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Di fronte alla tomba di Sant’Agostino, il Papa rilancia: “Dio è amore”

DAL SITO: 

Data pubblicazione: 2007-04-22 

Di fronte alla tomba di Sant’Agostino, il Papa rilancia: “Dio è amore” 

E’ il messaggio centrale del suo pontificato, spiega 

PAVIA, domenica, 22 aprile 2007 (ZENIT.org).- Visitando la tomba di Sant’Agostino, questa domenica pomeriggio, Benedetto XVI ha rilanciato il messaggio centrale del suo pontificato: “Dio è amore”.

“L’umanità contemporanea ha bisogno di questo messaggio essenziale, incarnato in Cristo Gesù”, ha affermato concludendo la sua visita pastorale nella città di Pavia.

“Tutto deve partire da qui e tutto qui deve condurre: ogni azione pastorale, ogni trattazione teologica”, ha affermato nell’omelia che ha pronunciato nella Basilica di San Pietro in Ciel d’Oro durante la celebrazione dei vespri con sacerdoti, religiosi (molti agostiniani), religiose e seminaristi della diocesi.

Papa Joseph Ratzinger ha iniziato spiegando che ha voluto “venire a venerare le spoglie mortali di sant’Agostino, per esprimere sia l’omaggio di tutta
la Chiesa cattolica ad uno dei suoi ‘padri’ più grandi, sia la mia personale devozione e riconoscenza verso colui che tanta parte ha avuto nella mia vita di teologo e di pastore, ma direi prima ancora di uomo e di sacerdote”.

Gli scritti di Sant’Agostino, Vescovo di Ippona, vissuto dal 354 al 430, Dottore della Chiesa, hanno avuto una notevole influenza su Joseph Ratzinger, che nel 1953 ha scritto la sua tesi dottorale su questo filosofo e teologo.

“Davanti alla tomba di sant’Agostino, vorrei idealmente riconsegnare alla Chiesa e al mondo la mia prima Enciclica, che contiene proprio questo messaggio centrale del Vangelo: ‘Deus caritas est’, Dio è amore”.

Ecco “il messaggio che ancora oggi sant’Agostino ripete a tutta
la Chiesa”: “l’Amore è l’anima della vita della Chiesa e della sua azione pastorale”.

“Solo chi vive nell’esperienza personale dell’amore del Signore è in grado di esercitare il compito di guidare e accompagnare altri nel cammino della sequela di Cristo”.

“Alla scuola di sant’Agostino ripeto questa verità per voi come Vescovo di Roma, mentre, con gioia sempre nuova, la accolgo con voi come cristiano”.

“Servire Cristo è anzitutto questione d’amore”, ha aggiunto. “
La Chiesa non è una semplice organizzazione di manifestazioni collettive né, all’opposto, la somma di individui che vivono una religiosità privata”.


La Chiesa è una comunità di persone che credono nel Dio di Gesù Cristo e si impegnano a vivere nel mondo il comandamento della carità che Egli ha lasciato”.

“E’ dunque una comunità in cui si è educati all’amore, e questa educazione avviene non malgrado, ma attraverso gli avvenimenti della vita”.

Il Papa ha concluso lanciando un appello a “perseguire la ‘misura alta’ della vita cristiana, che trova nella carità il vincolo della perfezione e che deve tradursi anche in uno stile di vita morale ispirato al Vangelo, inevitabilmente controcorrente rispetto ai criteri del mondo, ma da testimoniare sempre con stile umile, rispettoso e cordiale”.

Dopo il suo pellegrinaggio sui resti di Sant’Agostino, e dopo essersi congedato dalla Comunità degli Agostiniani, il Papa ha preso un elicottero para trasferirsi all’aeroporto di Milano-Linate per rientrare a Roma.

La terza visita pastorale di Benedetto XVI in Italia ha avuto come mete le città di Vigevano (dove ha celebrato
la Messa sabato pomeriggio) e Pavia (dove questa domenica ha avuto un intenso programma di incontri pubblici).

 

 

Più di 11.000 sacerdoti sono tornati ad esercitare il ministero dopo averlo abbandonato

dal sito:

http://www.zenit.org/italian/

Data pubblicazione: 2007-04-20 Più di 11.000 sacerdoti sono tornati ad esercitare il ministero dopo averlo abbandonato 

Negli ultimi trent’anni CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 20 aprile 2007 (ZENIT.org).- Negli ultimi 30 anni più di 11.000 sacerdoti, dopo aver abbandonato l’esercizio del ministero sacerdotale, sono poi tornati ad esercitarlo, secondo quanto rivelato dalla rivista “La Civiltà Cattolica”.In un articolo apparso nell’ultimo numero di questo quindicinale, il suo Direttore, padre Gianpaolo Salvini S.I, ha diffuso i dati emersi da una ricerca.

“Sulla base di indicazioni pervenute in Vaticano dalle diocesi – scrive padre Salvini –, dal 1964 al 2004 hanno lasciato il ministero 69.063 sacerdoti. Dal 1970 al 2004, 11.213 hanno ripreso il ministero”.

“È un fenomeno di notevole rilevanza pastorale, che dimostra anche la benevolenza della Chiesa”, spiega il sacerdote gesuita.

Per quanto riguarda la proporzione delle defezioni dei sacerdoti, “
La Civiltà Cattolica”spiega che oggi “non è paragonabile a quella degli anni Settanta”.

“Dal 2000 al 2004, ogni anno, in media ha abbandonato il sacerdozio lo 0,26 per cento dei sacerdoti”, aggiunge poi. 

La preziosità dell’opera

su Avvenire, sia giornale che ripetuto on line, trovo sempre qualcosa di interessante e che aiuta la meditazione, vi prego di scusarmi se spesso metto qualcosa da questo giornale, 

La preziosità dell’opera 

Ragionare ed entusiasmarsi per la persona di Gesù 

Elio Guerriero  

Ho sentito parlare per la prima volta del libro di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI su Gesù alla fine del 2004. Ero andato in visita dal cardinale al Sant’Uffizio. Parlando di progetti editoriali, egli mi confidò che, dopo il ritiro, che vedeva vicino, pensava di portare a termine il libro su Gesù. Poi, a dicembre del 2006, una telefonata dal Vaticano mi annunciava che il Papa aveva concluso la prima parte del suo libro e desiderava che io collaborassi all’edizione italiana. Ricordo l’impressione profonda alla prima lettura dell’opera. Gesù di Nazaret è un testo ricco e impegnativo, l’opera di una vita scritta con tenacia e con passione.
Cerco di accennare ai temi più significativi. Innanzitutto il rapporto ebrei-cristiani. Benedetto XVI riconosce un profondo legame tra ebrei e cristiani. Gesù, il nuovo Mosè promesso dal Deuteronomio (18,5), non viene per abolire la legge, ma per portarla a compimento. Il pensiero diventa più chiaro con un’applicazione della parabola del Padre misericordioso e dei due figli. La parabola, commenta il pontefice, esalta la generosità del padre che accoglie il figlio ritornato a casa. Nella stessa logica, quel genitore misericordioso consola e abbraccia anche il fratello maggiore. Gesù, dunque, è venuto per estendere l’alleanza a tutti i popoli, non certo per eliminare la legge del Sinai. Antico e Nuovo Testamento sono uniti come le due ante di un’unica grande tavola ideata e realizzata da Dio.
Secondo tema: le vite di Gesù. Il Papa parte da un ricordo personale. Nella sua infanzia diverse vite di Gesù riuscivano a trasmettere un vero entusiasmo per il Maestro di Nazaret. A partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso la situazione cambiò. I progressi del metodo storico-critico portarono a differenziazioni sempre più raffinate tra i diversi strati delle tradizioni. È divenuto, dunque, sempre più difficile tracciare un quadro unitario della persona di Gesù. Come risultato d’insieme si è diffusa l’impress ione che noi sappiamo molto poco su di Lui e che la fede nella sua divinità è un’aggiunta posteriore. Una tale situazione, secondo Benedetto, è drammatica: l’intima amicizia con Gesù su cui tutto si basa sembra cadere nel vuoto. Ad evitare equivoci, il Papa precisa che i progressi dell’esegesi sono stati preziosi. Come chiarisce nel dialogo con Schnackenburg, eletto a rappresentante dell’esegesi scientifica, bisogna avere il coraggio di andare oltre lo studio storico-critico per incontrare nuovamente la persona di Gesù. Egli non è chiuso nel passato. Attraverso la Chiesa, i cristiani e quanti lo desiderano possono incontrarlo ogni giorno nella parola e nei sacramenti.
Infine, la confessione cristiana. In tutti e tre i Vangeli sinottici la richiesta di Gesù: cosa pensa la gente e cosa pensate voi che io sia, rappresenta una svolta significativa. A nome dei dodici risponde Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». La confessione di Pietro è seguita dall’annuncio della passione, della morte e dalla trasfigurazione. Per il Papa è il segno che chi vuole stare più vicino a Gesù è chiamato a condividere il mistero pasquale, a diventare seme che, solo dopo l’immersione nella terra, porterà nuovo frutto.
Concludo con un’applicazione patristica della parabole del buon samaritano che il Papa fa sua. Il ferito derubato e abbandonato lungo la strada è l’uomo, il figlio di Adamo. Il buon samaritano che si ferma a soccorrerlo è Gesù. Egli presta al ferito le prime cure, poi lo porta alla taverna, la Chiesa, incaricata di proseguire l’opera del Maestro.
Il volume presenta la prima parte della vita di Gesù. L’augurio, per il Papa e per noi, è che egli possa portare a termine un’opera preziosa. 

 

Publié dans:Approfondimenti |on 14 avril, 2007 |Pas de commentaires »

Sant’Agostino – omelia 122: l’apparizione del Risorto sul lago di Tiberiade

di Sant’Agostino, sul sito Ufficiale degli agostiniani ho preso il commento di Agostino al vangelo di oggi:

OMELIA 122 

L’apparizione del Risorto sul lago di Tiberiade. 

La pesca miracolosa adombra il mistero della Chiesa, quale sarà dopo la risurrezione dei morti. 

1. Dopo averci raccontato come il discepolo Tommaso, attraverso le cicatrici delle ferite che Cristo gli offrì da toccare nella sua carne, vide ciò che non voleva credere e credette, l’evangelista Giovanni inserisce questa osservazione: Molti altri prodigi fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi invece sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il figlio di Dio e, credendo, abbiate vita nel suo nome (Gv 20, 30-31). Questa è come l’annotazione conclusiva di questo libro; tuttavia si narra ancora come il Signore si manifestò presso il mare di Tiberiade, e come nella pesca adombrò il mistero della Chiesa quale sarà nella futura risurrezione dei morti. Credo che sia per sottolineare maggiormente questo mistero che Giovanni pose le parole succitate come a conclusione del libro, in quanto servono anche di introduzione alla successiva narrazione, alla quale, in questo modo, dà maggiore risalto. Così comincia la narrazione: Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberiade; e si manifestò così. Si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, e i figli di Zebedeo e altri due dei suoi discepoli. Dice loro Simon Pietro: Io vado a pescare. Gli rispondono: Veniamo anche noi con te (Gv 21, 1-3). 

2. Si è soliti chiedersi, a proposito di questa pesca dei discepoli, perché Pietro e i figli di Zebedeo siano tornati all’occupazione che avevano prima che il Signore disse loro: Seguitemi e vi farò pescatori di uomini (Mt 4, 19). Allora essi lo seguirono, lasciando tutto, per diventare suoi discepoli. Al punto che, quando quel giovane, al quale aveva detto: Va’, vendi ciò che possiedi e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi, si allontanò triste, Pietro poté dirgli: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito (Mt 19, 21-22 27). Perché, dunque, essi ora lasciano l’apostolato e ritornano a essere ciò che erano prima tornando a fare ciò cui avevano rinunciato, quasi non tenendo conto dell’ammonimento che avevano ascoltato dalle labbra del Maestro: Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno dei cieli (Lc 9, 62)? Se gli Apostoli avessero fatto questo dopo la morte di Gesù e prima della sua risurrezione, potremmo pensare che essi fossero stati spinti a ciò dallo scoraggiamento che si era impadronito del loro animo. Del resto essi non avrebbero potuto tornare a pescare il giorno in cui Gesù fu crocifisso, perché in quel giorno rimasero totalmente impegnati fino al momento della sepoltura, che avvenne sul far della sera; il giorno seguente era sabato e, secondo la tradizione dei padri, dovevano osservare il riposo; e finalmente nel terzo giorno, il Signore risorto riaccese in loro la speranza che avevano cominciato a perdere. Ora però, dopo che lo hanno riavuto vivo dal sepolcro, dopo che egli ha offerto ai loro occhi e alle loro mani la realtà evidente della sua carne rediviva, che essi non solo hanno potuto vedere ma anche toccare e palpare; dopo che essi hanno guardato i segni delle sue ferite, e dopo che perfino l’apostolo Tommaso, che aveva detto che non avrebbe creduto se non avesse veduto e toccato, anch’egli ha confessato; dopo che hanno ricevuto lo Spirito Santo, da lui alitato su di essi, e hanno ascoltato le parole: Come il Padre ha mandato me, così io mando voi; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi li riterrete saranno ritenuti (Gv 20, 21 23), essi tornano a fare i pescatori, non di uomini ma di pesci. 

3. A quanti dunque rimangono perplessi di fronte a questo fatto, si può fare osservare che non era affatto proibito agli Apostoli procurarsi di che vivere con il loro mestiere onesto, legittimo e compatibile con l’impegno apostolico, qualora non avessero avuto altra possibilità per vivere. Nessuno, certo, vorrà pensare o dire che l’apostolo Paolo era meno perfetto di coloro che avevano seguito Cristo lasciando tutto, per il fatto che egli, per non essere di aggravio a quelli che evangelizzava, si guadagnava da vivere con il lavoro delle sue mani (cf. 2 Thess 3, 8). Anzi, proprio in questo si nota la verità di quanto asseriva: Ho lavorato più di tutti costoro. E aggiungeva: non già io, bensì la grazia di Dio con me (1 Cor 15, 10), affinché risultasse evidente che doveva alla grazia di Dio se aveva potuto lavorare più degli altri spiritualmente e materialmente, predicando il Vangelo senza sosta. Egli tuttavia, a differenza degli altri, non si servì del Vangelo per vivere, mentre lo andava seminando più largamente e con più frutto attraverso tante popolazioni in mezzo alle quali il nome di Cristo non era stato ancora annunziato; dimostrando così che vivere del Vangelo, cioè trarre sostentamento dalla predicazione, non era per gli Apostoli un obbligo ma una facoltà. E’ di questa facoltà che parla l’Apostolo quando dice: Se abbiamo seminato in voi beni spirituali, è forse una cosa straordinaria se mietiamo i vostri beni materiali? Se altri si valgono di questo potere su di voi, quanto maggiormente non lo potremmo noi? Ma noi – aggiunge – non abbiamo fatto uso di questo potere. E poco più avanti: Quelli che servono all’altare – dice – partecipano dell’altare. Alla stessa maniera anche il Signore ordinò a quelli che annunziano il Vangelo di vivere del Vangelo; quanto a me non ho usato alcuno di questi diritti (1 Cor 9, 11-15). Risulta dunque abbastanza chiaro che il vivere unicamente del Vangelo e mietere beni materiali in compenso dei beni spirituali che seminavano annunziando il Vangelo, era per gli Apostoli non un precetto ma una facoltà: cioè essi potevano accettare il sostentamento materiale e, quali soldati di Cristo, ricevere dai Cristiani il dovuto stipendio, come i soldati lo ricevevano dai Governatori delle province. E’ a questo proposito che il medesimo generoso soldato di Cristo poco prima aveva detto: Chi mai si arruola a proprie spese? (1 Cor 9, 7). Tuttavia, proprio questo egli faceva, e perciò lavorava più di tutti gli altri. Se dunque il beato Paolo non volendo usare del diritto che aveva in comune con gli altri predicatori del Vangelo, e volendo militare a sue spese, onde evitare presso i non credenti in Cristo qualsiasi sospetto che il suo insegnamento fosse interessato, imparò un mestiere non confacente alla sua educazione, per potersi guadagnare il pane con le sue mani e non esser di peso a nessuno dei suoi ascoltatori; perché dobbiamo meravigliarci se il beato Pietro, che già era stato pescatore, tornò al suo lavoro, non avendo per il momento altra possibilità per vivere? 

4. Ma qualcuno osserverà: E come mai non aveva altra possibilità per vivere, se il Signore aveva promesso: Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saran date in più (Mt 6, 33)? Questo episodio sta a dimostrare che il Signore mantiene la sua promessa. Chi altri infatti fece affluire i pesci nella rete perché fossero presi? E’ da credere che non per altro motivo li ridusse al bisogno, costringendoli a tornare alla pesca, se non perché voleva che fossero testimoni del miracolo che aveva predisposto per sfamare i predicatori del suo Vangelo, mentre mediante il misterioso significato del numero dei pesci, si proponeva di far crescere il prestigio del Vangelo stesso. E a proposito, vediamo ora che cosa il Signore ha riservato a noi. 

5. Dice Simon Pietro: Io vado a pescare. Gli rispondono – quelli che erano con lui -: Veniamo anche noi con te. Uscirono, e salirono sulla barca; ma in quella notte non presero nulla. Era ormai l’alba quando Gesù si presentò sulla riva; i discepoli tuttavia non si erano accorti che era Gesù. E Gesù disse loro: Figlioli, non avete qualcosa da mangiare? Gli risposero: No. Ed egli disse loro: Gettate la rete a destra della barca, e ne troverete. La gettarono, e non potevano più tirarla per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: E’ il Signore! Simon Pietro all’udire « è il Signore! » si cinse la veste, poiché era nudo, e si buttò in mare. Gli altri discepoli vennero con la barca, perché non erano lontani da terra se non duecento cubiti circa, tirando la rete con i pesci. Appena messo piede a terra, videro della brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: Portate dei pesci che avete preso adesso. Allora Simon Pietro salì nella barca, e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si strappò (Gv 21, 3-11). 

6. E’ un grande mistero questo, nel grande Vangelo di Giovanni; e, per metterlo maggiormente in risalto, l’evangelista lo ha collocato alla conclusione. Siccome erano sette i discepoli che presero parte a questa pesca: Pietro, Tommaso, Natanaele, i due figli di Zebedeo e altri due di cui si tace il nome; mediante il numero sette stanno ad indicare la fine del tempo. Sì, perché tutto il tempo si svolge in sette giorni. A questo si riferisce il fatto che sul far del giorno Gesù si presentò sulla riva: la riva segna la fine del mare, e rappresenta perciò la fine del tempo, la quale è rappresentata anche dal fatto che Pietro trasse la rete a terra, cioè sulla riva. Il Signore stesso, quando espose una parabola della rete gettata in mare, dette questa spiegazione: Una volta piena – disse – i pescatori l’hanno tirata a riva. E spiegò che cosa fosse la riva, dicendo: Così sarà alla fine del mondo (Mt 13, 48-49). 

[Il mistero della Chiesa adombrato nelle due scene di pesca.] 

7. Ma quella parabola consisteva nell’enunciazione di un pensiero, non veniva espressa mediante un fatto. Qui, invece, è mediante un fatto che il Signore ci presenta la Chiesa quale sarà alla fine del tempo, così come con un’altra pesca ha presentato la Chiesa quale è nel tempo presente. Il fatto che egli abbia compiuto la prima pesca all’inizio della sua predicazione, questa seconda, invece, dopo la sua risurrezione, dimostra che quella retata di pesci rappresentava i buoni e i cattivi di cui ora la Chiesa è formata; questa invece rappresenta soltanto i buoni che formeranno definitivamente la Chiesa, quando, alla fine del mondo, sarà compiuta la risurrezione dei morti. Inoltre, nella prima pesca, Gesù non stava, come ora, sulla riva del mare, quando ordinò di gettare le reti per la pesca; ma salito in una delle barche, quella che apparteneva a Simone, pregò costui di scostarsi un po’ da terra, poi, sedutosi, dalla barca istruiva le folle. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: Va’ al largo e calate le reti per la pesca (Lc 5, 3-4). E il pesce che allora pescarono fu raccolto nelle barche, perché non furono tirate le reti a terra come avviene ora. Per questi segni, e per altri che si potrebbero trovare, in quella pesca fu raffigurata la Chiesa nel tempo presente; in questa, invece, è raffigurata la Chiesa quale sarà alla fine dei tempi. E’ per questo motivo che la prima pesca fu compiuta prima della risurrezione del Signore, mentre questa seconda è avvenuta dopo; perché nel primo caso Cristo raffigurò la nostra vocazione, nel secondo la nostra risurrezione. Nella prima pesca le reti non vengono gettate solo a destra della barca, a significare solo i buoni, e neppure solo a sinistra, a significare solo i cattivi. Gesù dice semplicemente: Calate le reti per la pesca, per farci intendere che i buoni e i cattivi sono mescolati. Qui invece precisa: Gettate la rete alla destra della barca, per indicare quelli che stavano a destra, cioè soltanto i buoni. Nel primo caso la rete si strappava per indicare le scissioni; nel secondo caso, invece, siccome nella suprema pace dei santi non ci saranno più scissioni, l’evangelista ha potuto rilevare: e benché i pesci fossero tanti – cioè così grossi – la rete non si strappò. Egli sembra alludere alla prima pesca, quando la rete si strappò, per far risaltar meglio, dal confronto con quella, il risultato positivo di questa pesca. Nel primo caso presero tale quantità di pesce che le due barche, stracariche, affondavano (cf. Lc 5, 3-7), cioè minacciavano di affondare: non affondarono, ma poco ci mancò. Donde provengono alla Chiesa tutti i mali che deploriamo, se non dal fatto che non si riesce a tener testa all’enorme massa che entra nella Chiesa con dei costumi del tutto estranei alla vita dei santi e che minacciano di sommergere ogni disciplina? Nel secondo caso, invece, gettarono la rete a destra della barca, e non potevano più tirarla per la grande quantità di pesci. Che significa: non riuscivano più a tirarla? Significa che coloro che appartengono alla risurrezione della vita, cioè alla destra, e finiscono la loro vita nelle reti del cristianesimo, appariranno soltanto sulla riva, cioè alla fine del mondo, quando risorgeranno. Per questo i discepoli non riuscivano a tirare la rete per rovesciare nella barca i pesci che avevano presi, come invece avvenne di quelli per il cui peso la rete si strappò e le barche rischiarono di affondare. La Chiesa possiede tutti questi pesci che sono a destra della barca, ma che rimangono nascosti nel sonno della pace, come nel profondo del mare, sino alla fine della vita, allorché la rete, trascinata per un tratto di circa duecento cubiti, giungerà finalmente alla riva. Il popolo dei circoncisi e dei gentili, che nella prima pesca era raffigurato dalle due barche, qui è raffigurato dai duecento cubiti – cento e cento quanti sono gli eletti di ciascuna provenienza -, poiché facendo la somma, il numero cento passa a destra. Infine, nella prima pesca, non si precisa il numero dei pesci, e noi possiamo vedere in ciò la realizzazione della profezia che dice: Voglio annunziarli e parlarne, ma sono tanti da non potersi contare (Sal 39, 6); qui invece si possono contare: il numero preciso è centocinquantatré. Dobbiamo, con l’aiuto del Signore, spiegare il significato di questo numero. 

[Significato del numero 153.] 

8. Volendo esprimere la legge mediante un numero, qual è questo numero se non dieci? Sappiamo con certezza che il Decalogo, cioè i dieci comandamenti furono per la prima volta scritti col dito di Dio su due tavole di pietra (cf. Dt 9, 10). Ma la legge, senza l’aiuto della grazia, ci rende prevaricatori, e rimane lettera morta. E’ per questo che l’Apostolo dice: La lettera uccide, lo Spirito vivifica (2 Cor 3, 6). Si unisca dunque lo spirito alla lettera, affinché la lettera non uccida coloro che non sono vivificati dallo spirito; ma siccome per poter adempiere i comandamenti della legge, le nostre forze non bastano, è necessario l’aiuto del Salvatore. Quando alla legge si unisce la grazia, cioè quando alla lettera si unisce lo spirito, al dieci si aggiunge il numero sette. Il numero sette, come attestano i venerabili documenti della sacra Scrittura, è il simbolo dello Spirito Santo. Infatti, la santità o santificazione è attribuita propriamente allo Spirito Santo; per cui, anche se il Padre è spirito e il Figlio è spirito (in quanto Dio è spirito: cf. Io 4, 24) ed anche se il Padre è santo e il Figlio è santo, tuttavia lo Spirito di ambedue si chiama con suo proprio nome Spirito Santo. E dov’è che per la prima volta nella legge si parla di santificazione, se non a proposito del settimo giorno? Dio infatti non santificò il primo giorno in cui creò la luce, né il secondo in cui creò il firmamento, né il terzo in cui separò il mare dalla terra e la terra produsse alberi e piante, né il quarto in cui furono create le stelle, né il quinto in cui Dio fece gli animali che si muovono nelle acque e che volano nell’aria, e neppure il sesto in cui creò gli animali che popolano la terra e l’uomo stesso; santificò, invece, il settimo giorno, in cui egli riposò dalle sue opere (cf. Gn 2, 3). Giustamente, quindi, il numero sette è il simbolo dello Spirito Santo. Anche il profeta Isaia dice: Riposerà in lui lo Spirito di Dio; passando poi ad esaltarne l’attività e i suoi sette doni, dice: Spirito di sapienza e d’intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà, e lo riempirà dello spirito del timore di Dio (Is 11, 2-3). E nell’Apocalisse non si parla forse dei sette spiriti di Dio (cf. Ap 3, 1), pur essendo unico e identico lo Spirito che distribuisce i suoi doni a ciascuno come vuole (cf 1 Cor 12, 11)? Ma l’idea dei sette doni dell’unico Spirito è venuta dallo stesso Spirito, che ha assistito lo scrittore sacro perché dicesse che sette sono gli spiriti. Ora, se al numero dieci, proprio della legge, aggiungiamo il numero sette, proprio dello Spirito Santo, abbiamo diciassette. Se si scompone questo numero in tutti i numeri che lo formano, e si sommano tutti questi numeri, si ha come risultato centocinquantatré: se infatti a uno aggiungi due ottieni tre, se aggiungi ancora tre e poi quattro ottieni dieci, se poi aggiungi tutti i numeri che seguono fino al diciassette otterrai il risultato sopraddetto; cioè se al dieci, che hai ottenuto sommando tutti i numeri dall’uno al quattro, aggiungi il cinque, ottieni quindici; aggiungi ancora sei e ottieni ventuno; aggiungi il sette e avrai ventotto; se al ventotto aggiungi l’otto, il nove e il dieci, avrai cinquantacinque; aggiungi ancora undici, dodici e tredici, e sei a novantuno; aggiungi ancora quattordici, quindici e sedici, e avrai centotrentasei; e se a questo numero aggiungi quello che resta, cioè quello che abbiamo trovato all’inizio, il diciassette, avrai finalmente il numero dei pesci che erano nella rete. Non si vuol dunque indicare, col centocinquantatré, che tale è il numero dei santi che risorgeranno per la vita eterna, ma le migliaia di santi partecipi della grazia dello Spirito Santo. Questa grazia si accorda con la legge di Dio come con un avversario, affinché la lettera non uccida ciò che lo Spirito vivifica, e in tal modo, con l’aiuto dello Spirito, si possa compiere ciò che per mezzo della lettera viene comandato, e sia perdonato quanto non si riesce a compiere. Quanti partecipano di questa grazia sono indicati da questo numero, cioè vengono rappresentati in figura. Questo numero è, per di più, formato da tre volte il numero cinquanta con l’aggiunta di tre, che significa il mistero della Trinità; il cinquanta poi è formato da sette per sette più uno, dato che sette volte sette fa quarantanove. Vi si aggiunge uno per indicare che è uno solo lo Spirito che si manifesta attraverso l’operazione settenaria; e sappiamo che lo Spirito Santo fu mandato sui discepoli, che lo aspettavano secondo la promessa che loro era stata fatta, cinquanta giorni dopo la risurrezione del Signore (cf. At 2, 2-4; 1, 4). 

9. Con ragione dunque l’evangelista dice che i pesci erano grossi e tanti, e precisamente centocinquantatré. Egli dice infatti: e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. Il Signore, dopo aver detto: Non sono venuto per abolire la legge, ma per portarla a compimento (Mt 5, 17), con l’intenzione di dare lo Spirito Santo che consentisse di adempiere la legge (come aggiungendo il sette al dieci), poco dopo dice: Chi, dunque, violerà uno solo di questi comandamenti, anche i minimi, e insegnerà agli uomini a far lo stesso, sarà considerato minimo nel regno dei cieli; chi, invece, li avrà praticati e insegnati, sarà considerato grande nel regno dei cieli (Mt 5, 19). Quest’ultimo potrà far parte del numero dei grossi pesci. Il minimo invece, che distrugge con i fatti ciò che insegna con le parole, potrà far parte di quella Chiesa che viene raffigurata nella prima pesca, fatta di buoni e di cattivi, perché anch’essa viene chiamata regno dei cieli. Il regno dei cieli – dice il Signore – è simile a una gran rete gettata in mare e che raccoglie ogni genere di pesci (Mt 13, 47). Con questo vuole intendere tanto i buoni quanto i cattivi, che dovranno essere separati sulla riva, cioè alla fine del mondo. Inoltre, per far vedere che quelli che chiama minimi, cioè coloro che vivendo male distruggono il bene che insegnano con le parole, sono dei reprobi e quindi saranno completamente esclusi dal regno dei cieli, dopo aver detto: sarà considerato minimo nel regno dei cieli, immediatamente aggiunge: poiché vi dico che, se la vostra giustizia non sorpasserà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli (Mt 5, 20). Scribi e farisei sono quelli che siedono sulla cattedra di Mosè, e a proposito dei quali egli dice: Fate quello che vi dicono, non vi regolate sulle loro opere: dicono, infatti, e non fanno (Mt 23, 2-3); distruggono con i costumi quanto insegnano con le parole. Di conseguenza, chi è minimo nel regno dei cieli, cioè nella Chiesa del tempo presente, non entrerà nel regno dei cieli, cioè nella Chiesa futura, perché, insegnando ciò che poi trasgredisce, non potrà far parte della società di coloro che fanno ciò che insegnano. Costui, perciò, non farà parte del numero dei grossi pesci, in quanto solo chi farà e insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli. E siccome sarà stato grande qui in terra, potrà essere anche là dove l’altro, il minimo, non potrà essere. La grandezza di coloro che qui sono grandi, lassù sarà tale, che il più piccolo di loro è maggiore di chi sulla terra è più grande di tutti (cf. Mt 11, 11). Tuttavia, coloro che qui sono grandi, coloro cioè che nel regno dei cieli, dove la rete raccoglie buoni e cattivi, compiono il bene che insegnano, saranno ancora più grandi nel regno eterno dei cieli; essi, che sono destinati alla risurrezione della vita, sono raffigurati nei pesci pescati dal lato destro della barca. Segue il racconto della colazione che il Signore consumò con questi sette discepoli, e di ciò che egli disse subito dopo, e infine della conclusione di questo Vangelo. Di tutto questo parleremo, se Dio vorrà; ma non possiamo farlo entrare in questo discorso. 

 

Publié dans:Approfondimenti |on 13 avril, 2007 |Pas de commentaires »

Gianfranco Ravasi: « UN PIATTO DI DOLLARI »

dal sito del giornale Avvenire, il « mattutino » di Ravasi di oggi:12 Aprile 2007 

UN PIATTO DI DOLLARI

Quando l’ultimo albero sarà stato tagliato, l’ultimo animale abbattuto, l’ultimo pesce pescato, l’ultimo fiume avvelenato, allora ci accorgeremo che il denaro non si può mangiare.
Così gli indigeni nordamericani rispondevano a coloro che proponevano di trasformare le loro terre in sedi di industrie, moltiplicando lo sfruttamento delle risorse naturali. Certo, non si può coltivare solo il sogno di un idillio ecologico, ma noi « civili » siamo andati così avanti in questa devastazione della natura da esserci ridotti spesso ad avere sulle nostre tavole dei gran piatti di dollari o di euro, mentre non riusciamo più a respirare per l’aria inquinata, siamo avvelenati da cibi corrotti, siamo malati per contaminazioni impalpabili e pervasi da virus ignoti.
«Coltivare e custodire la terra», ammoniva la Genesi (2, 15): quindi, lavorarla, trasformarla, ricavarne sostanze ed energie, ma anche proteggerla, tutelarla, «custodirla» appunto come un bene delicato e prezioso. In essa c’è la vita che è un dono inestimabile, dotato di segreti da scoprire ma che è anche una realtà da non manipolare brutalmente, illudendosi di essere arbitri assoluti. L’uomo moderno così altezzoso si erge sulla terra come un tiranno prepotente: basti solo pensare – senza ricorrere alle grandi tragedie ambientali – al ragazzo che sfregia i monumenti, all’adulto che sporca strade e campi, alla persona che scarica in un fiume i suoi rifiuti. È, questo, un peccato vero e proprio contro la natura che è in noi e fuori di noi.

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Attesa in tutto il mondo per la presentazione, domani, del libro di Benedetto XVI « Gesù di Nazaret »

dal sito della Radio Vaticana

http://www.oecumene.radiovaticana.org/it1/Articolo.asp?c=127946

Attesa in tutto il mondo per la presentazione, domani, del libro di Benedetto XVI « Gesù di Nazaret » 

Cresce l’attesa per la presentazione, domani, del libro di Benedetto XVI Gesù di Nazaret, che sarà in vendita nelle librerie da lunedì 16 aprile nelle edizioni italiana (Rizzoli), tedesca (Herder) e polacca (Wydawnictwo M). L’opera verrà presentata, alle ore 16, nell’Aula del Sinodo presso l’Aula Paolo VI. Nella prefazione del libro, già resa nota nei giorni scorsi, il Papa scrive che con questo volume si propone “di presentare il Gesù dei Vangeli come il vero Gesù, come il Gesù storico nel vero senso della espressione”. Il Papa si dice convinto che “questa figura è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni”. Su questo passaggio, Fabio Colagrande ha raccolto la riflessione del biblista padre Giulio Michelini, docente di Nuovo Testamento presso l’istituto teologico di Assisi: 

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R. – Penso che ce ne fosse bisogno e tutti accolgono favorevolmente questa iniziativa. C’è il desiderio di riappropriarsi di un qualcosa che è stato, forse, dimenticato. In questo senso l’iniziativa del Pontefice è buona per far ritornare i credenti alla radice del problema, perché – forse in Italia in particolare – siamo in una situazione in cui il catechismo che è stato insegnato ai bambini non basta più ed è necessario riappropriarci della fede che ci è stata donata, purché lo si faccia senza sconfessare una tradizione bimillenaria che ci è stata consegnata. Cosa che, invece, sta accendo, mi sembra con alcune pubblicazioni.
 
D. – Padre Michelini, nella prefazione al suo libro, che è stata anticipata, il Papa racconta che alcuni studi critici dagli anni Cinquanta in poi hanno lasciato l’impressione che noi sappiamo ben poco di certo su Gesù e che solo più tardi la fede nella sua divinità ha plasmato questa immagine. Ha parlato di una situazione drammatica per la fede, da questo punto di vista. Come studioso del Nuovo Testamento, cosa pensa di queste parole del Papa?
 
R. – Io sono d’accordo, anche perché ora siamo sull’onda lunga di questo scetticismo che vedeva un divario invalicabile ed incolmabile tra la figura del Gesù storico e il Cristo della fede, per esempio quello presentato dalle Chiese e in particolare facciamo riferimento alla nostra Chiesa cattolica. Questi studi, che pure sono meritevoli e sono stati forse necessari, hanno però portato alla conclusione che è irraggiungibile la figura di Gesù. C’è ora un’altra onda lunga che credo venga dal Nord America e che ha un’altra impostazione e cioè che noi siamo di fronte ad un mito nuovo delle origini cristiane. Se dagli anni Cinquanta – come scrive il Papa – si diceva che il Gesù della storia fosse diverso dal Cristo della fede presentato dalle Chiese, ora si dice che il Cristo presentato dalle Chiese è un Cristo falso, un Cristo che non corrisponde alla storicità. Questo si legge anche in recenti pubblicazioni, che sono state anche fortemente pubblicizzate nel panorama italiano e in base alle quali noi nelle Chiese sentiremmo parlare di un Gesù totalmente diverso da quello che Lui è realmente stato. Questo non è vero, perché certo la Chiesa ha la fatica di presentare il Volto di Cristo, ma è anche sempre stata attenta che non dicesse delle fandonie, che non inventasse dei miti, ma che pronunciasse proprio quel Vangelo che era il Vangelo ricevuto duemila anni fa. 
 
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Il libro, scrive sempre il Papa, è frutto “di un lungo cammino interiore”. Benedetto XVI avverte nella prefazione che il suo Gesù di Nazaret “non è assolutamente un atto magisteriale, ma è unicamente espressione” della sua “ricerca personale del Volto del Signore”. Sul contributo che questo libro può offrire alla conoscenza della figura di Gesù Cristo, Alessandro Gisotti ha intervistato padre Michele Piccirillo, archeologo presso lo Studium Biblicum Francescanum di Gerusalemme:

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R. – Credo che il Papa voglia tirare le fila di un discorso che va avanti oramai da una cinquantina d’anni: passato cioè il periodo dell’Ottocento e poi anche la prima metà del Novecento, in cui si parlava un po’ di un Gesù mitico e dell’esegesi che guardava al Vangelo come un fatto semplicemente di fede, si sono fatti degli sforzi in Germania – ed anche fuori della Germania – per superare questa impasse e quindi di cercare di far capire che si può dare un messaggio di fede pur utilizzando fatti storici. Su questa linea già diversi studiosi – anche in Italia – si erano mossi per fare qualcosa di positivo. Linea, questa, che ha seguito anche il Papa con questo libro.
 
D. – Ecco, un libro come “Gesù di Nazaret” di Benedetto XVI può suscitare interesse e magari in qualcuno semplicemente curiosità, capace però di spingerlo ad avvicinarsi ai Vangeli?
 
R. – Credo che, al di là dell’autorità del Papa come studioso e al di là dell’autorità del posto che occupa nella Chiesa, sarà un libro di successo. Anche se lui non si aspetta questo, certo non lo ha scritto per questo! Sarà certamente una buona occasione per spingere qualcuno ad andare alle fonti. Abbiamo questi quattro Vangeli ed io, scherzando con i miei amici esegeti, dico: “Scrivete tanti libri sui quei poveri quattro libretti, ma per fortuna che non li cambiate e restano sempre gli stessi!”. 

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Nunzio in Israele: basta con le false interpretazioni su Pio XII

Dal sito di Asia News

12/04/2007 12:59

ISRAELE – VATICANO

Nunzio in Israele: basta con le false interpretazioni su Pio XII


Una scritta sulla ambigua reazione di papa Pacelli all’Olocausto, esposta nello Yad Vashem, ha spinto mons. Franco ad annunciare che non parteciperà alla commemorazione della Shoah. “Non si vuole tener conto – spiega ad AsiaNews – neppure di recenti acquisizioni storiche “.

Gerusalemme (AsiaNews) – Nessuno chiede di cambiare la storia, ma una interpretazione della storia sì, specialmente quando recenti studi confermano che non è vera. Risponde così, parlando con AsiaNews, il nunzio in Israele, mons. Antonio Franco, alla polemica creata dallo Yad Vashem, il museo di Gerusalemme sull’Olocausto. L’istituto ha reso pubblica la decisione del nunzio di non partecipare all’annuale commemorazione della Shoah, se non verrà accolta la sua richiesta di “riconsiderare” l’esposizione all’interno del museo di una foto di Pio XII – esposta per la prima volta nel 2005 – con una didascalia che il nunzio giudica “offensiva” e non rispettosa della verità, in quanto parla di ambigua reazione di papa Pacelli all’uccisione degli ebrei durante l’Olocausto.  La notizia della decisione di mons. Franco è stata data oggi dal quotidiano israeliano Yedioth Aharonoth, nella sua edizione on-line Y-net. Il giornale riporta un comunicato del museo, per il quale “lo Yad Vashem è dedicato alla ricerca storica e presenta la verità storica su Pio XII così come è oggi nota agli studiosi” e dichiarazioni di funzionari del Ministero degli esteri per i quali “è un argomento molto delicato che va esaminato con attenzione. E’ importante che tutti i diplomatici assistano alla cerimonia di commemorazione” e “la sua assenza risalterà di sicuro” 

“Già lo scorso anno – rileva mons. Franco – il nunzio Pietro Sambi aveva scritto alla direzione del museo richiamando l’attenzione su quella didascalia, su questo giudizio veramente molto negativo su Pio XII  e chiedeva di rivedere o di togliere la scritta. Successivamente ci sono stati anche delle segnalazioni di studi e di materiale storico. Niente è stato fatto e io adesso nell’immediatezza della celebrazione ho voluto scrivere al presidente del rettorato di Yad Vashem – questo signor Avner Shalev che ci aveva risposto l’anno scorso – precisando che era una interpretazione che mi faceva difficoltà – e non solo a me, ma a tutti i fedeli cattolici – offensiva della dignità del Papa – e il Papa per noi è il Papa – quindi mi sentivo a disagio di andare a questa commemorazione. Invitavo a riconsiderare la possibilità, diciamo, che la didascalia fosse corretta o la fotografia rimossa. E chiaramente era una comunicazione, non una conferenza stampa, non c’era e non c’è volontà polemica. Loro l’hanno data alla stampa”.  “Ora – prosegue mons. Franco – la realtà è che quella scritta è un’interpretazione, non è la verità storica. Secondo quanto riporta Yedioth Aharonoth, Yad Vashem avrebbe detto che non si può cambiare la storia. Siamo d’accordissimo che la storia non si può cambiare, ma questa è un’interpretazione della storia. A me dispiace, perché ferisce i miei sentimenti, la mia fede e le ricerche storiche. Sappiamo benissimo che ci sono alcuni che hanno detto una cosa, ma c’è tanta documentazione e tanta ricerca storica che provano il contrario, tutto quello che la Chiesa cattolica e il papa Pio XII hanno fatto per salvare gli ebrei. Un saggio del 2003 di Martin Gilbert, il famoso storico inglese che ha scritto tanto sulla Seconda guerra mondiale, Churchill e l’Olocausto, intitolato The Righteous, (I giusti) mette in risalto tutto quello che Pio XII e la Chiesa cattolica hanno fatto per gli ebrei. E ci sono tanti altri studi storici, anche di ebrei, che provano questo fatto”. 

“La mia lettera – sottolinea il nunzio – era stata scritta per attirare l’attenzione su un problema che per me va riconsiderato e approfondito e va cambiato questo giudizio su Pio XII. Altrimenti io non andrò mai a Yad Vashem. L’ho detto. Ho la mia responsabilità di persona, di cristiano e di rappresentante del Papa. A me fa difficoltà come rappresentante del Papa leggere questo giudizio che non è storico e non è vero”.  Quanto all’affermazione dello Yad Vashem di essere disposto a continuare a studiare la questione, se il Vaticano gli permetterà di consultare i suoi archivi, il nunzio fa notare che “per quanto riguarda gli archivi storici, ci sono principi che sono posti da tutti gli Stati e la ricerca viene fatta con certi criteri che sono criteri storici e non di nascondere le verità storiche. Noi le verità storiche le abbiamo pure accettate e sappiamo pure chinare il capo, quando c’è da chinarlo, ma non quando non c’è da farlo”. 

  

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S’inginocchiò davanti ai suoi discepoli e lavò i loro piedi.

da « Avvenire » on line, anno 2005: 

PASQUA 2005.

S’inginocchiò davanti ai suoi discepoli e lavò i loro piedi.

Tre intellettuali riflettono su questo rito misterioso e sul servizio al prossimo 

Ultimo tra gli ultimi 

Gianfranco Ravasi;Franco La Cecla;Erri De Luca 

Ravasi
Così ci ha detto di essersi donato
per riscattarci dal peccato

«Sei risalito dal fonte. Hai ascoltato la lettura. Il vescovo, raccolte le vesti, ti ha lavato i piedi». Così sant’Ambrogio nella sua opera I sacramenti (III, 4) attestava che il rito che oggi si celebra in molte chiese era anticamente connesso al battesimo, anche se ben presto fu riportato al giovedì santo, come sembra testimoniare s. Agostino. Gesù, infatti, stando al Vangelo di Giovanni (13, 1-15), aveva compiuto quel gesto durante l’ultima cena, mentre scendeva il tramonto su Gerusalemme.
Il suo era stato un atto simbolico ma anche provocatorio, come era emerso dalla reazione iniziale di Pietro: «Tu non mi laverai i piedi, mai!». Infatti nella prassi orientale antica era usanza offrire acqua all’ospite perché si lavasse i piedi impolverati dal viaggio (e coperti solo da sandali). Ma un testo giudaico di commento all’
Esodo esplicitamente ammoniva che non si poteva esigere neppure da uno schiavo che lavasse i piedi al padrone o al suo ospite. Siamo, quindi, di fronte a un atto estremo di umiliazione che Gesù, maestro e Signore, compie nei confronti dei suoi discepoli.
Egli in quel momento attuava in pienezza le parole che un giorno aveva proclamato: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli… Egli si cingerà le vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli» (Luca 12, 37). Un atto, certo, di umiltà ma anche di amore e di servizio. E’ significativo che in un’
opera giudaica del I secolo a.C. intitolata Giuseppe e Aseneth, la moglie egiziana di questo famoso personaggio della Genesi si dichiarava pronta a lavargli i piedi al posto delle serve perché «i tuoi piedi – diceva – sono i miei piedi! Nessun altro laverà i tuoi piedi».
Al di là delle molteplici interpretazioni che il gesto di Gesù ha ricevuto nella storia dell’esegesi della pagina giovannea (battesimale, eucaristico, sacrificale, morale), è indubbio che con questo atto simbolico egli – alla m aniera dei profeti – ha voluto rappresentare la sua donazione assoluta all’umanità nell’umiliazione della morte. Un’umiltà che non è fine a se stessa, ma ha una meta d’amore. Il gesto diventa in tal modo esemplare. E’ Gesù stesso a ricordarlo dopo che si è rialzato e ha ripreso il suo posto a mensa: «Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri». E’
questa la lezione del Giovedì Santo.

La cecla
Quel gesto più che l’umiltà
ci chiede la reciprocità

Essere ai piedi di qualcuno. Toccargli i piedi. Slacciargli le scarpe, sciogliere i legacci dei calzari. Lavargli i piedi, asciugarglieli. Le figure dell’ossequio, dell’umiliazione, del sottomettersi, del subordinarsi. Cultura per cultura, i gesti del prendere i piedi a qualcuno stanno per una declinazione variegata del campo prossemico della subordinazione. Il corpo significa, con la sua posizione rispetto al corpo dell’altro, più di quanto possa dire uno scusarsi, un promettere fedeltà e obbedienza, un dichiarare sudditanza e rispetto. I discepoli del guru in India si chinano a toccarne i piedi, in segno di ammirata inferiorità. In molte culture i figli si inchinano a toccare con rispetto i piedi dei genitori.
I piedi altrui stanno a significare una indegnità di confronto, un potersi permettere solo questa confidenza con la parte altrui più vicina alla terra. Gli amanti non fanno diversamente, mettendo in scena una adorazione illegittima, una messinscena del preferire essere calpestati piuttosto che perdere l’amato. Solo ai malati e ai morenti si prendono i piedi in segno di estrema pietà e vicinanza, come accade nel racconto di Tolstoj, La morte di Ivan Illich. Pietà al posto di umiliazione, i piedi come il luogo da consolare, come la parte più fragile dell’umanità dell’
altro.
Quando Cristo lava i piedi ai discepoli compie un gesto fuori da questi significati e da queste norme. Non corrisponde nemmeno al gesto del lavare i piedi ai po veri, che il Giovedì santo si ripete nelle basiliche.
Cristo lava i piedi di gente come lui, di poveri come lui. Non c’è ossequio e nemmeno umiliazione. Cosa significa lavare i piedi dei propri pari? Che significa lavare i piedi degli amici? Il gesto della lavanda dei piedi è qui disorientante rispetto ai codici tradizionali. Non corrisponde nemmeno al gesto della Maddalena, più simile a quello dell’amante o di chi presagisce la Passione prossima dell’
altro.
Cristo lava i piedi dei discepoli per infrangere il senso dell’
umiltà, per ricordare che da ora in poi è possibile solo come gesto reciproco. Lavando i piedi agli apostoli dichiara che loro sono maestri al pari di lui e che comunque lui abolisce la possibilità che loro lavino omaggianti i piedi di lui. Nel gesto evengelico si annullano e assimilano umiltà e umiliazione.
Qualcuno può rintracciarvi l’invenzione dell’umiltà cristiana, di chi si abbassa fino all’estremo sacrificio. Io vi vedo anche qualcos’altro. Un’eversione della tradizione, dove si rovescia l’inchino del suddito, si annulla la gerarchia, pur anche quella dei meriti e della santità. Cristo taglia corto con la simbolica del corpo riverente. E proclama l’accoglimento della comune radice dell’
ossequio tra figli di Dio.

De Luca
Fu il segno della rinuncia
a ogni potenza su questa terra

Prima di finire rinchiusi nelle scarpe, i piedi andavano a spasso all’aria aperta. Le calzature della scrittura sacra erano sandali. In quei tempi si camminava assai, pochi avevano una cavalcatura. Viaggi, pellegrinaggi, spostamenti avvenivano a piedi: da qui l’importanza della loro salute. Nel cammino si impolverano, si feriscono e a ogni sosta vanno ristorati. Lavarli, ungerli, trattarli come il prezioso cuoio dei sandali, era l’atto di migliore accoglienza.
Oggi ognuno di noi possiede varie paia di calzature, mette il piede in molte scarpe. A quel tempo chi possedeva un paio di sandali li teneva in gran conto. La mossa di lavare i piedi al l’ospite l’inaugura Abramo alle querce di Mamre (Genesi/Bereshit 18,4) quando accoglie tre messaggeri e come prima mossa d’
ospitalità offre loro ombra per sedersi e acqua per i piedi.
Nei precipitosi giorni di Gesù a Gerusalemme, nel tumulto di folla venuta da tutto Israele per la festa maggiore, la Pasqua ebraica, l’
opera di lavare i piedi non è strana. È però strepitoso che sia Gesù e non un servo a compiere il lavaggio.
Molti da lui si aspettano un gesto politico, la città santa è sotto occupazione militare romana, gremita di popolo commosso e offeso. Gesù non dice una sola parola a proposito. Al termine della cena rituale s’inginocchia e lava i piedi ai suoi. Sono ebrei, nel rito hanno ricordato l’uscita a strappo dall’
Egitto, il profumo selvatico del deserto e della libertà. Ora sono oppressi.
Gesù al culmine della maturità e della missione fa il gesto di abbassarsi, l’opposto di innalzarsi. Difficile da intendere anche per i presenti scelti, Gesù rinuncia a ogni potere, a ogni potenza in terra. Abbraccia gli uomini ai piedi, là dove poggia il peso e la statura di ognuno, i piedi che non portano corona. 

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Dimorare nella debolezza e nella tentazione per sperimentare la Grazia

dal sito:

Dimorare nella debolezza e nella tentazione per sperimentare la Grazia 

di p. Andrè Louf 

Riportiamo una meditazione di Andrè Louf, già Abate di Mont-Des-Cats che con il suo sapiente discernimento diviene non solo uno dei protagonisti dell’aggiornamento conciliare nel monastero e nell’ordine trappista, ma una delle figure spirituali di maggiore autorevolezza nella Chiesa dei nostri giorni. I suoi testi, tradotti anche in italiano, abbracciano tematiche essenziali per il vissuto della fede nel mondo contemporaneo: accanto ai commenti in più volumi al Vangelo della domenica (Beata debolezza), troviamo testi sull’esistenza cristiana (Sotto la guida dello Spirito), sulla preghiera (Lo Spirito prega in noi), sulla paternità spirituale (Generati dallo Spirito), sull’interiorità e la vita di comunione (La vita spirituale), sull’umiltà.Padre André Louf svolge per trentacinque anni il suo ministero di abate di Mont-des-Cats, poi lascia l’incarico e si ritira in un eremo nel sud della Francia, dove vive tuttora nella preghiera e nello studio degli amati padri della chiesa.
Il testo che segue e’ tratto da: Andrè Louf, “Sotto la guida dello Spirito”, Edizioni Qiqajon, Magnano(BI), 1990, pp. 44-54. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questo testo sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
04/03/2007
 
 



 Dio resta incrol­labilmente fedele a noi: ebbene, questa fedeltà appare in ma­niera clamorosa nell’ora della tentazione. Non c’è fede che non sia tentata, come non c’è albero che non debba essere potato per portare più frutto (Gv 15,2). La Bibbia non ripete forse che la fedeltà di Dio si afferma, si rende visibile soprattutto nella tentazione? E inoltre, non ci ricorda forse quanto è necessario per noi attraversare la tentazione per crescere nella fede? Ascol­tiamo Paolo: « Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via di uscita e la forza per sopportarla » (1Cor 10,13). Ma c’è so­prattutto il famoso testo con il quale Giacomo inizia in modo così rude la sua lettera: « Miei fratelli, considerate piena letizia quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la perseveranza. E la perseveranza perfe­zioni l’opera in voi, perché siate perfetti e integri, senza manca­re di nulla » (Gc 1,2-4). 

La carne debole 

Ma l’uomo sopporta di essere costantemente nella tentazione per diventare così miracolo continuo della grazia di Dio? L’e­vangelo ci ricorda in svariati modi che i nostri progressi su que­sta strada avvengono assai di rado in linea retta. La notte precedente la passione, quando Gesù aveva accennato con discre­zione al modo poco coerente con cui i discepoli avrebbero cer­cato di camminare sui suoi passi, Pietro, come suo solito, aveva protestato energicamente: « Anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai! ». E dopo che Gesù gli fece no­tare che proprio lui stava per rinnegarlo, Pietro non esitò a pun­tare ancora più in alto: « Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò » (Mt 26,30-35). Subito dopo cadde, nonostante la duplice esortazione di Gesù: « Vegliate e pregate, per non ca­dere in tentazione. Lo spirito è pronto ma la carne è debole » (Mt 26,41). 

Nessuno può sottrarsi a queste parole di Gesù: anche se il no­stro spirito è più o meno ardente, la nostra carne rimane incura­bilmente debole. Nessuno può sfuggire a questa disarmonia che arriva fino a una vera lotta tra le due realtà. In qualsiasi espe­rienza cristiana bisogna vivere così: combattuti tra il fervore e la debolezza, bisogna cioè vivere nella tentazione. Pietro, che diventerà il testimone principale della resurrezione di Gesù e sul quale poco dopo verrà edificata la chiesa, è anche quello che ha dovuto confrontarsi per primo con la tentazione e che, per primo, è stato trovato mancante ed è caduto. Il rinnegamento della notte della passione non è d’altronde privo di precedenti, Pietro non è al suo primo passo falso. Quando Gesù annunciò per la prima volta la passione e la resurrezione che lo attendeva­no, Pietro si preoccupò immediatamente di distrarlo da queste idee cupe: `Dio te ne scampi, Signore! Questo non ti accadrà mai!’. Ma Gesù, voltandosi, disse a Pietro: `Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini! »‘ (Mt 16,22-23). Solo quando il Padre lo assiste in modo particolare Pietro è in grado di confessare che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente: rivelazione che gli sfugge totalmente quando si lascia guidare dalla carne e dal san­gue (cf. Mt 16,17), cioè quando si basa su modi di vedere umani. 

Per precederci nella chiesa e nell’amore di Gesù, Pietro deve innanzitutto precederci nella tentazione. Questo legame è chia­ramente espresso da Gesù stesso quando annuncia il rinnega­mento di Pietro, secondo l’evangelista Luca: « Simone, Simone,ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli » (Lc 22,31-32). 

… Il vaglio è l’immagine della grande tentazione alla fine dei tempi (c£ Mt 3,12), la fede messa alla prova, la conversione che segue la tentazione. Sarà solo dopo essersi dibattuto fino all’estremo in questa tentazione e in que­sto processo di conversione che Pietro potrà, grazie alla propria esperienza, confermare e guidare i propri fratelli nella stessa pro­va. E proprio grazie all’esperienza vissuta che Pietro può sapere come la debolezza e la grazia procedono insieme e si accordano l’una all’altra in ogni discepolo di Gesù. 

Bisogna sottolineare il fatto che, per nominare un capo, Ge­sù non cerca un modello di virtù e di perfezione da poter essere contemplato e imitato, secondo le possibilità, dai cristiani di tutti i tempi. Se così fosse, Pietro non avrebbe potuto essere preso in considerazione. I tratti che ci hanno lasciato di lui gli evan­geli ce lo descrivono in modo trasparente e pittoresco: un gran brav’uomo, rude pescatore, impetuoso e avventato, non sem­pre capace di dominare i propri sentimenti. E evidentissimo che ama Gesù e gli è perdutamente affezionato: più commette sba­gli e si fa rimproverare da Gesù, e più lo ama. No, Pietro non è un modello di virtù, ma è capace di trasmettere l’esperienza che lui stesso ha vissuto grazie all’amore per Gesù e ne potrà sempre rendere testimonianza. Certamente la tentazione l’ha fat­to traballare, ma al cuore di questa e nel più profondo della ca­duta è stato meravigliosamente liberato da Gesù. 

In realtà, tutto è cominciato già al momento della chiamata: il racconto di Luca lascia trasparire il dialogo avviato tra la de­bolezza di Pietro e la forza della grazia (c£ Lc 5,1-11). All’ini­zio Pietro partecipa appena all’evento, alla fine di una brutta nottata: non che non sia riuscito ad addormentarsi, ma non ha proprio dormito del tutto, ha dovuto pescare tutta notte senza alcun risultato. Pietro non doveva certo essere di buon umore mentre controllava le reti, non lontano da quel giovane rabbi intento ad annunciare qualche messaggio ai suoi ascoltatori: se Pietro ascoltava, lo faceva in modo distratto. Non sembra che Gesù avesse notato Pietro che, da parte sua, non conosceva an­cora Gesù; tuttavia è proprio quest’ultimo a fare il primo passo: sale sulla barca di Pietro e gli chiede di allontanarsi da riva. La folla lo incalzava ed egli voleva parlarle dalla barca, a una certa distanza. Pietro fu indubbiamente colpito dal fatto che Gesù si rivolgesse a lui: ecco che Gesù gli parla da uomo a uomo, gli chiede un servizio. Pietro non resta insensibile: acconsente alla richiesta e si trova obbligato a prestare attenzione alle parole di Gesù. A questo punto arriva il secondo passo di Gesù: termi­nato il discorso, invita Pietro a pescare: « Prendi il largo e calate le reti per la pesca ». Tra Gesù e Pietro è nata una certa simpa­tia, Pietro può difficilmente rifiutare, anche se sa che in quella zona non ci sono pesci. Accenna a una protesta ricordando lo scacco della notte, ma finisce per arrendersi alla proposta di Gesù. Intuisce forse che Gesù può rimediare a quell’insuccesso? In ogni caso, Pietro si rivolge ora a Gesù in modo familiare, quasi inti­mo: anche in mancanza di pesci « sulla tua parola getterò le re­ti ».  

Questo abbozzo di fiducia permette a Gesù di porre un nuovo gesto: il miracolo della pesca. Pietro prende molti più pesci di quanto avrebbe mai potuto sperare, addirittura più di quanti ne potessero contenere le reti. Ha bisogno di aiuto e tutte e due le barche si riempiono fino quasi ad affondare. Pietro potrebbe adesso ringraziare Gesù per il prodigio insperato ma, nel frat­tempo, qualcosa è avvenuto in lui: la pesca miracolosa non gli ha soltanto fatto dimenticare la brutta notte. Molto più in pro­fondità dello scacco umano, la pesca ha messo a nudo in lui uno scacco ben più grave e fondamentale. Attraverso il miracolo Gesù ha improvvisamente colpito il peccato di Pietro: « Al vedere que­sto, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo: `Si­gnore, allontanati da me che sono un peccatore! »‘. 

Pietro non dice: rabbi, maestro, bensì Kyrios, Signore: è il nome riservato a Dio. In Gesù, Pietro ha riconosciuto Dio; nello stes­so istante prende coscienza di essere solo un peccatore. E qual­cosa di estremamente normale: appena Gesù si rivela, il nostro peccato è messo in luce; e viceversa: ci è impossibile vedere ve­ramente il nostro peccato finché non siamo nella luce di Gesù. 

Pietro viene così messo a confronto con lo scacco che rappre­senta per se stesso e che osa svelare a Gesù. Porta in sé lo scac­co più nascosto, più desolante e all’improvviso ne prende co­scienza: non è nient’altro che un poveraccio, addirittura un pec­catore. E come peccatore, è convinto di non aver nulla a che fare con Gesù, né Gesù ha nulla a che fare con lui: « Allontanati da me che sono un peccatore! ». 

Enorme sorpresa! E esattamente il contrario che è vero: la confessione stessa di Pietro permette a Gesù di compiere un ul­timo passo per mettere alle strette Pietro, a meno che non sia stato Gesù a provocare la confessione di Pietro. In ogni caso, il riconoscimento e la confessione del peccato obbliga entrambi a riconoscersi vinti. Non appena Pietro confessa il suo peccato, Gesù può agire e perdonare; non appena la ferita è scoperta, Gesù può esercitare la sua potenza guaritrice e, per così dire, ricostruire Pietro, ricrearlo: « D’ora in poi sarai pescatore di uomini ». Non è per nulla sorprendente che, nel momento stesso in cui Gesù chiama Pietro, si imbatta nel suo peccato. Gesù non va in cerca di nessuna qualità eccezionale nei suoi primi discepoli: quello che cerca è la loro debolezza, i loro scacchi inconsci, le loro col­pe insospettate, tutte quelle zone malate di ogni uomo che han­no bisogno del suo amore, che possono essere colte e assunte solo dall’amore, sulle quali il suo amore può intervenire con la sua onnipotenza. Gesù è venuto fino a noi proprio per prendere su di sé la nostra debolezza e per trasformarla in forza. E morto una volta per tutte al peccato e il Padre l’ha risuscitato dai mor­ti per una vita nuova. 

La forza di Dio nella debolezza 

Una delle più antiche professioni di fede della chiesa, e una delle più convincenti, citata da Paolo nella sua seconda lettera ai Corinti, esprime chiaramente questa tensione salutare tra la tentazione e la vittoria, tra la debolezza e la forza, fino ad applicarla alla pasqua di Gesù: « Egli fu crocifisso per la sua debo­lezza, ma vive per la potenza di Dio » (2Cor 13,4). Gesù fu cro­cifisso ed è morto a causa della debolezza dell’uomo, debolezza che ha preso su di sé fino all’estremo; ma a partire da questa debolezza è risuscitato e ora vive per la potenza di Dio. Proprio in questa debolezza, che è la nostra, Gesù ha incontrato la po­tenza di Dio, ed è a partire da questa debolezza che Dio lo ha risuscitato a nuova vita. Anche per Gesù la debolezza dell’uo­mo è stata il cammino che gli ha permesso di incontrare la po­tenza del Padre. 

Ecco perché il discepolo che vuole servire Gesù nel suo cam­mino deve necessariamente accettare a sua volta la propria de­bolezza e quindi la tentazione. Dopo che Gesù ha sofferto la nostra debolezza e ne è morto per risorgere, la potenza di Dio è nascosta al cuore di ogni debolezza umana, come un seme che si prepara a germínare grazie alla fede e all’abbandono. Fino a quando ci opponiamo in mille modi alla nostra debolezza, la po­tenza di Dio non può agire in noi. Naturalmente possiamo fare qualche sforzo per correggere un po’ la nostra debolezza, ma in realtà non serve a nulla: la meraviglia della potenza di Dio e la meraviglia della nostra conversione restano al di fuori della no­stra portata. 

Cerchiamo di risolvere i nostri problemi con un misto di buona volontà e di generosità, facciamo del nostro meglio per condurre una vita virtuosa e giusta, ci appoggiamo su buoni pro­positi e sulle nostre energie naturali, tentiamo di farcela a parti­re dalla nostra lealtà e generosità… Tutto questo dura per un po’, finché non rischiamo la disfatta e arriviamo al bordo del precipizio. Grazie a Dio! Altrimenti non avremmo mai potuto convertirci e saremmo rimasti al servizio delle nostre illusioni e dei nostri idoli, ignorando l’autentica fede, per quanto possa essere piccola… come un granello di senape. Sarà addirittura ne­cessario che noi un giorno sprofondiamo, per fare l’esperienza concreta della nostra debolezza, quella debolezza in cui potrà finalmente dispiegarsi la potenza di Dio. Come è capitato a Pietro, che non poteva riconoscere Gesù finché annoverava se stesso tra i giusti, ma che si colloca tra i peccatori non appena Gesù si rivela veramente a lui. Come ha detto a chiare lettere, Gesù non viene per i giusti ma solo per i peccatori (cf. Mt 9,13). 

E qui in gioco un dato essenziale di ogni esperienza cristiana, che è indubbiamente l’unica condizione per essere toccati dalla grazia e per potervi acconsentire. Paolo esprime questo dato più o meno negli stessi termini: costretto dagli avversari a elencare tutti i propri meriti, nella speranza di far accettare la sua testi­monianza, comincia con il vantarsi di tutto quello che ha rice­vuto e che lo pone in buona luce agli occhi di quanti dubitano della sua missione. Ma alla fine preferisce vantarsi delle proprie debolezze: « Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un in­viato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non va­da in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: `Ti ba­sta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie de­bolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi com­piaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono de­bole è allora che sono forte » (2Cor 12,7-10). In cosa consista concretamente questo « inviato di Satana » incaricato di schiaf­feggiare Paolo non interessa il nostro discorso. Tuttavia, dal con­testo, sembra trattarsi di una forma di tentazione nella quale Paolo era messo di fronte in modo bruciante alla propria debo­lezza, al punto che cercava rifugio nella preghiera e supplicava il Signore di liberarlo. 

 Forse Paolo aveva paura di fronte alla propria debolezza? Era forse un’idea per lui intollerabile? In ogni caso, Gesù non cede: la tentazione non viene risparmiata a Pao­lo, perché è molto più vantaggioso per lui restare nella tentazio­ne in modo da imparare come la potenza di Dio è capace di agi­re al cuore della debolezza. Né la forza di Paolo, né la sua vitto­ria personale hanno qui importanza, ma unicamente la sua perseveranza nella tentazione e, al contempo, nella grazia. La grazia non viene a innestarsi sulla nostra forza o sulla nostra virtù, ma unicamente sulla nostra debolezza. Allora basta ampiamen­te, e noi siamo forti solo quando la nostra debolezza ci diventa evidente: è il luogo benedetto in cui la grazia di Gesù può sor­prenderci e invaderci. 

Riconciliarsi con la propria debolezza 

Quanto abbiamo appena detto non è immediatamente evidente nell’esperienza quotidiana della vita spirituale. La maggior par­te di noi è inquieta, se non addirittura smarrita, quando ci ap­pare, in modo più o meno brutale, la nostra debolezza. Alcuni arrivano perfino a fuggire: bisogna aver già una certa esperien­za dell’amore di Dio per osare permanere nella debolezza e ri­conciliarsi con il proprio peccato. Alcuni non riusciranno mai a riconoscere la minima traccia di debolezza in se stessi, il che è molto grave. La vita di costoro può sembrare molto generosa, perché fanno degli autentici sforzi, ma nel contempo sarà sem­pre un po’ rigida e forzata: una vita in cui l’amore autentico non può sgorgare; sono persone alla soglia dell’indurimento, prossi­me all’accecamento spirituale. 

Grazie a Dio, molto più spesso non è così: è più frequente che noi conosciamo bene la nostra debolezza ma senza sapere come gestirla. Essa ferisce inconsciamente l’immagine ideale di noi stessi che portiamo sempre con noi. Spontaneamente pen­siamo che la santità va ricercata nella direzione opposta al pec­cato e contiamo su Dio perché il suo amore ci liberi dalla debo­lezza e dal male e ci permetta così di raggiungere la santità. Ma non è così che Dio agisce con noi: la santità non si trova all’op­posto bensì al cuore stesso della tentazione, non ci aspetta al di là della nostra debolezza ma al suo interno. Sfuggire alla de­bolezza significherebbe sfuggire alla potenza di Dio che è all’o­pera solo in essa. Dobbiamo dunque imparare a dimorare nella nostra debolezza, ma armati di una fede profonda, accettare di essere esposti alla nostra debolezza e nello stesso tempo abban­donati alla misericordia di Dio. Solo nella nostra debolezza sia­mo vulnerabili all’amore di Dio e alla sua potenza. Dimorare nella tentazione e nella debolezza: ecco 1′unica via per entrare in con­tatto con la grazia e per diventare un miracolo della misericor­dia di Dio. 

E quanto è capitato a Pietro: aveva appena rinnegato il suo Maestro per la terza volta, che « il Signore, voltatosi, guardò Pie­tro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva det­to: `Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte’. E uscito, pianse amaramente » (Lc 22,61-62). Che cosa ha signifi­cato quello sguardo per Pietro, possiamo solo immaginarcelo. Non fu certo una condanna: « Non sono venuto per condannare », di­ce Gesù stesso (Gv 12,47). Non fu neanche un rimprovero, ma solo un amore dolce e ardente: « Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. (…) Come un padre è tenero con i suoi figli, così è tenero il Signore » (Sal 103,8.13). E que­sto proprio nel momento in cui Pietro è venuto meno nei con­fronti di Gesù e si scopre in flagrante delitto di tradimento. In quella precisa situazione lo sguardo d’amore di Gesù lo tocca e lo ferisce e, nello stesso istante, gli offre il suo perdono d’a­more. 

 E non si limita ad accordargli il perdono, ma chiama Pie­tro a una nuova vita: da quel momento, infatti, Pietro è diven­tato un altro uomo, il suo intimo vacilla, il suo cuore si scioglie, ora sa cos’è l’amore. « Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi » (Rm 5,8). Pietro scoppia in lacrime, lacrime che testimo­niano la ferita prodotta dallo sguardo di Gesù, lacrime amare, annota Luca. Questa è senz’altro l’impressione suscitata in co­loro che hanno sorpreso Pietro in singhiozzi, ma noi possiamo anche pensare che, nel fondo del suo cuore, sono state lacrime di gioia e di riconoscenza. Gesù infatti, con quello sguardo d’a­more, non ha abbandonato Pietro alla sua sofferenza e alla sua disperazione, ma gli ha fatto dono, di persona e all’istante, di un nuovo segno del suo amore. 

Non sarà l’ultima volta che lo sguardo di Gesù verrà a distur­bare Pietro in modo così salutare, sconvolgendolo in profondi­tà. L’occasione più commovente sarà nel giorno stesso di Pasqua, ma gli evangelisti non ci hanno lasciato alcun particolare sull’in­contro tra Pietro e Gesù risorto. Solo una breve testimonianza, che costituisce forse il kérygma, il più antico annuncio della re­surrezione: « Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Si­mone » (Le 24,34). Anche Paolo, quando elenca le apparizioni del risorto, vi include con risalto l’apparizione a Pietro, citata per prima: « Fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, ed è apparso a Cefa e quindi ai dodici » (1Cor 15,4-5). Secondo altre testimonianze, sembra che Gesù sia apparso dap­prima a Maria Maddalena (c£ Mc 16.9) e successivamente a due discepoli « mentre erano in cammino verso la campagna » (Mc 16,12). Ma proprio questi due, che noi conosciamo meglio – grazie al racconto di Luca – come i discepoli di Emmaus (cf. Le 24,13-35), tornano la sera stessa di Pasqua a Gerusalemme per ascoltarvi la buona novella dalla bocca degli apostoli: Gesù è ap­parso a Pietro. 

Ecco per Pietro un altro profondo sconvolgimento. Forse si trovava ancora sotto il peso della sua viltà e del rinnegamento di due giorni prima: Gesù era morto e sepolto, non solo per lui, ma anche per gli altri apostoli, e Pietro si sentiva responsabile di quella morte. Ben lungi dal seguire Gesù fino alla morte, co­me aveva promesso non senza temerarietà, l’aveva molto sem­plicemente abbandonato e proprio nel momento più critico. Al­l’alba del mattino di Pasqua c’era stato il problema della tomba vuota, e Pietro vi era corso assieme a Giovanni, per vedere e fare la stessa costatazione. Era vero: il Signore era scomparso e nessuno era in grado di dire chi l’avesse preso o dove l’avesse trasportato. Per Pietro tutto questo era ancor più sconcertante. Finché, all’improvviso… quella stessa voce calda, quello stesso sguardo traboccante d’amore: Pietro perdonato all’istante e per sempre e, nel contempo, guarito dalla sua debolezza più profonda e ristabilito al suo posto proprio a causa di quella debolezza. Le lacrime sgorgarono di nuovo, ma questa volta indubbiamente lacrime di gioia e di riconoscenza. Gesù amava quindi Pietro così intensamente da venire a cercarlo fin nel rinnegamento e nel tra­dimento per poterlo incontrare in profondità. In quel radioso mattino di Pasqua, Pietro fu il primo dei peccatori perdonati. 

Giovanni ha riservato 1′epílogo di questa avventura per la fi­ne del suo evangelo. Si tratta di quella scena così intima e commovente in cui Gesù, per tre volte, chiede a Pietro se lo ama più degli altri (Gv 21,15-17). E per tre volte anche Pietro può dichiarargli il proprio amore, così come per tre volte l’aveva rin­negato: « Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene! ». Con ogni probabilità, esattamente come quell’altra peccatrice dell’e­vangelo – Maria Maddalena – Pietro ora ama Gesù molto più di prima: anche a lui infatti è stato molto perdonato (Lc 7,47). Gesù ne trae immediatamente le conseguenze: « Pasci le mie pecorel­le ». Chi ha potuto esperimentare un simile sgorgare di amore e di misericordia sarà anche il primo e il migliore testimone del­l’amore. « E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli » 

(Lc 22,32). 

 

Publié dans:Approfondimenti |on 4 avril, 2007 |Pas de commentaires »

Con due Papi nel lager La pace riparte da qui

Da “Avvenire” on line 

TESTIMONIANZA
Un ex detenuto polacco torna con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI ad Auschwitz: dove la storia si è spaccata e deve ricominciare 

Con due Papi nel lager La pace riparte da qui 

«Quanto più profondamente il tedesco Ratzinger si identifica con questo luogo, tanto più egli diventa il nostro Santo Padre. La sua presenza qui influenzerà in futuro i rapporti con gli ebrei» 

Di Wladyslaw Bartoszewski  

Per me, ex detenuto polacco di Auschwitz, è stata un’esperienza inimmaginabile e profondamente toccante poter partecipare per la seconda volta all’incontro con la suprema autorità della Chiesa cattolica ad Auschwitz-Birkenau. La prima volta in cui mi è stata data tale possibilità fu nel giugno 1979, in occasione della visita del Papa polacco Giovanni Paolo II.
Inimmaginabile per il fatto che, prima, già una volta mi sono trovato sul piazzale dell’appello di Auschwitz I, nel settembre 1940, quando avevo solo 18 anni, prigioniero numero 4427, detenuto per motivi di sicurezza, insieme con 5500 altri polacchi: studenti, boy scout, insegnanti, avvocati, medici, sacerdoti, ufficiali dell’esercito polacco, membri di diversi partiti politici e di sindacati. Non riuscivo a immaginarmi che sarei sopravvissuto a Hitler e alla II guerra mondiale; e neppure che Auschwitz dovesse servire alla attuazione dell’impensabile disegno di eliminare biologicamente gli ebrei.
Nei primi 15 mesi di esistenza di questo luogo terribile eravamo – noi detenuti polacchi – abbandonati a noi stessi. Il mondo libero non si interessava alla nostra sofferenza e alla nostra morte, nonostante ripetuti tentativi della organizzazione segreta della resistenza, attiva all’interno del campo, di garantire informazioni all’esterno. Nella tarda estate del 1941 arrivarono ad Auschwitz alcune decine di migliaia di prigionieri di guerra facenti parte dell’esercito sovietico, e su di essi – come pure su detenuti politici polacchi ammalati – venne sperimentato, nel settembre 1941, l
‘effetto del gas tossico Zyklon B. Nessuno dei detenuti poteva allora immaginarsi che si trattava «semplicemente» di un tentativo d’assassino per predisporre un genocidio di massa con metodi industriali. E però questa era la realtà negli anni 1942, 1943 e 1944. La costruzione di camere a gas e di forni crematori, la loro terrificante capacità operativa è soltanto il lato tecnico di un’impresa diabolica.

Qu esto crimine non venne mai punito, poiché non c’è alcuna pena adeguata per un genocidio. Auschwitz-Birkenau, un tempo un luogo segreto per l’annientamento di esseri umani, è tuttavia diventata, per l’intero mondo civilizzato, un simbolo di speciale importanza. Questo ha espresso Benedetto XVI già nella prima parte del suo discorso: «Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l’uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile – ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio: « Perché, Signore, hai taciuto?. Perché hai potuto tollerare tutto questo? » È in questo atteggiamento di silenzio che ci inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte; questo silenzio, tuttavia, diventa poi domanda ad alta voce di perdono e di riconciliazione, un grido al Dio vivente di non permettere mai più una simile cosa».
Ad Auschwitz ero vicino al cardinale Lustiger e al cardinale Dziwisz nel cortile del Blocco XI, quando il Santo Padre, davanti al muro della morte, stava immerso in silenziosa preghiera, e anche noi ci siamo dati la mano, in silenzio. Abbiamo ricordato che anche Karol Wojtyla – da vescovo, da cardinale e infine da Papa – aveva visitato questo blocco e la cella dove san Massimiliano Kolbe era stato tormentato a morte. E ho pensato: quanto più profondamente Ratzinger si identifica con questa tradizione, tanto più egli diventa il nostro Santo Padre.
Il breve incontro di Benedetto XVI con 32 ex detenuti del campo di Auschwitz-Birkenau non è stato convenzionale; il Papa ha potuto scambiare qualche parola con ognuno. Egli irraggiava calore e umanità semplice, che comunicò a tutti i presenti. Gli ultimi ex detenuti ancora viventi, che il 28 maggio 2006 in
occasione della visita di Benedetto XVI erano là presenti, hanno il diritto di credere che la loro sofferenza e la morte di quanti furono loro vicini hanno avuto un senso importante: per un futuro migliore di tutti gli uomini e le donne che vivono in Europa e perfino nel mondo, di qualunque origine etnica o religione essi siano. Possano credere che il ricordo del destino, solo con difficoltà immaginabile, dei detenuti e delle vittime di questo luogo impegnerà le generazioni future a una vita nel rispetto della dignità dell’altro e all’attiva resistenza contro fenomeni di odio e di disprezzo nei confronti di uomini e donne, in particolare contro le diverse forme di ostilità verso gli stranieri e dell’antisemitismo – anche sotto l’ipocrita nome di copertura di antisionismo.
Noi dobbiamo porre a noi stessi e al mondo la domanda: in quale misura siamo riusciti a trasmettere alle giovani generazioni la verità sulle terribili esperienze del totalitarismo? A mio parere si è fatto molto, ma non basta. Benedetto XVI è venuto qui in qualità di autorità suprema della Chiesa, ma non ha taciuto la sua appartenenza etnica e culturale al popolo tedesco. In questo contesto è legittimo chiedersi se e come la sua presenza ad Auschwitz influenzerà in futuro le relazioni tra polacchi e tedeschi, tra tedeschi ed ebrei, ma anche tra polacchi ed ebrei.
L’arcivescovo Henryk Muszynski, il metropolita di Gnesen, già presidente del comitato vescovile per il dialogo con l’ebraismo e da settembre 2002 membro della Congregazione romana per la scienza e la fede, ha espresso a questo riguardo – rispondendo alla domanda di una giornalista – una prospettiva degna di attenzione: «È una cesura che conclude una delle tappe della storia del dopoguerra – la tappa del confronto diretto – e indica con chiarezza la via in direzione della riconciliazione. Dal momento in cui il Papa tedesco è entrato nel recinto del campo, dal momento che ha qui pregato e chiesto a Dio la riconciliazione, è aperta una nuova via verso il futuro. La visita del Papa ad Auschwitz è stata una cesura sulla strada per la riconciliazione tra polacchi, tedeschi e ebrei. Perciò da oggi in poi nessuno può più mettere in discussione il carattere tridimensionale di questa riconciliazione».
Joseph Ratzinger, pellegrino ad Auschwitz-Birkenau, ha ripercorso senza dubbio le orme del suo predecessore, che egli chiama sempre «il Grande». I suoi passi, i suoi gesti e le sue manifestazioni non dovrebbero essere valutati separati dall’opera e dalla vita di Giovanni Paolo II. La scelta di Auschwitz come luogo di devozione e stazione di pellegrinaggio del primo viaggio all’estero – a prescindere dalla Giornata mondiale della gioventù – di Benedetto XVI non è stata di certo casuale. Né si dovrebbe trascurare la sua stessa sintesi del significato di ciò che egli ha vissuto in Polonia. Il 31 maggio 2006, durante l’udienza generale in Vaticano, egli ne parlò in modo chiaro e univoco: «Proprio in quel luogo tristemente noto in tutto il mondo ho voluto sostare prima di far ritorno a Roma. Nel campo di Auschwitz-Birkenau, come in altri simili campi, Hitler fece sterminare oltre sei milioni di ebrei. Ad Auschwitz-Birkenau morirono anche circa 150.000 polacchi e decine di migliaia di uomini e donne di altre nazionalità. Di fronte all’orrore di Auschwitz non c’è altra risposta che la Croce di Cristo: l’Amore sceso fino in fondo all’abisso del male, per salvare l’uomo alla radice, dove la sua libertà può ribellarsi a Dio. Non dimentichi l’odierna umanità Auschwitz e le altre « fabbriche di morte » nelle quali il regime nazista ha tentato di eliminare Dio per prendere il suo posto! Non ceda alla tentazione dell’odio razziale, che è all’origine delle peggiori forme di antisemitismo! Tornino gli uomini a riconoscere che Dio è Padre di tutti e tutti ci chiama in Cristo a costruire insieme un mondo di giustizia, di verità e di pace!». 

 

Publié dans:Approfondimenti |on 4 avril, 2007 |Pas de commentaires »
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