenzione”.

“Noi possiamo fare lo stesso: ogni desolazione vissuta dalla gente povera – non solo la loro povertà materiale, ma loro sofferenza spirituale – deve essere redenta e noi dobbiamo fare la nostra parte. Pregate, quindi, quando vi sembra di non farcela: ‘Io voglio vivere in questo mondo che è lontano da Dio, che si è allontanato così tanto dalla luce di Gesù, per aiutarli, per prendere su di me una parte della loro sofferenza’”.

E questa è ciò che considero la sua dichiarazione di missione: “Se mai dovessi diventare una santa, sarò sicuramente una santa ‘dell’oscurità’. Sarei continuamente assente dal Paradiso, per accendere la luce di coloro che si trovano nell’oscurità sulla terra…”.

Questo era il suo modo di intendere la sua oscurità. Molte delle cose che diceva hanno più senso e acquistano un significato molto più profondo ora che siamo a conoscenza di queste cose.

Cosa risponde quindi a coloro che parlano della sua esperienza come di una crisi di fede, come se in realtà non credesse in Dio, o che in qualche modo intendono la sua oscurità come un segno di instabilità psicologica?

Padre Kolodiejchuk: Non è stata una crisi di fede, né un’assenza di fede. È stata una prova di fede nella quale ella sperimentava la sensazione di non credere in Dio.

Questa prova ha richiesto una buona dose di maturità umana, senza la quale non sarebbe riuscita a superarla e sarebbe diventata squilibrata.

Come ha affermato padre Garrigou-Lagrange, è possibile avere allo stesso momento sentimenti apparentemente contraddittori.

È possibile avere una “gioia cristiana oggettiva”, come l’ha definita Carol Zaleski, e allo stesso tempo attraversare la prova o avere la sensazione di non credere.

Non si tratta di due persone diverse, ma di un’unica persona con sentimenti a livelli diversi.

Noi possiamo realmente vivere in qualche modo la croce – con il dolore che ciò comporta, che pur essendo spirituale rimane dolore autentico – e al contempo essere pieni di gioia perché sappiamo di essere uniti a Gesù. E questo non è falso.

È così che Madre Teresa ha vissuto una vita così piena di gioia.

Come postulatore della sua causa di canonizzazione, quando pensa che potremmo rivolgerci a Madre Teresa chiamandola Santa Teresa di Calcutta?

Padre Kolodiejchuk: Abbiamo bisogno di un altro miracolo. Ne abbiamo individuati alcuni, ma nessuno ci è sembrato sufficientemente chiaro. Uno è stato richiamato nella causa di beatificazione, ma ora siamo in attesa del secondo.

Forse Dio ha voluto aspettare la pubblicazione di questo libro: si sa che Madre Teresa era santa, ma per via della sua modestia e semplicità di vita, la gente non aveva potuto vedere quanto e come era santa.

L’altro giorno ascoltavo due preti che parlavano. Uno diceva di non essere mai stato un grande fan di Madre Teresa, ritenendola solo una donna molto pia, devota e dedita ad opere ammirevoli, ma che dopo aver conosciuto la sua vita interiore per lui era cambiato tutto.

Oggi abbiamo ben più di un’idea di quanto elevata fosse spiritualmente e sappiamo qualcosa di più sulle sue caratteristiche più profonde.

Una volta che verrà accertato il miracolo, sarà questione di qualche anno, sempre che il Papa non decida di abbreviare i tempi.

Cosa è avvenuto all’Ordine dopo la morte di Madre Teresa?

Padre Kolodiejchuk: L’Ordine è cresciuto di quasi 1.000 unità, passando da 3.850 al momento della sua morte, alle 4.800 di oggi, e sono state istituite più di 150 nuove case in più di 14 Paesi 

 

L’errore dell’aborto selettivo fa riemergere l’orrore eugenetico

dal sito Zenith:

http://www.zenit.org/article-11701?l=italian

 

L’errore dell’aborto selettivo fa riemergere l’orrore eugenetico

 E’ giunta l’ora di ripensare la legge 194, afferma Carlo Casini 

 

ROMA, mercoledì, 29 agosto 2006 (ZENIT.org).- Sulla scia delle reazioni all’aborto delle gemelline avvenuto all’Ospedale San Paolo del capoluogo lombardo, l’onorevole Carlo Casini, Presidente del Movimento per la Vita (MpV), ha dichiarato a ZENIT che “l’episodio di Milano prova, ancora una volta, un effetto negativo della legge n. 194/1978”.

A questo proposito, Casini parla di una certa “equivocità dell’art. 6” della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza e sostiene che “nonostante, apparentemente, non sia consentito l’aborto eugenetico, è oramai accettata l’idea che si possa discriminare tra esseri umani”.

“L’aborto è sempre un male – ha sottolineato Casini –, ma la selezione embrionale aggiunge ingiustizia ad ingiustizia, tanto più se ricordiamo che ci sono famiglie disposte ad adottare un bambino down e che il mongolismo consente oggi di condurre una vita felice”.

Il noto giurista ha rilevato che “l’errore di Milano è venuto alla luce per l’eccezionalità del caso. Sarebbe rimasto nascosto se la gravidanza non fosse stata gemellare”.

E “purtroppo – ha aggiunto – l’errore diagnostico e l’errore tecnico nell’aborto sono frequenti. Essi sono stati evidenziati nei casi eccezionali di bimbi sopravvissuti per qualche tempo all’I.V.G. (a Milano, a Firenze, a Sassari ecc. ecc.), ma nulla sappiamo negli altri casi ben più numerosi di aborti cosiddetti ‘terapeutici’”.

Il Presidente del MpV ha precisato che “l’esperienza dei Centri di Aiuto alla Vita e del servizio telefonico ‘Telefono Rosso’ (06/3050077) prova l’errore diagnostico in molti casi in cui la gravidanza, nonostante la previsione di malformazioni, e l’autorizzazione all’I.V.G., è proseguita a causa dell’aiuto offerto alla donna”.

Anche per questo motivo, da tempo, il MpV sostiene la necessità di “rendere obbligatorio il riscontro diagnostico su ogni feto vittima del cosìddetto aborto ‘terapeutico’”.

Secondo l’onorevole Casini, “i risultati dovrebbero essere comunicati al Ministro della Salute perché ne possa riferire ogni anno al Parlamento”.

“E’ giunta l’ora di un ripensamento complessivo sulla legge 194/1978 – ha sottolineato il Presidente del MpV – ma intanto il riscontro diagnostico potrebbe essere preteso come una semplice circolare ministeriale. La legge 194/1978 resta ingiusta nel suo nucleo essenziale ma, almeno, modifichiamone la sua applicazione eliminando l’equivocità delle sue parole”.

Intervistati da ZENIT i due gemelli Luca e Paolo Tanduo, del Gruppo Giovani del Movimento per la Vita Ambrosiano, attivi in molte opere di volontariato nel campo culturale e biomedico, hanno detto di aver appreso “con stupore ed anche un po’ di orrore” quanto accaduto all’Ospedale S. Paolo di Milano.

Secondo i due fratelli, “questo caso ‘grida’ a tutti ancora una volta come col cosiddetto aborto terapeutico si violi il diritto fondamentale dell’uguaglianza di ogni vita umana”, perché “viene detto che l’errore è stato ‘eliminare’ il gemello sbagliato, quello sano, ma noi ci permettiamo di dire che l’errore è che qualcuno si senta autorizzato a selezionare chi deve vivere e chi no”.

“Purtroppo – hanno concluso – anche il secondo gemellino è stato abortito, ma anche nel caso avessero fatto vivere solo il gemello sano, da gemelli, diciamo che gli avrebbero tolto un fortissimo legame di fratellanza”.

Interpellata da ZENIT, la dr.ssa Clementina Isimbaldi che cura la Rassegna Stampa di Medicina e Persona, ha sottolineato che “non si è trattato di una fatalità”, come hanno scritto in tanti.

“In realtà – ha detto – non si tratta solo di responsabilità medica; è l’uomo che manca, non c’è più l’uomo: è smarrita la ragione, la dote umana inconfondibile che fa la diversità dell’uomo rispetto agli altri esseri viventi. E’ smarrita la ragione e ridotto l’uomo”.

Secondo l’esponente di Medicina e Persona quanto accaduto è “un segnale del decadimento umano, è la mancanza di percezione della gravità di ciò che è accaduto e quindi della colpa, della propria colpevolezza, dell’essere stati all’origine della morte di due bambini, perché così è stato. Ammettere l’errore è l’inizio della possibilità di cambiare, di tornare cioè ad essere uomini”.

“Preoccupante – secondo la Isimbaldi – anche l’aspetto professionale dei medici”. In questo caso infatti “il ‘fare medico’ diviene mediocre, viene a patti con l’empirismo più grossolano, accettando una scommessa simile al gioco della roulette russa: premere il grilletto su uno dei due gemelli, rischiando di perdere anche il bambino sano, pur di far fuori il malato”.

“Qui l’errore – sostiene – è colpevole. Se si perde la ragione che dice: ‘Fermati, non hai in mano tutti gli elementi per poter decidere, sii uomo, rispetta l’altro uomo, volere non è potere’, anche l’aspetto professionale, scade in mediocrità ed empirismo senza rimedio”.

La Isimbaldi ha quindi sottolineato che “nell’epoca post-illuminista e tecnologica in cui viviamo, persa la ragione, la medicina torna ad essere magia. Come disse profeticamente Lejeune nel 1976: ‘Il vero pericolo è nell’uomo; nello squilibrio sempre più inquietante tra la sua potenza che aumenta e la sua saggezza che regredisce [...] E’ saggio essere un buon apprendista, è il dovere di ogni scienziato, ma è folle giocare allo stregone; nessuno può mai diventarlo’”.

“Chi persegue il mito di una società senza handicap – ha commentato poi –, diviene egli stesso vittima di questa utopia, da una parte scadendo in capacità tecnica e dall’altra perseguendo la selezione eugenetica al prezzo più alto: la morte di altri uomini”.

“E’ guerra dichiarata al bambino diverso – ha osservato l’esponete di Medicina e Persona –, fino a far morire un altro, sano, pur di raggiungere l’obiettivo. Per salvare il gemello sano si è arrivati a uccidere a caso, a procedere ugualmente”.

“Inaccuratezza che è segno di disprezzo per la vita, per qualunque vita, sana o malata che sia. La selezione eugenetica non è per l’uomo, ma contro l’uomo, contro ogni uomo”, ha poi concluso. 

 

da « Avvenire »: Esilarante articolo dell’on. Maurizio Turco

dal sito on line del giornale « Avvenire », di oggi: 

 

Esilarante articolo dell’on. Maurizio Turco 

Le analisi zoppicanti del fanatismo laicista 

Luigi Geninazzi  

Sembra proprio che nella battaglia per la difesa dei diritti in Europa i radicali abbiano trovato la loro testa di turco. Di nome e di fatto. Stiamo parlando del deputato della « Rosa nel Pugno », Maurizio Turco, talmente inchiodato al palo delle sue fissazioni anti-clericali da diventare fin troppo facile bersaglio. In un lungo articolo sul Riformista di ieri lanciava l’allarme: «Su diritti e laicità la Ue ha due pesi e due misure». Dev’essere successo qualcosa di grave, abbiamo pensato. Qualcosa che è colpevolmente sfuggito all’attenzione di tutti gli osservatori (eccetto beninteso il Riformista). Vuoi vedere che l’Unione Europea ha riconosciuto un regime talebano? Peggio ancora, vuoi vedere che tra i 27 Paesi membri della Ue si nasconde una teocrazia più pericolosa di quella degli ayatollah? Tenetevi forte: quel Paese esiste e si chiama Italia. Parola di Maurizio Turco che dai microfoni di Radio Radicale spiega a tutti noi, poveri cattolici, che all’ombra del Vaticano «la fede è sempre meno riconducibile al concetto di religiosità», mentre s’avvicina a quello di «simonia». Forse si crede la reincarnazione di Lutero, ma non riuscendo ad essere all’altezza di chi affiggeva le Tesi al portone di Wittenberg s’accontenta d’affliggere la Commissione europea con fanta-politiche interpellanze. Ce l’ha con il Vaticano ma anche con il Ppe, accusati di doppiezza nei confronti della Turchia, ufficialmente favorevoli al suo ingresso nell’Unione Europea ma in realtà ostili. Siamo comprensivi: in questa difesa della Sublime Porta l’esponente radicale mostra una certa coerenza, se non altro col proprio nome. Ma a suo avviso «la valutazione da parte della Ue sul rispetto della democrazia e dei diritti umani in un paese aderente, per essere credibile, dovrebbe misurarsi innanzitutto con la capacità di valutare quella dei paesi membri». La prosa è claudicante, il ragionamento ancor di più. L’Unione europea ha paura di mettere il naso negli affari di un Paese membro? Ma quando mai, l o fa ad ogni occasione. E spesso a ragione. Ma Turco vorrebbe che intervenisse per difendere la laicità delle istituzioni in Italia. Magari imponendo la modifica, anzi l’abrogazione, dell’articolo 7 della Costituzione che «per quanto non attribuisca alla religione cattolica il rango di religione di Stato le garantisce un piano diverso e superiore rispetto alle altre confessioni». Il deputato con la rosa nel pugno sembra ignorare che dopo l’articolo 7 viene l’8 in cui si garantisce libertà e bilateralità nei rapporti con lo Stato a tutte le confessioni religiose. L’unica differenza che riguarda la Chiesa Cattolica è lo strumento giuridico bilaterale: non una semplice intesa ma un Concordato, cioè un Trattato internazionale (che ha prodotto «pace sociale e collaborazione», come ha sostenuto monsignor Betori facendo infuriare il Turco giacobino). Ora tutto può accadere ma non che la Ue intervenga su questa materia. E stupisce che un ex euro-deputato non lo sappia. Vada a leggersi l’articolo 51 del Trattato costituzionale dove si dice che «la Ue rispetta e non pregiudica lo status previsto dalle legislazioni nazionali per le Chiese e le comunità religiose negli Stati membri». Ma c’è qualche testa di Turco che sogna per il nostro Paese una sovranità limitata 

 

Publié dans:Approfondimenti |on 29 août, 2007 |Pas de commentaires »

Antiochia di Siria, oggi Antakya: “Ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani”

spero di non aver postato già questo testo, non mi sembra, perché particolarmente interessante per noi sapere quando i cristiani sono stati chiamati tali per la prima volta, forse ce lo ricordiamo l’episodio, ma vale la pena di ricordarlo, credo, dal sito: 

http://www.gliscritti.it/index.html

Antiochia di Siria, oggi Antakya: “Ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani”
del prof.Giancarlo Biguzzi 

Presentiamo on-line un testo del prof.Giancarlo Biguzzi, docente di Nuovo Testamento presso la Pontificia Università Urbaniana, già apparso sulla rivista Eteria, appartenente ad una serie di articoli che avevano lo scopo di introdurre, come in agili reportage giornalistici, ad una prima conoscenza dei luoghi e delle figure del Nuovo Testamento. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di rendere più facile la lettura on-line.   Il Centro culturale Gli scritti (29/6/2007)  


Venendo da Adana, passavamo per Isso della battaglia (333 a.C.), e poi per Iskenderun, e non sapevo che tono dare al mio discorso quando presi il microfono per presentare Antiochia di Siria ai pellegrini che, Bibbia alla mano, erano sulle orme di Paolo di Tarso. Da un lato infatti Antiochia, oggi Antakya, merita un discorso lungo in ordine al cristianesimo primitivo, ma dall’altro, dal punto di vista turistico, non ha molto da offrire.Il pullman costeggiava spiagge talvolta addirittura squallide, e comunque ben diverse da quelle della costa turchese. Dato il presente poco turistico della regione, cominciai allora a celebrarne il passato, e soprattutto il passato appunto di Antiochia.

Al tempo delle origini cristiane, Antiochia era la terza città dell’impero romano (mezzo milione di abitanti), evidentemente dopo Roma (un milione), e dopo Alessandria di Egitto, grande centro di commercio e di cultura. Da Antiochia, coi mercanti, coi soldati, con gli avventurieri ecc., giungevano a Roma i culti, i costumi e le esotiche dissolutezze orientali, tanto che in nome delle antiche virtù romane il poeta Giovenale (60-135 d.C.), come è noto, scriveva astiosamente: “E’ da un pezzo che l’Oronte (e cioè il fiume di Antiochia) si getta nel Tevere!”

Più che dei fasti romano-imperiali i pellegrini che vengono qui, vogliono però sentir parlare appunto delle origini cristiane. E allora non si può non dire che Antiochia nel Nuovo Testamento è seconda soltanto a Gerusalemme. Nel vulcanico cristianesimo delle origini, quello di Antiochia fu il più importante cratere laterale tra quelli sorti attorno al cratere centrale della chiesa gerosolimitana.

E’ comunque da Gerusalemme che il discorso su Antiochia deve partire. Tra i discepoli di Gesù alcuni avevano nomi prettamente giudaici (Matteo, Giovanni, Natanaele, Giuda…), ma altri portavano nomi greci (Filippo, Andrea). Per questo è del tutto comprensibile che la comunità postpasquale di Gerusalemme fosse composta oltre che di ebrei di lingua aramaica, anche di ebrei ‘ellenisti’, che invece parlavano greco (Atti 6,1).

Questi Ellenisti, per il fatto di essere in gran parte rimpatriati dalla diaspora, molto più che quelli palestinesi erano aperti al mondo non-giudaico e, a partire dalla fede in Gesù, sottoponevano a critica le istituzioni del giudaismo: il tempio, la legge, o la circoncisione ecc. La loro apertura universalistica provocò l’immediata, dura reazione degli ebrei gerosolimitani, i quali riuscirono ad eliminare completamente la loro presenza dalla città. Stefano, il personaggio di maggior spicco, fu ucciso; altri si dispersero in Samaria (cf quello che è detto di Filippo in Atti 8); altri forse ripararono a Damasco (cf Anania e Giuda in Atti 9), e altri, infine, in Fenicia, a Cipro e appunto ad Antiochia (Atti 11,19).

Ad Antiochia questi fuggiaschi furono protagonisti di almeno tre grandi cose. La prima fu il nome cristiano. Come a Gerusalemme, anche qui essi si differenziarono dai frequentatori delle sinagoghe locali, presentandosi come ebrei-messianici: come ebrei cioè per i quali in Gesù di Nazaret si erano compiute le parole dei profeti e tutte le Scritture. Come già precedentemente a Gerusalemme e come a Roma nell’anno 41 (cf Svetonio, Vita di Claudio 25,4; e Atti 18,2) anche ad Antiochia, intorno agli anni 39-40 d.C., ci furono contrasti tra giudei-messianici e giudei non-messianici. I contrasti sfociarono probabilmente in tumulti e disordini. E furono probabilmente le autorità romane allora che, intervenendo a ristabilire l’ordine pubblico, coniarono il neologismo ‘cristiani’ per designare gli ebrei-messianici. ‘Messia, messianico’ in ebraico infatti è la stessa cosa che ‘Cristo, cristiano’ in greco. La nascita del nome che nella storia avrebbe avuto l’importanza che sappiamo, è segnalata in Atti 11,26 in cui è scritto: “…ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani”. Dal punto di vista del vocabolario storico-religioso, Antiochia ha dunque dato al mondo un contributo che non ha il pari.

La seconda impresa dei cristiani antiocheni fu la missione. Gerusalemme era stata missionaria soltanto suo malgrado, quando da essa furono allontanati i cristiani ellenisti. Antiochia invece divenne il più grande centro di irradiazione missionaria delle origini per congenialità e per scelta: “… alcuni fra loro cominciarono a parlare anche ai greci ” (Atti 11,20), e poi per una vera e propria strategia che contava su missionari itineranti e fondatori di chiese in altre regioni, i quali da Antiochia partivano (Atti 13,2ss), e ad Antiochia facevano ritorno (Atti 14,26), per poi ripartire in nuove ondate missionarie (Atti 15,36 ecc.). I nomi a noi noti dei grandi missionari di Antiochia sono: Pietro (Gal 2,11), Barnaba e Paolo (Atti 13,2ss), Giovanni Marco (Atti 13,5), Tito (Gal 2,1.3), Agabo (Atti 11,28), e quasi certamente anche Luca, l’autore degli Atti degli Apostoli.

Il terzo, incalcolabile merito della comunità cristiana di Antiochia fu quello di mettere al servizio del Vangelo e della missione quelli che noi chiameremmo i mezzi della comunicazione sociale. E’ infatti ad Antiochia di Siria che con ogni probabilità furono scritti il vangelo di Matteo e la Didachè, mentre è certo che il vescovo antiocheno degli inizi del secondo secolo, e cioè Ignazio martire, ha scritto sette famose lettere a diverse comunità (Efeso, Filippi, Roma…) o persone (Policarpo, vescovo di Smirne). Quanto all’importanza del vangelo di Matteo, basti dire che ci ha dato la preghiera del Pater nella formulazione in cui noi la recitiamo, e poi fra l’altro il racconto dei Magi e della stella, il discorso della montagna con le otto beatitudini e, infine, la formula trinitaria del battesimo, con la quale accompagniamo anche il segno di croce.

Dicendo tutte queste cose il pullman arriva ad Antakya senza che ce se ne accorga. E’ una città di centomila abitanti, di un qualche colore orientale nonostante alcuni alberghi e condomìni all’europea. Arrivando, si costeggia e si attraversa il fiume Oronte, davvero inquinato come diceva Giovenale, e tutto quello che ad Antakya il turista può visitare è un museo, proprio sulla riva dell’Oronte. Nulla più rimane dei quattro lussuosi quartieri dell’antichità, nulla della grande via colonnata lunga 4 Km, larga 10 metri, con portici profondi 10 metri e ornati di circa 3.000 statue.

Al museo, sono in esposizione tanti, meravigliosi mosaici pavimentali, provenienti dalle lussuose ville della vicina Dafne (8 km), sacra al tempio e al mito di Apollo e della bella ninfa, Dafne appunto, che inseguita dal dio sfuggì alla sua insidia tramutandosi in alloro. Le iscrizioni musive parlano tra l’altro di ‘amerìmnia’, di ‘chresis’, di ‘soterìa’. Parlano cioè di serenità, di sano uso delle cose, di salvezza: aspirazioni cui il cristianesimo delle origini diede la risposta che sappiamo, con il consistente contributo della comunità antiochena. E’ per questo e per tutto quanto si diceva, che ad Antiochia sull’Oronte, o Antakya, vanno più pellegrini che turisti.  

Publié dans:Approfondimenti |on 25 août, 2007 |Pas de commentaires »

Emergenza fuoco, il lavoro educativo

dal sito on line del giornale: « Avvenire »: 

Emergenza fuoco, il lavoro educativo 

Parlare e predicare del peccato contro la natura 

Francesco Ognibene  

«In Italia manca l’affetto per l’ambiente». Forse non solo per l’ambiente, viene spontaneo aggiungere. Ma le amare parole del capo della Protezione civile Guido Bertolaso quando mercoledì notte non s’era ancora venuti a capo del rogo di Cefalù riassumono sobriamente la lezione che resta tra la cenere del Sud, una volta dissolto il fumo di stucchevoli polemiche. Leggi, mezzi, uomini, strutture: la difesa della natura è tutto questo, certo, ma è anche molto di più. È quell’«affetto», appunto, che drammaticamente scopriamo mancare quando ci accorgiamo all’improvviso di angoli di degrado, isole d’incuria, intere aree abbandonate al capriccio di chi le usa senza nemmeno più l’ombra della consapevolezza che l’ambiente è « bene comune »: appartiene a tutti, deve stare a cuore a ciascuno, e non può essere lasciato in balia di qualche sconsiderato o, peggio, di criminali. L’affetto però non si impone per legge, e quando viene a mancare così platealmente è segno che l’incendio è colpa del piromane, ma non di lui soltanto. Nessuno che abbia responsabilità educative può eludere oggi, di fronte alla tragedia delle vittime e al nuovo scempio di boschi, una riflessione su quel che si fa per coltivare il germoglio dell’amore per l’ambiente, luogo vivo e non solo fondale della nostra vita. Devastarlo è un reato che ferisce l’umanità e non solo la flora. La stessa Chiesa deve usare ogni propria risorsa formativa perché questa sensibilità oscurata torni a parlare al cuore, dettando doveri, suggerendo impegni, impedendo omissioni, se occorre evocando il peccato. È un senso morale atrofizzato che deve riprendere tono e restituire lo sguardo attento a chi l’ha perduto (anche a noi stessi, forse) finendo per considerare la natura come un accessorio utile, un occasionale rifugio emotivo, e non secondo ciò che la stessa storia cristiana indica quando parla di « creato », parola che racchiude il divino e l’umano come poche altre. Il mondo affidato in eredità all’uomo – a ciascuno – è una respon sabilità non delegabile a nessuna Protezione civile: è la stessa comune natura umana, così violentemente alterata, che dovrebbe farci avvertire come nostro, gelosamente nostro, ciò che ci è consegnato per farlo fruttare e non per spremerlo e gettarlo. Ogni omelia, catechesi, occasione formativa può essere il « luogo » di questa rinnovata educazione popolare: un’opera non residuale, quasi un lusso là dove si è esaurita ogni altra necessità pastorale, ma un impegno che è parte stessa dello sforzo così necessario per rimettere al centro della cultura la persona umana e opporsi alla pretesa di autonomia, al soggettivismo sempre più scomposto, alla libertà che solo pretende, all’arbitrio che induce a credersi capricciosi signori del mondo. Negli incendi di questa estate e in ogni vigliaccheria piccola o grande di fronte alla natura c’è anche uno strappo che va sanato tra ciò che siamo e il ritratto sgraziato che ci siamo costruiti. Sentirsi richiamati a tornare in noi stessi allora è un passo culturale decisivo, un’armonia ritrovata, e non un’ingenuità evasiva. Invocando «campi scuola» da far organizzare a tutte le scuole italiane «per educare i giovani ad amare il loro territorio» Bertolaso non ha fatto che richiamare un’esperienza nata dalla passione educativa della Chiesa, che onorando la natura invita a contemplarne il Creatore, e a smettere di credersi tutto. 

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