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Cerchi Picasso, trovi il sacro

Cerchi Picasso, trovi il sacro  dans Approfondimenti pica1

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Cerchi Picasso, trovi il sacro
di Olivier Clément (ripreso dalle pagine di Agorà in Avvenire del 26.02.1998)

 Non so se, in Picasso, una certa religiosità sia volontaria, o se sia qualcosa che gli si è imposto senza premeditazione. Ma ugualmente la ricerca di una trascendenza è il modo in cui egli ha voluto entrare nella storia e corrispondere alla tragedia dei suoi tempi. Picasso, infatti, è soprattutto l’artista delle due guerre mondiali (e della seconda più che della prima) e rappresenta una sorta di agonia o di morte per l’Europa; ma poi le apre sentieri di resurrezione.
Qualche esempio. Picasso nel periodo della guerra aderisce al partito comunista: non perché fosse un militante, bensì perché vi vedeva una sorta di fraternità e di grande speranza per l’umanità; ciò non gli impedì affatto di essere un pittore “religioso”. Certo, ciò che Picasso ha dipinto e che aveva valore religioso, soprattutto nell’ultima parte della sua vita, è piuttosto di una religiosità mediterranea, pagana; lo si vede molto bene dallo slancio vitale espresso nelle tauromachie o magari in certe figure erotiche. Ma questo sentimento panico di esaltazione della vita e della sua potenza è in realtà una danza vitale che può anche trovar posto nella gioia della resurrezione cristiana: era questo, infine, ciò che Picasso cercava.
Anche il tema del volto nel pittore spagnolo ha risvolti interessanti. L’artista compie uno sforzo di scomposizione e di ricomposizione dei volti assolutamente stupefacente. Picasso ha previsto e mostrato i visi che si sarebbero visti quando dai campi nazisti uscirono i sopravvissuti. A seconda dei periodi della sua vita, egli dipingeva la donna come essere malvagio e ingannatore, ovvero la raffigurava nella pienezza della femminilità e della maternità.
Il comunismo, il vitalismo, i volti costituiscono in Picasso un tentativo di rispondere alle tragedie della storia. L’artista cercava la via della trascendenza attraverso il mistero della donna, dell’amore e del grande slancio vitale. Nelle ceramiche che realizzò alla fine della vita, per esempio, si sentono curiosi echi cretesi che suonano quasi nostalgia del paradiso, di una vita primordiale sulla quale soffia lo spirito. Ma si tratta di una ricerca incompiuta. Nella sua vita Picasso non trovò una risposta sicura; egli è passato a fianco dello spirituale, l’ha presentito, ma non vi è mai entrato davvero. Anche nella sua opera più famosa, Guernica . Io sono colpito da alcuni segni di speranza e di trascendenza che si trovano in quell’immensa tela. Nel 1936 Guernica, la città santa dei Paesi baschi, fu distrutta dall’aviazione tedesca. Era giorno di festa, la folla si assiepava. Ci furono duemila morti. Consapevoli o meno, gli artisti spesso profetizzano. Picasso profetizzò dipingendo Guernica. Il contrasto delle ideologie, gli stimoli di odio e di violenza che annunciavano un nuovo conflitto avevano, dagli inizi degli anni Trenta, strappato il pittore a ricerche puramente estetiche. Guernica, epopea funebre, è una delle maggiori testimonianze sulla tragedia del nostro secolo, e anzitutto sulla “guerra dei trent’anni” che l’ha percorsa dal 1914 al 1945, aprendo la porta al nichilismo contemporaneo. La tonalità generale è quella del lutto; il niente assorbe tutti i colori e restano solo dei neri, dei grigi profondi, e quel biancore mortuario in attesa, forse, di metamorfosi…
Tutta la metà destra della composizione è consacrata all’orrore senza speranza. Vi si ritrovano, ma in una sintesi del tutto nuova, i temi già familiari all’artista della corrida, della statua antica spezzata, e soprattutto del Minotauro, simbolo della violenza, al quale Picasso aveva appena consacrato una serie di stupende acqueforti. Una corrida in Spagna, limita e nobilita la violenza attraverso la bellezza e il simbolo. Essa significa in effetti la vittoria dell’umano sul bestiale, dello spirito sul caos, della luce sulle tenebre (il toro, secondo l’arte mesopotamica, è la bestia della notte). Qui è tutto il contrario. Siamo in presenza di una corrida capovolta. Il cavallo, animale nobile, guida delle anime nelle vecchie mitologie, è trafitto, ferito a morte, e si contorce in un urlo di dolore. L’uomo è identificato nella statua antica di un guerriero morto, la spada spezzata. Una mano si abbandona sull’arma inutile: che cosa avrebbe potuto una spada, arma di guerra “a misura d’uomo”, contro gli Stukas apocalittici? L’altra mano, aperta sulla morte, è segnata sul palmo da una sorta di stella, ultima luce nella notte, ora spenta.
Due immagini di morte e di disperazione incorniciano il mostro vincitore. A sinistra una madre grida, con il bambino morto tra le braccia. A destra pure un uccello folgorato grida l’orrore, con un movimento verticale della testa analogo a quello che tiene ritto il capo della donna. Il toro, un vero Minotauro, impassibile e trionfante, “simboleggia la brutalità e l’oscurità”, ha detto Picasso. Corpo notturno, testa di luce violenta, artificiale, che prolunga l’illuminazione dell’enorme luce elettrica accesa in cima alla tela: lampada dei proiettori e degli interrogatori. La testa è voltata, indifferente. Che cosa gli importa l’agonia del cavallo e dell’uccello, simboli di libertà e di fuga, di tutto ciò che nell’uomo supera l’uomo? Che gl’importa del guerriero vinto, del bambino morto, della donna disperata e in rivolta? Egli è pura opacità della volontà di potenza, la coda ritta come una bandiera orgogliosa. Testa non di bruto, tuttavia, ma d’intelligenza fredda e perversa. Egli si volta, ma vede un essere allo stesso tempo di potenza e di conoscenza.
Così nella metà sinistra della composizione, tutto è perduto. E’ il regno della distruzione, del distruttore. La metà destra è completamente diversa, se si esclude la sua estremità dove una casa brucia. In alto una donna si tende, la testa, le braccia si tendono, non più nella rivolta e nell’odio – sembra – ma nell’implorazione. Il braccio immenso, braccio della donna e insieme fiume celeste, regge una lampada arcaica, o meglio la brandisce, afferma una fiamma piccola ma protetta: il fuoco della vita, della grazia di essere, il fuoco che riscalda e illumina. Sarà l’angelo della luce e della vita? E non sarà proprio da questa fiamma che la bestia si distoglie? Più sopra una donna si protende versa tale luce, in uno slancio di stupore e di gratitudine: sì, questo fuoco esiste, niente può spegnerlo. Di modo che la composizione è attraversata da una grande diagonale di speranza.
Tutto si riassume, in cima al quadro, nello scontro tra le due luci: l’artificiale e la naturale, il lampo elettrico e l’umile fiamma. La prima si espande in orizzontale, circondata da raggi crudeli. Occhio vuoto con, al centro, un nodo irridente di filamenti. L’altra è verticale, la fiamma sale tra due ricettacoli dalle forme dolci, femminili. Nel cuore di questo cuori di brace, un punto oscuro, un punto soltanto: forse la trascendenza, il punto da cui tutto si dispiega, il seme. Perché la luce cade sull’elsa della spada spezzata e si vede crescere dal metallo, timido, appena accennato e tuttavia decisivo, tuttavia unica vittoria, un fiore. 

Publié dans:Approfondimenti |on 22 janvier, 2008 |Pas de commentaires »

Matematico ebreo paga il prezzo per aver difeso il Papa

18/01/2008, dal sito:

http://www.zenit.org/article-13194?l=italian

Matematico ebreo paga il prezzo per aver difeso il Papa 

Intervista a Giorgio Israel, professore ordinario a “La Sapienza” 

Paolo Centofanti 


ROMA, venerdì, 18 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Difendere Benedetto XVI dagli attacchi di chi si è opposto alla sua visita all’Università “La Sapienza” di Roma implica un prezzo da pagare, afferma Giorgio Israel, docente ordinario di Matematiche complementari presso questo Ateneo romano. 

Il professore di origine ebraica è intervenuto con un articolo su “L’Osservatore Romano” e con altre dichiarazioni per spiegare che Joseph Ratzinger ha difeso Galileo in una conferenza pronunciata nel 1990, e incriminata da 67 docenti (su circa 4.500) de “La Sapienza”. 

ZENIT ha intervistato questo sostenitore del dialogo tra scienza e fede. 

Come valuta il possibile danno di immagine e di credibilità, a livello nazionale e internazionale, della polemica innescata dalla mancata visita del Pontefice all’Università “La Sapienza”? 

Prof. Israel: Penso che il danno sia abbastanza serio. Ho ricevuto delle lettere da parte anche di docenti americani, che erano sconcertati; negli Stati Uniti uno può trovare tutte le posizioni possibili e immaginabili, ma non questa forma così virulenta di rifiuto del dialogo nei confronti del Papa, e poi soltanto del Papa, perché “La Sapienza” ha invitato tutti. E’ una cosa sconcertante, quindi secondo me il danno di immagine è molto elevato. 

Quindi all’estero la notizia è stata diffusa e conosciuta… 

Prof. Israel: Assolutamente sì. Una persona che mi ha scritto, addirittura aveva ascoltato alla radio, non so se a onde corte, un dibattito. Basta andare su Internet e rendersi conto, guardando un po’ la stampa dei vari Paesi, di quanto la cosa abbia avuto delle ripercussioni fortissime. 

Dal suo punto di vista, e per i suoi contatti come docente, pensa che ci sia un motivo reale che forse è stato nascosto dietro alcuni pretesti? 

Prof. Israel: Non credo. So che c’è chi ha detto che tutto questo aveva anche come motivazione degli scontri tra gruppi accademici per la rielezione del Rettore. Però francamente non ci credo. Che poi qualcuno possa cavalcare questo, è più che probabile, però, in verità, la mia valutazione è che nel mondo universitario, che è stato sempre tradizionalmente legato all’estrema sinistra, in particolare al partito comunista, la fine dell’ideologia marxista abbia reso molti « orfani », in un certo senso, di questa ideologia. E in qualche modo hanno costruito come una sorta di teologia sostitutiva, come dice George Steiner: lo scientismo e il laicismo più accaniti. Secondo me è questo. 

Adesso si può dire tutto quello che si vuole del comunismo, però ricordo un personaggio come Lucio Lombardo Radice, il matematico del partito comunista, che ho conosciuto personalmente. Se fosse accaduto un episodio come questo di oggi, penso che si sarebbe letteralmente scandalizzato. Allora esisteva un atteggiamento molto diverso. Paradossalmente, proprio il crollo di questo riferimento dell’ideologia marxista, ha prodotto un vuoto che è stato riempito con questa ideologia di tipo appunto laicista e scientista. E’ così evidente, quando uno vede in che modo reagiscono le persone e i docenti universitari. 

Dal momento che questo tipo di figure è largamente diffuso all’università, in essa troviamo una concentrazione estremamente elevata di persone che hanno una visione di questo genere, molto più che non nel complesso della società civile. 

Pensa che l’intervento del Pontefice avrebbe potuto minare questo tipo di ideologie? 

Prof. Israel: No, perché è un processo estremamente lento. Sotto un certo aspetto invece penso che visto che c’è stata una opposizione, una situazione difficile di questo genere, sia stato meglio. La scelta che è stata fatta è stata una scelta molto giusta, cioè di non forzare la mano, visto che esisteva un atteggiamento di questo genere, non tanto tra gli studenti. 

Ecco io distinguerei fortemente. Direi tre cose. Tra gli studenti, il gruppo che si è opposto è una strettissima minoranza, e questa è la maledizione de “La Sapienza”, cioè il fatto che esista sempre qualche gruppo di scalmanati che riesce a imporre la sua volontà alla stragrande maggioranza degli studenti. Io non credo che tra gli studenti questa posizione sia non dico maggioritaria, ma neanche estesa. 

Tra i docenti è diverso. Hanno firmato solo in 67, ma io credo che siano molti di più quelli che invece hanno una posizione di questo tipo. Lo dico positivamente, per conoscenza. Poi ci sono anche moltissimi, che invece la pensano in modo differente. E già so di raccolte di firme, in queste ore. Non c’è dubbio, ecco. Mi riesce difficile stimare le percentuali, non ne ho idea. Però è chiaro che forse si divide metà e metà; però appunto non è una minoranza stretta, non sono i 67, sono di più. 

Quindi di fronte a una cosa di questo genere, secondo me è stato giusto non venire e dare anche una una lezione di stile, inviando un discorso che in qualche modo smantella tutti i pretesti che sono stati alla base del rifiuto, dell’opposizione alla venuta del Papa. 

Dopo di che, secondo me il cambiamento di questa mentalità può avvenire solo con un processo molto lento, di discussione, in cui si mostri progressivamente che queste posizioni di tipo scientista, laicista, oltranziste, sono delle posizioni di tipo sbagliato. Però, ripeto, per fare andare avanti questi processi ci vuole molto tempo; non è una cosa che si realizza nel giro di giorni, neanche di mesi o di un anno. Ci vuole tempo. 

Quindi lei pensa che sia possibile all’interno dell’Università pubblica italiana iniziare un dialogo tra fede e ragione? 

Prof. Israel: Penso senz’altro di si. Il vantaggio, ciò che di positivo può uscire da questa  vicenda, è che si crei una rete di persone, che si è trovata a condividere le stesse idee, e che si conosca. Perché quello che si vede in queste circostanze lo sto vedendo anche nelle lezioni: ci sono molte persone che non sono d’accordo con quello che è avvenuto, però non si conoscono tra loro. 

Secondo me ci vuole che si crei una rete di persone che sia interessata a questa tematica e che la sviluppi. Anche per questo ci vuole un po’ di tempo, ma le condizioni certamente ci sono. Penso che sia una situazione molto difficile, ma penso che in prospettiva ci siano le condizioni perché migliori la situazione. Bisogna avere un po’ di pazienza… 

L’Università è stata sempre terreno di ideologie piuttosto estremiste. In Italia, come anche in molti altri Paesi d’Europa, è così. Non come negli Stati Uniti, dove si trovano tutti i tipi di realtà. Questo è il punto. 

Dal suo punto di vista, oltre a estrapolare dal contesto la citazione del Pontefice della frase di Feyerabend o a parlare del “caso” Galileo, quali possono essere stati gli altri errori o artifici retorici nella comunicazione? 

Prof. Israel: Non so se siano errori di comunicazione. A mio parere riflettono da un lato un degrado culturale, perché chi fa una cosa del genere e non se ne vergogna, o addirittura non se ne rende conto (come in certi casi ho constatato), è una persona che culturalmente è caduta di livello. 

In altri casi ho constatato che c’è un accanimento viscerale che preme su qualsiasi cosa. Ho avuto una discussione proprio poco fa per posta elettronica con un collega. Alla fine si è rivelato sordo a qualsiasi argomento, e non riuscendo a rispondere, mi ha detto semplicemente che il Papa non doveva venire, che deve solo chiedere scusa per il resto della sua vita, e cose di questo tipo. O addirittura scrivendo che solo chi conosce tutti i teoremi della matematica può permettersi di parlare di scienze. Che dire? Penso che ci sia una componente di astio anche estremamente forte in molte persone. 

Ha avuto delle ripercussioni o ha subito critiche e attacchi per essersi schierato in questi giorni?  Prof. Israel: Non ho visto molta gente in questo periodo, ma è la solita situazione. Cioè chi prende posizioni come quelle che prendo io, paga un prezzo. Ci sono persone che non ti parlano più, perché, ripeto, è un clima fortemente fazioso. 

L’esperienza di Dio nell’arte benedettina

dal sito:

http://www.zenit.org/article-13085?l=italian 

L’esperienza di Dio nell’arte benedettina

Intervista al professore e frate Eduardo López-Tello García

Di Miriam Díez i Bosch 


ROMA, mercoledì, 9 gennaio 2008 (ZENIT.org).- I benedettini hanno plasmato la storia dell’Europa, dando un contributo incisivo alla cultura, come dimostra un libro sulla loro eredità artistica.

Il professore e benedettino Eduardo López-Tello García è uno dei coeditori di un voluminoso libro su Benedetto e l’arte, pubblicato in tedesco e in italiano, e presentato a Roma presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo.

Secondo questo benedettino spagnolo del monastero tedesco di Sankt Ottilien, i benedettini hanno visto nell’arte una maniera per avvicinarsi a Dio.

Il libro curato insieme al professor Cassanelli si intitola “Benedetto. L’eredità artistica” (ed. Jaca Book, Milano 2007).

I benedettini hanno cercato Dio attraverso l’arte. Si tratta di un’eredità diretta di San Benedetto da Norcia?

López-Tello: San Benedetto non ha fondato un ordine, ma ha lasciato un’eredità spirituale che ha impregnato tutta la cultura occidentale europea.

I monaci benedettini hanno cercato Dio e hanno espresso questa ricerca anche attraverso l’arte. A testimoniarlo sono le innumerevoli produzioni artistiche di ogni tipo che si conservano nelle abbazie, nei musei e nelle biblioteche europee legate direttamente o indirettamente all’esperienza benedettina di Dio.

Questo libro non vuole essere una storia esaustiva dell’arte benedettina, ma raccoglie nelle sue pagine quell’esperienza di Dio che i monaci hanno vissuto nel corso dei secoli.

Il libro ha unito benedettini e non benedettini grazie all’arte. È questa la principale novità di questa pubblicazione?

López-Tello: La grande novità sta nel fatto che si tratta di una pubblicazione che, per la prima volta, cerca di riflettere, in tutta la sua complessità, sul fenomeno artistico nell’arco della storia benedettina e in tutto l’ambito geografico benedettino, sia in Europa che in America.

Inoltre, costituisce una novità il fatto di essere un luogo di incontro fra il mondo intellettuale benedettino e professori non benedettini.

Sono in totale undici i monaci che hanno dato il loro apporto di conoscenza e di esperienza di Dio, mentre sono venti gli esperti esterni all’ambito benedettino che hanno offerto la loro visione dell’arte.

È un libro dai molteplici contributi, in cui le diverse voci trovano risonanza, formando così un riflesso adeguato di quello che sono 1500 anni di storia artistica, e instaurando indirettamente un dialogo tra Chiesa e società, in linea con il Concilio Vaticano II.

Perché i benedettini hanno avuto questa influenza così forte nell’architettura, nell’arte e nella cultura europea?

López-Tello: I benedettini, nati durante il tramonto della cultura romana (VI secolo), accolsero l’eredità spirituale di questo mondo che soccombeva e seppero conservarla e ricrearla per fare di essa un veicolo di espressione di come l’uomo può parlare del Dio infinito attraverso una varietà e pluralità sempre limitata di linguaggi artistici.

I monaci ebbero un ruolo fondamentale nell’evangelizzazione dell’Europa (per questo San Benedetto è il patrono principale dell’intero continente) e la loro presenza diede la possibilità a numerose aree del vecchio mondo di usare le arti figurative in modo creativo, per trasmettere il Vangelo.

In questo libro si troveranno numerosi esempi di come i monaci hanno trasmesso la loro ricerca di Dio nei diversi linguaggi, dal VI secolo al XX secolo.

È facile associare i benedettini con le abbazie medievali, ma non con l’arte moderna. Si tratta di un pregiudizio?

López-Tello: Questa possibilità espressiva non si limita al Medioevo, come molti possono credere, ma, superando il Barocco e gli storicismi del XIX secolo, usa le possibilità espressive dell’architettura, della pittura, della scultura o persino della fotografia, del XX secolo. È un riflesso di come l’uomo di ogni tempo riesca a parlare di Dio attraverso il linguaggio dell’arte. 

Publié dans:Approfondimenti, ZENITH |on 11 janvier, 2008 |Pas de commentaires »

Il dolore nostro fratello

Una lettura forse difficile ma che mi entra nel cuore:

http://www.santafamiglia.info/messaggisaggi/?cat=4

 

Il dolore nostro fratello 

Venerdì 10 Novembre 2006 

Sofferenza necessaria 

Il dolore è una grazia che non abbiamo meritato. 

Io dico che qualcuno mi ama quando accetta di soffrire con me. Altrimenti egli è un usuraio che vuole installare nel mio cuore il suo vile commercio. 

Io sono soprattutto un uomo di guerra, ma il mio furore si rivolgerà soltanto contro i potenti, gli ipocriti, i seduttori di anime, gli avari, e sono straziato dalla pietà per gli oppressi e i sofferenti. 

Il dolore! Ecco dunque la grande parola. 

Ecco la soluzione di ogni vita umana sulla terra. Il trampolino di tutte le superiorità, il vaglio di tutti i meriti, il criterio infallibile di tutte le bellezze morali! Non si vuole assolutamente capire che il dolore è necessario. Coloro che affermano che il dolore è, utile non ne capiscono niente. L’utilità suppone sempre qualche cosa di aggiunto e di contingente, mentre il dolore è «necessario». 

Nessuno sfugge a questa legge giusta e misericordiosa: si deve sempre «pagare». 

La mia vita è stata eccezionalmente dolorosa. 

Dalla mia infanzia non ricordo d’aver cessato di soffrire in tutti i modi, e spesso con un eccesso incredibile. Ho molto spesso meditato sulla sofferenza. Mi sono persuaso che non c’è che questo di soprannaturale quaggiù. 

Noi siamo tutti dei miserabili e dei devastati, perciò pochi uomini sono capaci di guardare nel fondo del loro abisso… Ah, si, sono passato attraverso terribili dolori, ho conosciuto la «vera» disperazione e mi sono lasciato cadere nelle sue mani di modellatrice di bronzo. Ma, per carità, non crediate che io sia tanto straordinario. Il mio caso sembra eccezionale solo perché m’è stato dato di sentire, meglio di qualche altro, l’indicibile desolazione dell’amore… 

Il dolore non è il nostro fine ultimo, è la felicità il nostro fine ultimo. Il dolore ci conduce per mano alla soglia della vita eterna. 

L’uomo che non soffre o che non vuole soffrire è un figlio diseredato dal Figlio di Dio che sposa il dolore, perché solo colui che accetta di soffrire può intravvedere la pace della sua anima. 

Come far capire che a una certa altezza gioia e dolore sono la stessa cosa, e che un’anima eroica li colloca agevolmente sullo stesso piano? 

Un cristiano che non vuole soffrire con Gesù è un borghese comodamente sdraiato con la pancia piena, che assiste dalla sua poltrona, con voluttuoso dilettantismo di compiacenza, al supplizio di un innocente che muore per lui. 

La felicità è il martirio, la somma felicità in questo modo, il solo bene invidiabile e desiderabile. Essere fatto 

a pezzi, essere bruciato vivo, ingoiare piombo fuso per amore di Gesù Cristo! 

Per quanto folle possa sembrarvi, io sono, in realtà, un obbediente e un tenero. 

Le mie pagine più veementi furono scritte per amore e spesso con lacrime d’amore, in ore di pace indicibili. 

La sofferenza di eh! è lontano da Dio 

Non c’è che una tristezza: quella di non essere santi. Attendo Io Spirito Santo che è il Fuoco di Dio. Sono fatto per attendere continuamente e per rodermi nell’attesa. Da oltre mezzo secolo non sono stato capace di fare altro. 

Ho tale fame e sete dell’Amore di Dio, che conto i giorni come un insensato. Ma una qualità dell’amore è d’essere impaziente. 

È vero solo cià che è Assoluto. 

Eccetto Dio, tutto mi è uguale. 

Affermiamo quanto sia legittima la tristezza degli esiliati dal paradiso. Non ci si pub consolare di aver perduto il giardino… 

La miseria è la mancanza del necessario. 

Più andremo verso Dio e più saremo uniti, cioè avvicinati. Gli esseri umani non sono paralleli, ma convergenti e Dio è il loro fuoco. 

Potevo diventare un santo e un taumaturgo, ma sono diventato un letterato! Non ho fatto quello che Dio voleva da me, è certo. Ho sognato, invece, quello che volevo da Dio ed eccomi con in mano solo della carta. 

Mi sento indicibilmente solo e so in anticipo che non 

avrà neanche un secondo per precipitarmi nell’abisso di luce… 

Ma voglio ancora sperare. 

Attendo ancora Qualcuno. 

Qualcuno di molto povero, molto sconosciuto e molto grande. 

Qualcuno deve venire. 

Qualcuno che io sento galoppare sul fondo- degli abissi, deve venire, in modo inaudito… 

Povertà: tenerezza di Dio 

Il popolo di Dio è tutto ciò che è povero, tutto ciò che soffre, tutto ciò che è profondamente umile. 

Non ho subito la miseria, l’ho sposata per amore, avendo potuto scegliere un’altra compagna. 

Indebolito dall’età e padre delle dolci creature che conoscete, desidero naturalmente un’esistenza meno difficile, ma spero la grazia di non diventare mai ricco. 

Della mia miseria io sono fiero… Essa viene da una mia libera scelta, pur avendo avuto spesso il mezzo e l’occasione di liberarmene. 

L’uomo è posto cos! vicino a Dio che la parola « povero » è espressione di tenerezza. Quando il cuore scoppia di compassione e d’amore, quando non si può quasi più trattenere le lacrime, è questa parola che viene sulle labbra. 

Se un uomo dà un soldo a un povero con il cuore cattivo, questo soldo fora la mano del povero, cade, fora la terra, trapassa il firmamento e compromette l’universo… C’è un solo mezzo per non spogliare gli altri: spogliare se stesso. 

Solo i poveri donano spontaneamente, ai ricchi si deve chiedere con insistenza. 

Prendersi gioco del povero significa camminare sul cuore di Cristo. È impossibile colpire una creatura senza colpirlo, umiliare qualcuno senza umiliarlo o uccidere qualunque uomo senza maledire o uccidere lui stesso. 

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LÉON BLOY nasce a Périgueux (Francia) nel 1846; nel 1869 si converte al cattolicesirno, nel 1873 si dà al giornalismo e inizia una vita di grande miseria. Nel 1890 si sposa, senza che la nuova situazione allevii la sua precarietà econornica. Moore nel 1917. Sue opere più significative sono Il disperato, Edizioni Paoline, Roma; Il sangue del povere, Edizioni Paoline, Rorna; La fede impaziente, Bompiani, Milano.  

Publié dans:Approfondimenti |on 5 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

la ciaramella e la zampogna (sono due strumenti diversi, non lo sapevo neanche io, pensavo che la ciaramella fosse la zampogna!)

questa è una ciaramella: 

la ciaramella e la zampogna (sono due strumenti diversi, non lo sapevo neanche io, pensavo che la ciaramella fosse la zampogna!) dans Approfondimenti ciaramelle

http://www.zampogna.ch/index.php?id=strumenti

questa è una zampogna

zampogna%20e%20ciaramella dans immagini

http://www.iltabass.it/images/zampogna%20e%20ciaramella.jpg

Publié dans:Approfondimenti, immagini |on 2 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

La speranza del Papa è anche per gli atei

dal sito: 

http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=10936&theme=3&size=A

 

30/11/2007 16:19
VATICANO

La speranza del Papa è anche per gli atei


di Bernardo Cervellera


Con la nuova enciclica, Benedetto XVI chiede ai cristiani di superare una concezione individualistica della salvezza e di essere ministri di speranza per la società mondiale. E chiede anche agli atei di avere il coraggio di fare “autocritica” dopo i fallimenti sociali e l’ambiguità del progresso scientifico.

 

Roma (AsiaNews) – Con la nuova magistrale enciclica “Spe Salvi” Benedetto XVI chiede a tutti i cristiani di diventare “ministri di speranza per gli altri” (n. 34). C’è una specie di richiamo al valore universale della missione, che è più di una pia esortazione: i cristiani sono chiamati a “produrre” speranza per il mondo nel campo della scienza, della cultura e della politica. 

La mancanza di speranza della nostra società contemporanea è davanti agli occhi di tutti. I problemi sociali che attanagliano intere popolazioni – fame, malattie, diritti umani – continuano a non trovare soluzioni per l’inanità di molti governi e organizzazioni internazionali; perché si preferisce non rischiare il proprio potere e ricchezza; perché si preferisce rafforzare gli eserciti e programmare guerre invece che opere di pace. 

La conclusione è un’umanità stanca che si trova ogni giorno davanti agli stessi problemi e una gioventù sempre meno interessata al bene comune. Questo vale per l’Asia, dove giovani cinesi e indiani sognano solo carriera e denaro per sé, ma ancora di più nel vecchio occidente. “Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore (cfr Ef 3,16; 2 Cor 4,16), allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo” (n. 23). Se n’è accorto il governo vietnamita che dopo anni di ideologia materialista si rende conto di aver creato solo una classe corrotta di politici e una gioventù disperata che affoga nel sesso e nella droga e non si preoccupa dei suoi anziani. E per cercare di salvare il Paese ora il governo chiede alla Chiesa cattolica di istruire i giovani, di innervare la società con valori che essi hanno perduto. È quasi una specie di rivincita per il defunto card. Van Thuan (citatissimo nell’enciclica), che ha passato 13 anni di prigionia e di isolamento mentre nel suo Paese dominava l’ubriacatura violenta e ideologica dei vietcong. 

Il papa chiede ai cristiani di pensare alla speranza non solo in termini individuali, ma anche sociali e per questo addita come modelli i martiri (“persone [che] si sono opposte allo strapotere dell’ideologia e dei suoi organi politici, e, mediante la loro morte, hanno rinnovato il mondo”, n. 8) e le persone consacrate, i vergini, che “per amore di Cristo hanno lasciato tutto per portare agli uomini la fede e l’amore di Cristo, per aiutare le persone sofferenti nel corpo e nell’anima” (n. 8). 

Per rendere fruttuosa la testimonianza cristiana, il pontefice suggerisce la preghiera, la compassione e la consolazione verso chi soffre, ma anche l’accettare di soffrire per la verità: “La verità e la giustizia devono stare al di sopra della mia comodità ed incolumità fisica, altrimenti la mia stessa vita diventa menzogna” (n. 38). E ancora, in un altro passo, parlando della “hypostole”, cioè “il sottrarsi di chi non osa dire apertamente e con franchezza la verità forse pericolosa”, aggiunge: “Questo nascondersi davanti agli uomini per spirito di timore nei loro confronti conduce alla « perdizione » (Eb 10,39)” (cfr. n. 9). 

Che il cristiano debba essere fonte di speranza per il mondo lo dicevano anche diversi studiosi e teologi del secolo scorso (J.B. Metz, E. Bloch). Ma la loro conclusione era che i cristiani dovevano alla fine sostenere la speranza marxista in una società buona del futuro. Benedetto XVI chiede invece ai cristiani di fondare la loro speranza in Gesù Cristo “filosofo” e “pastore” dell’umanità, la cui presenza nella nostra vita crea la speranza “che non delude”. 

Anzi, Benedetto XVI fa di più: suggerisce al mondo stesso, di scoprire la speranza che è Gesù Cristo, a partire da una “autocritica dell’era moderna” (n. 22) che abbia il coraggio di andare a fondo sui fallimenti dei progetti sociali del XIX e XX secolo e sulle ambiguità del progresso scientifico. Così, mentre egli chiede ai cristiani di impegnarsi con più radicalità nel mondo, chiede alla ragione scientifica e atea di aprirsi a una ragione “veramente umana”, aperta alla fede: “la ragione del potere e del fare deve …. essere integrata mediante l’apertura della ragione alle forze salvifiche della fede, al discernimento tra bene e male. Solo così diventa una ragione veramente umana” (n. 23). In tal modo il papa rende “comprensibile” al mondo secolare termini che sembravano “di sacrestia”: l’inferno, come la situazione irrimediabile di persone “in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l’odio e hanno calpestato in se stesse l’amore” (n. 45); il purgatorio, come la situazione in cui il nostro compromesso col male viene purificato e la nostra “sporcizia…bruciata nella Passione di Cristo” (n. 47); il giudizio finale, che afferma l’esistenza di una giustizia definitiva: “la fede nel Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza – quella speranza, la cui necessità si è resa evidente proprio negli sconvolgimenti degli ultimi secoli. Io sono convinto che la questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna” (n. 43).

Publié dans:Approfondimenti |on 2 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

Myanmar/Birmania: il grido della libertà e le sue radici religiose

dal sito: 

http://www.gliscritti.it/index.html

Myanmar/Birmania: il grido della libertà e le sue radici religiose
di Aung San Suu Kyi 

I monaci buddisti sfilano in silenzio chiedendo la libertà di espressione e di riunione, protestando contro lo stato totalitario. Un popolo intero partecipa e li accompagna.
Presentiamo sul nostro sito un testo del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, che invita a riflettere sulle radici di questo grido, sul ruolo della spiritualità nella protesta pacifica del popolo del Myanmar. Il brano è stato tradotto da Stefano Vecchia e pubblicato da Avvenire del 30/9/2007. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line del testo. 

Il Centro culturale Gli scritti (23/11/2007) 



Non c’è nulla che possa paragonarsi al coraggio della gente comune il cui nome resta anonimo e il cui sacrificio passa spesso inosservato. Il coraggio che osa senza riconoscimento è un coraggio che rende umili e ispira a ribadire la nostra fede nell’umanità. Tale coraggio io ho potuto vederlo settimana dopo settimana negli incontri con i miei sostenitori infaticabili che arrivano di buon mattino il sabato e la domenica e prendono posto davanti alla mia casa. Si siedono appoggiati alla staccionata su fogli di giornali o teli di plastica, cercando protezione dal sole all’ombra di un albero. Al culmine del monsone, costruiscono tettoie di plastico sotto cui si siedono affrontando anche piogge torrenziali con un spirito indomito e determinazione.

Sono i rappresentanti delle migliaia che partecipano alle nostre manifestazioni perché credono nell’importanza dei basilari diritti della democrazia: quello di associazione, di riunione e di espressione. Io sono incaricata di rispondere ai messaggi scritti che mi vengono consegnati e di discutere delle battaglie politiche che si sono succedute nel passato in Birmania e anche in altre parti del mondo. Spesso parlo anche della necessità di abituarsi a contraddire ordini arbitrari e di restare saldi e uniti davanti alle avversità. Uno dei messaggi che più frequentemente mando a quanti mi ascoltano è ricordare che né io, né la Lega nazionale per la democrazia possiamo portare la democrazia alla Birmania. La gente tutta deve essere coinvolta nel processo. La democrazia richiede sia responsabilità, sia diritti.

La forza e la volontà di proseguire viene dai birmani che ci avvicinano. Nei periodi in cui il potere mostra il volto più minaccioso, la folla è cresciuta di numero, come dimostrazione di solidarietà. Anche quando le autorità hanno bloccato l’accesso alla mia casa per prevenire i raduni, la gente si è avvicinata più che ha potuto per farci sapere che era determinata a continuare la battaglia per il diritto di riunirsi liberamente. Le nostre vite prendono un ritmo differente da coloro che, svegliandosi al mattino, non devono preoccuparsi di chi sia stato arrestato durante la notte e quali atti di palese ingiustizia potrebbero essere commessi contro la nostra gente durante la giornata.

La dimensione spirituale diventa particolarmente importante in una lotta in cui convinzione profonda e impegno mentale sono le armi principali contro la repressione armata. Le autorità ci accusano di fare un uso politico della religione, forse perché è quanto esse stesse stanno facendo o, forse, perché non possono riconoscere la natura a più dimensioni dell’uomo come essere sociale. Il nostro diritto alla libertà religiosa è sempre più minacciato dalla volontà delle autorità di oscurare le attività dell’opposizione.

La Birmania è un paese buddista ed è normale per i giovani buddisti birmani passare un certo periodo di tempo come novizi nei monasteri; inoltre, molti birmani che hanno passato i vent’anni entrano ancora nell’ordine religioso per periodi di varia durata come monaci ordinati a tutti gli effetti.

Nel caos dalla repressione politica, intimidazione, interferenza nel nostro diritto di pratica religiosa, noi birmani crediamo che coloro che condividono atti meritori si incontreranno ancora, legati da meriti comuni. È bene pensare che il futuro lo costruiremo in compagnia di coloro che hanno dimostrato di essere i più veri tra gli amici. Molti di quanti partecipano ai nostri incontri si erano già trovati qui otto anni fa per impegnarsi nella causa della democrazia e dei diritti umani, restando uniti – e io con loro nonostante le dure avversità. Molti sono oggi anche i volti assenti: i volti di coloro che sono morti, di altri che sono in carcere. È triste pensare a loro, ma il nostro impegno non si fermerà. 

Publié dans:Approfondimenti |on 29 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

Divo Barsotti Esegeta di Leopardi e di Dostoevskij

 dal sito:

http://www.santamelania.it/

Divo Barsotti Esegeta di Leopardi e di Dostoevskij
  

di Ferdinando Castelli S.I 

Riportiamo una accurata analisi del Padre Ferdinando Castelli S.I, sul pensiero di don Divo Barsotti , fondatore della Comunità dei Figli di Dio,recentemente scomparso, circa la spiritualità di Leopardi e Dostoevskij.” In Leopardi il dolore non nasce solo dalla fine delle illusioni. Il dolore ha una radice religiosa: l’uomo cerca disperatamente un suo partner che non può che essere fuori dal mondo mutevole.” «S’avessi io l’ale»
“La visione dell’uomo come epifania di Dio, in senso sia positivo sia negativo, viene descritta da Dostoevskij nei suoi personaggi: una galleria che offre una rappresentazione metafisica e religiosa del dramma umano che è la nostra vita. Tutti sono alla ricerca di verità, di vita, di felicità, di libertà; tutti danno l’idea di idee incarnate; tutti sono portatori di un messaggio. Dostoevskij li insegue, li scova nei segreti del loro animo, non di rado si immedesima in essi, rivivendo esperienze personali. Pochi scrittori «hanno saputo discendere negli abissi del cuore umano come Dostoevskij, e proprio per questo ben pochi hanno saputo dirci più di lui come l’uomo sia al centro di tutto, come sia senza fondo e senza confine la sua vita»
I due testi che seguono sono tratti dalla Civiltà Cattolica, 3 febbraio 2007, quaderno 3759, pp. 231-243. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza di questi testi sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Divo Barsotti è nato a Palaia (PI) nel 1914.
Pochi anni dopo l’ordinazione sacerdotale per interessamento di Giorgio La Pira si è trasferito a Firenze, dove ha iniziato la sua attività di predicatore e di scrittore. Oggi è unanimemente riconosciuto come mistico e come uno degli scrittori di spiritualità più importanti del secolo. La sua produzione letteraria è notevolissima: più di 150 libri, molti dei quali tradotti in lingue straniere, tra cui il russo e il giapponese, più centinaia di articoli presso quotidiani e riviste di spiritualità. Ha scritto commenti alla Sacra Scrittura, studi su vite di santi, opere di spiritualità, Diari e poesie. Tra i sui testi di più importanti: Il Mistero cristiano nell’anno liturgico; Il Signore è uno; Meditazioni sull’Esodo; La teologia spirituale di San Giovanni della Croce; La legge è l’amore; Cristianesimo russo; La religione di Giacomo Leopardi; La fuga immobile.
Ha fondato la « Comunità dei figli di Dio », famiglia religiosa di monaci formata da laici consacrati che vivono nel mondo e religiosi che vivono in case di vita comune; in tutto circa duemila persone. La Comunità è presente in Italia e nel mondo (Africa, Australia, Sri Lanka, Colombia) e si impegna a vivere la radicalità battesimale con i mezzi che sono propri della grande tradizione monastica.
Vicino per anni alla sensibilità del cristianesimo orientale, Divo Barsotti ha fatto conoscere in Italia le figure dei santi russi Sergio, Serafino, Silvano. Nel 1972 è stato chiamato a predicare gli Esercizi spirituali in Vaticano al Papa.
Ha insegnato teologia presso la Facoltà teologica di Firenze e ha vinto diversi premi letterari come scrittore religioso. Ha predicato in tutti i continenti e ultimamente è stato inserito tra le dieci personalità religiose più eminenti del ’900, in Storia della spiritualità italiana, curato da P. Zovatto (Edizioni Città Nuova).
Don Divo è ritornato alla casa del Padre il 15 febbraio 2006
 
  26/08/2007 



Dostoevskji mi ha svegliato dal sonno 

   Due testi di Barsotti ci introducono alla comprensione del suo Dostoevshij. Il primo è nella premessa al volume: «Io debbo mol­to a Dostoevskij e per onestà, oltre che per gratitudine, io dovevo scrivere. Non importa il giudizio che si vorrà dare oggettivamen­te del lavoro. Il lavoro comunque, se non rivelerà cose nuove, po­trà sempre rivelare qualcosa di me e prima di tutto a me stesso [...]. L’opera di Dostoevskij è stata per me un messaggio e mi ha svegliato dal sonno». Sonno? Un altro testo chiarisce: «Io devo la mia « conversione » a Dostoevskij [...]. Ci fu un momento della mia vita in cui io sognavo di diventare un grande poeta, ed ero perciò sul punto di lasciare il seminario. Poi cominciai a leggere Dostoevskij, che mi aprì gli occhi».  Per Barsotti, Dostoevskij è certamente un grande scrittore, ma è anche un profeta nel senso che svela l’uomo a se stesso, ne scan­daglia le pieghe nascoste, ne rivela la grandezza e la miseria, ne proclama la missione, ne narra la drammaticità delle scelte. Pro­feta soprattutto perché, appassionato com’è del Cristo, lo addita come amore che redime e verità che salva. «Forse è ia sua passio­ne per Cristo che mi svegliò dal sonno come non mi aveva sve­gliato né la visione della Provvidenza in Manzoni, né la teologia di Dante». Attraverso Cristo don Divo avverte la presenza di Dio che gli parla e fuga i fantasmi che abitavano la sua crisi.    «Per lui mi ha parlato Dio. L’ho riconosciuto nel tormento di Raskòlnikov dopo il delitto, nella pietà e nella forza di Sonja [...]; l’ho amato nell’umiltà e nella dolcezza di Sonia de L’adolescente, nella luminosa bellezza di Macario, l’ho sentito presente nell’u­miltà di Tichon ma anche nell’orrore della morte di Kirillov e nel­la condanna di Stavrògin, finalmente l’ho veduto nello staretz Zo­sima e in Aljòsa. Sempre Dio era presente. La sua presenza dava un senso agli avvenimenti, dava un nome a ogni uomo. Il silenzio non era vuoto, era il silenzio di Dio che riempiva di sé ogni luo­go, ogni avvenimento, era la vita nella comunione con lui, era la morte nella volontà di rifiutarlo, di volerlo negare» (p. 6 s). I1 vo­lume si sviluppa sostanzialmente su questi convincimenti, esami­nati nelle loro varie sfaccettature lungo l’arco delle quattro parti: L’uomo e lo scrittore, I personaggi dei cinque maggiori romanzi, Il messaggio di Dostoevskij, La teologia di Dostoevskij.    

L’uomo come epifania di Dio 

   Il concetto di Dostoevskij sulla religione si fonda sulla sua vi­sione dell’uomo: «L’uomo supera la natura e annuncia un’altra realtà» (p. 20). Quale altra realtà? La realtà di Dio come realizza­zione delle aspirazioni umane che superano il puro ambito natu­rale e riempiono il vuoto di Dio, che comporta malessere ontolo­gico e morte. Dio non è un accessorio della natura umana, ne è il respiro vitale, è la presenza senza la quale essa si smarrisce e si frantuma. « È Dio che non cessa di torturare chi ha compiuto il delitto, finché nel pentimento non trova la pace del perdono, è Dio che vive nella pietà di Sonia per Raskòlnikov, nel suo amore senza limiti per i fratelli, è Dio che vive nella pietà e semplicità del principe Myskin, nella pace di Macario, il pellegrino che ormai ha finito di camminare e attende sereno la morte» (p. 21).  Contro Dio c’è il maligno, che è «la realtà del male in una vita di menzogna, in una volontà di distruzione e di morte». Così la vi­ta umana è una lotta tra Dio e il maligno, che si contendono il suo dominio. Per descriverla Dostoevskij scende negli abissi del cuo­re dove abitano il peccato e la Grazia, e vede il peccato che cor­rode l’uomo, e Dio impegnato a conservare nella sua creatura la propria immagine nella quale risplende soprattutto l’amore.    Da queste considerazioni lo scrittore deduce che l’inferno e il paradiso non sono realtà estranee all’uomo. Sono nel suo cuore: le accoglie nella sua vita come parte di sé, e con esse si avvia all’eter­nità. Deduce anche che «l’uomo non è senza Dio» (p. 22). E’ in rap­porto con Dio «non soltanto nella misura in cui lo ama; egli è in un suo rapporto con Dio, sia che questo sia odio o sia amore. Anche nella trasgressione alla legge egli vive un suo rapporto con Dio. Non può chiudersi in sé, rifiutare un suo rapporto con lui; nel pec­cato stesso l’uomo, che vorrebbe sganciarsi da Dio per affermarsi e acquistare una sua « libertà », non vive nell’opposizione al suo Crea­tore che la sua distruzione e la sua morte. Al contrario, vive già un suo rapporto d’amore con Dio nel suo rapporto con la creazione, e più ancora nel suo rapporto di amore con l’uomo, perché la crea­zione è il primo segno di Dio, e l’uomo, immagine di Dio, è il se­gno più alto della sua presenza. Così nell’amore del prossimo l’uo­mo vive la sua più alta esperienza di Dio» (p. 152).    

Personaggi come  testimoni 

   La visione dell’uomo come epifania di Dio, in senso sia positi­vo sia negativo, viene descritta da Dostoevskij nei suoi personag­gi: una galleria che offre una rappresentazione metafisica e reli­giosa del dramma umano che è la nostra vita. Tutti sono alla ri­cerca di verità, di vita, di felicità, di libertà; tutti danno l’idea di idee incarnate; tutti sono portatori di un messaggio. Dostoevskij li insegue, li scova nei segreti del loro animo, non di rado si im­medesima in essi, rivivendo esperienze personali. Pochi scrittori «hanno saputo discendere negli abissi del cuore umano come Do­stoevskij, e proprio per questo ben pochi hanno saputo dirci più di lui come l’uomo sia al centro di tutto, come sia senza fondo e senza confine la sua vita» (p. 23).  Nella galleria dei personaggi che testimoniano in negativo la presenza di Dio, Barsotti fa incontrare gli eroi del romanzo I de­moni: Nikolaj Stavrògin, Pètr Verkovenskij, Aleksej Kirillov. Qui lo scrittore narra il tentativo di un gruppo di «indemoniati» di sganciare il popolo dalle miserie del vivere quotidiano e di libe­rarlo da ogni alienazione, sostituendo la fede in Dio con la reli­gione del popolo, non importa se ciò debba realizzarsi con la for­za e il massacro. Kirillov vuole la divinizzazione dell’uomo, nega Dio, ne desidera la morte, e per realizzare tutto ciò si suicida; Sta­vrògin dissipa ogni sua possibilità nel vizio e nella volontà di sfi­dare la legge e la pubblica opinione: incapace di amare, «non vive che il vuoto». Pètr « è l’incarnazione del maligno, tutto in lui è menzogna, il suo impegno è quello di contraffare la verità, la sua opera è la distruzione e la morte» (p. 72).  Dalla lettura de I demoni si esce come da un incubo perché, re­spinto Dio, che è vita, fa irruzione la morte. «La ribellione verso Dio, l’ateismo, il peccato non sembrano dare alcun frutto. La morte è la conseguenza irreparabile del peccato. Verso questa morte, che è il suicidio di Stavrògin, converge tutto il romanzo, ne è il compimento e il cuore» (p. 61). Ne I fratelli Karamazov la morte si configura con la follia. Ivàn nega Dio per orgoglio e lo sostituisce con la propria ragione; conseguentemente diviene pre­da di pensieri e desideri malsani, incontra Satana e precipita nel­la follia. Morte, follia, disperazione, solitudine, vuoto ínteriore: sono l’eredità di quanti rifiutano Dio. Tra i personaggi che testimoniano in positivo la presenza di Dio, Barsotti ne predilige due: Sonia in Delitto e castigo e lo staretz Zosima ne I fratelli Karamazov. Sonia è «la figura cristianamente più pura di tutta l’opera di Dostoevskij: è una prostituta, ma vive incontaminata in un mondo di peccato» (p. 129). Per salvare la fa­miglia dalla miseria, vende il suo corpo, ma il peccato non tocca la sua anima. «La sua bellezza è tutta spirituale. La sua apparizione, la sua presenza non turba, non eccita i sensi. Può discendere e può vivere nell’ambiente di peccato e di depravazione e non contami­narsi; anzi è lei che purifica [...]. Il suo sembra l’atteggiamento stesso di Dio nei confronti dei peccatori» (p. 40 s). Sa che la sua condizione non le consente di vivere una vita sacramentale e non osa partecipare alla vita della Chiesa, ma legge il Vangelo, che la fortifica e le dà la forza di accettare la sua abiezione.  Nello staretz Zosima, Dostoevskij ha inteso offrire un’icona del cristianesimo: un’icona che fosse la negazione di quanto, sullo stesso argomento, aveva sostenuto Ivàn Karamazov. Nel cristiane­simo, personificato nello staretz, c’è un’invasione di pace, di gioia, di forza, di amore. Nella luce della fede tutta la realtà si trasfigura.   

La teologia di Dostoevskij 

   La figura dello staretz ci introduce nell’ambito di quanto Bar­sotti chiama, un po’ enfaticalnente, La teologia di Dostoevskij. In realtà, lo scrittore non è un teologo né ha inteso fare teologia. E, un analista dell’animo umano; indagandone la natura, le esigenze e le leggi, intuisce che l’uomo è immagine di Dio e che, se di­strugge questa immagine, distrugge se stesso e diventa immagine del maligno. Al centro del mondo dostoevskiano dunque c’è «l’uomo, e nell’uomo si fa presente il mistero stesso di Dio. La vi­ta dell’uomo è lo scontro del male e del bene; il problema del ma­le e la concezione del bene dominano tutti i romanzi, e il bene e il male suppongono la libertà, postulano Dio» (p. 143). In Dio c’è la vita e la pace, senza Dio c’è la disgregazione e la rovina. Il problema dell’esistenza e della natura di Dio ha tormentato lo scrittore. È approdato alla fede non per via di ragionamento, ma attraverso la conoscenza di Gesù, incarnazione dell’amore che salva. Una fede, la sua, conquistata metro per metro, giorno do­po giorno, durante un’esistenza trascorsa all’insegna dell’insicu­rezza, della sofferenza e della macerazione interiore. Una volta in­contrato, Cristo non ha mai cessato di presentarglisi come salvez­za dell’uomo, sorgente e salvaguardia della libertà, ideale di ogni grandezza, fondamento della civiltà e della convivenza.  Barsotti difende l’ortodossia della fede cristiana dello scrittore contro quanti sostengono che la sua, più che religione cristiana, è religione del popolo e della terra. «E certo che la tentazione di una religione del popolo e della terra non è stata mai assente dal­la sua vita», ma «quando scriveva I demoni [in cui si ipotizza que­sta concezione] aveva ben chiaro che Dio non si identificava con l’anima di un popolo, e che la fede in Dio trascendeva una fede nel destino della nazione» (p. 142). 

   E la tentazione del «Dio russo»? questa tentazione «rimase [in lui] fino alla fine, ma non provocò il suo allontanamento da Cri­sto. Il Cristo ha rotto l’incantesimo di una natura chiusa, nella quale l’uomo è prigioniero. Quel Dio che si è incarnato nel Cri­sto non è, come nel paganesimo, una personificazione o un ele­mento della natura, ma è un Dio che trascende la natura. Nel rap­porto con lui, l’uomo è salvo precisamente perché rompe l’incan­tesimo di una natura che lo tiene prigioniero. Nel suo rapporto con Cristo ogni uomo è salvo, perché Dio lo ama, e non è in­ghiottito e digerito dal processo del tempo e della storia: l’uomo supera la natura e supera il tempo» (p. 144). Il Dio della religione di Dostoevskij pertanto «non si confon­de col divino della natura e non è il Dio della metafisica, ma non è neppure il Dio della storia: è il Dio che si è rivelato all’uomo nel­la vita e nella morte del Cristo, è, in ultima istanza, il Dio che vive nel cuore dell’uomo» (p. 1.45). E vero che questo Dio «non è mai esplicitamente il Dio Trinità della rivelazione cristiana», ma «non si può chiedere a un romanziere un trattato di teologia». E anche vero che lo scrittore «esplicitamente non parla dell’incar­nazione», tuttavia la centralità del suo Cristo e l’amore che gli porta «suppongono una sua trascendenza». A questo proposito vorremmo ricordare la splendida affermazione cristologica – Gesù Cristo è il Verbo fatto carne – che si trova nei Taccuini per «I demoni». Dopo aver respinto la concezione, in quel tempo ri­corrente, di un Cristo soltanto uomo, filosofo benefico e maestro di vita, afferma: «Ma io e voi, Satov, sappiamo che sono tutte sciocchezze, che Cristo-uomo non è il Salvatore e fonte di vita e che la sola scienza non completerà mai ogni ideale umano e che la pace per gli uomini, la fonte della vita e la salvezza dalla dispe­razione per tutti gli uomini, la condizione sine qua non e la ga­ranzia per l’intero universo si racchiudono nelle parole: Il Verbo si è fatto carne e la fede in queste parole» 8   

Conclusione 

   Come definire i due volumi di Barsotti? Non sono opera criti­ca: nessuna nota, nessun riscontro con altri studiosi, nessun con­fronto interpretativo. Don Divo va avanti per conto suo, solitario e tranquillo, in ascolto soltanto di se stesso. Li definiremmo per­tanto una conversazione con due eccellenti compagni di strada, Leopardi e Dostoevskij, fatta con intelligenza d’amore e suggeri­ta da comuni esperienze di vita e da approfondimenti spirituali. Volumi ricchi d’interesse, vivi, solcati da squarci di luce, per vari aspetti simpatetici. Non privi di limiti: ripetizioni, talune forzatu­re interpretative, qualche carenza d’informazione.            - Se volessimo sintetizzarli in poche battute, trascriveremmo un pensiero del loro autore: «Tutto è ombra; ogni creatura, ogni avve­nimento è segno. L’unica realtà sei Tu- e solo l’amore ti scopre»9.   
  



8 8 F. DOSTOEVSKJI, I demoni. I taccuini per «I demoni», Firenze, Sansoni, 1958,1.012.  

  9 9 D. BARSO’I'TI, Nel cuore di Dio, Bologna, Edb, 1991, 68.      

Publié dans:Approfondimenti |on 17 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

Piccolo ritratto di Luca, autore degli Atti

dal sito:

http://www.gliscritti.it/index.html

Piccolo ritratto di Luca, autore degli Atti
del prof.Giancarlo Biguzzi 

Presentiamo on-line un testo del prof.Giancarlo Biguzzi, docente di Nuovo Testamento presso la Pontificia Università Urbaniana, già apparso sulla rivista Eteria ed appartenente ad una serie di articoli che avevano lo scopo di introdurre, come in agili reportage giornalistici, ad una prima conoscenza dei luoghi e delle figure del Nuovo Testamento. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di rendere più facile la lettura on-line.
Ci piace qui richiamare, in consonanza con questo breve testo, la preghiera di Colletta della Messa della festa di San Luca che ricorda insieme la predicazione e gli scritti dell’evangelista Luca: “Signore Dio nostro che hai scelto san Luca per rivelare al mondo con la predicazione e con gli scritti il mistero della tua predilezione per i poveri, fa’ che i cristiani formino un cuor solo e un’anima sola, e tutti i popoli vedano la tua salvezza”. 
Il Centro culturale Gli scritti (21/10/2007) 



1. Il timoniere e i quattro rematori 

Ai Musei Vaticani è conservato un frammento di sarcofago cristiano dove un timoniere, volgendo le spalle alla prua, è intento a impartire le istruzioni del caso ai rematori di una piccola barca. Sul fianco dell’imbarcazione, in corrispondenza di ciascuno dei rematori, sono altrettanti nomi: Marcus, Lucas, Ioannes. Manca, come è facile intuire, un quarto rematore e un quarto nome, quello di Matteo.
L’immagine è suggestiva perché dice come nei quattro vangeli ci sia la voce di un solo maestro, ma anche la collaborazione di quattro uomini di fatica, i quali hanno non poco merito nel sospingere la barca tra le onde e le tempeste. 

2. Luca e la sua opera in due volumi 

Tra quei quattro “rematori” Luca si distingue per avere scritto un’opera in due volumi. All’inizio del secondo volume lui stesso rivela senza lasciare dubbi come pensasse a due volumi da conservare e leggere insieme: «Nel mio primo libro ho già trattato, o Teofilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio fino al giorno in cui ecc.» (Atti 1,1).
Teofilo e tutti gli altri lettori avrebbero dunque dovuto leggere il secondo libro di seguito al primo, ma nel secondo secolo i cristiani hanno deciso altrimenti. Quando le comunità cristiane cominciarono a scambiarsi i libri scritti dalla generazione apostolica, negli scaffali delle loro “sagrestie” ebbero la tendenza a raggruppare i libri omogenei. È così che il vangelo lucano (sarebbe meglio dire “lucaneo”, perché per noi italiani “lucano” è aggettivo di “Lucania”) è finito nella tetralogia evangelica e ha perso il legame, voluto dal suo autore, con il libro degli Atti. Ed è per questo che gli studiosi attingono, come è giusto, da tutti e due i volumi quando vogliono mettere in luce la visione teologica di Luca o, comunque, il suo contributo di pensiero al cristianesimo delle origini.
Luca, dunque, fu affascinato come tutti quelli della sua generazione dall’abbagliante figura di Gesù, ma seppe anche fare posto al dopo-Gesù, alla continuazione della sua opera che prima i suoi discepoli, e poi gli uomini della seconda e terza generazione cristiana seppero portare avanti in un ambito geografico e culturale ben più vasto di quello in cui era stato attivo Gesù. 

3. Luca, gli Atti e i viaggi missionari 

Quello che poi è interessante notare è che in tutte e due le opere Luca pensa in termini di viaggi: nel vangelo descrive il cammino di Gesù dalla Galilea, attraverso la Samaria, verso Gerusalemme, mentre nel libro degli Atti narra la grande corsa della Buona Notizia da Gerusalemme fino alle estremità della terra.
Più in particolare, gli Atti parlano dei viaggi missionari di Filippo (Atti 8) o di Pietro (Atti 9-11), ma i viaggi più giustamente famosi sono quelli di Paolo: il primo verso Cipro e nel cuore dell’Anatolia (= l’attuale Turchia); il secondo verso Filippi e Tessalonica in Macedonia, e verso Atene e Corinto in Acaia; il terzo verso Efeso, con un’appendice in Macedonia e in Acaia per visitare le comunità fondate nel secondo viaggio.
C’è poi un quarto viaggio nel quale, propriamente parlando, Paolo non era nelle vesti del missionario perché, essendosi egli appellato all’imperatore, con le catene ai polsi veniva portato dal tribunale periferico di Cesarea Marittima a quello di Roma. Anche il trasferimento dalla Palestina a Roma comunque è presentato da Luca come viaggio missionario perché Paolo, sia nella lunga e tormentata navigazione, sia una volta arrivato a Roma, approfittò per annunciare il Cristo. 

4. Viaggi missionari per Luca e soggiorni apostolici per Paolo 

Secondo Luca, dunque, Paolo è stato protagonista della missione protocristiana in termini di viaggi, ma -per quanto sorprendente possa essere- nelle sue lettere Paolo sembra interpretare la sua attività piuttosto in termini di soggiorni apostolici.
Luca, non si sa perché, non parla mai delle lettere di Paolo, mentre ce ne sono state tramandate ben 13 con in apertura il suo nome quale mittente. Il fatto stesso che a noi siano pervenute 13 lettere di Paolo o a lui attribuite, dice che Paolo, invece di andare di persona, spesso scriveva. È bensì vero che in quelle lettere Paolo non di rado parla delle visite che intende fare a Filippi o a Corinto ecc., ma si tratta generalmente di visite a singole comunità, e non inserite invece nella parabola di un viaggio missionario, secondo lo schema lucano.
Non solo, ma nelle sue lettere molto spesso Paolo allude all’invio di collaboratori: di Timoteo (1Corinzi 4,17) e di Tito (2Corinzi 8,6, ecc.) a Corinto, di Timoteo ed Epafrodito a Filippi (Filippesi 2,19; 2,25), di Onesimo e di Tichico a Colosse (Colossesi 4,7.9), della diaconessa Febe a Roma (Romani 16,1) ecc.
L’invio di lettere e di collaboratori era evidentemente inteso a non interrompere l’azione di Paolo nelle città in cui egli si trovava al momento di scrivere. Questo dice che Paolo non lasciava una chiesa se non vi era costretto dall’ostilità dei giudei (Atti 17,5.13), dalle autorità cittadine (Atti 16,39) o, infine, dal ritenere concluso in quel luogo il suo lavoro (Romani 15,23): quello di impiantare una chiesa matura nella fede e autosufficiente nella vita evangelica e nell’iniziativa missionaria. 

5. Luca e il suo autoritratto 

Tutto questo ci aiuta a delineare, per contrasto, un ritratto di Luca. Da come scrive e dai suoi centri d’interesse, Luca non va immaginato in uno studiolo da intellettuale, nella cui pace egli si ritira di tanto in tanto a scrivere ciò che ha ricevuto dai testimoni dei primi tempi o ciò di cui è stato personalmente protagonista. E non va pensato neanche come un dirigente di una chiesa oramai numerosa e consolidata, la quale lo incarica di scrivere per fare fronte alle proprie esigenze catechetiche e liturgiche. Luca è abbastanza diverso anche dal Paolo che, se gli era possibile, soggiornava a lungo nelle chiese dopo la loro fondazione.
Per Luca la vita apostolica è invece una corsa ininterrotta, è un continuo succedersi di arrivi e di partenze. Luca è un itinerante con le valigie sempre in mano che, come quelli di cui parla la Didachè (fine sec. I dC), non si ferma più di due giorni nella stessa comunità, per paura di essere un profittatore e un falso profeta: «Un apostolo non rimarrà tra voi che un giorno solo. Se vi fosse bisogno, si potrà fermare anche un secondo giorno. Ma se rimane per tre giorni, è un falso profeta» (Didachè 11,5).
Luca, che concepisce la storia della chiesa primitiva come una successione di viaggi missionari, era insomma ancora più viaggiatore che non Paolo. Non per nulla, egli conosce vie terrestri e rotte marine come nessun altro nel Nuovo Testamento, e menziona qualcosa come 102 toponimi di città, regioni, isole, ecc. sparse dalla Mesopotamia all’Italia. Già tutto questo induce a pensarlo come un itinerante. Ma c’è di più: egli ripetutamente giunge a chiamare la nuova fede cristiana come “la Via”, egli che per esempio fa dire a Paolo: «Io perseguitai a morte questa nuova Via» (22,4), e: «Adoro il Dio dei nostri padri secondo questa Via» (22,14; ma cf. per esempio anche 18,15.26; 24,22).
Poiché chiunque scrive fa dell’autobiografia, nel suo primo libro Luca si autodefinisce come l’evangelista della “via di Gesù” dalla Galilea a Gerusalemme, nel secondo egli si presenta come l’evangelista della “Via” da Gerusalemme a Roma, lui che era costantemente in viaggio, per terra o per mare, da una chiesa all’altra, al servizio del Vangelo. 

Publié dans:Approfondimenti |on 4 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

Speciale e significativo” l’incontro del Papa con il Dalai Lama

dal sito: 

http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=10707&theme=2&size=A

  

03/11/2007 11:16
TIBET – VATICANO – CINA

Speciale e significativo” l’incontro del Papa con il Dalai Lama
di Nirmala Carvalho
Lo dice ad AsiaNews Il capo dell’esecutivo dell’Amministrazione Centrale Tibetana, in esilio in India, che aggiunge: la Cina minaccia sempre ripercussioni contro chi incontra il Dalai Lama.
Dharamsala (AsiaNews) – Il governo cinese “minaccia sempre serie ripercussioni” contro chi incontra il Dalai Lama, ma questo “non ferma l’opera del nostro leader: il suo incontro con Benedetto XVI ci rende molto felici e ci incoraggia per il nostro futuro”. 

  

Lo dice ad AsiaNews Samdhong Rinpoche, Kalon Tripa tibetano [capo dell’esecutivo dell’Amministrazione Centrale Tibetana, in esilio in India ndr], commentando le minacce proferite dal ministero cinese degli Esteri contro la visita prevista fra il Papa ed il Dalai Lama, che dovrebbe avvenire il prossimo 13 dicembre. 

  

Quando il capo del buddismo tibetano è andato in America, riprende Rinpoche, “l’ambasciata cinese negli Usa ha mandato una lettera personale ad ogni altra rappresentanza diplomatica, minacciando serie ripercussioni se avessero partecipato al conferimento della medaglia d’oro del Congresso al Dalai Lama. Lo stesso è avvenuto in Germania e Canada”. 

  

Tuttavia, riprende il leader politico in esilio, “l’incontro con il Papa ha una rilevanza diversa: il Dalai Lama rispetta tutti i leader religiosi, e tutte le religioni del mondo, e Benedetto XVI è uno dei più importanti capi religiosi al mondo. Inoltre, la Chiesa cattolica parla da sempre a favore della libertà religiosa e dei diritti umani”. 

  

Questo incontro, dunque, “è estremamente importante, speciale e significativo. Manderà un segnale positivo ai leader mondiali politici e religiosi, ma anche a tutti coloro che lavorano per i diritti umani e per la libertà religiosa, in tutto il mondo”. 

Publié dans:Approfondimenti |on 3 novembre, 2007 |Pas de commentaires »
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