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IL TAU E LA SPIRITUALITÀ FRANCESCANA

dal sito:

http://www.nostreradici.it/tau_Francesco.htm

IL TAU  taf.gif   E LA SPIRITUALITÀ FRANCESCANA

Il popolo ebreo, come molte antiche culture, ha progressivamente elaborato una teologia o una complementare interpretazione spirituale adattata a ogni lettera del proprio alfabeto.

Poiché la scrittura ebraica, e di conseguenza l’alfabeto ebraico, non venne formalmente codificata fino a quasi 200 anni dopo la nascita di Cristo, molte lettere erano talvolta tracciate in forme diverse a seconda delle regioni dove vivevano gli ebrei, sia in Israele sia nella « diaspora » in luoghi al di fuori di Israele, prevalentemente nel mondo di lingua greca.

L’ultima lettera dell’alfabeto ebraico rappresentava il compimento dell’intera parola rivelata di Dio. Questa lettera era chiamata   TAU (o TAW, pronunciato Tav in ebraico), che poteva essere scritta: /\ X + T.  Esso venne adoperato con valore simbolico sin dall’Antico Testamento; se ne parla già nel libro di Ezechiele: «Il Signore disse: Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un Tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono…» (EZ. 9,4).

In questo stesso passo il Profeta Ezechiele raccomanda a Israele di restare fedele a Dio fino alla fine, per essere riconosciuto come simbolicamente segnato con il « sigillo » del TAU sulla fronte quale popolo scelto da Dio fino alla fine della vita. Coloro che rimanevano fedeli erano chiamati il resto di Israele; erano spesso gente povera e semplice, che aveva fiducia in Dio anche quando non riusciva a darsi ragione della lotta e della fatica della propria vita.

Sebbene l’ultima lettera dell’alfabreto ebraico non fosse più a forma di croce, come nelle varianti sopra descritte, i primi scrittori cristiani avrebbero utilizzato, nel commentare la Bibbia, la sua versione greca detta dei « Settanta ». In questa traduzione delle scritture ebraiche (che i cristiani chiamano Antico Testamento), il TAU veniva scritto T.

Con questo stesso senso e valore se ne parla anche nell’Apocalisse (Apoc. 7, 2-3). Il Tau è perciò segno di redenzione. È segno esteriore di quella novità di vita cristiana, più interiormente segnata dal Sigillo dello Spirito Santo, dato a noi in dono il giorno del Battesimo (Ef 1,13).

Il Tau fu adottato prestissimo dai cristiani per un duplice motivo. Esso, appunto come ultima lettera dell’alfabeto ebraico, era una profezia dell’ultimo giorno ed aveva la stessa funzione della lettera greca Omega, come appare ancora dall’Apocalisse: «Io sono l’Alfa e l’omega, il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuitamente dalla fonte dell’acqua della vita… Io sono l’Alfa e  »Omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine» (Apoc. 21,6; 22,13).

Ecco perché per i cristiani il TAU cominciò a rappresentare la croce di Cristo come compimento delle promesse dell’Antico Testamento. La croce, prefigurata nell’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, rappresentava il mezzo con cui Cristo ha rovesciato la disobbedienza del vecchio Adamo, diventando il nostro Salvatore come « nuovo Adamo ».

Durante il Medioevo, la comunità religiosa di S. Antonio Eremita, con la quale S. Francesco era familiare, era molto impegnata nell’assistenza ai lebbrosi. Questi uomini usavano la croce di Cristo, rappresentata come il TAU greco, quale amuleto per difendersi dalle piaghe e da altre malattie della pelle. Nei primi anni della sua conversione, Francesco avrebbe lavorato con questi religiosi nella zona di Assisi e sarebbe stato ospite nel loro ospizio presso S. Giovanni in Laterano a Roma. Francesco parlò spesso dell’incontro con Cristo, nascosto sotto l’aspetto di un lebbroso, come del punto di svolta della sua conversione. È quindi fuor di dubbio che Francesco, in seguito, avrebbe adottato e adattato il TAU quale distintivo o firma, combinando l’antico significato della fedeltà per tutta la vita con il comandamento di servire gli ultimi, i lebbrosi del suo tempo.

La simbologia del TAU acquistò un significato ancora più profondo per S. Francesco, dal momento in cui nel 1215 Innocenzo III promosse una grande riforma della Chiesa Cattolica ed egli ascoltò [1] il sermone del Papa in apertura del Concilio Laterano IV, contenente la stessa esortazione del profeta Ezechiele nell’Antico Testamento: « Siamo chiamati a riformare le nostre vite, a stare alla presenza di DIO come popolo giusto. Dio ci riconoscerà dal segno Tau impresso sulle nostre fronti ». L’anziano papa, nel riprendere questo simbolo, avrebbe voluto – diceva – essere lui stesso quell’uomo “vestito di lino, con una borsa da scriba al fianco” e passare personalmente per tutta la Chiesa a segnare un Tau sulla fronte delle persone che accettavano di entrare in stato di vera conversione [Innocenzo III, Sermo VI (PL 217, 673-678)].

Questa immagine simbolica, usata dallo stesso Papa che solo 5 anni prima aveva approvato la nuova comunità di Francesco, venne immediatamente accolta come invito alla conversione. Per questo, grande fu in Francesco l’amore e la fede in questo segno. «Con tale sigillo, San Francesco si firmava ogni qualvolta o per necessità o per spirito di carità, inviava qualche sua lettera» (FF 980); «Con esso dava inizio alle sue azioni» (Fr 1347).

Se Francesco adottò il TAU come sigillo personale, « segno manuale » come si diceva ai suoi suoi tempi e con esso firmava ogni suo scritto, Tommaso da Celano ce ne tramanda un altro uso da parte sua: egli lo tracciava sui muri, sulle porte, e sugli stipiti delle celle. Come non pensare in questo caso, non più soltanto ad Ezechiele, dove si trattava di segnare le fronti con il segno della salvezza, ma al libro dell’Esodo, in cui il segno della salvezza altro non era che il sangue dell’agnello pasquale sull’architrave delle porte? Il Tau era quindi il segno più caro per Francesco, il segno rivelatore di una convinzione spirituale profonda che solo nella croce di Cristo è la salvezza di ogni uomo.

L’affermazione del Celano concernente la scritta del Tau sui muri, è confermata dall’archeologia: al tempo del restauro della cappella di Santa Maddalena a Fonte Colombo fu rinvenuto nel vano di una finestra, dal lato del Vangelo, un Tau, dipinto in rosso, ricoperto poi con una tinta del secolo XV. Questo disegno risale allo stesso san Francesco.

San Francesco d’Assisi faceva riferimento in tutto al Cristo, all’ultimo; per la somiglianza che il Tau ha con la croce, ebbe carissimo questo segno, tanto che esso occupò un posto rilevante nella sua vita come pure nei gesti. Questo comportamento, tenuto da san Francesco, era rimarchevole in una epoca nella quale tutta una corrente catara o neo-manichea, rifuggiva dallo stesso segno di croce, considerandolo indegno dell’opera redentrice di Dio.

Con le braccia aperte, Francesco spesso diceva ai suoi frati che il loro abito religioso aveva lo stesso aspetto del TAU, intendendo che essi erano chiamati a comportarsi come « crocifissi », testimoni di un Dio compassionevole ed esempi di fedeltà fino alla morte.

Fu per questo che Francesco fu talvolta chiamato “l’angelo del sesto sigillo”: l’angelo che reca, lui stesso, il sigillo del Dio vivente e lo segna sulla fronte degli eletti (cf. Ap 7, 2 s.) e San Bonaventura poté dire dopo la sua morte: « Egli ebbe dal cielo la missione di chiamare gli uomini a piangere, a lamentarsi… e di imprimere il Tau sulla fronte di coloro che gemono e piangono » [S. Bonaventura, Legenda maior, 2 (FF, 1022)].

Non possiamo non ricordare la Benedizione per frate Leone, custodita nella sacrestia del Sacro Convento di Assisi. Il ramo verticale del Tau tracciato dalla mano di Francesco, attraversa il nome del frate; e questo è un fatto intenzionale. Ci ricorda l’uso tradizionale all’epoca delle catacombe, in cui spesso appare il Tau un grande evidenza in un nome proprio delle cui lettere non fa nemmeno parte.

Oggi i seguaci di Francesco, laici e religiosi, portano il TAU come segno esterno, come « sigillo » del proprio impegno, come ricordo della vittoria di Cristo sul demonio attraverso il quotidiano amore oblativo. Si tratta del segno distintivo del riconoscimento della loro appartenenza alla famiglia o alla spiritualità francescana. Il Tau non è un feticcio, né tanto meno un ninnolo: esso, segno concreto di una devozione cristiana, è soprattutto un impegno di vita nella sequela del Cristo povero e crocifisso.

Il segno di contraddizione è diventato segno di speranza, testimonianza di fedeltà fino al termine della nostra esistenza terrena.

Publié dans:Approfondimenti, San Francesco d'Assisi |on 18 septembre, 2009 |Pas de commentaires »

Il tema del giudizio e della corretta posizione che il discepolo deve assumere dinanzi all’ingiustizia umana è trattato ai vv. 1-6 del capitolo sette (vangelo di Matteo).

dal sito:

http://www.cristomaestro.it/discepolato/ritratto_discepolo/affidamento_causa.html

Il tema del giudizio e della corretta posizione che il discepolo deve assumere dinanzi all’ingiustizia umana è trattato ai vv. 1-6 del capitolo sette.

E’ molto chiaro l’enunciato generale di partenza: “Non giudicate per non essere giudicati” (v. 1). Ciò implica uno stretto legame tra il giudizio dell’uomo verso l’uomo e il giudizio di Dio. Il versetto successivo, “col giudizio con cui giudicate sarete giudicati” (v. 2), precisa che Dio non applica un criterio “standard” per giudicare gli uomini, ma utilizza lo stesso criterio che l’uomo aveva utilizzato per giudicare il suo prossimo. Il concetto viene poi ripetuto, nella seconda parte del v. 2, con altre parole: “con la misura con la quale misurate sarete misurati”. Il senso è praticamente lo stesso.L’affermazione di partenza, che suona “non giudicare”, viene fondata su un dato antropologico espresso in forma di similitudine: “non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio” (v. 3). L’immagine della trave nell’occhio intende sottolineare innanzitutto i limiti della facoltà umana di giudizio e di valutazione delle cose e delle persone. La “pagliuzza nell’occhio del fratello” suggerisce invece l’idea che, spesso, colui che si sente autorizzato a giudicare ci vede meno, cioè ha la coscienza meno illuminata, della persona che è oggetto del suo giudizio. In realtà, più è illuminata la nostra coscienza e meno siamo portati a giudicare; più cresciamo nella santità cristiana e meno tendiamo a colpevolizzare gli altri in ciò che a noi sembra consista la loro colpa. La tendenza a colpevolizzare gli altri, infatti, non viene dallo Spirito di Dio. Si tratta piuttosto di una assimilazione al ministero di Satana, che accusa “i nostri fratelli giorno e notte” (Ap 12,10). Chi accusa i propri fratelli si comporta quindi come il Maligno e, così facendo, si espone al suo potere.Cosa deve fare, allora, il discepolo quando subisce l’ingiustizia, visto che non può giudicare né può farsi giustizia da sé?Quando l’ingiustizia che si subisce rischia di colpire gli equilibri sociali, allora è lecito agire per vie legali, facendo ricorso all’autorità istituzionale preposta alla custodia della legalità come si vede da Is 28,6, Rm 13,1, Mt 18,17, e ciò vale sia nel campo civile che in quello ecclesiastico. Non è virtù evangelica il fatto di tacere dinanzi a un’ingiustizia che penalizza molte persone. Si può tacere, se si vuole, dinanzi a un’ingiustizia che non penalizza nessuno, se non se stessi. In cose di minore portata, esiste anche la possibilità della correzione fraterna (1 Tm 5,20 e Lc 17,3-4). Se poi colui che ha mancato non vuole ascoltare nessuno, si lascia andare per la sua strada: “sia per te come un pagano e un pubblicano” (Mt 18,17).Va inoltre precisato che l’esortazione “non giudicare” non equivale a “non discernere”; al contrario, il discepolo riceve da Dio una luce intellettiva per distinguere uomo da uomo. “Non giudicare” significa solo non assumere l’atteggiamento del “giustiziere” in tutti quegli ambiti in cui uno si può sentire ingiustamente penalizzato. Non significa però chiudere gli occhi sul bene e sul male, col rischio di cadere nelle mani di uomini furbi e senza scrupoli, o addirittura di profanare le cose sante, mettendole a portata di mano di chi non ha le giuste disposizioni per riceverle (cfr. 7,6). In questo senso è detto: “Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Mt 10,16). Il discepolo è tenuto insomma a custodire se stesso, tenendosi lontano dalle situazioni e dalle persone che possono seriamente minacciare il suo cammino. Se è vero che il discepolo è “il sale della terra”, e come tale deve entrare anche in contatto con le situazioni umane di degrado per portarvi la luce di Cristo, è pure vero che non in tutte le fasi del proprio cammino di fede si è abbastanza forti per affrontare i rischi dell’apostolato. Bisogna perciò in primo luogo saper valutare se stessi, secondo l’insegnamento del Maestro in Lc 14,18ss. Ma bisogna anche valutare i destinatari dell’annuncio, perché la Parola di Dio non sia oggetto di scherno e di beffa da parte di uomini superficiali e desiderosi solo di soddisfazioni materiali, secondo l’insegnamento di 2 Tm 2,2: “Le cose che hai udito da me… trasmettile a persone fidate”.

Publié dans:Approfondimenti, biblica |on 4 septembre, 2009 |Pas de commentaires »

Abramo: quando la tentazione è uccidere il proprio figlio

dal sito:

http://www.zenit.org/article-17429?l=italian

Abramo: quando la tentazione è uccidere il proprio figlio

Domenica 8 marzo 2009. II Domenica di Quaresima / B

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 6 marzo 2009 (ZENIT.org).- “Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: ‘Abramo!’. Rispose: ‘Eccomi!’. Riprese: ‘Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò’” (Gen 22, 1-2).

Nella Lettera a Consenzio s. Agostino dice: “La parola tentazione ha diversi significati, dato che una è la tentazione che vuole ingannare, altra è la tentazione che vuole mettere alla prova. Riguardo alla prima il tentatore può essere solo il demonio, riguardo alla seconda è Dio che tenta”. 

Riferendosi alla prova di Abramo, Maimonide scrive: “Dio volle così far sapere che chi gli obbedisce è preservato dal male e ricompensato, in modo che la fama di questo fatto si spargesse su tutta la terra. Era stato infatti ordinato di uccidere il figlio, generato nella vecchiaia, in virtù di una promessa, per la quale la sua discendenza sarebbe stata innumerevole come le stelle del cielo, e in cui sarebbero stati benedetti tutti i popoli della terra” (riportato in “Commento alla Genesi”, Meister Eckhart, pp. 148-149).

Queste note introducono bene alla liturgia della Parola di questa domenica, permettendoci subito di comprenderne il messaggio in riferimento all’attualità dell’aborto e dell’omicidio clinico di Eluana Englaro.

Abramo è un beduino, e per un beduino l’essenziale per la vita è l’acqua, cioè il pozzo. Egli si trova a Bersabea, nel territorio dei Filistei, dove si stabilisce come forestiero dopo essersi assicurato pacificamente il riconoscimento del suo diritto sul pozzo da lui stesso scavato.

A questo punto, e in questo luogo, Abramo “invocò il nome del Signore, Dio dell’eternità” (Gen 21,33), colmo di riconoscenza per tutti i benefici da Lui ricevuti. 

E’ a questo contesto che si riferiscono le prime parole di Gen 22,1: “Dopo queste cose…”. Ed è come se Abramo stesso raccontasse: “Dio mi ha sempre beneficato, dandomi prove su prove della Sua fedeltà, ed io L’ho sempre benedetto e invocato come il Dio della mia salvezza e della mia gioia, per il Quale ero disposto a rinunciare a tutto. Ma un giorno Dio mi uccise, facendomi una richiesta impossibile: “Prendi il tuo figlio…offrilo in olocausto…”.

Il racconto biblico della prova di Abramo (è opportuno leggerlo integralmente dal v.1 al v.18) è molto noto, e suscita sentimenti contrastanti. Dal versante di Abramo: una certa, perplessa ammirazione per una fede tanto obbediente quanto inimitabile e disumana; dal versante di Dio: sconcerto totale per questa Sua intollerabile, troppo crudele richiesta (il cuore di Abramo ha più di cent’anni e, come i cardiologi sanno, esiste realmente la morte da “crepacuore”); dal versante di Isacco: pena sconfinata per il “protocollo di morte” a suo riguardo, che lo vede vittima innocente, ignara e passiva (non muove un dito, nemmeno quando il coltello è alzato su di lui).

Emotivamente rifiutiamo quel cammino di morte verso il monte, anche se fu un incubo a lieto fine.  Quei tre giorni di agghiacciante silenzio ci sembrano assurdi, e non riusciamo a capire il motivo per cui Dio, che già conosceva la fedeltà del suo amico, ora sottopone Abramo ad una prova simile.

Inoltre il fatto sembra abbastanza lontano dalla nostra realtà: nel nostro background culturale non esistono sacrifici umani da offrire agli dei, e noi vogliamo fermamente credere alla  misericordia di Dio, nostro Padre, cui chiediamo ogni giorno: “non abbandonarci alla tentazione” (Mt 6,13).

Qual è allora il messaggio del “sacrificio di Isacco”?

Per rispondere, occorre anzitutto capire il significato del sacrificio per l’antico Israele.

Leggo nella Nuova Bibbia per la famiglia: “…rappresentava un’occasione per esprimere riconoscenza al Dio provvido e generoso, e per gustare nella gioia l’appartenenza a un popolo chiamato alla santità da un’unica elezione” (vol. 2, p.12). E’ questa, anzitutto, l’elezione del suo capostipite Abramo.

Osserva il cardinale A. Vanhoye: “Per gli ebrei il sacrificio non è una realtà negativa, ma positiva, perche rende uniti a Dio. Perciò essi spiegano che Isacco si sentiva onorato di essere la vittima di un sacrificio. Noi oggi non capiamo più questo aspetto positivo del sacrificio, ma siamo invitati a riscoprirlo. (…) L’intenzione di Dio non è quella di far morire Isacco, neppure nella prospettiva positiva di unirlo a Sé” (da “Le letture bibliche delle domeniche”, Anno B, p. 67-68).

Sì, ecco un primo messaggio: dobbiamo riscoprire il valore del sacrificio, inteso come purificazione ascetica della nostra volontà egoista mediante la preghiera, il digiuno e la misericordia, alla luce abbagliante del sacrificio di Abramo.

Ma cosa significa essere uniti a Dio?

Significa essere divinizzati, vivendo fin d’ora una comunione sempre più piena con Lui che è Amore, unificati a Cristo nella volontà, nei sentimenti del cuore, nella santità della vita.

Lo splendore indicibile di tale divinizzazione è rivelato oggi dal Vangelo della Trasfigurazione del Signore: “Gesù prese con Sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro…E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù.” (Mc 9, 2-4).

E’ questa una specie di istantanea sull’aldilà, divenuti per sempre cittadini del Cielo dopo una vita di prove superate nella fede e per la fede, alla scuola degli amici che ci hanno preceduto combattendo la buona battaglia e conservandola.

Ecco, allora, un altro messaggio: affinchè il cordone ombelicale della fede rimanga pervio totalmente per infondere la pienezza della Vita divina nella nostra anima, è necessario il sacrificio della fede, cioè il sacrificio che consiste nella fede assoluta di Abramo, sacrificio veramente gradito a Dio perché è rinuncia salvifica alla nostra volontà, disorientata perchè basata su ingannevoli apparenze. E avere fede consiste in questo: Dio ci presenta tutto ciò che accade come un assegno in bianco, da firmare con queste parole: “Sia fatta la tua volontà”.

Se firmiamo con fiducia incondizionata, svuotiamo il nostro cuore da ogni impedimento all’invasione del Suo Amore e delle Sua Vita divina. La firma è l’obbedienza concreta a tutti i Suoi comandamenti, suggerita da una buona coscienza formata alla scuola della Parola di Dio e del Magistero della Sua Chiesa.

Questa fede “di Abramo” è, e deve essere, come la vita: non negoziabile, sempre intatta e intangibile, criterio saldissimo e fondamento assoluto della nostra condotta, del rapporto con Dio e con i fratelli.

Nel caso di Abramo, come ho riportato all’inizio, il motivo della prova divina non fu tanto voler saggiare lo stato di forza e salute della sua fede (come si fa con il cuore sottoponendolo alla prova da sforzo), ma la predestinazione ad essere un esempio per noi.

Una situazione simile a quella di Abramo è la gravidanza indesiderata, quando la mamma è fortemente tentata di rifiutarla, cioè interiormente ed esteriormente spinta a sopprimere il bambino con l’aborto.

Come Abramo è angosciato a motivo della obbediente decisione di uccidere il suo unico figlio, così la mamma è angosciata per la gravissima tentazione, contro Dio e la propria coscienza di madre, di sottoporsi all’uccisione del suo bambino.

La lacerazione del cuore di Abramo è simile alla lacerazione del cuore della mamma, perché nell’uno e nell’altro caso si tratta del figlio uscito dalle proprie viscere.

Cosa significa, in tale situazione, avere fede?

Significa anzitutto gettare via il coltello dalla mente: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente!” (Gen 22,12), nonostante la tremenda pressione emotiva di familiari e conoscenti, e non di rado anche di medici, psicologi e servizi sociali, che la isolano in una drammatica solitudine, paragonabile a quella di Abramo in cammino verso il monte Moria.

Significa poi combattere in se stessa il turbamento e la persuasione di non avere vie di uscita, come se Dio non ci fosse o non potesse intervenire ad aiutarla, mentre proprio il bambino concepito è il segno della avvolgente benedizione divina su di lei,  il “centro” dell’aiuto divino alla sua vita in questo momento di buio pesto interiore.

Ella deve credere alle rassicuranti parole di Paolo: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa con lui?” (Rm 8,31-32).

Significa credere anche per sé alla ricompensa della fede di Abramo: “Io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare..perchè tu hai obbedito alla mia voce” (Gen 22,1-18).

La ricompensa della mamma che obbedisce alla voce del suo cuore è simile: una gioia smisurata ed inesprimibile, riflesso e segno del dono di una profonda comunione-unione con Dio e il suo bambino, ai quali ella ha salvato la vita come ad uno solo. Dice infatti Gesù: “Tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt 25,45). Quando una mamma non fa l’aborto, salva Gesù e il suo bambino dalla spada di Erode.

Ma anche a quelle mamme e quei papà che sono entrati, disobbedendo, nella tentazione dell’aborto, Dio offre un cammino di Risurrezione, se essi accettano di porsi sotto la croce di Cristo, luogo benedetto di riconciliazione e perdono, punto di incontro con la tenerezza di quella Madre che sa bene cosa significhi per il cuore  la morte a un figlio.

San Giovanni della Croce commenta così il racconto della prova di Abramo: “Poiché conviene che non ci manchi la croce, come al nostro Amato, fino alla morte di amore, Egli fa sì che soffriamo le pene d’amore in ciò che più desideriamo, affinchè  facciamo sacrifici maggiori e acquistiamo un maggior valore. Ma tutto ciò dura poco, si riduce fino ad alzare il coltello, poi Isacco rimane vivo, con la promessa che il figlio si moltiplicherà” (Lettera n. 11, 28 gennaio 1589).

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* Padre Angelo, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

Publié dans:Approfondimenti, biblica |on 10 juillet, 2009 |Pas de commentaires »

Rabbino Rivon Krygier: “Il dialogo con i cristiani mi ha illuminato”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-18639?l=italian

Rabbino Rivon Krygier: “Il dialogo con i cristiani mi ha illuminato”

“I Vangeli costituiscono una visione ricca, una riflessione sull’ebraismo”

ROMA, martedì, 16 giugno 2009 (ZENIT.org).- Il rabbino Rivon Krygier dichiara di essere stato “illuminato” dal dialogo con i cristiani in questa intervista raccolta da Sylvain Sismondi per il settimanale della Chiesa cattolica a Parigi, Paris Notre-Dame, e inserita nel suo dossier sul dialogo fra ebrei e cattolici nella capitale francese.

Oggi sono numerosi gli ebrei impegnati nel dialogo con i cristiani. Quali sono le loro motivazioni? Cosa pensano di Gesù? La rivista ha pubblicato l’intervista con uno di loro, il rabbino Rivon Krygier, responsabile della comunità “Massorti” (“tradizionale”) Adath Shalom (Assemblea della Pace).

Lei è ebreo. Per quale motivo il dialogo con i cristiani è importante per voi?

Rivon Krygier: Siamo nell’era della globalizzazione. Non possiamo ignorarci a vicenda. Le religioni ed i credenti devono imparare a conoscersi e a dialogare. L’attualità ci dimostra ogni giorno quanto peso abbiano i rischi dei conflitti religiosi. Per evitarli, per liberarci dei nostri pregiudizi, è assolutamente necessario dialogare. Credo inoltre che tutti noi siamo consapevoli che esiste una certa relatività della verità. Non si tratta di indifferentismo o di relativismo… Diciamo semplicemente che in ogni religione esistono autentici tesori spirituali e che possiamo arricchirci con la spiritualità dell’altro grazie al dialogo. Le spiritualità ci illuminano e ci aiutano a comprendere meglio la nostra stessa religione, nel costruire la fraternità universale insita nel progetto stesso delle nostre rispettive religioni.

Nella vostra fede ebraica, qual è il contributo del dialogo con i cristiani?

Rivon Krygier: Ci dà un grande contributo e in tutti i campi. Le faccio un esempio: lo studio dei Vangeli e il dialogo con dei cristiani mi hanno spiegato molto della mia tradizione. In realtà, il cristianesimo, nella sua memoria o nel suo culto, ha conservato molto delle tradizioni ebraiche, che sono state completamente abbandonate nell’ebraismo che continuava ad evolversi. Penso, ad esempio, alla vigilia pasquale, che tradizionalmente, nella Chiesa, durava tutta la notte. Di fatto, era una tradizione ebraica fondamentale, che in seguito è stata abbandonata e dimenticata. Oggi il pranzo pasquale deve terminare assolutamente prima di mezzanotte. Il cristianesimo ci permette spesso di ritrovare le nostre radici! Ma si dice che è il cristianesimo che trova le sue radici in questo dialogo.

Voi non riconoscete Gesù come il Messia e il Figlio di Dio. Qual è la vostra opinione in merito?

Rivon Krygier: Per me, il problema di sapere o no se si tratta di un ritorno o della prima venuta del Messia atteso, è una faccenda di scarsa importanza. Per quanto mi riguarda, il giorno in cui verrà, sia che si chiami Shimon o si chiami Gesù, io non sarò deluso! Su questo punto, i cristiani devono capire che gli ebrei hanno una spiritualità messianica che è loro propria. Ciò non riguarda l’incontro con colui che si chiama Gesù. Le condizioni e la funzione della venuta messianica sono pensate e vissute in modo diverso. Noi non siamo “imperniati” sul Messia, ma ci preoccupiamo, innanzitutto, di rivedere il nostro comportamento e la guida del mondo attraverso la realizzazione della volontà divina. Ma alla fine, vi è una convergenza.

Cosa suscitano in voi i Vangeli e la vita di Gesù?

Rivon Krygier: I Vangeli costituiscono una visione ricca, una riflessione sull’ebraismo. Confesso che quando leggo certi passaggi, sono molto emozionato per la profondità e l’umanità del messaggio spirituale. Si risente veramente l’ebraismo di Gesù, il suo modo di interpretare e di vivere la fede ebraica, alla scuola dei grandi profeti. Per me, ebreo, Gesù incarna un uomo dedicato alla redenzione e alla salvezza. Egli ha voluto affrettare la venuta del regno di Dio e vi si è dedicato nell’intero arco della sua esistenza. Il fatto è che non vi è riuscito, a prescindere dal giudizio che viene dato. Allo stesso tempo, egli ha effettivamente permesso a milioni di non ebrei in tutto il mondo di legarsi alla stirpe di Israele e alla fede del monoteismo universale secondo la promessa fatta ad Abramo. E’ un fatto acquisito che Gesù abbia veramente dato vita ad un movimento spirituale di portata superiore, fondamentalmente rispettabile (anche se ci si rammarica per il disaccordo durato troppo a lungo fra ebrei e cristiani…) e partecipe del messianismo.

A Parigi ed ancor più nel resto della Francia, pochi ebrei sembrano interessarsi al dialogo con i cristiani. Perché?

Rivon Krygier: Siamo realisti. In generale, i credenti che si interessano alla religione o alle convinzioni degli altri sono pochi. E gli ebrei non sfuggono alla regola. Vi sono altri fattori importanti che non facilitano il dialogo. Innanzitutto gli ebrei sono numericamente molto meno numerosi dei cristiani. E’ quindi normale che siano meno rappresentati nei luoghi del dialogo. Inoltre, molti ebrei non sono praticanti o non si interessano da vicino alla religione. Per quanto riguarda coloro che hanno un’esigenza spirituale, essi provano più spesso il bisogno di approfondire innanzitutto la propria tradizione. Inoltre le comunità ebraiche sono anche sparse e non sono ben organizzate come la Chiesa e ciò non favorisce gli incontri formali con le altre comunità. Infine, credo che quando iniziamo a dialogare, tutti noi dobbiamo superare i nostri pregiudizi e i nostri stereotipi. Ne ho fatto esperienza io stesso. Per me, il cristianesimo era una religione superficiale, basata solo sullo stato affettivo, una fede irrazionale, che implicava il diniego del corpo, ecc. Grazie al dialogo, non solo scopro grandi ricchezze spirituali, ma anche uomini e donne esemplari nella loro fede e nelle loro azioni, dei “giusti” secondo il nostro modo di dire. La loro fede e la mia non sono rivali, ma protese, mano nella mano, verso il regno di Dio.

Parigi Notre-Dame, numero del 21 maggio 2009]

Publié dans:Approfondimenti, ebraismo |on 16 juin, 2009 |Pas de commentaires »

La MADONNA e lo SPIRITO SANTO

dal sito:

http://www.suorefrancescaneimmacolatine.it/index_file/barbarito8.pdf

La MADONNA e lo SPIRITO SANTO 

 Lo Spirito Santo è la fonte e l’operatore di ogni santità nella Chiesa. Ma la sua relazione e il suo ruolo nella santificazione della Vergine Maria eccelle tutte le altre sue operazioni, potremmo dirlo il suo capolavoro, che appartiene a tutta la Trinità Santissima, della quale lo Spirito è manifestazione.

 Esiste un filo diretto tra la prima pagina del Genesi e quella del Vangelo di Luca. Nel capitolo della Bibbia, col quale si apre la rivelazione di Dio all’uomo ,noi leggiamo che “lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque… e la terra era informe e deserta e le tenebre coprivano l’abisso” (Gen. 1,1-2), espressioni molto efficaci per trasmettere l’idea del caos, del non esistente. La voce di Dio
risuonò possente per mettere ordine :”Sia fatta la luce, e la luce fu fatta”. La sequenza dei sei giorni della creazione del mondo si conclude con la creazione della prima coppia umana. E Dio disse:” Facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza perché domini su tutta la terra…, e li fece maschio e femmina…li benedisse.. e vide che quanto aveva fatto era molto buono” (Gen.1, 26-31). Nel creare l’uomo a suo immagine e somiglianza Dio gli assegnava già un destino che superava e trascendeva quello del mondo fisico e materiale. L’economia della
salvezza incominciava da quel momento e le sue incognite stavano nella libertà di cui l’uomo era stato dotato. L’uomo e la sua compagna ne fecero un uso errato e venne la caduta e con essa la punizione del dolore e della morte. 

 Diverso è il capitolo col quale si apre il Vangelo di San Luca, il solo a darci la narrazione di come si attuò nel tempo la nascita del Salvatore preconizzata nel Paradiso terrestre ai nostri progenitori nel momento stesso della loro umiliazione e condanna. L’annunzio dell’Angelo a Maria apre la seconda pagina della storia dell’umanità, quella della redenzione, della restituzione alla pristina santità e bellezza ed all’originale destino di grazia e di beatitudine. Iddio Padre aveva già all’inizio,
subito dopo il peccato di Adamo ed Eva, intimato al serpente, simbolo del Male, che il suo successo sarebbe stato breve perché alla fine “la discendenza della donna gli avrebbe schiacciato il capo”. L’economia di salvezza di Dio includeva pertanto fin dall’eternità un importante ruolo per la donna. Il Verbo eterno di Dio per compiere la missione del Padre avrebbe dovuto nascere da una donna, perché solo nel suo grembo avrebbe preso quella “carne mortale” per introdursi nel mondo e nella storia degli uomini. L’Onnipotente poteva effettuare la salvezza in infiniti altri modi, ma egli aveva scelto nel suo eterno decreto di effettuarla attraverso l’uomo stesso per confermare il suo amore alla creatura che egli aveva creato a sua immagine e somiglianza. Veramente grande è la dignità dell’uomo non ostante la sua debolezza e la sua mortalità. 

 Anticipando la multiforme attività dello Spirito nella vita collettiva e individuale degli uomini, l’autore del Libro della Sapienza facendo l’elogio di questo Dono di Dio, annunziava una tautologia dello Spirito al quale esso viene equiparato, che avrà una più chiara formulazione nel Nuovo Testamento e in modo particolare nelle Lettere di San Paolo. Lo Spirito, che nell’annunzio di Isaia si poserà sul germoglio di Iesse è lo stesso Spirito o ”soffio” di Dio che agisce lungo tutta la rivelazione biblica. E’ all’origine del creato, suscita gli uomini santi di cui Dio si serve per guidare il suo popolo verso il compimento della promessa, dà la saggezza ai Patriarchi, il discernimento ai Giudici e soprattutto ispira i Profeti. E’ lo stesso Spirito che, nella pienezza dei tempi, coprirà con la sua potenza l’umile Vergine di Nazaret e la trasformerà nella Madre privilegiata del Verbo Incarnato. 

 Nella vita della Madonna , come ce la racconta il suo agiografo San Luca , noi riscontriamo che essa ricevette lo Spirito Santo due volte: all’annunzio della divina maternità e nel giorno di Pentecoste quando nasce ufficialmente la Chiesa.  Nella prima discesa lo Spirito Santo attua il più grande mistero che a mente umana sia stato rivelato, Dio che si fa uomo per salvarlo e ridargli la dignità perduta. Le parole dell’Angelo non lasciano luogo al turbamento di Maria sorpresa
dell’annunzio. Avendo essa deciso nel suo cuore di rimanere vergine, di “non conoscere uomo” nel significato biblico dell’espressione, non riusciva a capire come avrebbe potuto mettere al mondo il Figlio dell’Altissimo, il Santo d’Israele. Il messaggero celeste la rassicurò dicendole “ Lo Spirito
Santo scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà
da te sarà dunque Santo e chiamato Figlio dell’Altissimo” Luc,1, 1 s.).

 Il Santo per eccellenza non poteva nascere che da una donna già pienamente santificata dallo stesso Spirito, potenza dell’Altissimo, quasi a ricordare a Maria, usa a meditare la Sacra Scrittura, che nel suo caso operava il medesimo Spirito creatore che agli inizi del tempo aleggiava sulle acque ed aveva chiamato all’esistenza tutte le creature dell’universo. Era lo stesso Spirito che si sarebbe posato sul Cristo, suo figlio, consacrandolo visibilmente Messia nelle acque del Giordano, e che ora la riempiva della sua grazia e potenza come in un abbraccio sponsale.

 Ed a conferma di quanto le diceva, l’Angelo le rivelò che anche la cugina Elisabetta era stata oggetto di uno straordinario intervento divino, che la liberava dalla umiliazione della sterilità mettendo al mondo un figlio che sarebbe stato il messaggero del Messia e avrebbe preparato il popolo di Dio ad accoglierlo nella purezza del cuore e nella santità della vita. Maria non ebbe più alcuna riserva e pronunzio il sì dal quale ebbe inizio l’incarnazione del Verbo eterno di Dio. 

 Maria si recò subito dalla cugina Elisabetta : “Non conosce indugi e ritardi la grazia dello Spirito Santo” dirà Santo Ambrogio nel commentare il racconto di San Luca. Al primo incontro le due donne, oggetto, sebbene in grado diverso, dei favori divini sono ripiene dallo Spirito Santo del dono della profezia. Elisabetta, scrive l’evangelista Luca, fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce:” Benedetta sei tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo. Beata colei che ha creduto all’adempimento delle promesse del Signore” (Lu. 1, 41-46). Maria da parte sua, che aveva già ricevuto la pienezza dello Spirito Santo, prorompe nel Magnificat, una delle più alte manifestazioni del dono della profezia in tutta la Rivelazione, perché sintetizza il significato e lo scopo di tutte le profezie dell’Antico e del Nuovo Testamento e si proietta in una visione che bbraccia anche il futuro della storia dell’umanità: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua ancella…..ecco tutte le
generazioni mi chiameranno beata..” ( Lu,1, 46-48). Il cantico di Maria diventa così il preludio dell’Alleluia pasquale, l’ispiratore di quell’”Exultet” che la Chiesa canta ogni anno la notte della vigilia di Pasqua per ringraziare la Trinità Santissima del dono della redenzione per mezzo di Cristo
Signore, morto e risuscitato per noi. 

 Commentando il saluto dell’Angelo a Maria “Rallegrati, o piena di grazia”, Origene scrive: “Poiché l’Angelo salutò Maria con una espressione nuova, che non ho mai trovato nella Sacra Scrittura, è
necessario dire qualcosa al riguardo. Non ricordo, infatti, di aver letto in nessun altro luogo della Sacra Scrittura queste parole; “Rallegrati, o piena di grazia”. Né queste espressioni vengono mai rivolte ad un uomo; solo a Maria era riservato tale saluto speciale” (Origenre PG 13, 1815-1816).
Possiamo aggiungere che quelle parole sono il saluto che lo Sposo celeste invia alla sposa terrestre. Il messaggero divino aveva ricevuto l’ordine di far sapere alla Vergine fin dal primo momento del suo incontro che cosa la Trinità Santissima pensava ed aveva fatto di lei con il nuovo nome che le veniva dato di “piena di grazia”. La sua anima e il suo corpo erano stati santificati e preparati dall’eternità allo straordinario evento del concepimento secondo la carne del Salvatore. Essa avrebbe avuto un ruolo unico e stupendo nel progetto della redenzione e a tale scopo era stata arricchita dall’Onnipotente di tutte le grazie ed i privilegi richiesti da un compito così grande ed eccezionale, unico nel suo genere. Si trattava di creare il “nuovo Adamo”, la nuova creature, opera che poteva essere compiuta soltanto dalla potenza dell’Altissimo di cui lo Spirito Santo è Agente e Manifestazione. 

 Nell’annunzio a Maria si rivelò il Dio Uno e Trino. Essa fu la prima creatura umana alla quale questo gioioso ed insondabile mistero fu rivelato. Nell’evento che stava per compiersi con il libero concorso della volontà di Maria erano presenti ed operanti le tre Persone Divine della Santissima Trinità. Il Padre con la sua onnipotenza “Su di te estenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo”; il Figlio che in lei avrebbe assunto la forma umana “ Ciò che nascerà da te sarà chiamato Figlio
di Dio”: lo Spirito Santo che l’avrebbe resa feconda con la sua grazia “ Lo Spirito Santo scenderà su di te”. In tal modo la Vergine Maria in virtù dei favori e delle benedizioni ricevuti, è misticamente associata alla comunione d’amore delle Tre Persone della beata Trinità. 

 A questo mistero nascosto in Dio dall’eternità, che a lei si rivela, Maria dà il libero assenso della sua volontà. Ella compie un atto perfetto di Fede nella tradizione di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, In essa anzi la loro fede si attua e si perfeziona. Per questa fede Maria è dichiarata beata da Elisabetta: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento della parola del Signore “ (Lu, 1,48 ). Le parole di Elisabetta troveranno in seguito conferma in quelle di Gesù. Rispondendo all’umile popolana che proclamava beata la donna che lo aveva portato in grembo e nutrito col suo latte,
Gesù disse: ”Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lu,11,28). 

 La grandezza di Maria nasce quindi dalla fede e dalla obbedienza alla parola ed alla volontà di Dio “Sia fatto di me secondo la tua parola” risponde all’Angelo e da quell’istante il Verbo eterno di Dio si fece carne seguendo il processo di crescita di ogni essere umano. Una maternità che aveva inizio da un atto di fede, senza concorso dell’uomo, e solo per diretto intervento di Dio, non poteva essere che divina nell’origine, nel modo e nel frutto. 

 Da un atto di fede e dall’azione dello Spirito nasce anche la nostra nuova vita di grazia con l’inserimento per mezzo del battesimo nel Corpo Mistico di Cristo che è la Chiesa. Per questa ragione la seconda volta che Maria ricevette lo Spirito Santo, dopo che la redenzione si era già compiuta con la morte e resurrezione del Figlio suo, fu nel Cenacolo il giorno di Pentecoste insieme agli Apostoli , ai primi discepoli e alle donne che avevano seguito Gesù nella sua predicazione.

 La Chiesa nasce con la presenza confortante della Madre di Gesù nella preghiera e nell’attesa del Paraclito promesso dal Figlio suo. Nel Cenacolo Maria è in compagnia di quelli che Gesù aveva scelti e designati come messaggeri ufficiali e accreditati della sua Resurrezione per proclamare ai popoli il nuovo patto di amore e di salvezza tra Dio e l’umanità. Nella solitudine della casa di Nazareth lo Spirito

Santo si era a Lei rivelato personalmente nel segreto. Nel Cenacolo invece essa partecipa al dono non più come una privilegiata ed individualmente ma come membro della comunità dei credenti in Cristo. Ella diventa allo stesso tempo figlia e Madre della Chiesa, come Cristo era stato per lei Figlio e Signore.

 Maria esce dai Vangeli ai piedi della croce. Anche qui mentre il sacrificio cruento del Figlio si consumava nell’abbandono e nel dolore, compie un atto di fede e di obbedienza accettando Giovanni, simbolo dell’umanità rinata alla grazia, come figlio. Non un gesto non una parola. Stando al racconto degli evangelisti sembra che fosse assente dalla composizione del Figlio suo nel sepolcro. Ricompare però nel capitolo primo degli Atti degli Apostoli quando nasce la Chiesa, come era stata la protagonista del capitolo primo del Vangelo di San Luca – lo storiografo della Madonna- quando ebbe inizio l’attuazione storica della salvezza. Insieme a quelli che Cristo ha costituito apostoli e pastori della sua Chiesa essa attende nel Cenacolo che si compia l’altra promessa, l’avvento del Paraclito che avrebbe sancito con la sua potente manifestazione e fuoco purificatore l’origine della Chiesa e la trasformazione degli Apostoli, come il Signore aveva annunziato: ”Avrete la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in
tutta la Giudea e la Samaria, fino agli estremi confini del mondo”(Atti, 1,1-7). 

 E’ significativo che Luca la presenti come “la Madre di Gesù” quasi a sottolineare che colei che aveva generato il Cristo secondo la carne, diventava ora con la seconda infusione dello Spirito Santo la madre del Corpo Mistico di lui, cioè della Chiesa. 

 Non è raro nei commenti dei Santi Padri attribuire alla Vergine Maria gli annunzi profetici che riguardavano la Chiesa, il nuovo popolo di Dio, la nuova Gerusalemme celeste. Così ad esempio scrive Sant’Ambrogio:” Come sono belle le cose che , sotto la figura della Chiesa, sono state profetizzate di Maria” ( De instit. virginis, cap.14, n.89). Gli fa eco Onorio d’Autun che dice: “ La Vergine gloriosa rappresenta la Chiesa, anch’essa vergine e madre. Madre, perché fecondata dallo
Spirito Santo, ogni giorno essa genera a Dio nuovi figli nel battesimo. Nello stesso tempo vergine, perché conservando in modo inviolabile l’integrità della fede, essa non si lascia insudiciare dall’eresia. Come Maria fu madre generando Gesù, e vergine, rimanendo tale anche dopo il parto. L’una ha dato la salvezza ai popoli, l’altra dona i popoli al Salvatore. L’una ha partorito la vita nel suo grembo, l’altra porta la vita nella fonte dei sacramenti; ciò che la prima volta fu concesso a Maria secondo la carne, è ora dato alla Chiesa nell’ordine dello Spirito” (Sigillum Beatae Mariae ,
PL 172, 499D).

 Con la menzione di Luca nel capitolo primo degli Atti degli Apostoli il nome di Maria appare per l’ultima volta nei libri del Nuovo Testamento. Essa è presentata nel Cenacolo dove insieme alla Chiesa nascente attende il sigillo dello Spirito Santo che segnerà l’inizio del nuovo regno del Figlio suo sulla terra, un regno che non avrà fine come le aveva detto l’Angelo a Nazaret quando le preconizzò la maternità divina. Questa volta ella acquisiva per riconoscimento stesso dello Spirito e della Chiesa una nuova maternità, tutta spirituale ed orante. La Chiesa nascente si affidava alla sua cura materna ed alle sue efficaci preghiere di intercessione. Ella si pone così con la Chiesa e per la Chiesa modello di quel cammino di fede e di speranza che sarà lo stesso di tutti i credenti nel corso della storia fino al secondo e definitivo avvento del Figlio suo. 

 Il Corpo Mistico di Cristo si costruisce nell’amore e nell’unità, che si ottengono dal Signore soprattutto con la preghiera. La Chiesa nascente ne ebbe subito la consapevolezza ed attesa l’infusione dello Spirito nella preghiera e nella comunione fraterna che si realizzavano già fin dal principio sotto lo sguardo protettivo della Madre di Gesù. “Questa opera di costruzione spirituale mai diventa oggetto più appropriato di preghiera come quando il corpo stesso di Cristo, che è la
Chiesa, offre il corpo e il sangue di Cristo nel sacramento del pane e del calice…….Quella grazia che fece della Chiesa il Corpo di Cristo, faccia sì che tutte le membra della carità rimangano compatte e perseverino nell’unità del corpo” (San Fulgenzio di Ruspe, “Libri a Mònimo, Libro 2, 11-12). Questa unità è il dono dello Spirito Santo che appartiene al Padre e al Figlio, perché la Trinità è per sua natura santità ed unità, eguaglianza e amore, ed opera insieme la santificazione per cui i credenti in Cristo sono adottati come figli. 

 La Madonna, uscendo fuori dalla rivelazione scritta del Nuovo Testamento , ci da un esempio meraviglioso carità, di umiltà, di fede e di obbedienza. Ogni credente in Cristo è predestinato ad una vocazione di santità nella Chiesa. Maria ha seguito fedelmente la sua chiamata facendosi guidare dallo Spirito. Ella rimase intrepida ed incrollabile nella fede anche ai piedi del Calvario, quando la spada del dolore, come le aveva predetto Simeone, trapassava il suo cuore e tutto, a giudizio degli uomini, sembrava dovesse finire nel fallimento. La Chiesa ha accolto con devozione e gratitudine la sua lezione e si affida alla sua materna protezione. Noi pure, membri della Chiesa, dobbiamo accogliere la Parola di Dio con umiltà e disponibilità, pronti a fare di essa la norma , l’ispirazione e la guida della nostra vita. In questo modo saremo degni figli di Maria e fratelli di Gesù, suo Figlio divino. Basta che sul suo esempio prendiamo umilmente il nostro posto nella Chiesa e rimaniamo fedeli agli impegni e alle domande della nostra professione di cristiani.  

Mon. Luigi Barbarito

ROMA

Publié dans:Approfondimenti, Maria Vergine |on 21 mai, 2009 |Pas de commentaires »

Il darwinismo deve essere visto come teoria scientifica, non come ideologia

dal sito:

http://www.zenit.org/article-17193?l=italian

Il darwinismo deve essere visto come teoria scientifica, non come ideologia

Intervista al professor Marc Leclerc S.J.

di Carmen Elena Villa

ROMA, venerdì, 13 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Questo giovedì si sono celebrati i 200 anni dalla nascita dello scienziato e osservatore inglese Charles Darwin, autore dell’opera “L’origine delle specie” e della seconda teoria dell’evoluzione dopo quella di Lamarck.

L’anniversario ha spinto scienziati e teologi a intraprendere un dialogo aperto che permetta di conciliare la visione della fede con quella della scienza, spesso erroneamente considerate temi opposti.

A questo proposito, ZENIT ha parlato con il professor Marc Leclerc S.J, docente di Filosofia della Natura presso la Pontificia Università Gregoriana e organizzatore del congresso “L’evoluzione biologica, fatti e teorie”, che si svolgerà a Roma dal 2 al 7 marzo.

Parliamo innanzitutto della vita di Darwin. La sua formazione come teologo nella Chiesa anglicana ha influito sulle sue teorie evolutive?

P. Leclerc: Darwin era essenzialmente un grande biologo. Non era un filosofo né un teologo. E’ vero che ha avuto all’inizio una formazione più teologica nella Chiesa anglicana, ma si è distanziato dalla Chiesa anche per ragioni personali, principalmente in seguito alla morte della figlia che gli è sembrata una grande ingiustizia e ha contribuito a distoglierlo dalla fede. Però si può dire che era sempre rispettoso, la moglie era molto credente. Darwin ha avuto un’evoluzione. Alla fine ha optato, come dice lui stesso, per un agnosticismo aperto, non configurandosi affatto come un ateo che si serve di questo contro la fede. Alcuni dei suoi seguaci purtroppo lo faranno, ma non è una conseguenza diretta né tanto meno colpa di Darwin. Non interviene né in un senso né nell’altro. E la teoria scientifica in quanto tale non ha niente a che dire né sull’esistenza né sulla non esistenza di Dio perché siamo su un piano totalmente diverso.

Qual è il pericolo della possibilità che la teoria dell’evoluzione di Darwin si trasformi in un’ideologia?

P. Leclerc: Penso specialmente a due elementi della sua teoria: il carattere aleatorio delle variazioni e il meccanismo della selezione naturale. Astrarre questi due elementi e farne la chiave per l’interpretazione di tutta la realtà è passare, forse senza neanche accorgersene, da un piano scientifico a un piano ideologico, che è una falsa filosofia, una falsa teologia, e si contrappone direttamente alla spiegazione religiosa della realtà. Gli avversari del darwinismo non devono cadere nella stessa trappola, confondendo la teoria scientifica con queste estrapolazioni. La teoria scientifica merita tutto il nostro rispetto e va discussa solo a livello scientifico come vogliamo fare nel convegno. Le sue estrapolazioni teologiche non c’entrano con la scienza.

Come raggiungere una retta visione tra evoluzione e creazione?

P. Leclerc: Sono convinto che la mediazione filosofica sia indispensabile per evitare una confusioni dei due ambiti: un conformismo o un disaccordo, una separazione radicale o una mescolanza universale in cui non si capisce più nulla, per arrivare ad articolare razionalmente piani che sono distinti. Per questo è indispensabile una mediazione filosofica.

Corrisponde a una visione cristiana dire che l’uomo è il risultato dell’evoluzione della scimmia? Se è così, in quale momento è stata creata l’anima?

P. Leclerc: Intanto siamo diversi dalle scimmie. Sono i nostri cugini, non i nostri antenati. Il punto è che biologicamente abbiamo degli antenati comuni, per questo sono cugini sul piano biologico. Però hanno avuto una storia diversa della nostra. Qualcuno dirà che “comincia con l’homo sapiens”, qualcun altro dirà: “comincia molto prima con l’homo erectus”, un altro dirà “comincia prima con l’homo habilis”. E’ impossibile dirimere la questione. Abbiamo degli indizi ma nessuna prova formale. Gli indizi che possiamo avere corrispondono al carattere simbolico del pensiero, al linguaggio articolato e simbolico universalmente aperto e alla possibilità di relazionarsi con un altro in modo libero, con Dio. Non posso dire quando sia apparsa l’anima umana, ciò che sappiamo è che ora l’umanità è tutta un’unica specie dell’uomo moderno sapiens sapiens, e qui ciascuno di noi è creato dall’anima di Dio con un’anima singola. Quando è cominciato tutto ciò? Un dato importante è che l’evoluzione biologica sembra che sia propriamente compiuta al più tardi con l’homo sapiens, ma prima ancora della comparsa dell’homo sapiens comincia la rivoluzione culturale che è propria dell’uomo.

La Genesi deve essere considerata una teoria sulla creazione del mondo o una teoria teologica che vuole spiegare la creazione dell’uomo e della sua libertà?

P. Leclerc: Ricordo quello che diceva Galileo: la Bibbia non ci insegna come funziona il cielo, ma come si va al cielo. La Genesi dice com’è l’uomo creato dal pensiero di Dio, come si va a Dio e come ci si è allontanati da Dio. Non ci dice scientificamente perché. A partire da questa concezione intende dirci qual è il progetto di Dio sull’uomo e come l’uomo deve adattarsi a questo progetto.

L’uomo è il signore della creazione o una specie animale più evoluta?

P. Leclerc: A livello semplicemente fenomenologico l’uomo è l’unico che può interagire con il suo ambiente cambiandolo secondo i propri desideri e che non è obbligato ad adattarsi ai cambiamenti esterni dell’ambiente. Un unico esempio: l’uomo ha prodotto “L’origine delle specie”. Non si è mai visto un animale che riflette sulla sua origine e sull’origine di tutti gli esseri viventi.

Publié dans:Approfondimenti |on 13 février, 2009 |Pas de commentaires »

La scienza senza etica non salva l’uomo

dal sito: 

http://www.cardinalrating.com/cardinal_187__article_6900.htm

La scienza senza etica non salva l’uomo
Apr 13, 2008
Commenta il rapporto tra progresso e conoscenza nella “Spe salvi”.

CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 10 aprile 2008 (ZENIT.org).- La scienza in sé, separata dall’etica, non salva l’uomo, ha affermato il Cardinale Georges Marie Martin Cottier, Pro-Teologo emerito della Casa Pontificia, commentando il rapporto tra progresso e conoscenza nell’Enciclica “Spe salvi” di Benedetto XVI.

L’Enciclica, ha ricordato il Cardinale secondo quanto riporta “L’Osservatore Romano”, “non poteva mancare di interrogarsi sulle ragioni dell »attuale crisi della fede che, nel concreto, è soprattutto una crisi della speranza cristiana’”.

La speranza, ha osservato, deve essere considerata sia in se stessa che in quanto “ispiratrice delle aspirazioni e degli slanci che caratterizzano una cultura alla quale, d’altro canto, essa rivela il suo orizzonte trascendente”.

In questa situazione, la speranza cristiana si è trovata a essere “bersaglio di critiche violente sulla base dell’accusa di alimentare una preoccupazione egoistica della salvezza individuale e di incoraggiare la fuga davanti alle responsabilità nei confronti degli altri”.

“Il processo così intentato trae appoggio e giustificazione da una concezione del rapporto dell’uomo con il mondo che ha origine dall’ebbrezza della presa di coscienza delle enormi possibilità di azione che offre la scienza moderna”, che “affascinano” più della natura della scienza stessa.

Secondo il porporato, “si tratta propriamente di un’ideologia che è venuta a sovrapporsi alla scienza come tale”.

“Coloro dunque che hanno accusato Benedetto XVI di essere ‘contro la scienza’ hanno affrontato il testo dell’Enciclica, peraltro molto esplicito, con fretta e prevenzione”.

Francesco Bacone, osserva il Cardinale, è stato uno dei primi a vedere che il nuovo approccio allo studio della natura “apriva all’intelligenza umana un campo di esplorazione illimitato”.

Come sottolinea l’Enciclica papale, “si instaura così una nuova correlazione tra scienza e prassi. Una breve formula ne esprime lo spirito e l’ambizione: ‘sapere è potere’”.

“L’Enciclica attira l’attenzione sulla parte direttamente teologica dell’interpretazione baconiana: la nuova correlazione tra scienza e prassi significherebbe che il dominio sulla creazione, dato all’uomo da Dio e perso nel peccato originale, verrebbe ristabilito; il che suggerisce che la nuova scienza ha una portata salvifica”.

L’idea è espressa anche da Henri de Saint-Simon, per il quale si poteva “intravedere la possibilità di effettuare la grande operazione morale, poetica e scientifica, che consiste nel trasferire il paradiso terrestre trasportandolo dal passato al futuro”.

Si tratta di un’idea essenzialmente religiosa, ha spiegato il Cardinale citando Saint-Simon, “poiché presenta il paradiso celeste come la ricompensa finale di tutti i lavori che avranno contribuito al miglioramento della condizione della specie umana lungo il corso della sua esistenza terrena”.

Secondo il porporato, non si può comprendere pienamente il progetto se non “nella prospettiva spirituale di una volontà di soppiantare la speranza propria dell’antica religione”; “si tratta di sostituire al Regno di Dio il regno dell’uomo”.

In realtà, ha constatato, “è il mito del progresso necessario a sostenere le grandi ideologie moderne”, basandosi “sulla convinzione che una ragione immanente guida la storia verso la felicità della specie umana, verso il ‘paradiso’, che si realizzerà nella storia stessa”.

“Questo risultato è come garantito in anticipo: il progresso è per definizione progresso nella direzione del bene. È in virtù della prassi dominatrice dell’uomo che questa realizzazione si compie progressivamente. La prassi significa l’azione della ragione scientifica e tecnica”.

Quando Benedetto XVI scrive che “non è la scienza che redime l’uomo” (n. 26), spiega Cottier, “si riferisce a una certa idea della ragione, quella che ispira le diverse forme di scientismo e di positivismo”.

“L’ambizione che anima l’ideologia scientista e positivista è di applicare all’insieme della realtà, come unicamente valido, il metodo che ha dato prova di se stesso nelle scienze della natura”.

In questo, tuttavia, c’è “una riduzione della ragione, che impedisce di vedere nell’uomo ciò che trascende l’ordine della natura materiale e che fonda la sua dignità”.

Dio, infatti, “ha stabilito l’uomo, creato a sua immagine e somiglianza, come suo amministratore nei confronti di una natura destinata a provvedere ai suoi bisogni”.

“Amministrare significa adempiere fedelmente una missione”, cioè “la dimensione etica interviene come elemento costitutivo della relazione dell’uomo con la natura e con se stesso”.

La prassi umana richiede quindi “la regolazione etica”: “è obbedendo alla legge morale che l’uomo trova la sua vera libertà, perché egli sperimenta allora la verità del suo essere. Al contrario, cedendo al miraggio di una sua piena autosufficienza, egli diventa preda dell’arbitrio e della dialettica del dominio, dove i forti schiacciano i deboli”.

Ricordando che non è la scienza a redimere l’uomo, Benedetto XVI “mette in guardia contro l’idea di una scienza che sarebbe regola di se stessa, indipendentemente dalla legge etica, come suppone la fede nel Progresso”, conclude il Cardinal Cottier.

“Spetta all’etica indicare la strada dei veri progressi che l’umanità, cosciente della sua dignità, è in diritto di attendere dalla ‘scienza’”.

Publié dans:Approfondimenti, Fede e scienza |on 11 septembre, 2008 |Pas de commentaires »

La Paternità spirituale in Divo Barsotti

dal sito: 

http://puglialive.net/home/news_det.php?nid=10274

 

 La Paternità spirituale in Divo Barsotti – Fiera del Levante – Bari 

domenica 17 febbraio, ore 9.30 – 15.30

La Comunità dei figli di Dio celebrerà a Bari domenica 17 febbraio il secondo anniversario della morte del suo fondatore con una giornata di studio dal tema: “La paternità spirituale in Divo Barsotti”.
All’evento, in programma dalle 9.30 alla Fiera del Levante, interverranno Padre Roberto Fusco, Superiore della Fraternità Francescana di Betania; S.E. Monsignor Francesco Cacucci, Arcivescovo di Bari-Bitonto; Padre Serafino Tognetti, Superiore generale della Comunità dei figli di Dio.

Alle 10 si discuterà della “paternità spirituale nella Chiesa Orientale” con Padre Germano Marani, Padre spirituale al Russicum, professore al Pontificio Istituto Orientale e all’Università Gregoriana di Roma. A seguire “La paternità spirituale nel pensiero e nella vita di don Divo Barsotti” con Monsignor Giovanni Speciale, Prefetto degli Studi dell’Istituto Teologico “Guttadauro” di Caltanissetta.

L’approfondimento sulla “Rilevanza e necessità della paternità spirituale nella Chiesa contemporanea” con il Professor Giancarlo Cesana, Ordinario di Igiene Generale ed Applicata dell’Università di Milano – Bicocca, Membro Consiglio Presidenza della Fraternità di Comunione e Liberazione, sarà preceduto da un intermezzo musicale a cura del Maestro Felice Iafisco e del soprano Tina de Luca.

Alle 15 in cattedrale, prima della Concelebrazione Eucaristica presieduta da S.E. Monsignor Francesco Cacucci, l’ultimo momento di approfondimento dal tema “Oltre la parola, Divo Barsotti poeta”.
Il capoluogo pugliese è stato scelto per la sua straordinaria unione con l’Oriente cristiano. La Comunità dei figli di Dio è cattolica, ma legata a santi della cristianità Orientale e in particolare russi, come San Sergio di Radonez, patrono della Russia, a cui è intitolata la casa madre a Firenze. Tra le preghiere della Comunità, poi, ce ne sono alcune proprie della Liturgia Orientale.

I figli di Dio contano gruppi in tutti e cinque i Continenti. Gli ultimi sono sorti in Nuova Zelanda, Sri Lanka, Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Australia, Benin in Africa e Medjugorie. Complessivamente i Consacrati (monaci nel mondo) sono 2.500, dei quali 2.200 in Italia. In Puglia ci sono gruppi a San Severo, Foggia, San Giovanni Rotondo, Palo del Colle, Modugno, Mola di Bari, S.Spirito, Bari, Brindisi, Oria, Mesagne e Lecce.

Divo Barsotti – è nato a Palaia (PI) nel 1914. Pochi anni dopo l’ordinazione sacerdotale, per interessamento di Giorgio La Pira, del quale era molto amico, si è trasferito a Firenze, dove ha iniziato la sua attività di predicatore e di scrittore. La sua produzione letteraria è notevolissima: più di 160 libri, molti dei quali tradotti in lingue straniere, tra cui il russo e il giapponese; diverse centinaia di articoli su quotidiani e riviste di spiritualità. Ha scritto commenti alla Sacra Scrittura, studi su vite di santi, opere di spiritualità, diari e poesie. Insignito di diversi riconoscimenti letterari fra cui quello della Presidenza del Consiglio. Unanimamente riconosciuto come mistico, ha predicato gli Esercizi Spirituali in Vaticano a Paolo VI e alla curia romana, ricevuto da Papa Giovanni Paolo II e negli ultimi anni della sua vita riconosciuto dalla Chiesa Universale come uomo di Dio ed ultimo mistico del’ 900. E’ stato inserito tra le dieci personalità religiose più eminenti del ‘900. Si stanno raccogliendo testimonianze e documenti per il processo di beatificazione. Divo Barsotti ha fondato la “Comunità dei figli di Dio”, formata da uomini e donne, giovani e anziani, sposati e non sposati, sacerdoti e laici che vivono nel mondo e religiosi che vivono in case di vita comune, uniti in un’unica famiglia religiosa di monaci mediante una consacrazione alla quale si donano “al Verbo, alla Vergine Madre e alla Chiesa”. Il Padre è morto a Settignano (FI) il 15 febbraio 2006.
Segreteria organizzativa del convegno 380.3161034, 080.2467221, www.figlididio.it,
segreteriacfd@cheapnet.it 

Publié dans:Approfondimenti |on 29 février, 2008 |Pas de commentaires »

…l’elogio della «debolezza».

dal sito: 

http://www.atma-o-jibon.org/italiano/home_it.htm  

INTERVISTA 

Esce un libro di Vittorino Andreoli che tesse l’elogio della «debolezza».


Un «j’accuse» verso i potenti che calpestano i diritti e la dignità degli altri.
A colloquio con l’autore. 

 L’ultima virtù, la fragilità   «Non gli uomini della guerra fanno la storia, ma quelli veramente saggi».
«Gandhi non è stato « premier » e Gesù si è lasciato crocifiggere». 

Lucia Bellaspiga
(« Avvenire », 25/1/’08) 

Vittorino Andreoli, uno dei più autorevoli psichiatri italiani, punto di riferimento per comprendere drammi umani e comportamenti estremi, è un uomo « fragile ». Una « contraddizione »? Un colpo di scena? Niente affatto: «Ho dedicato il mio tempo alla follia, alla sofferenza che sdoppia le identità e fa di un uomo uno « schizofrenico ». Un lavoro che molti ritengono esclusivo dei forti, degli uomini di ferro… Ebbene, se ho aiutato i miei matti è grazie alla mia fragilità». L’uomo potente, « granitico », non dà spazio agli altri perché non ha crepe, solo il fragile sa comprendere e amare i « frammenti » di un uomo spezzato e metterli insieme. Perché è di vetro e sa frangersi lasciando entrare l’amore. « L’uomo di vetro » è l’ultimo libro di Andreoli (« Rizzoli », 180 pagine, 12 euro), un inno sincero a «la forza della fragilità» (è il « sottotitolo »), e una feroce denuncia di potenti e « tracotanti »: loro sì i veri deboli. 

Una lucida « disamina » del mondo d’oggi ma anche un libro altamente « autobiografico ». 

«Ma questo fa parte dell’essere psichiatra: non posso parlare degli altri se non mi metto in gioco. Questo libro è nato dalla mole impressionante di interventi che mi vengono chiesti: ho capito che la gente mi percepisce come il grande « luminare », l’uomo forte, così ho sentito il bisogno di rivendicare la mia fragilità. È lei che mi permette di essere un medico». 

Un « elogio della fragilità » va decisamente « controcorrente », oggi. 

«Ci hanno a lungo insegnato a nascondere le nostre paure, ci hanno detto che piangere è una debolezza. La realtà è opposta: solo l’uomo fragile prova l’amore, l’amicizia, la solidarietà, perché ha bisogno dell’altro e lo ammette. Il potente crede di bastare a se stesso e così non sa amare: l’uomo di ferro è freddo, evita il confronto, se si lega all’altro è per « sottometterlo ». Non c’è nulla di più simile alla fragilità dell’amore, quando ami non sei più capace di vivere senza l’amato, lo invochi, ti senti incompleto. I due si cercano ed è bellissima l’idea che l’amore sia lo scambio di due fragilità». 

« Socraticamente » lei identifica il fragile con l’uomo saggio, colui che sa di non essere perfetto. Al contrario oggi il « tracotante » vince. 

«È vero, io conosco molti saggi ma non sono noti a un mondo che si lascia colpire solo dai potenti, da chi fa « baccano », spesso con le armi per conquistare terre e uomini. Il potente si fonda sulla cultura del nemico, si regge solo su un « antagonista » da eliminare, per lui l’altro è solo un pericolo. Il saggio invece non ama il potere, desidera solo vivere sereno e la serenità ha come premessa di non avere nemici. Non teme nulla, e per questo è deriso dal potente, fieramente circondato da « guardie del corpo » che gettano occhiate in giro per individuare nemici nascosti ovunque». 

Un’immagine molto reale, non « metaforica ». 

«L’avanzamento delle società, checché se ne dica, è nelle mani dei saggi, mai dei politici con i loro missili intelligenti o le mine antiuomo. Sono stati i saggi antichi a rimanere seduti la notte a osservare le stelle, mentre i potenti andavano a « depredare ». Finché dominerà la logica della guerra e il sistema della conquista, anche se tutti la definiscono difesa, sarà segno inequivocabile che la saggezza è estranea al mondo e che i saggi sono uomini sereni ma emarginati. Eppure sono loro i veri forti, mentre i potenti vivono nella paura e si difendono con la violenza». 

C’è molto Machiavelli, qui… 

«Infatti Machiavelli deve educare il « Principe » al potere. Io la vedo come lui, ma dalla prospettiva opposta, io educherei all’amore: la nostra società è in « agonia », vive di dominio, di successo, di denaro, non c’è più tempo per piccole modifiche, è ora di « capovolgimenti » o andiamo a morire. Un’utopia? Può essere, certo i potenti non mollano, ma la vera storia è fatta tutta dai fragili, dai « perdenti »: Gandhi non è mai stato un « premier », Cristo si è lasciato crocifiggere, sono loro che cambiano il mondo». 

Un affascinante capitolo ci porta a individuare chi è uomo e chi no. 

«Non lo è chi aspira ad avere cose e « soggiogare » persone, chi non si vergogna della sua incoerenza e la chiama « flessibilità », chi violenta un bambino per una « convulsione » di piacere, chi pensa di essere perfetto e colloca tutti gli altri nella « pattumiera » del mondo: i campi di concentramento oggi sono nelle strade, dove circolano uomini senza essere visti. Chi lascia che dall’altra parte del mondo i bambini muoiano senza cibo e senza un farmaco perché lì non circola moneta di valore, chi non si cura della solitudine dei vecchi… Il mondo è pieno di « non uomini »». 

Chi è uomo, allora? 

«Chi sa cos’è il dolore perché ne è stato colpito e non ha dimenticato, chi non si ritiene onnipotente, chi sa gridare aiuto, cantare inni di speranza a un Signore che forse non c’è ma che sente il bisogno di pregare». 

Ma se la fragilità è la somma delle virtù, anche Dio non può che essere di vetro. 

«Quello che prego è un dio della fragilità, un dio « minore », che sappia amare e capire, un dio piccolo che aiuti con la propria paura, che affermi che questo mondo è malato.
Il dio dei « despoti » è freddo, irritabile, genera timore: io voglio un dio che abbia paura della morte anche se è eterno, che conosca l’angoscia, la voglia di accarezzare mentre si produce un lamento di dolore…». 

Ma questo è Gesù Cristo. 

«È certo lui l’immagine che più si avvicina alla mia fragilità: ha pianto, ha rimproverato Dio che è nei cieli, ha sofferto in croce, è stato insultato, ha agito nell’impotenza, è stato lasciato solo a sudare sangue nei « Getsemani ». È lui il mio Dio, ma l’incontro non è ancora avvenuto: ho aspettato tanto, mi sono « profumato » nell’attesa e ancora non è venuto nessuno. Il mio terrore? Morire senza aver capito nulla, senza la grazia che trasforma il dramma in benedizione. Un « aldilà » con un dio potente anziché fragile». 

Publié dans:Approfondimenti |on 15 février, 2008 |Pas de commentaires »

LE PERSECUZIONI CONTRO I CRISTIANI

sul sito l’approfondimento non finisce qui, ma prosegue, dal sito: 

http://www.catacombe.roma.it/it/ricerche/ricerche.html

 

LE PERSECUZIONI CONTRO I CRISTIANI 


Teresio Bosco

Una superstizione nuova e malefica

La prima presa di posizione dello Stato Romano contro i Cristiani risale all’imperatore Claudio (41-54 d.C.). Gli storici Svetonio e Dione Cassio riferiscono che Claudio fece espelle- re i giudei perché erano continuamente in lite fra loro per causa di un certo Chrestos. « Saremmo davanti alle prime reazioni provocate dal messaggio cristiano nella comunità di Roma », commenta Karl Baus.
Lo storico Gaio Svetonio Tranquillo (70-140 ca.), funzionario imperiale di alto rango sotto Traiano e Adriano, intellettuale e consigliere dell’imperatore, giustificherà questo e i successivi interventi dello Stato contro i Cristiani definendoli « superstizione nuova e malefica »: parole molto pesanti. Come superstizione il Cristianesimo viene collegato, con la magici. Per i Romani essa è quell’insieme di pratiche irrazionali che maghi e stregoni dalla sinistra personalità usano per imbrogliare la gente ignorante, priva di educazione filosofica.
Magia è l’irrazionale contro il razionale, la conoscenza volgare contro la conoscenza filosofica. L’accusa di magia (come quella di follia) è un arma con la quale lo Stato Romano bolla e sottopone a controllo nuove e dubbie componenti della società come il Cristianesimo.
Con la parola malefica (=portatrice di mali) viene incoraggiato il sospetto ottuso del popolino che immagina questa novità (come ogni novità) intrisa dei delitti più innominabili, e quindi causa dei mali che ogni tanto si scatenano inspiegabilmente dalla peste all’alluvione, dalla carestia all’invasione dei barbari.

Corpo aperto ma etnìa chiusa e sospettosa

L’Impero Romano è (e si manifesterà specialmente nelle persecuzioni contro i Cristiani) un grande corpo aperto, disposto ad assorbire ogni nuovo popolo chi abbandona la propria identità, ma anche un’etnìa chiusa e sospettosa. Con la parola etnìa, gruppo etnico (greco éthnos) indichiamo un aggregato sociale contraddistinto da una stessa lingua e cultura, sospettoso verso ogni altra etnia.
Roma, con la sua organizzazione sociale di liberi con tutti i diritti e schiavi senza diritti, di patrizi ricchi e di plebei miseri, di centro sfruttatore e periferia sfruttata, è persuasa di aver realizzato il sogno di Alessandro Magno: fare l’unità dell’umanità, fare di ogni uomo libero un cittadino dei mondo, e dell’impero « un’assemblea universale » (oikuméne) che coincide con la « civiltà umana ».
Chi vuol vivere al di fuori di essa, mantenere la propria identità per non confondersi con essa, si esclude dalla civiltà umana. Roma ha una grande paura di questi « estranei », di questi « diversi » che potrebbero mettere in discussione la sua sicurezza. E come ha stabilito la « concordia universale » con la feroce efficienza delle sue legioni, intende mantenerla a colpi di spa- da, di crocifissioni, di condanne ai lavori forzati, di esili. In una parola: Roma usa la « pulizia etnica » come metodo per tutelare la propria tranquilla sicurezza di essere « il mondo civile ».

Nerone e i Cristiani visti dall’intellettuale Tacito

Nell’anno 64 un incendio devastò 10 dei 14 quartieri di Roma. L’imperatore Nerone, accusato dal popolo di esserne 1′autore, gettò la colpa sui Cristiani. Inizia la prima, grande persecuzione che durerà fino al 68 e vedrà perire tra gli altri gli apostoli Pietro e Paolo.
Il grande storico Tacito Cornelio (54-120), senatore e console, descriverà questo avvenimento scrivendo al tempo di Traiano i suoi Annales. Egli accusa Nerone di aver ingiustamente incolpato i Cristiani, ma si dichiara convinto che essi meritano le più severe punizioni perché la loro superstizione li spinge a compiere nefandezze. Non condivide quindi nemmeno la compassione che molti provarono nel vederli torturati. Ecco la celebre pagina di Tacito:
« Per tagliar corto alle pubbliche voci, Nerone inventò i colpevoli, e sottopose a raffinatissime pene quelli che il popolo chiamava Cristiani e che erano invisi per le loro nefandezze. Il loro nome veniva da Cristo, che sotto il regno di Tiberio era stato condannato al supplizio per ordine del procuratore Ponzio Pilato. Momentaneamente sopita, questa malefica superstizione proruppe di nuovo non solo in Giudea, luogo d’origine di quel flagello, ma anche in Roma dove tutto ciò che è vergognoso e abominevole viene a confluire e trova la sua consacrazione.
Per primi furono arrestati coloro che facevano aperta confessione di tale credenza. Poi, su denuncia di questi, ne fu arrestata una gran moltitudine non tanto perché accusati di aver provocato l’incendio, ma perché si ritenevano accesi d’odio contro il genere umano. Quelli che andavano a morire erano anche esposti alle beffe: coperti di pelli di fiere, morivano dilaniati dai cani, oppure erano crocifissi, o arsi vivi a modo di torce che servivano a illuminare le tenebre quando il sole era tramontato. Nerone aveva offerto i suoi giardini per godere di tale spettacolo, mentre egli bandiva i giochi del circo e in veste di cocchiere si mescolava al popolo, o stava ritto sul cocchio.
Perciò, per quanto quei supplizi fossero contro gente colpevole e che meritava tali, originali tormenti, pure nasceva verso di loro, un senso di pietà, perché erano sacrificati non al comune vantaggio ma alla crudeltà del principe » (1 5,44). 1 Cristiani erano quindi creduti anche da Tacito gente spregevole, capace di crimini orrendi. 1 più infami crimini attribuiti ai Cristiani erano l’infanticidio rituale (come se nel rinnovamento della Cena del Signore, in cui si cibava- no dell’eucarestia, uccidessero un bambino e lo mangiassero!) e l’incesto (chiaro travisamento dell’abbraccio di pace che avveniva, nella celebrazione dell’eucaristia « tra fratelli e sorelle »). Queste accuse, nate dal pettegolezzo del popolino, furono così sanzionate dall’autorità dell’Imperatore, che li perseguitava e li condannava a morte.
Da quel momento (ce lo testimonia Tacito) si aggiunse a carico dei Cristiani anche un nuovo crimine: l’odio contro il genere umano. Plinio il giovane, ironicamente, scriverà che con una accusa simile si sarebbe potuto d’ora in poi condannare a morte chiunque. 

Accusati di ateismo

Molto scarse sono le notizie della persecuzione che colpì i Cristiani nell’anno 89, sotto l’imperatore Domiziano. Di particolare importanza è la notizia riportata dallo storico greco Dione Cassio, che a Roma fu pretore e console. Nel libro 67 della sua Storia Romana afferma che sotto Domiziano furono accusati e condannati « per ateismo » (ateòtes) il console Flavio Clemente e sua moglie Domitilla, e con loro molti altri che «avevano adottato gli usi giudaici».
L’accusa di ateismo, in questo secolo, è rivolta a chi non considera divinità suprema la maestà imperiale. Domiziano, durissimo restauratore dell’autorità centrale, pretende il culto massimo alla sua persona, centro e garanzia della « civiltà umana ».
E’ notevole che un intellettuale come Dione Cassio chiami il rifiuto del culto all’imperatore « ateismo ». Significa che a Roma non si ammette nessun’idea di Dio che non coincida con la maestà imperiale. Chi ne ha una diversa viene eliminato come gravemente pericoloso alla « civiltà umana ».
Nel 111 Plinio il giovane, governatore della Bitinia sul Mar Nero, stava tornando da un’ispezione della sua popolosa e ricca provincia quando un incendio devastò la capitale, Nicodemia. Si sarebbe potuto salvare molto se ci fossero stati i pompieri. Plinio fa rapporto all’imperatore Traiano (98-117): « Spetta a te, signore, valutare se è necessario creare un’associazione di pompieri di 150 uomini. Da parte mia, farò attenzione che tale associazione non accolga che pompieri…
Traiano gli risponde bocciando l’iniziativa: «Non dimenticare che la tua provincia è preda di società di questo genere. Qualunque sia il loro nome, qualunque sia la destinazione che noi vogliano dare a uomini riuniti in un corpo, ciò dà luogo, in ogni caso e rapidamente, a eterie». Il timore delle eterie (nome greco delle « associazioni ») prevalse così su quello degli incendi.
Il fenomeno era antico. Le associazioni di qualsiasi tipo che si trasformavano in gruppi politici avevano spinto Cesare a interdire tutte le associazioni nell’anno 7 a.C.: « Chiunque stabilisce un’associazione senza autorizzazione speciale, è passibile delle medesime pene di coloro che attaccano a mano armata i luoghi pubblici e i templi ». La legge era sempre in vigore, ma le associazioni continuavano a fiorire; dai battellieri della Senna ai medici di Avenches, dai mercanti di vino di Lione ai trombettieri di Lamesi. Tutte difendevano gli interessi dei loro iscritti facendo pressioni sui poteri pubblici.
Plinio non tardò ad applicare l’interdizione delle eterie a un caso particolare che gli si presentò nell’autunno del 112. La Bitinia era piena di Cristiani. « E’ una folla di gente di tutte le età, di tutte le condizioni, sparsa nelle città, nei villaggi e le campagne», scrive all’Imperatore. Continua dicendo di aver ricevuto denunce dai costruttori di amuleti religiosi, disturbati dai Cristiani che predicavano l’inutilità di simili cianfrusaglie.
Aveva istituito una specie di processo per conoscere bene i fatti, ed aveva scoperto che essi avevano l’abitudine di riunirsi in un giorno fissato, prima dei levarsi del sole, di cantare un inno a Cristo come a un dio, di impegnarsi con giuramento a non perpetrare crimini, a non commettere né ruberie né brigantaggi né adulteri, a non venir meno alla parola data. Essi hanno anche l’abitudine di riunirsi per prendere il loro cibo che, nonostante le dicerie, è cibo ordinario e innocuo ».
1 Cristiani non avevano cessato queste riunioni nemmeno dopo l’editto dei governatore che ribadiva l’interdizione delle eterie. Continuando la lettera (10,96), Plinio riferisce all’imperatore che in tutto ciò non vede nulla di male. Ma il rifiuto di offrire incenso e vino davanti alle statue dell’Imperatore gli sembra un atto di derisione sacrilega. L’ostinazione di questi Cristiani gli sembra « irragionevole e balorda ».
Dalla lettera di Plinio appare chiaro che sono cadute le accuse assurde di infanticidio rituale e di incesto. Rimangono quelle di « rifiuto di rendere culto all’Imperatore » (quindi di lesa maestà), e di costituzione di
eteria.
L’Imperatore risponde: «I Cristiani non si devono perseguire d’uffício. Se invece vengono denunciati e riconosciuti colpevoli bisogna condannarli». In altre parole: Traiano incoraggia a chiudere un occhio su di loro: sono un’eteria innocua come i battellieri della Senna e i venditori di vino di Lione. Ma poiché stanno praticando una « superstizione irragionevole, balorda e fanatica » (come la giudica Plinio e altri intellettuali del tempo come Epitteto, e continuano a rifiutare il culto all’Imperatore (e quindi si considerano « estranei » alla vita civile), non si può far finta di niente. Se denunciati, vanno condannati.
Continua quindi (anche se in forma meno rigida) il «Non è lecito essere Cristiani». Vittime di questo periodo sono sicuramente il vescovo di Gerusalemme Simeone, crocifisso all’età di 120 anni, e Ignazio vescovo di Antiochia, portato a Roma come cittadino romano, e ivi giustiziato. La stessa politica, verso i Cristiani viene adoperata dagli imperatori Adriano (1 17- 138) e Antonino Pio (138-161).

 

Publié dans:Approfondimenti |on 29 janvier, 2008 |Pas de commentaires »
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