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Hazor, città prestigiosa. I: Un fuoco devastante

dal sito: 

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01.10.2007 @ 19:21 

Hazor, città prestigiosa. I: Un fuoco devastante 

SBF Taccuino


In luglio, circa due mesi prima che l’ultima campagna di scavi a Tel Hazor si concludesse, è stata trovata una tavoletta di argilla con geroglifici. Il testo della tavoletta insegna come prevedere il futuro scrutando il fegato di un animale, una pratica diffusa nell’antico oriente. I sacerdoti esaminavano il fegato degli animali che erano stati sacrificati alle divinità e in base a determinati segni predicevano il futuro. I geroglifici della tavoletta non sono stati ancora decifrati completamente, ma il loro stile ricorda i primi documenti dell’antico regno di Mari sull’Eufrate, nell’odierna Siria. Mari (la città ndr.) fu un importante centro politico durante il periodo del Bronzo Medio, tra il 2000 e il 1500 a.C., e Hazor era l’unica città della futura terra israelita che in quel tempo aveva relazioni con essa. Dei rapporti tra le due città ci informano una ventina di documenti dell’archivio trovato a Mari. Hazor vi appare come un centro di una notevole importanza. Si parla di carovane commerciali che l’attraversavano, di emissari inviati alla città, di musicisti e cantanti che vi risiedevano. Nel diciottesimo secolo a.C. Hazor conobbe un processo di espansione e di sviluppo. La città fu fondata a quanto pare alla fine del periodo del Primo Bronzo, nel terzo millennio a.C., nella parte superiore di quello che oggi è il Tel. 

Un fuoco devastante 

I ritrovamenti degli scavi degli anni ‘50-’60 documentarono gli stretti rapporti di Hazor con i vicini del nord e il suo significativo ruolo nella cultura del Canaan settentrionale. Il suo prestigio spinse altre popolazioni limitrofe a trasferirvisi. In questo modo la città si estese sulle pendici settentrionali del Tel e si ingrandì fino a coprire l’intera area tra il Tel e il fiume Hazor. Nel suo apogeo raggiunse una superficie di ottocento dunam (un dunam corrisponde a circa 1000 metri quadrati) e il numero degli abitanti, tra il Medio e il Tardo Bronzo, doveva oscillare dai 15.000 ai 20.000. 

Hazor era tra le città più importanti in tutto il Medio Oriente. Era circondata da un largo bastione e da un muro, scoperti nel corso degli scavi guidati dal prof. Yigael Yadin. I risultati degli scavi testimoniano legami di Hazor non solo con Mari ma anche con l’Egitto, il regno ittita, Babilonia, Creta, la Grecia e Cipro. Non deve dunque sorprendere che nel racconto della conquista della città nel libro di Giosuè (11,10) sia scritto: “perché prima Hazor era stata la capitale di tutti quei regni”. 

L’importanza di Hazor è testimoniata sia dalla superficie che occupa sia dalle costruzioni scavate. La squadra degli scavatori, guidata dal prof. Amnon Ben-Tor, vi sta conducendo campagne di scavo fin dal 1990 e ha portato alla luce sull’acropoli una larga area del perimetro appartenente alla residenza reale. Gli scavi ad Hazor in onore del prof. Yadin, finanziati dal Saltz Fund, sono condotti dall’Università ebraica di Gerusalemme sotto gli auspici della Società biblica e archeologica israeliana. 

Sul pendio di fronte alla città bassa, vicino alle scale che collegano questa parte alla città alta è stato trovato un edificio monumentale del Tardo Bronzo, costruito con grandi e levigate pietre basaltiche o calcaree. 

Alcune pietre di basalto furono usate per pavimentare l’accesso all’edificio dove si trovava un piattaforma per il rito costruito con pietre di basalto levigato. Tale piattaforma consiste in una lastra di basalto del peso di circa due tonnellate con quattro insenature. Gli archeologi pensano che la loro funzione fosse di assicurare stabilmente i piedi del trono del re o della statua della divinità. Fino ad ora, tuttavia, nessuna delle due ipotesi è stata provata. 

Data al periodo del Bronzo Antico un’altra monumentale costruzione trovata nel tratto superiore della città. Corrisponde a un palazzo dove, nel cortile, vicino alla porta, è stata trovata un’altra piattaforma rituale. Le mura della città furono costruite con mattoni e avevano le fondamenta di pietre di basalto levigate su cui poggiavano travi di legno di cedro. Nel palazzo sono stati rinvenute pergamene con geroglifici, statue di pietra, bronzi e gioielli. E’ recente il ritrovamento di una statua in pietra con scrittura egiziana. 

Si pensa che l’edificio nella parte alta della città sia stato un palazzo riservato a cerimonie e riti del re. Entrambe le costruzioni sul Tel furono distrutte, insieme ad altri edifici pubblici nella parte bassa della città, durante un gigantesco incendio nel tredicesimo secolo a.C. A giudicare dai ritrovamenti – mattoni fusi in vetro, vasi di argilla fusi, travi di legno incenerite – il fuoco fu alimentato dalla grande quantità di olio di oliva conservata nel palazzo, come pure dal vento e dal legno adoperato nella costruzione delle mura. Si pensa che la temperatura raggiunse i 1300 gradi. 

Yadin attribuiva la responsabilità dell’incendio alle tribù di Israele al comando di Giosuè, la cui conquista della terra risale a quel tempo. 

Ben-Tor tende ad accettare la teoria di Yadin procedendo per eliminazione: la potenza e lo status di Hazor durante il periodo del Tardo Bronzo, con le fortificazioni che la circondavano, fanno supporre che non era possibile a nessuna delle popolazioni limitrofe attaccarla e avere la meglio. 

Si potrebbe ragionevolmente pensare agli Egiziani, ma nessun documento egiziano del tredicesimo secolo a.C. parla della conquista di Hazor. Le popolazioni marinare che si insediarono sulla costa meridionale e nella pianura costiera non avevano ancora raggiunto il nord in quell’epoca. Nondimeno un documento egiziano coevo lascia intendere che in quel periodo nell’area poi detta terra di Israele viveva un gruppo etnico che gli Egiziani chiamavano Israele. Per questo motivo Ben-Tor afferma che non si devono scartare fatti del genere solo perché si trovano scritti nella Bibbia. 

Fonte: Ran Shapira, Haaretz (4 settembre 2007) 

Adattamento: R. P. 

  

 

Publié dans:Approfondimenti |on 2 octobre, 2007 |Pas de commentaires »

Galassie – Alla Specola Vaticana i misteri del cosmo

dal sito on line del giornale « Avvenire » 

 

 

Galassie
di Luigi Dell’Aglio

Alla Specola Vaticana i misteri del cosmo


Gli astrofisici hanno scoperto circa 240 sistemi stellari con analogie con il nostro sistema solare: presentano, ciascuno, un pianeta che ruota attorno a una stella. Attualmente è seguita con molto interesse la ricerca di questi pianeti che potrebbero assomigliare alla Terra per vari parametri: prima di tutto la distanza – né troppo grande, né troppo piccola – dal loro sole», rivela il padre gesuita José Gabriel Funes, astrofisico e direttore della Specola Vaticana, nato a Cordoba (Argentina) 44 anni fa. «Qui, a Castelgandolfo, a giugno, abbiamo avuto un’affollata scuola per giovani astronomi, che sviluppava proprio questo tema appassionante».
La speranza di poter individuare pianeti che abbiano almeno alcune caratteristiche in comune con la Terra sembra essere premiata dalla ricerca. È stato scoperto il primo pianeta extrasolare che ha quasi le stesse dimensioni del nostro pianeta, aggiunge il direttore della Specola. La ricerca segue due metodi, uno indiretto e uno diretto: in genere non si riesce a osservare direttamente il pianeta extrasolare (o eso­pianeta); allora il criterio usato è un altro: se una stella oscilla è probabile che un pianeta – anche se non si vede – le stia orbitando attorno. A volte, invece, un pianeta extrasolare viene scoperto grazie all’osservazione diretta per mezzo del telescopio. In questo modo si scoprono i pianeti extrasolari più grandi e meno lontani. «Studiare gli altri sistemi stellari ci serve anche per far luce sulla formazione dei pianeti del nostro sistema solare. Nel quale esistono pianeti di due tipi: ‘terrestri’, cioè dalla struttura simile a quella della Terra (e sono Mercurio, Venere e Marte) e ‘gassosi’ (i giganti Giove, Saturno, Urano, e Nettuno)», rileva Funes. «Oggi l’astronomia vuole capire molto di più su come si sono formati pianeti, stelle e galassie. Tre temi strettamente correlati fra loro. La Specola Vaticana è coinvolta in tutti e tre questi fronti di ricerca. Organizzato da noi, si apre domani alla Pontificia Università Gregoriana un grande convegno su ‘Galassie a disco e dischi di galassie».
Grazie soprattutto al telescopio spaziale Hubble, da qualche anno è possibile ammirare lo splendore e la forma singolare delle galassie più antiche. Ma forse il
Lgrande pubblico vuole conoscere quale ruolo svolgano, le galassie nella storia dell’Universo. «Come il corpo umano è fatto di cellule, così l’universo è fatto di galassie», spiega Josè Funes. Ce ne sono di tre tipi: ellittiche (di forma ovale, come una palla di rugby), irregolari (senza una particolare forma geometrica) e a disco: sono le galassie che gli astronomi familiarmente paragonano a un uovo fritto. Per comprendere meglio questa scherzosa definizione, bisogna dire che le galassie hanno in genere una componente sferica e una a forma di disco. Le galassie a disco presentano entrambe le componenti: sono un disco piatto con un rigonfiamento ( bulge, in inglese) al centro.
e galassie sono le regine dell’universo e ciò autorizzerebbe a pensare che possano aiutare gli astronomi a svelare tanti misteri. Ma prima di tutto, rileva il professor Funes, dobbiamo conoscerle meglio. Alcune galassie sono avvolte da braccia a spirale, e presentano barre fatte di stelle.
«Uno dei temi in discussione nel nostro meeting è proprio: perché dagli estremi delle barre escono braccia a spirale? Come si formano le barre e i dischi? E come si formano ed evolvono le galassie? Tutte domande che attendono una risposta. Per non parlare della vexata quaestio della materia oscura in cui è immersa buona parte dell’universo e che nelle galassie si può studiare meglio». Uno degli argomenti cruciali del convegno è: che cosa avviene ai confini dei dischi galattici ? E come sono questi confini? Si sa che alcune galassie – le maggiori – derivano da una fusione. Tutti questi processi spiegano la forma delle galassie, ma per gli astronomi rappresentano anche un modo per ricostruire l’evoluzione dell’universo. Le più lontane, cioè le più antiche, si sono formate forse uno o due miliardi di anni dopo il big bang, cioè dodici miliardi di anni fa.
Che cosa si prova a scrutare le profondità del cosmo dai 3100 metri di Monte Graham, in Arizona, dove la Specola Vaticana ha spostato le sue ricerche, visto che da Castelgandolfo le osservazioni astronomiche sono ormai impossibili a causa dell’inquinamento luminoso? Il direttore della Specola, insieme con altri colleghi, trascorre buona parte dell’anno in Arizona e poi tre quattro mesi a Castelgandolfo ad analizzare i dati raccolti oltreoceano. «Dopo quattro ore di viaggio in fuori strada – racconta – si arriva al telescopio. Lo strumento è potente, lo specchio misura un metro e ottanta, e incorpora una tecnologia molto avanzata. È stato acquisito con il contributo dei benefattori e inaugurato nel 1993 dal precedente direttore della Specola, padre George Coyne. Quando facciamo i turni di osservazione lassù, la magia del cosmo è fortemente suggestiva.
L’Universo ha centinaia di miliardi di galassie, ogni galassia cento miliardi di stelle, senza contare gli innumerevoli pianeti. Io dal Monte Graham penso che le distanze inimmaginabili dovrebbero indurci a riflettere sulla piccolezza dell’uomo e sulla necessità di mettere quotidianamente in pratica umanità e solidarietà e di curare con amore il nostro pianeta, seguendo l’esortazione di Benedetto XVI».
 

Publié dans:Approfondimenti |on 1 octobre, 2007 |Pas de commentaires »

Il Consiglio d’Europa dice sì alla « Giornata europea contro la pena di morte »


 

dal sito:

http://www.radiovaticana.org/it1/Articolo.asp?c=157513 

Il Consiglio d’Europa dice sì alla « Giornata europea contro la pena di morte »

 

Il Parlamento Europeo ha adottato ieri una risoluzione con la quale ricorda che la presidenza dell’UE ha ricevuto il mandato di elaborare e presentare il testo su una moratoria internazionale, in materia di pena di morte, da trasmettere all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il Parlamento esorta, inoltre, l’ONU ad adottare la risoluzione entro la fine di quest’anno. Il Consiglio d’Europa ha proclamato, poi , il dieci ottobre « Giornata europea contro la pena di morte ». Ascoltiamo al microfono di Fausta Speranza il vicepresidente del Parlamento europeo, Mario Mauro:

R. – Anzitutto, dobbiamo tener presente che il contenuto della stessa Risoluzione può creare problemi. Lo ha messo in evidenza anche il leader dei liberaldemocratici qui al Parlamento europeo, Graham Watson, richiamando l’attenzione sul fatto che l’Europa a giugno ha raggiunto una posizione comune sulla via da seguire: moratoria universale con l’obiettivo, più a lungo termine, dell’abolizione della pena di morte. Se si vuole giungere, entro dicembre, ad un voto utile dell’Assemblea dell’ONU, occorre ora mantenere questa linea; e, quindi, tutti i testi che ne devono discendere devono essere coerenti con questa linea. La dicotomia tra moratoria ed abolizione della pena capitale, o addirittura, il tentativo di ribaltare la posizione dell’Unione Europea, chiaramente espressa a favore della moratoria, e solo in prospettiva dell’abolizione, può essere usata da qualcuno all’interno del Palazzo di Vetro per alienare l’adesione di molti Paesi, tra questi addirittura quelli coautori della Risoluzione, soprattutto il Messico e le Filippine. Questo scenario non è tanto fantascientifico, perché è esattamente lo scenario che è andato in onda le altre volte, come nel caso di alcuni Paesi scandinavi che si sono lasciati incastrare nel meccanismo dei passaggi delle varie dichiarazioni; questi Paesi, temendo che la moratoria rappresentasse un abbandono definitivo della prospettiva abolizionista, si sono tirati indietro.

 
D. – Onorevole Mauro, la discussione all’ONU per la moratoria della pena capitale con l’obiettivo di arrivare all’abolizione, è una tappa, comunque un successo da sottolineare?

 
R. – Se si verificasse questa ipotesi è assolutamente un successo. Un successo che va, secondo me, approfondito attraverso l’analisi di quello che è attualmente il contesto. Nel mondo, oltre la metà dei Paesi – e cioè 129 – ha ormai abolito la pena di morte o de iure o de facto; 89 Paesi l’hanno abolita per tutti i reati; 10 Paesi l’hanno abolita per tutti i reati, tranne casi eccezionali, come quelli relativi a crimini di guerra; 30 Paesi possono essere considerati de facto abolizionisti, in quanto mantengono giuridicamente la pena di morte, ma non la praticano da più di 10 anni. Si ritiene che in essi sia vigente una politica ed una prassi di non compiere esecuzioni. Le cifre relative all’applicazione della pena di morte, nonostante questi progressi che sono stati ottenuti in questi anni, rimangono però preoccupanti. Nel 2006 sono state con certezza uccise almeno 1.591 persone in 25 Paesi e sono state condannate alla pena capitale altre 3.861 in 55 Stati. I Paesi che sicuramente contribuiscono in ordine decrescente al fenomeno sono prima di tutto la Cina, l’Iran, il Pakistan, l’Iraq, il Sudan e gli Stati Uniti. In questo contesto, e conoscendo gli agganci sul fronte della diplomazia internazionale di cui questi ultimi Paesi che ho citato fruiscono, bisogna pensare che se si facesse il passaggio della moratoria, sarebbe comunque un assoluto successo e costituirebbe forse per alcuni di questi Paesi anche una sorta di scappatoia rispetto alle opinioni pubbliche dei propri Paesi o agli assetti di potere presenti in questi Paesi per poter fare in qualche modo marcia indietro rispetto a dichiarazioni dei propri capi di Stato e di governo che altrimenti dovrebbero sempre e comunque tendere in senso contrario.

Publié dans:Approfondimenti |on 28 septembre, 2007 |Pas de commentaires »

Avanti Cristo, dopo Cristo: Dionigi il piccolo e l’invenzione dell’era cristiana

dal sito:

 http://www.gliscritti.it/index.html

Avanti Cristo, dopo Cristo: Dionigi il piccolo e l’invenzione dell’era cristiana
del prof.Giancarlo Biguzzi

Presentiamo on-line un testo del prof.Giancarlo Biguzzi, docente di Nuovo Testamento presso la Pontificia Università Urbaniana, già apparso, nel corso dell’anno 2000, sulla rivista Eteria ed appartenente ad una serie di articoli che avevano lo scopo di introdurre, come in agili reportage giornalistici, ad una prima conoscenza dei luoghi e delle figure del Nuovo Testamento. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di rendere più facile la lettura on-line. Il titolo originale dell’articolo era: L’anno 2000 fu inventato da un monaco.

Il Centro culturale Gli scritti (7/8/2007)

Tutti sanno che l’anno 2.000 dipende dalle convinzioni di fede di un monaco, ma in questo anno memorabile a nessuno è venuto in mente di organizzare un qualche congresso da qualche parte o un talk show in qualche tv per ricordare quell’uomo. E allora proviamo noi a sdebitarci con Dionigi o, meglio, con Dionigi l’exiguus, « il piccolo », come lui per umiltà si faceva chiamare.

Il pio monaco perfettamente bilingue

La sua patria era la Scizia (Scytia Minor, o Dobrugia, nell’attuale Romania meridionale) che fin dai tempi di Eschilo, di Plutarco e dell’apostolo Paolo ha però avuto cattiva fama. Eschilo adopera l’espressione « popolino scita » per indicare quello che noi diremmo « un branco d’ignoranti » (Prometheus vinctus 417), Plutarco usa il termine « scita » come equivalente di « rozzo » («Diogene diceva di Demostene che nelle parole era uno scita, mentre in guerra era un uomo fine», Vitae decem oratorum 847.F.61) e l’apostolo Paolo mette gli « Sciti » in coppia con i « barbari » (Colossesi 3,11). Si può aggiungere che presso un grammatico del secondo secolo a.C. il « bere alla scita » è proverbiale così che « parlare in lingua scita » significa parlare come un ubriaco (cf. Ateneo, 221, e 499). Ma lo scita Dionigi non stava dentro questi schemi perché era uomo di valore e di cultura.
Su di lui siamo informati da Cassiodoro (circa 490-583 d.C.) che, figlio di un magistrato di Teodorico, fu un influente uomo politico, questore e console, e consigliere di sovrani come Amalasunta, Teodato e Vitige, e fu poi monaco e fondatore del monastero di Vivarium, presso Squillace in Calabria. Dionigi dev’essere stato ospite a Vivarium perché Cassiodoro dice: «studiò dialettica con me» e «ebbe la consuetudine di pregare con noi». Cassiodoro era pieno d’ammirazione soprattutto per il perfetto bilinguismo di Dionigi: di lui dice infatti che poteva leggere un libro in greco dandone traduzione simultanea in latino e viceversa poteva leggere un libro in latino dandone traduzione simultanea in greco: e tutto avveniva «inoffensa velocitate», e cioè con impressionante scioltezza – aggiunge Cassiodoro.
Nonostante la notevole romanizzazione, la Scizia era molto vicina a Bisanzio e questo spiega come mai Dionigi conoscesse il greco alla perfezione. Dalla Scizia poi Dionigi era venuto a Roma intorno al 495 d.C. e, pur restando un levantino, fu poi «del tutto romano nei costumi» – dice ancora Cassiodoro. Gli storici anzi gli riconoscono il merito di avere fatto da ponte tra mondo ecclesiastico orientale e mondo ecclesiastico romano-occidentale con la sua traduzione in latino di autori greci, con l’adozione di calcoli orientali per la data della Pasqua e con la raccolta di canoni (= leggi) dei concili e dei sinodi bizantini, che integrò poi con le decretali dei papi da Siricio (Ω 399) ad Anastasio II (Ω 523). Tra l’altro, per tutto questo Dionigi è considerato sia un fondatore della cultura medievale, sia l’iniziatore del diritto canonico, e cioè della sistematizzazione delle leggi che regolano ancora oggi la vita della chiesa cattolica.
Del suo giovane amico, Cassiodoro fa un ritratto non poco oleografico dicendo che Dionigi univa la semplicità alla cultura, la dottrina all’umiltà, e alla sobrietà l’eloquenza. Cassiodoro dice poi che Dionigi conosceva le Scritture così bene da saper rispondere su due piedi a qualsiasi domanda al riguardo, e dice che, pur essendosi consacrato a Dio senza riserve, non si sottraeva a nessun incontro e a nessun ambiente. Sobrio a mensa e anzi fervoroso digiunatore, volentieri prendeva parte ai banchetti per aver modo di parlare dei beni spirituali; di castità irreprensibile, aveva quotidiano contatto con il mondo femminile, e, mite di animo, si lasciava agitare dai problemi dei contemporanei. Era poi portato a equilibrare col proprio pianto il riso garrulo degli altri e, mettendosi al di sotto dei servi più umili, si definiva « exiguus », lui che era in grado di avere i re come interlocutori. Fin qui Cassiodoro circa Dionigi (Patrologia Latina 73, 223-224). Ma ora veniamo al punto.

L’incarico di computare la data della Pasqua

Nell’anno 525 Dionigi fu richiesto da Bonifacio, il notaio primicerio della corte papale di Giovanni I, di interessarsi della data della Pasqua il cui calcolo contrapponeva chiese orientali e occidentali fin dal terzo secolo. Nel corso del sec. IV, per esempio, le chiese occidentali avevano celebrato la Pasqua in data diversa dalle chiese orientali almeno per sette volte. Tutto dipendeva dal fatto che la Pasqua è legata all’anno lunare, più breve rispetto a quello solare di 11 giorni e sei ore circa, per cui i giorni mancanti al ciclo della luna devono essere raccolti in un mese supplementare (o « embolismico ») secondo periodi che sono appunto difficili da definire. In occidente un primo computo era stato tentato da Ippolito romano (sec. III), un altro dal computista africano Augustale (seconda metà sec. IV), un altro da Vittore di Aquitania (sec. V), e altri ancora da cronografi per noi anonimi. In oriente invece la data della Pasqua si stabiliva in base ai calcoli di Anatolio di Laodicea (seconda metà del sec. III), calcoli continuati poi da Teofilo di Alessandria e dal suo successore, Cirillo di Alessandria (fine sec. IV).
Alla richiesta pontificia, Dionigi si mise all’opera e, da buon levantino che era, diede ragione a Cirillo d’Alessandria continuandone il calcolo dal 532 (anno cui si sarebbe arrestata la tabella pasquale alessandrina) fino al 626, fornendo per altri 95 la data pasquale anno per anno. Poi si sarebbe dovuto ricominciare per un ciclo del tutto analogo.

Partire da Gesù Cristo e non da Diocleziano

Nell’esporre al notaio primicerio i risultati della consulenza che gli era stata chiesta, Dionigi scrive di aver colto l’occasione per introdurre un’innovazione. Dice di avere preso come punto di partenza per la sequenza degli anni non più l’ascesa al soglio imperiale di Diocleziano, come continuava a fare Cirillo di Alessandria cui si era ispirato. Dopotutto, Diocleziano non era neanche un imperatore ma un tiranno, e non aveva le carte in regola per essere metro di misura per gli anni e per i secoli. Era molto più giusto e molto più significativo cominciare da Gesù Cristo, il redentore del genere umano.
L’èra dioclezianea era stata introdotta da computisti greci o più probabilmente egizi. Partiva dal nostro anno 284 d.C., l’anno in cui Diocleziano era stato acclamato imperatore dalle truppe a Nicomedia di Bitinia. I cristiani avevano bensì accettato di contare gli anni a partire da Diocleziano, anche se egli nel 303 aveva scatenato contro di loro l’ultima, durissima persecuzione dell’impero, ma preferivano parlare di « èra dei martiri » più che di « èra di Diocleziano ». Dionigi non si accontentò neanche di questo pio ripiego e così mandò in soffitta l’ultimo persecutore dei cristiani e l’èra che da lui prendeva il nome. Dopo avere esposto questo suo atto di fede al notaio papale Bonifacio nella lettera a lui indirizzata (Patrologia latina 67, 20.A), Dionigi lo ripropose con le stesse parole in un libro intitolato «Liber de Paschate – libro sulla Pasqua» (Patrologia latina 67, 487.A).
Quel testo, di cui non c’è pericolo di sopravvalutare l’importanza, merita di essere riferito. Esso dice così: «San Cirillo fece cominciare il suo ciclo dall’anno 153mo di Diocleziano e lo fece terminare nell’anno 247mo. Noi invece, pur incominciando dall’anno 248mo dello stesso tiranno –piuttosto che principe–, non abbiamo voluto collegare i nostri calcoli alla memoria di un uomo empio e persecutore. Abbiamo scelto invece di contrassegnare la successione degli anni a partire dall’incarnazione di Gesù Cristo nostro Signore, affinché fosse a noi più evidente l’esordio della nostra speranza e affinché risplendesse la sorgente dell’umano riscatto, e cioè la passione del Redentore».L’invenzione dell’èra cristiana come la scoperta dell’America

Il conto degli anni a partire dal Cristo entrò poco a poco nell’uso per la pubblicità fatta a Dionigi dall’autorevole Cassiodoro (che morì a Vivarium più che novantenne nel 580), e per il decisivo consenso di Beda detto il Venerabile (Ω 735), un altro uomo coltissimo, monaco a Jarrow, in Inghilterra. L’èra cristiana si impose dapprima fra gli anglosassoni per merito appunto di Beda, poi in Francia (secolo VIII), poi in Germania (secolo IX), poi fu fatta propria dai papi (secolo X), e diventò pressoché universale nel secolo XVII.
Come è noto, nei suoi calcoli Dionigi commise un errore di almeno 4 anni identificando l’anno della nascita di Gesù con l’anno 753 dalla fondazione di Roma. L’errore di Dionigi è vivo ancora oggi, ma non è l’errore e non è la sua correzione quello che conta[1]
. L’impareggiabile merito del monaco scita è infatti quello di avere imposto una diversa divisione della storia che prevedibilmente persisterà a tempi indefiniti. È a lui che in definitiva dobbiamo le diciture «avanti Cristo» e «dopo Cristo» le quali, con poco sforzo e con molta efficacia, ci permettono di fare del Cristo il centro della storia e il suo spartiacque.
A Dionigi, che voleva semplicemente regolare la questione pasquale, capitò dunque di fare molto di più. In questo potrebbe essere paragonato a Cristoforo Colombo che cercava le Indie, e trovò l’America.
Se tutti conteggiamo gli anni, i secoli e i millenni come Dionigi ha per primo avuto l’idea di fare, è lui l’inventore dell’anno 2000, ed è grande anche se, per la sua umiltà, è voluto passare alla storia come « il piccolo ».

Publié dans:Approfondimenti |on 27 septembre, 2007 |Pas de commentaires »

Un buonismo camuffato apre il varco alla selezione

 dal sito on line del giornale « Avvenire »:

Un buonismo camuffato apre il varco alla selezione 

Il fatto che si tratti di un caso privato non ne cancella la funzione etica negativa per la società: una sentenza che lo ammette crea un precedente per altri casi 

Lucetta Scaraffia  

È facile comprendere il punto di vista dei genitori sardi che desiderano un figlio sano, e quindi considerare crudele chi si oppone al loro progetto in nome di una « ideologia astratta ». È facile sostenere che la loro è di fatto una scelta umanitaria, che salvaguarda i sentimenti e i desideri di due persone, e che pertanto non ha niente a che vedere con l’eugenetica, ideologia resa infame dalla realizzazione pratica che ne ha fatto il nazismo in anni non ancora tanto lontani. Là, nel passato, c’era una figura esecrata, Hitler, che voleva realizzare un mito pericoloso e insano, la purezza della razza; qui, oggi, c’è solo una coppia di genitori che vuole un bambino sano e non è sicura di poterlo avere. Eppure, si tratta in entrambi i casi di una selezione di chi è sano attraverso la distruzione di chi è malato e quindi imperfetto, ma il passaggio dal piano pubblico della volontà di Stato al registro privato del desiderio, ampiamente condiviso, di due esseri umani, sembra purificare il caso di Cagliari dalla terribile accusa di eugenetica. Invece non è così: si tratta in entrambi i casi di un atto di eugenetica, e non basta il cambiamento del soggetto che decide a renderlo moralmente accettabile. E anche il fatto che si tratti di un caso privato non ne cancella la funzione etica negativa per la società: una sentenza che lo ammette crea un precedente per altri casi, e se la selezione è permessa per la talassemia sarà presto impossibile rifiutarla in caso di altre malattie. Ecco, quindi, che la nostra società rischia di diventare un luogo dove si pratica la selezione eugenetica, con tutte le conseguenze del caso. Se si arriva considerare lecito distruggere un essere imperfetto, infatti, cambia completamente il modo di considerare la malattia e la sofferenza nella società: da disgrazie inevitabili da affrontare con solidarietà e comprensione, queste diventano fenomeni inammissibili, errori di valutazione, pretesa di disturbare una società felice. Quindi, un peso e un fast idio per gli altri sempre più difficile da sostenere. Soprattutto, riappare, sotto mentite spoglie, quell’utopia dell’uguaglianza che già tante disgrazie ha provocato nel secolo passato: se siamo tutti uguali, in questo caso tutti sani, si realizzerà una società felice. Un’utopia che, sotto forma di purificazione razziale, giustificava anche i nazisti nella loro pratica eugenetica. E nella Germania di allora, come ci ricorda Alice Ricciardi von Platen, medico chiamata come esperta al processo di Norimberga, la manipolazione dell’idea di eugenetica era forte: «Chi voglia approfondire la genesi dell’idea di eutanasia nell’ideologia nazionalsocialista non deve credere che si parlasse apertamente del significato di questo termine». Anzi, «i cultori di eugenetica svilupparono un atteggiamento quasi benevolo verso i soggetti affetti da malattie ereditarie. Attraverso la legge, in fondo, si era provveduto a loro favore». Tanto che, scrive ancora, i medici coinvolti nel programma di eutanasia «erano animati da un ingenuo idealismo: desideravano aiutare il singolo e la società nella malattia, combattere attivamente la sofferenza dei malati». Sono parole che potrebbero essere applicate perfettamente ai difensori attuali della selezione preimpianto degli embrioni, i quali si presentano come campioni della scienza a difesa della felicità umana. Mentre chi avverte la pericolosità di questa scelta viene dipinto invece come un essere crudele, perché in nome di astratti principi obbliga alla sofferenza povere coppie di sposi che desiderano un figlio. 

 

Publié dans:Approfondimenti |on 26 septembre, 2007 |Pas de commentaires »

Troppi segnali lasciano intendere che c’è una volontà di colpire – Uno spirito antireligioso?

dal sito on line del giornale « Avvenire » 

Troppi segnali lasciano intendere che c’è una volontà di colpire 

Uno spirito antireligioso? 

Carlo Cardia  

Si può dire che in alcuni Paesi occidentali si va diffondendo uno spirito antireligioso, con alcune accentuazioni anticristiane? Da tempo, e da più parti, ci si pone questa domanda, e non è facile dare una risposta. Diversi fatti farebbero propendere per il sì. Solo a scorrere alcuni recenti testi, scritti da autori che svolgono diverse professioni, si direbbe che la dissacrazione della religione, e del cristianesimo in particolare, stia diventando quasi una moda in certi ambienti dell’intellettualità. C’è chi riprende al più basso livello l’analisi volterriana delle Scritture, irridendole e negando qualsiasi ruolo positivo della religione nella storia dell’uomo. E conclude che Dio non è grande (perché non esiste), o che non possiamo essere cristiani, e meno che mai cattolici. E c’è chi propone di espungere la religione dall’orizzonte antropologico perché falsa, pericolosa per l’uomo e per la società. E scrive che Dio è un’illusione, o che bisogna rifondare ateisticamente la società. Ciò che colpisce in questo tipo di letteratura è l’insussistenza di una base culturale credibile, l’affastellarsi di proposizioni, giudizi sbrigativi e sprezzanti verso tutto ciò che deriva dalla ricerca di Dio e dalla sua evoluzione. Le religioni sono messe sullo stesso piano, le primordiali e le moderne, il politeismo e il monoteismo, mentre tutti i mali della storia, dai sacrifici umani dell’antichità alle tragedie della modernità (comprese quelle dell’epoca illuministica e materialistica) sono addebitati alle religioni, preferibilmente al cristianesimo. Le Scritture sono lette senza alcuna sensibilità storico-esegetica, essendo gli autori desiderosi soltanto di colpire, colpire i testi e l’immaginazione del lettore, come si fosse in un reality. Scompare ogni capacità di analizzare e distinguere, crolla l’impianto teorico che pure esisteva nella grande critica storico-filosofica dell’Ottocento. La caduta verticale della razionalità induce all’offesa gratuita, e traspare il vero e un ico desiderio di abbattere Dio e la sua immagine. Nulla che riguardi il rapporto tra l’evoluzione dell’uomo e la conoscenza di Dio, l’ansia di spiritualità che anima i popoli sulla terra, nulla che testimoni la volontà di capire il ruolo del cristianesimo nella formazione dell’Occidente e il suo respiro universale. Lo spirito antireligioso poi si fa sentire in Italia, e in alcune parti d’Europa, ad un livello diverso, nell’azione politica, con l’insofferenza per la presenza del cattolicesimo. Alla Chiesa qualcuno chiede, centrando il ridicolo, di tacere su cose che non le competono, come l’etica e l’antropologia. La laicità è utilizzata come barriera contro i contenuti e le parole del magistero, salvo non sia politicamente corretto. La stampa riferisce di un testo di propaganda ateistica fatto diffondere tra i bambini di alcune scuole. Sono note le blasfemie più dolorose che si ripetono verso i simboli sacri della fede cristiana, dalla croce alla passione di Cristo, all’immagine di Maria colpita da allucinate volgarità. Tutto ciò pone delle domande ai credenti, e a chiunque voglia capire cosa sta accadendo. Non esistono risposte semplici. Personalmente non credo alla tesi del complotto, o al disegno preordinato di lobby più o meno potenti. Penso invece che siamo di fronte a un impoverimento, a una vero e proprio crollo di razionalità in qualche settore intellettuale, coerente con un più generale degrado che si avverte attorno a noi. Ma ritengo anche si vada diffondendo nelle pieghe della società un certo animus anticristiano che va oltre la superficialità e la confusione culturale. Si avverte una volontà di colpire al cuore la fede e i sentimenti di chi crede, di procedere con qualsiasi mezzo, anche i più cinici, per fermare un processo che sta maturando da qualche tempo. Si vuole frenare una crescita di riflessione, e di ripensamento, che esiste in tante persone e in tanti giovani, sulle nostre origini, sul significato e sul destino dell’uomo, sui suoi bisogni più profondi. Penso si tratti di una nuova iconoclastia che ogni tanto si ripresenta nella storia, e che costituisce una prova spirituale per i credenti, ma anche una sfida per chiunque voglia interrogarsi sulle profondità dell’animo umano. 

 

Publié dans:Approfondimenti |on 25 septembre, 2007 |Pas de commentaires »

Christopher Hitchens e la fine dell’evoluzionE

spero di non aver già messo questo articolo già da « Avvenire » perché mi sembra di ricordarlo, ma dato che mi sembra molto interessante lo posto comunque, dal sito: 

http://www.zenit.org/article-11952?l=italian

Christopher Hitchens e la fine dell’evoluzionE

 ROMA, sabato, 22 settembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo scritto da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., Predicatore della Casa Pontificia, e apparso sul quotidiano “Avvenire” il 18 settembre scorso. * * * Tempo fa un anonimo benefattore si è preoccupato di farmi inviare in omaggio dall’editore il saggio del noto giornalista anglo-americano Christopher Hitchens intitolato “Dio non è grande”, sottotitolo: “La religione avvelena ogni cosa” (Giulio Einaudi, Torino 2007, titolo originale: God is not great. How religion poisons everything, New York 2007). Penso che non l’ha fatto con intenzione polemica, ma nell’intento di aiutarmi a uscire dall’inganno in cui, secondo lui, mi trovo come credente e come commentatore del vangelo in televisione.

Dico subito che sono grato a questo amico sconosciuto. Molti rimproveri che Hitchens rivolge ai credenti di tutte le religioni (l’Islam non riceve nel libro un trattamento migliore del cristianesimo, ciò che rivela una buona dose di coraggio da parte dell’autore) sono fondati e vanno presi in considerazione per non ripetere gli stessi errori del passato. Il concilio Vaticano II afferma che la fede cristiana può e deve trarre profitto anche dalle critiche di coloro che la combattono, e questo è certamente uno dei casi.

Ma Hitchens fa di ogni erba un fascio. Dice di attenersi al criterio evangelico di giudicare l’albero dai frutti, ma dell’albero della religione egli considera solo i frutti marci, mai i frutti buoni. I santi, i geni e i benefattori dati all’umanità dalla fede, o nutriti da essa, non contano nulla. Con gli stessi criteri, cioè prendendo in considerazione solo il lato oscuro di una istituzione, si potrebbe scrivere un libro nero di tutte le grandi realtà umane: della famiglia, della medicina (si pensi a cosa serviva la medicina ad Auschwitz), della psicanalisi (un “libro nero” è stato scritto, di fatto, su di essa di recente!), della politica, della scienza (Hiroshima e Nagasaki!), dello stesso giornalismo professato dall’autore (quante volte è stato, ed è, a servizio dei tiranni e degli interessi di gruppi di potere”!).

La sua critica non risparmia nessuno. Francesco d’Assisi? “Un mammifero che credeva di parlare agli uccelli”! Madre Teresa di Calcutta? “Una ambiziosa monaca albanese”, resa famosa dal libro “Qualcosa di bello per Dio” scritto su di lei da Malcolm Muggeridge”. In altre parole, un prodotto come tanti dell’era mediatica!”

Pascal conclude il racconto della sua scoperta del Dio vivente con le parole: “Gioia, gioia, lacrime di gioia” e C. S. Lewis descrive la sua conversione come un essere “sorpreso dalla gioia”; ma per Hitchens “c’è qualcosa di cupo e di incongruo” in questi due autori, una fondamentale assenza di felicità come in tutti i credenti. (“Perché una tale credenza non rende felici i suoi seguaci?”).

Dostoevski è uno dei principali testimoni a carico della religione, ma di lui si prendono in considerazione molto più gli argomenti messi in bocca al ribelle e ateo Ivan, che non quelli del pio Alioscia che, come si sa, riflette assai più da vicino il pensiero dello scrittore.

Tertulliano diventa un “padre della Chiesa”, in modo che il suo credo quia absurdum, “credo perché è assurdo”, possa essere presentato come il pensiero dell’intero cristianesimo, mentre si sa che, quando scrive quelle parole (interpretate, oltre tutto, fuori del proprio contesto e in modo inesatto) Tertulliano è considerato dalla Chiesa un eretico. Strana, oltre tutto, questa critica a Tertulliano, perché se c’è un apologeta a cui Hitchens somiglia specularmente, dal versante opposto, è proprio l’Africano: la stessa verve dialettica, la stessa volontà di trionfare dell’avversario, seppellendolo sotto una massa di argomenti apparentemente -ma solo apparentemente – inoppugnabili: la quantità sostituita alla qualità degli argomenti.

Un recensore inglese ha paragonato l’autore del libro a uno sfidante pugile che nella palestra mena pugni furiosi contro un inerte sacco di sabbia, ignorando che il vero campione da abbattere è altrove. Egli non demolisce la vera fede, ma la sua caricatura. A me la lettura del libro ha fatto venire in mente lo sport del tiro al piattello: si scagliano in aria bersagli artificialmente confezionati che il tiratore, senza sforzo, manda in frantumi con tiri precisi.

Hitchens combatte i vari integralismi religiosi con un integralismo di segno opposto. “Quello di Hitchens – notava Renzo Guolo su “La Repubblica” – sembra il manifesto militante di un mondo che pare polarizzarsi tra gli inquietanti fautori del fondamentalismo, con i loro folli progetti di nuovi, totalitari, stati etici, e i sostenitori di un neosecolarismo integrale che sottovaluta la ricerca di senso di molti nel tempo della fine delle “grandi narrazioni”.

Hitchens da prova di integralismo anche in un altro senso. Anche se con intenti opposti, egli legge le Scritture esattamente come fanno certi rappresentanti del fondamentalismo biblico di matrice evangelica americana e cioè alla lettera, senza alcuno sforzo di contestualizzazione e di ermeneutica storica. Questo gli permette di parlare del “l’incubo dell’Antico Testamento”.

Ma Christopher Hitchens è una persona intelligente. Ha previsto che la religione sopravviverà anche al suo attacco, come è sopravvissuta ad infiniti altri che l’hanno preceduto, e si è preoccupato di dare una spiegazione di questo fatto imbarazzante: “La fede religiosa, scrive, è inestirpabile, perché siamo creature ancora in evoluzione. Non si estinguerà mai, o almeno non si estinguerà finché non vinceremo la paura della morte, del buio, dell’ignoto e degli altri”. La religione non è che uno stadio intermedio provvisorio, legato alla situazione dell’uomo che è un “essere in evoluzione”.

In questo modo l’autore si attribuisce tacitamente il ruolo di chi ha infranto tale barriera, anticipando solitariamente la fine dell’evoluzione e, al pari del Zaratustra nietzschiano, torna sulla terra per illuminare sulla realtà delle cose i poveri mortali.

Ripeto: non si può non ammirare la straordinaria cultura dell’autore e la pertinenza di certe sue critiche. Peccato che abbia voluto stravincere, rinunciando così a convincere, anche quando avrebbe potuto farlo, a vantaggio della società e della stessa religione. 

Colombano, un santo per ricostruire l’Europa cristiana

dal sito: 

 

http://www.zenit.org/article-11950?l=italian

 

 Colombano, un santo per ricostruire l’Europa cristiana 

Intervista a Paolo Gulisano 

 

ROMA, venerdì, 21 settembre 2007 (ZENIT.org).- È uscito in questi giorni in libreria il nuovo volume del saggista Paolo Gulisano, già autore di diversi volumi sulla storia del Cristianesimo, dal titolo “Colombano un santo per l’Europa” (Ancora, 186 pagine, 15 Euro).

Sul retro di copertina campeggia una frase di Robert Schuman, uno dei padri dell’unità europea: “San Colombano è il santo patrono di coloro che si prodigano per la causa dell’Europa unita”.

Lo scorso anno la Conferenza Episcopale d’Irlanda, terra di origine di san Colombano, portò all’attenzione del Santo Padre la proposta di proclamare san Colombano Compatrono d’Europa e Protettore di coloro che si impegnano alla costruzione dell’unità europea.

Per conoscere la storia e l’attualità di San Colombano, ZENIT ha intervistato l’autore del libro.

Chi era san Colombano?

Gulisano: San Colombano era un monaco irlandese del VI secolo che si fece ambasciatore e testimone del Vangelo di Cristo per tutte le terre d’Europa. Fu poeta, studioso, abate, predicatore, un santo che può essere annoverato tra i fondatori del monachesimo occidentale; fu inoltre, nel vero senso del termine, un santo europeo, il primo grande contributo dell’Irlanda alla comune patria europea.

Colombano a cinquant’anni di età lasciò il suo monastero irlandese e si fece pellegrino attraversando un continente dilaniato da guerre ed eresie, riportandovi la Fede. Alla fine della sua vita straordinaria, l’ultimo desiderio del grande abate irlandese era quello di concludere i propri pellegrinaggi proprio a Roma, sulla tomba degli Apostoli Pietro e Paolo, ma ormai stanco e avanti negli anni, si fermò sull’Appennino piacentino, a Bobbio dove rese la sua anima a Dio il 23 novembre 615, dopo aver edificato un cenobio destinato a diventare un faro di cultura e civiltà per l’Italia e l’Europa, che venne chiamato “la Montecassino del nord”.

Perché “un santo per l’Europa”?

Gulisano: La recente rinnovata consapevolezza dell’importanza dell’identità europea rende la vita e gli scritti di Colombano particolarmente significativi. Ogni europeo dovrebbe attingere ispirazione e coraggio dalle parole di questo pioniere del VI secolo, di lingua irlandese e orientato alla mentalità europea. San Colombano ci richiama anzitutto la questione delle radici cristiane dell’Europa. Da alcuni anni questo tema viene affrontato con crescente decisione e passione dai cristiani del Vecchio Continente, da una Chiesa che ha coscienza del terreno in cui la pianta della Fede gettò i suoi germogli, in un modo che non ha uguali, soprattutto nell’ambito della cultura europea contemporanea che non riesce a fare i conti con sincerità e onestà col proprio passato.

L’espressività più efficace dal punto di vista concettuale, linguistico e culturale del cristianesimo è stata realizzata proprio all’interno di quel tessuto territoriale e culturale che conosciamo come Europa.

Ciò grazie a coloro che potrebbero essere definiti non solo gli evangelizzatori, o i patroni, ma in qualche modo i patriarchi d’Europa. Ai nomi dei più noti di questi, Benedetto da Norcia, Cirillo e Metodio, Martino di Tours, si deve aggiungere quello dell’irlandese Colombano. Un nome certamente meno noto dei precedenti, ma il cui contributo all’edificazione non solo della Chiesa ma della stessa civiltà europea deve essere pienamente ricompreso dalla nostra memoria storica.

Nel suo libro, attraverso la figura di Colombano, emerge anche il grande ruolo, nella storia del Cristianesimo, dell’Irlanda…

Gulisano: Sì, parlo del contributo del Cristianesimo che si sviluppò a partire dal V secolo in una piccola ma significativa parte d’Europa: l’Irlanda, l’ultimo avamposto dell’antica civiltà dei Celti. Colombano affianca l’esperienza spirituale e culturale celtica a quella latina veicolata da Benedetto e a quella slava di Cirillo e Metodio, un’esperienza frutto dell’evangelizzazione operata dall’apostolo degli irlandesi san Patrizio, che non venne custodita gelosamente nell’Isola di Smeraldo, ma messa immediatamente a disposizione dell’intera cristianità attraverso l’opera di figure come Colombano, di monaci e missionari.

Colombano appartiene a pieno titolo alla sua Irlanda, ma anche ad ogni terra e paese che egli attraversò ed amò appassionatamente, senza mai identificarsi totalmente con ognuna: sarebbe difficile attribuirgli il nome di una località, per quanto in Italia – dove almeno una decina di paesi ripetono oggi il suo nome – venga detto San Colombano di Bobbio, e in Francia San Colombano di Luxeuil, per avere egli fondato questi due celebri monasteri. In realtà, la sua azione, che prese le mosse da una fondazione monastica dell’Irlanda settentrionale, Bangor, sita a pochi chilometri dall’odierna città di Belfast, ebbe carattere e importanza europea e fu di altissimo esempio a tutti i santi irlandesi che seguirono le sue orme.

E’ giusto allora richiedere che venga proclamato Compatrono d’Europa?

Gulisano: L’Europa nacque grazie al coraggio di missionari, di pellegrini come Colombano che attraversarono, percorsero, si presero cura e fecondarono terre ferite e desolate. Sulle rovine dell’impero romano fecero sorgere un nuovo soggetto storico, culturale e politico rappresentato dalla Chiesa, e attraverso essa crearono forme di autentica civiltà avendoli fatti diventare patrimonio di cultura e identità di popoli. Colombano, insieme a Benedetto, Cirillo e Metodio, ci ricorda e ci testimonia che l’Europa è nata cristiana, e solo nella misura in cui resterà tale potrà pensare di conservare a pieno le proprie idealità e il proprio apporto originale alla costruzione della nostra civiltà. 

 

TRA FEDE E SCIENZA

 dal sito on line del giornale « Avvenire »:

TRA FEDE E SCIENZA


Owen Gingerich, astronomo dell’Università di Harvard, spiega perché la visione di un mondo frutto del caso ha in sé qualcosa di assurdo. Sulla scia di Keplero, Galileo, Newton e altri teorici del cosmo 

Impronte digitali di Dio nel cosmo 

«Sarebbe bastata una minima discrepanza in uno solo di questi parametri e avremmo avuto un universo totalmente inadatto alla vita e all’uomo» 

Di Luigi Dell’Aglio  

Quando sente parlare i suoi colleghi atei, prova delusione Owen Gingerich, famoso astronomo di Harvard. Fra loro, in particolare, gli risulta disarmante e deprimente Steven Weinberg, con lo slogan: «Più l’universo diventa comprensibile, più appare inutile». Gingerich obietta che questa mancanza di fede è del tutto immotivata. E cita la grande scienza da Giovanni Keplero (1571-1630) a oggi. Keplero, concludendo le sue Harmonices Mundi, scriveva: «Non c’è in me ambizione più grande né desiderio più ardente dello scoprire se posso trovare Dio anche dentro di me; questo Dio che, quando osservo l’universo, riesco quasi a toccare con mano». Profondo come «teologo per passione» non meno che come scienziato, Gingerich, che a Harvard ha insegnato a lungo astronomia e storia della scienza, scende di nuovo in campo con il saggio Cercando Dio nell’Universo (editore Lindau, 14 euro), in questi giorni in libreria. (Molto significativo è il titolo originale del libro: God’s Universe, l’Universo di Dio). E fa capire, da scienziato, le ragioni per cui ritiene che il cosmo sia frutto non di un caso (incomprensibilmente fortunato), ma di un disegno soprannaturale. Quanto ai colleghi atei, sottolinea, sono ovviamente liberi di pensarla come vogliono ma non dovrebbero servirsi della loro posizione «e presentarsi come portavoce della scienza, per propugnare la causa dell’ateismo». «Contro questo atteggiamento» aggiunge «è necessario e legittimo opporre resistenza».
Come si spiegano l’Universo e la vita? Prima di tutto c’è il fine tuning, il bilanciamento dei parametri della fisica. L’astronomo inglese Sir Martin Rees ha accertato che sei sono i numeri-chiave. «Sarebbe bastata una minima discrepanza in uno solo di questi parametri e avremmo avuto un universo totalmente inadatto alla vita» osserva Gingerich. Se l’energia del Big Bang fosse stata minore, il cosmo avrebbe presto avuto termine collassando su se stesso. Se fosse stata magg iore, la forza di gravità si sarebbe ridotta rapidamente. In entrambi i casi, l’universo non avrebbe prodotto gli elementi necessari alla vita. «Se un dipnoo preistorico, strisciando sulla riva, fosse andato a sinistra invece che a destra, l’evoluzione dei vertebrati avrebbe preso un’altra direzione». Quando dalla fisica si passa alla biologia, le «coincidenze» sono ancora più impressionanti, rileva. Il Dna può formarsi per caso? E una proteina, fatta di 2000 atomi? Gingerich dà la parola a Freeman Dyson: «Questo è un universo che doveva già sapere che saremmo arrivati». (Non manca un’apertura a ET. «Nel 1277, il vescovo di Parigi dichiarò « eretico » il limitare alla sola Terra la potenza creatrice di Dio»).
Il libro racconta come i grandi astronomi abbiano posto in cima ai loro pensieri due obiettivi – la conoscenza e Dio – spesso riunendoli in uno. Tipico il caso di Niccolò Copernico (1473-1543), il padre della teoria eliocentrica. Per inciso, Owen Gingerich spiega che il sistema copernicano, poi abbracciato da Galileo Galilei (1564-1642), sarebbe stato provato soltanto dalla legge di gravitazione universale di Isaac Newton (1642-1727) e dal pendolo che nel 1851 Leon Foucault fece oscillare nel Panthéon di Parigi. All’epoca del duro scontro tra geocentristi ed eliocentristi, i primi chiedevano ai secondi la «prova apodittica» del moto terrestre. E astronomi come il danese Tycho Brahe (1546-1601) si domandavano: «Ammettiamo che la Terra ruoti a questa vertiginosa velocità. Ma allora, come mai, quando lanciamo in alto un sasso, questo ricade nello stesso punto, e non più in là? E come fa la Terra – nel suo moto attorno al Sole – a trascinarsi appresso Luna?» Newton avrebbe chiarito tutto con la forza di gravità, ma quasi due secoli dopo. La prova convincente non l’aveva scovata neanche Copernico, che nel 1536 aveva ultimato la sua opera fondamentale, De revolutionibus orbium coelestium libri VI. La Terra che si muove attorno al Sole era ipotesi destinat a a urtare contro la tradizione scientifica di matrice aristotelica e contro l’interpretazione letterale delle Scritture (anche se già Sant’Agostino aveva consigliato di tener conto del valore simbolico del testo biblico). Ma Copernico non aveva alcuna intenzione di contestare la metafisica e scontrarsi con le autorità religiose. Il grande scienziato polacco, fa notare Gingerich, era semplicemente convinto che il sistema eliocentrico, comportando una più armoniosa struttura del cosmo, una coerenza e un’eleganza maggiore, fosse più adatto a rispecchiare la grandezza di Dio. «Troviamo in questo ordinamento un’ammirevole simmetria del mondo, quale altrimenti non è possibile incontrare» scrisse.
Fra gli astronomi animati dalla fede, Gingerich mette se stesso. «Sono persuaso della presenza di un Creatore, dotato di un’intelligenza superiore. E non mi sento in contraddizione con la mia qualità di scienziato». Per l’astronomia ha un amore esuberante; da bambino aveva costruito, con il padre, un telescopio rudimentale. Gingerich crede nella «creatio continua». E trova conferma nei fossili di creature estinte milioni di anni fa. «Non suggeriscono l’idea di un universo progettato per essere ‘istantaneamente perfetto». «Inoltre, se l’universo fosse predeterminato anche nei minimi particolari, l’uomo perderebbe la libertà e la possibilità di scelta. Dio può realizzarsi in molti modi, non solo per mezzo di un progetto di cui fin dall’inizio è previsto ogni dettaglio». 

 

Publié dans:Approfondimenti, Avvenire |on 21 septembre, 2007 |Pas de commentaires »

Il tempio e la statua che provocarono la composizione dell’Apocalisse

dal sito:  

http://www.gliscritti.it/index.html 

Il tempio e la statua che provocarono la composizione dell’Apocalisse
del prof.Giancarlo Biguzzi 

Presentiamo on-line un testo del prof.Giancarlo Biguzzi, docente di Nuovo Testamento presso la Pontificia Università Urbaniana, già apparso sulla rivista Eteria, appartenente ad una serie di articoli che avevano lo scopo di introdurre, come in agili reportage giornalistici, ad una prima conoscenza dei luoghi e delle figure del Nuovo Testamento. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di rendere più facile la lettura on-line. Il Centro culturale Gli scritti (29/6/2007) 



Ogni turista sa che, viaggiando, si può andare in cerca di bellezze della natura o dell’arte, oppure di qualcosa che bello non è, ma è ‘storico’. La tomba di Dante a Ravenna per esempio, o il Santo Sepolcro a Gerusalemme si visitano non per la gioia dell’occhio, bensì dello spirito.Qualcosa del genere si può dire dei ruderi di un tempio e dei resti di una statua che si trovano a Efeso e che sono importanti per avere provocato Giovanni di Patmos a scrivere la sua apocalisse.

Apoc 13 narra la visione della bestia che emerge dal mare (vv. 1-10) e poi quella della bestia che invece emerge dalla terra (vv. 11-18), la quale organizza un vero e proprio culto della prima bestia. Leggiamo: “… Operava grandi prodigi, fino a far scendere fuoco sulla terra davanti agli uomini. Per mezzo di questi prodigi che le era permesso di compiere in presenza della (prima) bestia, sedusse gli abitanti della terra dicendo di erigere una statua alla bestia ecc. Le fu anche concesso di animare la statua della bestia sicché quella statua perfino parlasse e potesse far mettere a morte tutti coloro che non adorassero la statua della bestia” (Apoc 13,13-15).

Dal momento che Giovanni dice di avere visto le sue visioni a Patmos (Apoc 1,9), dove era al soggiorno obbligato, il mare da cui sorge la prima bestia è evidentemente il Mediterraneo, quello che i Romani chiamavano “mare nostrum”, mentre la terra altro non può essere che l’Asia Minore, l’attuale Turchia, là dove si trovavano le sette città alle quali l’Apocalisse è diretta. Per questo e per altri motivi la grande maggioranza dei commentatori ritiene che la prima bestia sia l’imperatore romano, adorato come dio soprattutto in Asia Minore, e che la seconda bestia sia l’organismo politico-religioso incaricato di promuovere le varie manifestazioni di quel culto.

La documentazione storica circa un tale ‘ministero del culto imperiale’ è abbondante: si denominava “il comune di Asia”, teneva sedute annuali, era composto dai rappresentanti delle varie città della provincia, ed era competente circa feste, giochi, processioni, e costruzione di nuovi edifici per il culto del sovrano.

Siamo così arrivati al punto. Infatti, il terzo tempio imperiale della provincia romana di Asia fu edificato a Efeso, dopo che il primo era stato edificato a Pergamo nel 29 a.C. e il secondo a Smirne, 50 anni dopo. Ebbene, di quel tempio efesino sono stati portati alla luce dagli archeologi la grande piattaforma su cui sorgeva, l’altare che era collocato di fronte alla scalinata di accesso, e infine la statua, o una delle statue cultuali.

La visita dei turisti all’antica Efeso di solito comincia da quello che era il cuore politico della città (agorà superiore, buleutèrion, pritanèo): subito dopo ci si incammina per la via dagli archeologi denominata “dei Cureti”, e ben presto, scendendo, sulla sinistra ci si troverà la cosiddetta piazza di Domiziano e, là in fondo oltre la piazza, possenti arconi a volta. Sono le sostruzioni che sostenevano la piattaforma artificiale di m. 50×100 su cui si elevava il tempio, un pseudo-diptero di stile corinzio, con 8 colonne sulla facciata e 13 sui lati.

I sotterranei ad arconi e volte, adibiti a botteghe, erano nascosti da una elegantissima facciata a tre ordini sovrapposti di colonne e statue, della quale danno una pallida idea alcune colonne che, per venire incontro alla fantasia di noi visitatori, gli archeologi hanno rialzato. Tutto il complesso aveva alle spalle la linea dolce del monte Coresso, oggi monte Bülbül.

Tredici iscrizioni dedicatorie che sono giunte fino a noi consentono di collocare l’anno di inaugurazione del tempio intorno all’anno 90 d.C., e cioè sotto l’imperatore Domiziano, il quale dedicò il tempio al padre Vespasiano e al fratello Tito oltre che a se stesso. In altre parole il tempio era consacrato al culto degli imperatori della famiglia flavia, la stessa che a Roma pochi anni prima aveva eretto il Colosseo, o anfiteatro flavio.

Finita la visita alle imponenti rovine della Efeso antica, di solito si fa visita al museo di Selçuk, – come si chiama il villaggio turco che sorge a qualche distanza dalla zona archeologica. In quel museo c’è una statua i cui resti sono venuti alla luce a due riprese, nel 1930 e nel 1969-70. Era una statua colossale, che misurava 7 metri di altezza e rappresentava probabilmente non lo stesso Domiziano, come spesso si trova scritto, ma suo fratello, l’imperatore Tito. La statua era parte in marmo (la testa, le braccia, le gambe: praticamente le parti conservate ed esposte al museo) e parte in legno. Il fatto che il torso dell’imperatore fosse in legno dice che la statua non era fatta per stare esposta alle intemperie, e che, quindi, ospitata all’interno del tempio, era la statua o una delle statue fatte oggetto di culto da parte degli efesini e degli abitanti della regione.

Se il tempio efesino, il suo altare e la sua statua furono inaugurati nel 90 d.C., e se l’Apocalisse fu scritta, come sembra, nel 96 d.C., allora è legittimo, oltre che suggestivo, fare visita a Efeso e sentirsi davanti a quel tempio e a quella statua contro cui tutta l’Apocalisse sembra concepita e scritta.

Forse Giovanni di Patmos ha visto i lavori di costruzione del tempio, o forse ha soltanto assistito o sentito parlare, esterrefatto!, di qualche festa o rito cittadino in onore del ‘divino’ Domiziano. Senza per nulla farsi intimorire dall’uomo più potente della terra che tutti riverivano, lo ha definito “la Bestia”, e contro di lui ha scritto uno dei libri più aggressivi e nello stesso tempo più fantasmagorici di tutta la letteratura mondiale.

Con esso Giovanni ha detto alle sette chiese, cui ha diretto il suo libro, quello che Gesù aveva già detto a farisei ed Erodiani sulla spianata del tempio di Gerusalemme: che al Cesare bisogna dare quello che è del Cesare, e solo a Dio quello che è di Dio. 

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