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L’interesse dei grandi media per il viaggio del Pontefice in Brasile e la Conferenza di Aparecida

dal sito: 

http://www.zenit.org/italian/  data pubblicazione: 2007-05-09 

L’interesse dei grandi media per il viaggio del Pontefice in Brasile e
la Conferenza di Aparecida 
Intervista a José Maria Mayrink, giornalista de “O Estado de S. Paulo” 

INDAIATUBA, mercoledì, 9 maggio 2007 (ZENIT.org).- Alla vigilia dell’arrivo di Benedetto XVI in Brasile, ZENIT ha conversato con José Maria Mayrink, una nota firma del giornalismo brasiliano, per discutere sull’interesse suscitato da questa visita nei grandi media. Vincitore del Premio Esso di Giornalismo – il più importante della categoria – José Maria Mayrink, del gruppo “O Estado de S. Paulo”, copre
la CNBB (Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile) da 40 anni. In questa intervista, parla della visita del Papa nel Paese e della Conferenza di Aparecida dal punto di vista dei media.

Qual è la sua percezione dell’interesse dei grandi media per il viaggio del Papa in Brasile?

José Maria Mayrink: Il grande interesse è in relazione al Papa, ma il fulcro del viaggio di Benedetto XVI non è il passaggio per San Paolo, ma
la V Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano e del Caribe, ad Aparecida. Finora, tuttavia,
la Conferenza è in secondo piano, perché quando se ne parla è nel contesto della presenza del Papa ad Aparecida. Tutto, quindi, ruota intorno al Papa, il che è comprensibile, perché è lui il grande personaggio di tutto questo, nonostante la grande importanza che avrà
la V Conferenza.

Pensa che i grandi media si stiano rapportando bene a Papa Benedetto XVI? O il Pontefice è una novità più grande di quanto immaginassero?

José Maria Mayrink: Il Papa è una novità, ma il modo con cui ci si rapporta a lui riguarda più che altro la curiosità. La gran parte della stampa, dei media, sta provando a capire e sta ancora cercando un profilo del Papa. Da ciò deriva questa curiosità a ogni livello: nel sapere come verrà, chi incontrerà, ciò che dirà, come si vestirà, quale sarà il suo stile e inevitabilmente c’è un paragone con Giovanni Paolo II.

La grande stampa sottolinea temi precisi, come alcuni aspetti della morale cattolica, e il Papa, invece, a quanto sembra, verrà con un messaggio più ampio e con un grande carico di spiritualità. Pensa che la grande stampa faccia attenzione a questo?

José Maria Mayrink: Forse la grande stampa sta aspettando che il Papa parli di questioni di morale cattolica e, ad esempio, affronti temi che sono all’ordine del giorno, come l’aborto, l’eutanasia, l’unione civile di omosessuali, la teologia della liberazione. Ma è possibile, secondo quanto mi ha detto il Cardinale Geraldo Majella, che parli in difesa della vita, il che comprende la questione dell’aborto, la sessualità, l’eutanasia, senza entrare specificamente in ciascuno di questi punti. Anche se menzionasse uno, o più di uno di questi punti, ciò avverrebbe in senso complessivo, nel contesto della difesa della vita. E’ anche possibile che dia un orientamento sulla teologia della liberazione, ma lasci ai Vescovi ad Aparecida il compito di approfondire la questione, le cui conclusioni approverà in seguito.

La stampa deve essere cauta per comprendere il messaggio di Benedetto XVI nel suo insieme, per non correre il rischio di frammentazioni e interpretazioni decontestualizzate. Non è così?

José Maria Mayrink: Il rischio di frammentazione esiste. Nel caso di Benedetto XVI, si tratta di un grande teologo, che sostiene posizioni già avanzate a livello teologico dal Concilio Vaticano II, del quale è stato esperto, come sacerdote e professore di teologia. C’è quindi questa contrapposizione del teologo competente e rispettato con l’ex Prefetto della Congregazione per
la Dottrina della Fede. Si ricorda sempre questa sua funzione di Prefetto della Congregazione che in precedenza era chiamata Sant’Uffizio. Per questo, sembra che Ratzinger si identifichi sempre con il grande inquisitore, il che non è vero. Anche persone che si sono confrontate con lui come Prefetto distinguono le cose. Ci si aspettava, il che di fatto si sta confermando, che egli, come Papa, avrebbe avuto un atteggiamento più pastorale che come Prefetto, dove, per la sua funzione, aveva il compito di vigilare sulla difesa della fede e della dottrina. Penso che questa immagine possa cambiare un po’, il che dipenderà dai discorsi che pronuncerà qui in Brasile. Ci sarà un discorso un po’ più intellettuale, che il grande popolo non comprenderà, all’apertura della V Conferenza.

Il popolo analizzerà il Papa molto a livello visivo, paragonandolo a Giovanni Paolo II, ma sono geni differenti, modi diversi di presentarsi. Benedetto XVI non ha la stessa età che aveva Giovanni Paolo II quando venne per la prima volta in Brasile. Giovanni Paolo II aveva 60 anni, era gioviale, parlava e improvvisava frasi in Portoghese e non aveva ancora subito l’attentato e le operazioni relative. Per temperamento, Papa Benedetto XVI è più contenuto, ma può attirare le persone anche per questa immagine.

Tre eventi saranno definitivi da questo punto di vista, a mio parere. In primo luogo l’incontro con i giovani, nello Stato di Pacaembu, che probabilmente avrà grandi ripercussioni; in secondo luogo,
la Messa nel Campo di Marte, in cui canonizzerà Frei Galvão.
La Messa potrà portare un milione di persone nel Campo di Marte, secondo quanto si prevede. A questo si aggiunge il fatto che canonizzerà Frei Galvão, un santo della città di San Paolo, dove si trova sepolto. Anche se è vissuto tra il XVIII e il XIX secolo, è vicino alle persone per la sua storia e per come questa viene resa nota. C’è anche il fatto che si tratta del primo santo nato in Brasile.

In quali aspetti i media devono stare attenti per fare una buona copertura del viaggio del Papa in Brasile e anche della V Conferenza?

José Maria Mayrink: La preoccupazione di realizzare una buona copertura esiste nella redazione. Nel giornale “O Estado de S. Paulo”, in cui io lavoro, si riunisce per questa copertura un’équipe di più di 20 giornalisti. Sono 60 gli accreditati, contando anche fotografi, autisti, ecc.. Abbiamo avuto una riunione con un teologo, per mostrare non solo l’importanza che ha Aparecida e la rilevanza della visita del Papa, ma anche questioni pratiche relative alla terminologia da usare. Spiegare che
la Conferenza di Aparecida non è del CELAM, ma dell’episcopato dell’America Latina e del Caribe. Spiegare che si dice canonizzazione e non santificazione. In questi giorni sono attesi circa 3.000 giornalisti accreditati. La gran parte di loro coprirà la visita del Papa. Una piccola percentuale rimarrà per
la Conferenza di Aparecida, ma questa Conferenza, si vedrà in seguito, entrerà nella storia come quelle di Medellín, Puebla e Santo Domingo.

Benedetto XVI in Brasile. Ma intanto i « latinos » invadono il Nord

dal sito: la Chiesa de l’ »Espresso »: 

Benedetto XVI in Brasile. Ma intanto i « latinos » invadono il Nord


La quinta nazione al mondo con popolazione latinoamericana sono ormai gli Stati Uniti. Un’inchiesta del Pew Forum su un’emigrazione che cambia il volto del cattolicesimo, nel paese guida dell’Occidentedi Sandro Magister

ROMA, 9 maggio 2007 – Il viaggio di Benedetto XVI in Brasile è il primo che egli compie, da papa, al di fuori di quel mondo che appare essere più suo: l’Europa e l’Occidente. Ma i confini tra l’America latina e il Nord del mondo non sono più così netti. Con 37 milioni di immigrati ispanici, gli Stati Uniti sono ormai la quinta nazione al mondo – e presto saranno la quarta – per quantità di popolazione latinoamericana, dopo Brasile, Messico, Colombia e Argentina e davanti a tutti gli altri paesi del Centro e Sudamerica. Un cattolico su tre degli Stati Uniti proviene dall’America latina, parla spagnolo o portoghese e frequenta preferibilmente le chiese dove trova fedeli anch’essi venuti dal Sud. Inoltre, quasi la metà degli immigrati ispanici negli Stati Uniti si identificano come carismatici, esattamente come avviene nei paesi di provenienza. E questo modifica sensibilmente il paesaggio religioso degli Stati Uniti, anche per quanto riguarda
la Chiesa cattolica. I latinoamericani non solo rivoluzionano i numeri, ma cambiano la forma in cui il cattolicesimo è vissuto nel paese guida dell’Occidente.

Un’inchiesta del Pew Forum on Religion & Public Life, pubblicata negli Stati Uniti proprio alla vigilia del viaggio di Benedetto XVI in Brasile, ha studiato per la prima volta a fondo questa imponente trasformazione, che avrà forti riflessi sul futuro del cattolicesimo mondiale.

Il testo integrale della ricerca è nel sito web del Pew Forum:

> Changing Faiths: Latinos and the Transformation of American Religion Eccone i risultati essenziali, punto per punto: RELIGIONE E DEMOGRAFIA Più di due terzi dei « latinos » negli Stati Uniti, il 68 per cento, sono cattolici. E di questi il 28 per cento si qualificano come carismatici, proporzione che sale al 70 per cento tra gli immigrati di confessione protestante.

I cattolici sono in proporzione più alta tra gli immigrati dal Messico. I protestanti sono più numerosi tra quelli che vengono da Puerto Rico. I senza religione, una piccola porzione del tutto, sono in quantità maggiore tra chi proviene da Cuba.

Il Pew Forum prevede che da qui al 2030 i latinoamericani saliranno dal 33 al 41 per cento dei cattolici degli Stati Uniti.

PRATICHE E CREDENZE RELIGIOSE

Rispetto agli altri cattolici degli Stati Uniti gli ispanici sono più devoti alla Madonna, pregano di più i santi, ritengono
la Bibbia parola direttamente ispirata da Dio, vanno più spesso in chiesa, danno alla religione un posto più importante nella vita.

Inoltre, una buona metà dei cattolici « latinos » crede che Gesù tornerà sulla terra presto, durante la loro vita. E tre su quattro sono convinti che Dio assicura ricchezza e salute a coloro che hanno fede.

CATTOLICI E CARISMATICI

A differenza degli altri cattolici degli Stati Uniti, di cui solo uno su dieci si definisce carismatico, tra i cattolici « latinos » si definiscono tali il 28 per cento: una proporzione che aumenta di molto se si guarda non alle classificazioni ma ai comportamenti tipici di questo cattolicesimo puritano, comunitario, ispirato, con frequenti esperienze soprannaturali, dalle guarigioni al parlare in lingue sconosciute.

Rispetto agli altri cattolici, i carismatici di provenienza latinoamericana sono anche molto più fedeli alle dottrine tradizionali della Chiesa: credono che il pane e il vino della messa siano realmente il corpo e il sangue di Gesù, si confessano, recitano il rosario.

CONVERSIONI

Tra gli emigrati dall’America latina uno su cinque ha cambiato religione, quasi tutti per il « desiderio di una più diretta e personale esperienza di Dio ». Pochissimi dicono di aver abbandonato
la Chiesa cattolica perché insoddisfatti delle sue posizioni su questioni come il celibato del clero o il divieto del divorzio, oppure per il modo « non vivo nè coinvolgente » con cui si celebra la messa (bocciatura peraltro condivisa dalla metà di essi).

Rispetto alle altre credenze, i cattolici « latinos » esprimono un giudizio favorevole per i cristiani evangelici nella misura del 42 per cento di giudizi favorevoli, per gli ebrei nella misura del 38 per cento, per i protestanti pentecostali nella misura del 36 per cento, per i mormoni nella misura del 32 per cento, per i musulmani nella misura del 26 per cento, per gli atei nella misura del 17 per cento. I non favorevoli per lo più non si pronunciano. Tra le altre confessioni, spicca il giudizio altamente favorevole (77 per cento) dei pentecostali per gli ebrei.

CHIESA ETNICA

Negli Stati Uniti, le chiese frequentate dai cattolici « latinos » sono per i due terzi degli intervistati quelle in cui si verificano tutte e tre queste condizioni: la messa è celebrata in spagnolo o in portoghese, i fedeli appartengono alla stessa etnia e i preti sono ispanici.

RELIGIONE E POLITICA

Mentre la maggioranza dei cattolici non ispanici preferisce che
la Chiesa si tenga lontana dalla politica, i « latinos » la pensano diversamente: il 57 per cento chiedono che
la Chiesa si pronunci volta a volta sulle questioni sociali e politiche. E il 44 per cento lamentano che i leader politici manifestino « troppo poco » la loro fede religiosa.

Il 52 per cento dei cattolici provenienti dall’America latina sono contro il matrimonio tra omosessuali, il 54 per cento sostengono che l’aborto debba essere illegale, il 40 per cento si oppongono alla pena di morte, con proporzioni maggiori tra chi va a messa più di frequente.

Sette « latinos » su dieci, sia cattolici che protestanti, dicono che le Chiese non dovrebbero dare indicazioni su partiti e candidati. Nel voto, i cattolici ispanici si dichiarano per il partito democratico tre volte di più che per il partito repubblicano(48 per cento contro 17 per cento), al contrario dei protestanti che sono a maggioranza repubblicani.

In ogni caso, quasi la metà dei cattolici « latinos », al pari dei protestanti, sono convinti che i mali sociali sarebbero sanati se più persone si avvicinassero a Cristo.

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Publié dans:Approfondimenti |on 9 mai, 2007 |Pas de commentaires »

«Il Gesù di Ratzinger vince l’angoscia»

dal sito on line di « Avvenire » 

INTERVISTA


«Studiando i vangeli si è allargato il campo alle tracce epigrafiche, papirologiche, numismatiche. È sempre più evidente la storicità di Cristo, che, come scrive il Papa, non può essere ridotto a leggenda». Parla la grande storica dell’Antichità 
Sordi: «Il Gesù di Ratzinger vince l’angoscia» 

«Nel mondo pagano e romano, la grande novità evangelica si innesta sull’attesa, molto viva nel periodo augusteo, di una comunione tra il mondo degli uomini e quello degli dèi»  Di Paolo Viana 

Si potrebbe dire che da decenni si confronta con Gesù, ma solo per caso. Nel senso che l’interesse scientifico di Marta Sordi, una delle massime studiose di storia romana, si concentra proprio su quell’età imperiale all’inizio della quale si svolse la vicenda storica di Cristo, ma non su di Lui. Leggere il Gesù di Nazaret di Benedetto XVI per lei significa confrontarsi con un metodo, oltre che con un’epoca, una persona e una fede. In quest’intervista analizza la via seguita da Ratzinger per descriverli.
Il libro del Papa, nel sancire l’unità tra due profili spesso alternativi nell’esegesi, cioè il Cristo della storia e quello della fede, mette sotto esame il metodo storico-critico. Quali sono i suoi limiti?
«Ratzinger non nega il metodo storico-critico ma ne individua effettivamente limiti e rischi, che nascono, come scrive il Papa, dalle distinzioni sempre più sottili di tradizioni stratificate e dalla trasformazioni di ipotesi in verità indiscutibili. Il metodo storico-critico applicato ai Vangeli è nato tra il XIX e il XX secolo nell’ambito di una storiografia impostata sull’ipercritica. Quest’approccio però è stato superato, almeno in parte, dalla storiografia recente. Studiando il mondo greco e romano coevo ai Vangeli, non ci si è accontentati più delle fonti letterarie, ricorrendo anche a quelle numismatiche, papirologiche, epigrafiche, ecc. Quanto quest’evoluzione sia stata proficua lo dimostrano vari esempi: Valerio Publicola, personaggio chiave nel passaggio tra la monarchia e la repubblica romana, è rimasto avvolto nella leggenda finché non fu trovata un’epigrafe che permise di riscriverne la storia. Ebbene, molti esegeti, anche attuali, non hanno seguito quest’evoluzione e sembrano aver perduto ogni contatto con le fonti. Essi continuano a costruire le loro interpretazioni sulle ipotesi dei loro predecessori, stratificazioni che per loro diventano dei dogmi».
Quindi lo strappo tra il Cristo della storia e quello della fede che Ratzinger « ricuce » non è il figlio del metodo storico-critico ma rappresenta la sua degenerazione.
«Esattamente. E questo vale anche per la scoperta e l’applicazione dei generi letterari alla Bibbia. Così, se è stato fondamentale, per comprendere l’Antico Testamento, riconoscere il carattere sapienziale e non storico di libri come quelli di Giobbe e di Giona, un’acquisizione che dobbiamo precisamente al metodo storico-critico, è devastante quando si pretende di applicare ai Vangeli un genere letterario differente da quello storico o storico-biografico».
Come capiamo che i Vangeli appartengono al genere storico?
«Dal prologo di Luca. Il suo Vangelo è uno dei sinottici, non un testo scollegato dagli altri, e utilizza un linguaggio e un’architettura tipici della storiografia scientifica di tipo tucidideo, con quel richiamo all’akribia, il senso critico, e all’autopsia, che esalta la testimonianza oculare dei fatti raccontati. Del resto, i Vangeli sono scritti in un’epoca critica, segnata dalla trasmissione scritta delle conoscenze, e quanto si tenesse a una testimonianza diretta degli eventi lo dimostra la scelta degli stessi Apostoli, che dopo l’Ascensione, scegliendo il dodicesimo di loro, individuano Mattia perché era stato testimone della vita di Gesù dal battesimo di Giovanni fino alla Resurrezione».
Qual è la personalità di Cristo che emerge dalla sintesi ratzingeriana?
«Il centro della personalità di Gesù – Benedetto XVI lo dice a più riprese – è il suo rapporto con Dio Padre. Devo aggiungere che la persona che emerge da quest’esegesi che « unifica » i due profili è molto più coerente e storicamente attendibile di quella che ci propongono certuni esegeti, che vedono nel Cristo il rivoluzionario fallito o il mite moralista che tutto permette, come sottolinea anche l’autore. Su questa personalità di Gesù non avrei dubbi perché il Papa ci ritorna continuamente nel libro: dalla confessione di Pietro, al racconto della Trasfigurazione, sino al famoso « Io sono » con cui afferma l’identità col Padre».
Se non prometteva né rivoluzioni, né riforme, quale fu, per i contemporanei, la novità del messaggio cristiano?
«Ratzinger risponde: Gesù ha portato Dio. Rileggiamo il suo libro: non il pane, non la pace, né il benessere, o meglio tutto questo ma nel giusto ordine, che vede Dio al primo posto… Una novità che emerge dalle pagine sulle tentazioni, sulla moltiplicazione dei pani e dei pesci, sull’istituzione dell’Eucaristia. Nel mondo pagano e soprattutto in quello romano, la grande novità del cristianesimo si spiega con l’attesa, particolarmente sentita nel periodo augusteo, di una comunione tra il mondo degli uomini e quello degli dei. Catullo rimpiangeva l’età degli eroi perché allora gli dei camminavano in mezzo agli uomini e condividevano con loro nozze e mense. Virgilio rivela nella quarta egloga la stessa esigenza. Non dimentichiamo che nozze e mense sono simboli anche nella Rivelazione biblica. Individuano la comunione con Dio».
Questo significato può valere anche per i moderni?
«Anche noi abbiamo un immenso bisogno di comunione con Dio e l’angoscia di oggi non è molto diversa dal sentimento che pervadeva i romani negli anni delle guerre civili, quando, scrive Catullo, il fas e il nefas, il diritto divino e il suo rovesciamento, si mescolano e vige il totale disordine, gli dei si allontanano e la luce sul mondo si spegne…» 

Publié dans:Approfondimenti |on 9 mai, 2007 |Pas de commentaires »

« Progetto Scienza, Teologia e Ricerca ontologica/STOQ”: ne parla il cardinale Paul Poupard

dal sito della Radio Vaticana: 

http://www.radiovaticana.org/it1/Articolo.asp?c=132429

Presentati in Vaticano i primi quattro volumi curati dai ricercatori del « Progetto Scienza, Teologia e Ricerca ontologica/STOQ”: ne parla il cardinale Paul Poupard

Un programma di ricerca post-lauream, cui aderiscono sei Università pontificie romane, incentrato sul rapporto fra scienza, filosofia e teologia: si tratta del “Progetto Scienza, Teologia e Ricerca ontologica/STOQ”, giunto alla sua terza fase e coordinato dal Pontificio Consiglio della Cultura, che stamattina ha presentato alla stampa i primi quattro volumi curati dai ricercatori del Progetto insieme con i nuovi uffici del dicastero, situati in via della Conciliazione. I volumi riguardano metodi matematici impiegati in fisica, rassegne storico-critiche delle definizioni di « vivente » e di « organismo », atti del primo workshop tenuto alla Pontificia Università Gregoriana sulle relazioni tra scienza e filosofia e diversi contributi relativi al concetto di vita e al problema degli organismi. Ma qual è il messaggio di fondo di questi primi libri? Giovanni Peduto lo ha chiesto al presidente del dicastero pontificio, il cardinale Paul Poupard:


R. – Il messaggio che viene da questi primi volumi è che è possibile e anche doveroso dare strumenti semplici e concreti di cultura scientifica a persone che non hanno avuto prima una preparazione prettamente scientifica. Il secondo dato è che questo, fatto da specialisti, dimostra che la scienza – ben lontana dall’essere nemica della fede – aiuta la fede ad inserirsi nel contesto culturale, la permette di approfittare delle sue ricerche e permette che la scienza stessa riceve dalla fede un orientamento profondo che le evita, in particolare, di ridurre l’uomo ad un oggetto invece che una persona.

D. – Il Papa chiede di ampliare gli orizzonti della ragione. Lei vede una crisi della ragione, oggi?


R. – C’è come un dubbio che la ragione, che nel razionalismo pretendeva di eliminare la fede, adesso sia essa stessa a dubitare della sua capacità di ragionare. Allora, è interessante vedere come uomini di fede aiutino gli uomini della « ragione » – se così si possono definire – e i filosofi a riprendere fiducia nella propria ragione. E’ questa la grande lezione che non cessa di darci il nostro Santo Padre Benedetto.


D. – Oggi, molti intellettuali di ispirazione laica stanno riflettendo in maniera positiva sugli interventi di Benedetto XVI…


R. – Certamente. Perché proprio loro trovano un aiuto che non si poteva pensare prima e dunque, nel rispetto totale della epistemologia: e cioè che la ragione stessa scopre la dimensione religiosa della vita e che questa dimensione religiosa fornisce un orizzonte e conforta la ricerca razionale.


D. – Più che mai, oggi è vitale un dialogo non solo tra religioni, ma anche tra fede e cultura laica. Come evitare il ricomporsi di antichi steccati?


R. – Questa è l’intuizione del Santo Padre: di coniugare il dialogo interculturale e il dialogo interreligioso, che così consente agli uomini di cultura di diverse provenienze di incontrarsi, per discutere in modo ragionevole. Ho appena ricevuto un invito dell’Università della Repubblica di Tunisia, che ha una popolazione musulmana, a partecipare a un convegno sul rapporto tra fede e ragione, alla luce di tre grandi maestri: Maimonide, Averroè e Tommaso d’Aquino. Ho appena ricevuto un interlocutore del Marocco che mi diceva che gli incontri tra cristiani e musulmani nel Marocco vertono su questi due ambiti: prima di tutto, l’incontro tra uomini di cultura che scambiano opinioni sul mondo stesso della cultura, e dall’altra parte gli scambi anche sull’esperienza religiosa di credenti. 

Publié dans:Approfondimenti |on 8 mai, 2007 |Pas de commentaires »

Il Patriarca di Antiochia dei Maroniti chiede l’intercessione di Nostra Signora del Libano per il Paese

dal sito:

http://www.zenit.org/it./  Data pubblicazione: 2007-05-07 Il Patriarca di Antiochia dei Maroniti chiede l’intercessione di Nostra Signora del Libano per il Paese 

ROMA, lunedì, 7 maggio 2007 (ZENIT.org).- Il Patriarca di Antiochia dei Maroniti, il Cardinale Nasrallah Pierre Sfeir, ha chiesto questa domenica l’intercessione di Nostra Signora del Libano per far fronte alla difficile situazione che sta attraversando il Paese. Come accade da 103 anni la prima domenica di maggio, migliaia di Libanesi di tutte le confessioni hanno celebrato ad Harissa la festa di Nostra Signora del Libano, come ha riportato la “Radio Vaticana” questo lunedì.

Durante l’omelia, ha riferito l’emittente pontificia citando l’agenzia del Pontificio Istituto Missioni Estere “AsiaNews.it”, il porporato “ha sottolineato il valore della stima che gode il Libano nel cuore del Papa e di tutti i suoi collaboratori e ha invitato i suoi concittadini a seguire la via della ragione e a superare le divisioni che rappresentano il vero pericolo che può distruggere la speranza nei cuori”.

Il Cardinale Sfeir ha anche parlato dell’elezione del Presidente della Repubblica, carica che secondo
la Costituzione libanese è riservata a un cristiano.

Il Patriarca ha ribadito la necessità di organizzare le elezioni presidenziali nel periodo previsto dalle Costituzioni, con un quorum di 2/3 dei deputati, e ha riaffermato il suo rifiuto di ogni emendamento della Costituzione.

Il Cardinale ha aggiunto di essere pronto a fare il nome di un candidato “di consenso” per l’incarico di Presidente della Repubblica “se ci garantiscono che la nostra scelta verrà presa in considerazione”. 

Alle nozze di cana Gesù mostra la sua gloria

 dal sito:

 

http://www.sanpaolo.org/madre/0705md/0705md05.htm 

 Le Feste mariane della Chiesa Copta d’Egitto 
 di GEORGE GHARIB  Alle nozze di cana Gesù mostra la sua gloria
    

La Chiesa copta d’Egitto è l’unica, sia in Oriente sia in Occidente, ad aver istituito la festa del miracolo operato da Gesù a Cana di Galilea, riportato dal Vangelo di Giovanni (2, 1-12).
   
Il libro liturgico copto detto Perle preziose così presenta il fatto: «Gesù ha operato molti segni straordinari, che
la Chiesa celebra a differenza di tutti gli altri: 1 perché è il primo dei prodigi da lui operati all’inizio della sua missione salvifica; 2 egli vi ha manifestato la sua gloria; 3 ha aperto la via alla fede invogliando molti a credere in lui; 4 e con la sua presenza alle nozze santificò queste, elevando il mistero delle nozze alla dignità di sacramento». 
Festa insieme di Cristo e di Maria La festa delle nozze di Cana nella liturgia copta fa parte delle feste minori di Cristo e porta il nome di « Memoria della trasformazione dell’acqua in vino a Cana di Galilea »; la sua celebrazione ricorre il 13 del mese copto di tubah, corrispondente all’8 gennaio del calendario giuliano (21 dello stesso mese nel calendario gregoriano). La data si situa quindi dopo la festa di Natale-Epifania, in corrispondenza dell’inizio della vita pubblica di Gesù. I libri liturgici copti non contengono molto materiale per mettere in risalto la festa. Un’attenta ricerca ci ha permesso però di trovare tre testi interessanti letti o cantati per l’occasione, che presentiamo qui di seguito: il testo del Sinassario, un’Omelia letta nel giorno della festa e una Dossologia dal libro liturgico omonimo. 


Nozze di Cana, icona ortodossa moderna. Il racconto del Sinassario Il libro liturgico del Sinassario, che contiene anche una presentazione del significato della festa, ha la seguente lezione storica, che riprende pressappoco il racconto del Vangelo di Giovanni. Eccone il testo tradotto dall’arabo: «In questo giorno
la Chiesa celebra la memoria del primo miracolo che Gesù fece in Cana di Galilea. Si tratta del primo miracolo operato da Gesù dopo il suo battesimo. Egli era stato invitato insieme alla sua santa Madre Maria alle nozze, assieme ad alcuni dei suoi discepoli. Essendo venuto a mancare il vino,
la Signora Vergine disse: « Non hanno più vino ». Gesù le rispose: « Che ho da fare con te, o Donna? Non è ancora giunta la mia ora ». Disse allora sua Madre agli inservienti: « Quello che vi dirà fatelo ». Vi erano là sei giare di pietra, e Gesù disse: « Riempite le giare d’acqua », ed essi le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: « Ora attingete e portatene al capo tavola ». Essi portarono il vino che era stato cambiato per il suo ordine divino in vino eccellente, come lo stesso maestro di tavola confermò quando disse: « Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai tenuto fino ad ora il vino buono ». Questo è l’inizio dei miracoli che Gesù fece in Cana di Galilea, manifestando la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui. A lui la gloria assieme al suo Padre buono e al Santo Spirito in eterno. Amen». 
L’Omelia del patriarca Beniamino sulle nozze 

Il secondo testo sulla festa è un’omelia destinata a essere letta il giorno della celebrazione. L’autore è Beniamino I, trentottesimo patriarca della sua Chiesa, che resse dal 623 al 662. Il suo lungo patriarcato fu reso difficile dalla frizione con
la Chiesa melchita calcedonense locale, dall’occupazione persiana dell’Egitto con il suo seguito di distruzioni e dalla successiva invasione arabo-islamica (639-640). Con quest’ultima l’Egitto si liberò, è vero, dal giogo bizantino; ma l’autentica fisionomia dei dominatori musulmani non tardò a rivelarsi nella sua dura realtà, obbligando molti cristiani a passare all’Islam. 
Beniamino ha lasciato poche opere letterarie, e non sempre è sicuro quel tanto che gli si attribuisce. Fra gli scritti certi si segnala la sua Omelia sulle nozze di Cana, consistente in un commento al testo di Giovanni; egli presenta interessanti elementi circa la ragione della presenza di Maria alle nozze, il suo intervento presso il Figlio, dapprima restio a compiere il miracolo. Secondo l’autore, Maria era parente della famiglia degli sposi ed era arrivata prima di Gesù per aiutare i preparativi delle nozze. L’autore si sofferma sui commensali, gli stessi ricordati nel testo sacro, di cui dà i nomi e fornisce le ragioni della presenza. Egli si sofferma specialmente sul ruolo che ebbe Maria nel convincere il Figlio. Il racconto è intercalato da esclamazioni di ammirazione per comunicare ai fedeli in ascolto la grandezza del miracolo. Diamo qui di seguito i brani più significativi. 
Nozze di Cana, icona copta di Isaac Fanous (1919-2007). Motivo della presenza di Maria alle nozze 

«Il terzo giorno si fecero delle nozze a Cana di Galilea e c’era
la Madre di Gesù. Alle nozze fu pure invitato Gesù con i suoi discepoli. O evento mirabile!
La Madre di Gesù era là, dice. Ma era là per quale motivo? Era là per il servizio al banchetto nuziale, che lei svolgeva con tutte le donne. Mosè, infatti, camminava davanti agli uomini, quelli cioè della casa d’Israele. Anche Miriam camminava davanti alle donne con il suo tamburino (cf Es 15, 20). Ma tu mi dirai: Perché Maria si trovava là prima di Gesù? Ti persuaderò, amico mio. Che cosa c’è dunque di strano? Coloro che si sposavano non erano forse della parentela della Vergine? Per questa ragione era stata invitata in anticipo per preparare le cose necessarie al banchetto nuziale nel lasso di tempo che precedeva la venuta degli uomini. Voi sapete anche che sono le donne a fare il servizio durante la festa di nozze». 
Motivo della presenza degli apostoli «Anche Gesù era stato invitato alle nozze, ma con i suoi discepoli. Vuoi sapere perché furono invitati anche i discepoli? Te lo spiegherò. «Pietro fu invitato perché era il primo degli apostoli, affinché, quando Gesù avrebbe concluso la sua passione sulla croce, Pietro sostituisse il vero Sposo, nostro Signore Gesù Cristo, e prendesse il calice dal quale far colare su tutti gli uomini il sangue santo del Figlio di Dio, vita di tutti. 

«Andrea fu invitato perché avrebbe fatto conoscere ai giovani il vero banchetto nuziale della Chiesa, affinché questi non si macchino col peccato, ma siano santi nel loro corpo. «Giacomo fu invitato per annunciare non solo a tutti i convitati ma al mondo intero: « Ho visto il volto del mio Salvatore brillare come il sole e i suoi vestiti diventare bianchi come la neve ». «Giovanni fu invitato perché avrebbe insegnato a tutti i convitati, o piuttosto al mondo intero, che quello era il Verbo incarnato e che era l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. «Filippo fu invitato perché era stato lui a invitare tutti alla festa nuziale nella sua famiglia; e così invitasse il mondo intero al vero festino nuziale della Chiesa. 

«Bartolomeo fu invitato perché inizialmente era stato contadino che vendeva legumi a chi glieli chiedeva; e annunciò all’intero festino nuziale, o meglio al mondo intero: « Io ho smesso di vendere legumi », donando la parola di Dio gratuitamente a chi la voleva. «Tommaso fu invitato per proclamare al mondo intero che ci sarebbe stato un banchetto nuziale per il mondo intero, cioè
la Chiesa; e questa si sarebbe riempita di gioia [...]. 
«Matteo fu invitato per fare al banchetto nuziale quest’annuncio: « Ero un pubblicano ma ora sono diventato un evangelista [...]« . «Fu invitato Giacomo, il figlio di Alfeo che nel suo cuore era avvolto dalla cintura spirituale e gridava a tutta l’assemblea del banchetto nuziale: « Ancora un poco e voi vedrete un prodigio che il mio Salvatore compirà affinché voi tutti crediate in lui ». 

«Taddeo fu invitato al banchetto nuziale per rendere testimonianza davanti al mondo intero: « Ho bevuto dell’acqua diventata vino; e non io solo, ma tutta l’assemblea del banchetto nuziale ». «Simone il Cananeo fu invitato affinché, dopo aver visto gli uomini che riempivano d’acqua gli otri e che questa, allorché fu versata per loro, era diventata vino per la potenza del Cristo, uscisse e annunciasse i miracoli che aveva visto. «Siediti anche tu, o Giuda, con colei che ti ha suggerito quel consiglio malvagio, in altre parole con tua moglie; prepara una corda per impiccarti insieme con lei; tu stai difatti per morire e perdere l’anima tua [...]. 
Nozze di Cana, icona greca moderna. 

Il vino venne a mancare «Ma ritorniamo alle parole di Giovanni il teologo: Gesù fu pure invitato, dice, insieme ai discepoli alle nozze. O cosa assai mirabile! Colui che invita tutti al suo banchetto nuziale, quello vero, è stato pure invitato dagli uomini a mangiare e a bere con loro, come un uomo. Colui che ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, è venuto anch’egli al banchetto nuziale e si è seduto a tavola con gli uomini. Chi ha creato il vino per la gioia degli uomini, ha bevuto anche lui il vino che egli aveva operato. Colui che ha fatto il pane affinché l’uomo lo mangi per rafforzare il proprio corpo, ha allungato anche lui la mano e ha mangiato con tutti i convitati. «Mentre quelli si rallegravano, mangiando e bevendo, come si conveniva, ecco che venne a mancare il vino. E non ce n’era proprio più da offrire. Era certo un motivo di vergogna per lo sposo che il vino venisse a mancare prima del termine del banchetto. Si comprende allora il senso della parola: « Non hanno più vino! ». Ad ogni modo la cosa venne a conoscenza della Vergine tramite le donne che servivano con lei, le quali le dissero: « Il vino manca e noi non ne abbiamo più da offrire. Siamo davvero imbarazzate a causa dei commensali. Non abbiamo nessuna possibilità di comprarne e rendere la nostra gioia completa. Ecco che i suoi discepoli diranno: Se non sono in grado di portare a termine questa faccenda, perché ci hanno invitati? A farla breve: non sappiamo proprio cosa dobbiamo fare »». Intervento di Maria 

«Quando
la Vergine ebbe inteso questo, rispose loro con gioia: « Non temete, il mio Figlio è qui. Egli rimuoverà da loro l’imbarazzo della miseria. Anche mio Figlio è seduto a tavola con i convitati e farà per voi un grande prodigio ». Si diresse allora verso Gesù, lei che aveva offerto il suo seno alla sua bocca divina, e gli disse: « Non hanno più vino ». Egli volle obbedire a sua Madre e le rispose: « Che c’è tra me e te, o donna? La mia ora non è ancora venuta. Ma adempirò il desiderio del tuo cuore e non ti rattristerò ». 
«Se qualcuno infatti, o amatissimi, si rivolge a una donna, la quale vede che il proprio figlio ben l’ama nel suo cuore, e chiede a questa donna di dire al figlio una parola in suo favore, fiducioso che il figlio ascolterà la madre, questa allora si rivolge al figlio per trasmettergli la preghiera degli uomini e il figlio soddisfa con sollecitudine il desiderio della madre; allo stesso modo
la Vergine ebbe fiducia che il Figlio suo avrebbe fatto quello che gli avrebbe chiesto. Ella si diresse verso di lui e lo informò della mancanza di vino. « Che c’è tra me e te, o donna? La mia ora non è ancora giunta. Lo so, o Madre mia, che il vino e venuto a mancare, ancora prima che tu mi informassi. Ma la mia ora non è ancora giunta. Lo sapevo, o Madre mia, che si tratta di gente povera, ancora prima di venire al loro banchetto nuziale. Ma sono i poveri di questo mondo quelli che io ho scelto. Tuttavia la mia ora non è ancora venuta. Però se tu lo desideri, o Madre mia, soddisferò il desiderio del tuo cuore. Farò conoscere al mondo intero la potenza della mia divinità; mostrerò la mia gloria ai miei discepoli; farò abitare le mie benedizioni in questo banchetto nuziale; farò in modo che tutti rendano gloria a me, al Padre mio e allo Spirito Santo »». 
Gesù compie il miracolo «Gesù disse allora: « Riempite le idrie d’acqua » (Gv 2, 7). Ed essi riempirono le idrie d’acqua e le riempirono fino all’orlo. L’evangelista Giovanni così si esprime: « Vi erano là sei idrie collocate per la purificazione dei Giudei, le quali potevano contenere ciascuna due o tre misure. Gesù disse: Riempite le idrie d’acqua. Ed essi le riempirono fino all’orlo. Egli aggiunse: Ora attingetene e portatene al maestro di tavola. Ed essi glielo portarono. Come il maestro di tavola ebbe gustato l’acqua cambiata in vino, non vino di qualità ordinaria, ma vino migliore di quello servito all’inizio, egli non sapeva da dove venisse quel vino, ma lo sapevano i servitori che avevano attinto acqua » (Gv 2, 7-9), che prima era acqua e che loro stessi avevano attinta con le loro mani. 

«O miracolo di Dio! O gioia della Vergine in quel momento! Certamente, ecco le parole dette da Gesù a sua Madre: « O Madre mia, ecco io ho compiuto ciò che mi hai chiesto. Ecco che ho cambiato l’acqua in vino. Essi non hanno pagato nessun prezzo per questo vino. O Madre mia, io ho manifestato la gloria della mia divinità. Questo miracolo che si è compiuto è opera mia e del Padre mio. Io e il Padre mio siamo una cosa sola. Io non faccio nulla da solo, se non me lo dice il Padre che mi ha mandato. Ecco che i miei discepoli hanno creduto in me e nel Padre mio. Infatti io ho già detto loro: Voi siete i miei fratelli, i miei discepoli, i miei evangelisti. Per questo ho fatto ciò davanti ad essi, affinché annuncino i miracoli che hanno visto e tutti rendano gloria al Padre mio e a me ». «Il maestro di tavola interrogò lo sposo e gli disse: « Ogni uomo serve il vino buono all’inizio; e dopo, quando sono ebbri, serve quello meno buono. Tu invece hai conservato il vino buono fino a questo momento ». Questo è in effetti il vino della benedizione; questo è il vino della gioia, il vino in cui si trova ogni letizia, il vino puro, nel quale non c’è nessuna frode». Dossologia per la festa delle nozze di Cana L’ultimo testo che la liturgia copta propone per la festa delle nozze di Cana si trova nel libro detto Dossologia annuale, che contiene vario materiale per la celebrazione delle diverse feste del calendario copto. Il testo, piuttosto breve, in prosa rimata, porta il nome di Dossologia per la festa delle Nozze di Cana e contiene un invito alla gioia scambiato tra il celebrante e il coro. Eccone la traduzione: «Venite a vedere il prodigio, o popoli che amate il Cristo, su questo mistero che ci è stato manifestato oggi. 

«Il nostro Signore Gesù Cristo difatti si è riunito con la sua Madre Vergine e e coi nostri padri gli apostoli, e ha manifestato loro la sua divinità. «Sei idrie di acqua, egli le ha mutate in vino eletto, per mezzo della Sua grande gloria, alle nozze di Cana di Galilea.  «Colui che siede sui Cherubini manifestò la sua divinità, fece dei prodigi e delle cose stupende, e sedette con gli uomini in quanto Dio. «Colui che è consustanziale al Padre, che esiste da prima di tutti i tempi, è presente oggi alle nozze di Cana di Galilea. «Lo lodiamo, lo glorifichiamo e lo sopraesaltiamo in quanto buono e amante dell’umanità: abbi pietà di noi secondo la tua grande pietà». 

Publié dans:Approfondimenti |on 7 mai, 2007 |Pas de commentaires »

Nazareth Riflessione

di Frédéric Manns, dal sito: 

http://198.62.75.5/www1/ofm/san/TSnzz07.html

Nazareth Riflessione

di Frédéric Manns (trad. G. Bissoli)

Due mila anni fa si diceva che non poteva uscire niente di buono da questo villaggio. Dopo che una giovane di Nazaret ha accettato di fare la volontà di Dio, diventando la madre del Messia, tutto è cambiato. Paolo VI, quando nel 1964 venne pellegrino a Nazaret, ha riassunto il messaggio di Nazaret in modo magistrale: Nazaret insegna il silenzio, insegna il lavoro e insegna la vita familiare. È difficile trovare espressioni più indovinate, per presentare Nazaret al mondo.

In questa città della Galilea la vita quotidiana si svolgeva tranquillamente, fino al giorno in cui si cercò di dividere cristiani e musulmani: per guadagnare qualche voto nelle elezioni, ai musulmani si propose di costruire una moschea accanto alla basilica. Sarà compito del papa riportare la calma in questa città, dove coabitano i figli di Abramo.

L’Islam onora Maria, la madre di Gesù. L’onore deve tradursi nei fatti, non solo nelle parole. Il dialogo con l’Islam deve aprirsi alla reciprocità per non essere svuotato. L’Islam militante deve rendersi conto che la sua volontà di potenza non può nutrirsi delle glorie del passato. La sua teologia non potrà resistere a lungo alle smentite della storia e delle sfide ancora più radicali della conoscenza scientifica. Gli intellettuali non possono rinunciare al loro ruolo, quando i politici vogliono monopolizzare le scelte.

La venuta a Nazaret del papa Giovanni Paolo II non ha una portata politica. Il Santo Padre ha scelto di visitare Nazaret il 25 marzo, festa dell’Annunciazione, per ricordare al mondo il mistero dell’incarnazione. Quando a Nazaret Maria, figlia di Israele, ha accettato di fare la volontà di Dio, il Verbo si è fatto carne. Grazie a lei, l’albero di Iesse ha dato il suo frutto.
La Parola che Maria ha accolto in se stessa la spinge a scegliere la via della carità. Maria non tarda a donare ad Elisabetta ciò che ha di più prezioso: il Figlio che porta in seno. L’esplosione di gioia di Maria è segno che la vita ha vinto.

Il Giudaismo e l’Islam considerano l’idea dell’incarnazione di Dio come un’ingiuria alla sua trascendenza. Dio è troppo grande per unirsi alla natura umana. Tuttavia E. Lévinas, nel suo intervento alla settimana degli intellettuali cattolici tenuta a Parigi nel 1968 sul tema « Chi è Gesù Cristo? » ha ripreso il tema biblico dell’umiltà di Dio. Is 57,15 parla d’un Dio che dimora in chi è contrito e umile. La trascendenza si manifesta nell’umiltà. L’immagine di Dio è la prossimità di Dio sul viso dell’altro.

Questa idea ha il suo vertice nell’incarnazione, che abolisce la distanza tra il divino e l’umano. Dio si fa uomo, perché l’uomo possa diventare Dio. L’aspetto fondamentale del Cristianesimo che afferma un Dio incarnato vicino agli uomini, è sconosciuta ai Giudei. Malgrado ciò, Giudaismo e Cristianesimo fanno parte di uno stesso dramma e non sono così indifferenti uno verso l’altro, da non confrontarsi.

A Nazaret il papa Giovanni Paolo II vuole presentare anche alle donne del nostro tempo un modello di donna perfettamente realizzata.  »
La Chiesa vede nel viso delle donne una bellezza nella quale si leggono i sentimenti più nobili di cui sia capace il cuore umano: la totalità dell’amore che si offre; la forza capace di perseverare nelle più grandi sofferenze; la fedeltà senza limite e la dedizione infaticabile nel lavoro; una intuizione penetrante unita a parole di sostegno e di incoraggiamento » (Giovanni Paolo II).

La vocazione ad amare, intesa come vera apertura ai nostri simili giudei e musulmani, e come solidarietà a loro riguardo, è la più fondamentale di tutte le vocazioni. È all’origine di ogni vocazione personale.

Quando ha creato l’uomo a sua immagine, Dio ha iscritto nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione, quindi la capacità e la responsabilità di amore e di comunione.

Se Dio si incarna, se si mette alla ricerca dell’uomo creato a sua immagine, lo fa perché lo ama eternamente nel suo Verbo e vuole elevarlo alla dignità di figlio adottivo mediante il Verbo.

Dicendo « io sono la serva del Signore », Maria esprime l’attitudine fondamentale della sua vita: la fede. Maria credeva nel compimento delle promesse di Dio. Per questo accetta di fare la volontà di Dio. La vita di Maria fu un pellegrinaggio di fede. Camminava nell’oscurità, sperando le cose che non si vedono. Maria resta il modello della donna dell’anno 2000. Nulla può dare un senso più profondo alla nostra esistenza terrena e a stimolarci a viverla come esperienza temporanea, quanto l’attitudine interiore di considerarci pellegrini.

 

Publié dans:Approfondimenti |on 7 mai, 2007 |Pas de commentaires »

Multiculturalismo e Islam; coppie di fatto e omosessualità

questo articolo èdi un autore del quale ho già messo alcuni scriti sul Blog francese, Professore e sacerdote a Beirut, Dal sito:

http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=8708&geo=&theme=&size=A

» 12/03/2007 09:48
ISLAM

Multiculturalismo e Islam; coppie di fatto e omosessualità
di Samir Khalil Samir, sj

L’Islam è stato sempre spietato sui rapporti omosessuali. Eppure in Italia c’è silenzio del mondo musulmano su coppie di fatto e omosessualità. C’è una manipolazione dell’islam da parte del progressismo liberal. Se Europa e America vogliono cambiare il concetto di “famiglia”, devono fare i conti anche con le tradizioni religiose universali. Secondo articolo di una serie sul multiculturalismo.

Beirut (AsiaNews) – Il multiculturalismo non aiuta l’occidente ad essere se stesso, né i musulmani d’Europa ad integrarsi meglio nei loro nuovi Paesi. Vorrei mostrare quanto dico esaminando la questione dell’omosessualità e della famiglia nella tradizione islamica e nel mondo islamico odierno. I musulmani d’Italia e il dibattito sulle coppie di fatto 

In Italia, proprio i fautori della tolleranza culturale ad oltranza stanno proponendo una legge sulle coppie di fatto, che prevede diritti anche per le coppie omosessuali. Sono stati preceduti da altri Paesi europei dove si può fare la stessa osservazione. Curiosamente, su questo problema, le comunità musulmane – tanto difese dai progressisti liberal – non si sono pronunciate.  L’Ucoii, ad esempio, – un’associazione di musulmani italiani che pretende di rappresentare la maggioranza dei musulmani perché controlla (spesso per motivi finanziari) gran parte delle moschee – parla solo quando gli conviene politicamente, quando si intravede la possibilità di ottenere un diritto, un privilegio, di avere una sala di preghiera, una moschea, una riduzione del tempo di lavoro durante il Ramadan, una vacanza per il pellegrinaggio alla Mecca, ecc. 

Ma i membri dell’Ucoii non si impegnano nelle cause che si dibattono in Italia. Il problema del valore della famiglia o delle coppie omosessuali sembra non interessarli. Ciò è segno che essi non portano avanti un progetto di integrazione, ma di rivendicazione. Diciamo subito che la questione delle coppie di fatti non è mai stata prospettata, né nel passato (come è ovvio), né oggigiorno. Più ancora che nel cristianesimo, l’islam mette l’accento nel matrimonio sulla procreazione, e in secondo luogo sul piacere sessuale, compreso esclusivamente nel quadro del legalità, sia quella del matrimonio, sia quella del concubinato. Fuori del matrimonio legale e del concubinato riconosciuto, qualunque atto sessuale è un peccato grave, e ciò in tutte le scuole giuridiche dell’islam, sunnita e sciita. 

Vediamo dunque qual’è la posizione ufficiale dell’islam (nelle sue più importante scuole giuridiche) riguardo all’omosessualità, poi qual è la realtà del mondo musulmano (ieri e oggi) sulla questione dell’omosessualità, e infine qual è la legislazione odierna dei vari Paesi musulmani. Il Corano e le Hadith sull’omosessualità 

Nel Corano, il rapporto anale è considerato un peccato molto grave. La storia biblica di Lot (Genesi 19) è raccontata 6 volte nel Corano, caso eccezionale che ne mostra l’importanza, e sempre con una condanna assoluta: Corano 7, 80-84 ; 11, 77-82 ; 15, 58-79 ; 26, 160-174 ; 27, 54-58 ; e 29, 28-35. Secondo la tradizione musulmana, questi sei testi risalgono al periodo della Mecca (610-622), anzi a ciò che gli orientalisti chiamano “il terzo periodo meccano” che copre gli anni 619-622. Secondo le edizioni dell’Arabia Saudita, questi capitoli corrispondono, nell’ordine, ai capitoli 39, 52, 54, 47, 48 e 85. La condanna dell’azione della gente di Sodoma è senza remissione. Per esempio Corano 29 (Il Ragno), 28-29: “E quando Lot disse al suo popolo: ‘Davvero commettete una turpitudine che mai nessuno al mondo ha commesso prima di voi. Concupite i maschi’”. 

Secondo
la Tradizione di Muhammad (Sunnah), l’omosessualità, sia maschile che femminile, sia attiva che passiva, è equiparata all’adulterio, ed è dunque passibile di morte. 
I dotti (‘ulama’) si riferiscono di solito a 3 hadith, che parlano del liwât (parola derivata da Loth) cioè del rapporto tra due maschi (ma significa anche l’omosessualità in modo generico), o del sihâq cioè del rapporto tra due femmine. Il primo hadith dice: “Quando un maschio monta un altro maschio, il trono di Dio trema”. Il secondo dice: “Uccidi la persona che lo sta facendo [cioè il partner attivo] e la persona che lo sta subendo [cioè il partner passivo]”. Il terzo tratta delle lesbiche: “Il sihâq delle donne è una fornicazione (zinâ)”. 

Inoltre, anche il rapporto anale con la propria moglie è condannato da un hadith: “Maledetto chi avvicina sua moglie dal di dietro” (Collezione dell’imam Ahmad 2/479). L’omosessualità è spesso praticata, in tutta la storia araba e islamica, tra un adulto e un giovane ragazzo. Un hadith dice di « diffidare dei giovani imberbi, perché sono una fonte di danno più grande delle giovani vergini. » Si dice dell’imam Sufyān al-Thawrī (morto nel 783) che sia scappato dalle terme un giorno, asserendo a proposito della tentazione sessuale che « se ogni donna ha un demone che l’accompagna, allora un bel giovane ne ha diciassette ». Il famoso giurista hanbalita Ibn al-Jawzī (morto nel 1200) avrebbe detto: “Colui che afferma di non provare alcun desiderio quando guarda a bei ragazzi o bei giovani è un bugiardo, e se gli credessimo lo vedremmo come un animale, non un essere umano”. Nella poesia araba classica i poemi sull’amore dei giovani abbondano, e addirittura molti andavano nei monasteri per contemplare i giovani novizi! 

Un riflesso di quest’amore per i giovani fanciulli si trova pure nel Corano. Nella descrizione del Paradiso della sura 56, 12-19 si legge: “Nei Giardini delle Delizie, molti tra gli antichi, pochi tra i recenti, su divani rivestiti d’oro, sdraiati gli uni di fronte agli altri. Vagheranno tra loro fanciulli di eterna giovinezza, [recanti] coppe, brocche e calici di bevanda sorgiva, che non darà mal di testa né ebbrezza”. E ancora nella sura 52, 21-24: “Coloro che avranno creduto e che saranno stati seguiti nella fede dalla loro progenie, Noi li riuniremo ai loro figli. Non diminuiremo in nulla il merito delle loro azioni, poiché ognuno è pegno di quello che si sarà guadagnato. Provvederemo loro i frutti e le carni che desidereranno. Si scambieranno un calice immune da vanità o peccato. E per servirli circoleranno tra loro giovanetti simili a perle nascoste”. Il Corano condanna dunque in modo assoluto l’omosessualità e la pareggia con l’adulterio. La tradizione del Profeta dell’islam accettata dai dotti dice esplicitamente che merita la morte. La pratica dell’omosessualità era però frequente. L’islam ha autorizzato l’amore casto con i giovanotti, purché non ci sia rapporto fisico. E un detto (hadith) dice: “Colui che ama e rimane casto e nasconde il suo segreto e muore, muore da martire”, cioè per aver resistito alla più forte delle tentazione. 

Posizione ufficiale dell’islam sull’omosessualità, ieri e oggi Oggi, nel mondo musulmano, ci sono cinque scuole giuridiche: 4 sunnite (hanafita, malikita, sciafeita e hanbalita) e la quinta sciita, chiamata gia‘farita. La hanafita non considera adulterio i rapporti omosessuali, ma lascia la pena a discrezione del giudice. Le quattro altre scuole le considerano adulterio e condannano a morte i due partner. Come per l’adulterio, c’è la necessità dei quattro testimoni maschi (o 8 testimoni femmine). 

L’imam Yûsuf al Qaradâwi, lo studioso più ascoltato dell’Islam sunnita moderno, scrive: “I giuristi dell’Islam hanno avuto opinioni divergenti riguardo la pena per questa pratica abominevole. Dovrebbe essere la stessa pena prevista per lo zina (fornicazione), o andrebbero uccisi sia il partecipante attivo che quello passivo? Anche se questa pena può sembrare crudele, è stato consigliato di mantenere la purezza della società islamica, e di mondarla dagli elementi pervertiti”. (Al-halâl w-al-harâm fî l-Islâm  – Il lecito e l’illecito nell’islam). Come viene applicata oggi la shari’ah, la legge islamica, nel mondo islamico? In sette nazioni, i rapporti omosessuali portano ufficialmente alla pena di morte, Arabia Saudita, Iran, Mauritania, Sudan, Somalia, Somaliland, Yemen e l’Afghanistan all’epoca dei Talibani. In molte nazioni l’omosessualità è punita con il carcere, o pene corporali, per esempio in Bahrain, Qatar, Algeria, Maldive, ecc. In alcuni nazioni (Turchia, Giordania, Egitto, Mali, ecc.), l’omosessualità non è proibita come tale, ma i gay possono essere condannati per offesa alla moralità pubblica; com’è successo al Cairo l’11 maggio 2001, quando  52 uomini sono stati arrestati a bordo del nightclub gay galleggiante Queen Boat, ancorato sul Nilo. E’ in Iran che la situazione è la più ingiusta: dalla rivoluzione islamica, il governo iraniano ha mandato a morte più di 4000 persone accusate di rapporti omosessuali. 

Su questo come in tanti altri punti l’Islam è in contraddizione con la carta universale dei diritti umani. Il motivo è il confondere l’etica con il diritto. Una religione può considerare un atto come un’offesa grave a Dio (un peccato), e nessuno può impedire a qualcuno di affermarlo – come è successo in modo vergognoso nel parlamento europeo con l’onorevole Buttiglione –. Ma la legge non può corrispondere sempre con l’etica. L’etica mira alla perfezione del comportamento, e deve proporre un ideale che sarà sempre difficile da raggiungere, ma che serve da faro per guidare l’uomo. La legge indica qual è il minimo al di sotto del quale c’è delitto. Inoltre, ed è un altro crimine, i media esercitano una pressione inaccettabile e immorale sugli omosessuali: nel caso dei 52 gay del Cairo, la stampa ha diffuso i loro nomi, indirizzi e telefoni, e pubblicato le loro foto: questo, e non l’omosessualità, avrebbe meritato il carcere. Vi è poi un’incoerenza: la morale islamica reprime l’omosessualità, ma la gente di solito la tollera. In Egitto, ad esempio, non è rara tra un adulto e un giovane. È talmente diffusa che in arabo abbiamo addirittura due parole per definire la parte attiva e passiva (‘ars e khawal) della coppia omosessuale. L’unica differenza con l’Europa è che nel mondo arabo nessuno vuole legalizzare questo tipo di unione. In molti paesi musulmani, finché è una cosa privata, l’omosessualità è abbastanza tollerata, considerata addirittura banale. In Libano ad esempio si sa tutto di tutti: chi va con chi, purché essi non pretendano una legittimità. 

Conclusione: difendere la famiglia per dialogare con l’Islam Sul problema dell’omosessualità e sul valore della famiglia come unione di maschio e femmina non trovo molto dibattito fra i musulmani in Europa. A favore della famiglia ho trovato solo una dichiarazione interreligiosa diffusa in Francia, a Lione.  Partita dal vescovo cattolico di Lione, questa lettera aperta è stata firmata da ebrei, cristiani (all’eccezione dei calvinisti) e musulmani. Senza violenza o omofobia, essi mettono in dubbio che lo stato possa  autorizzare il matrimonio fra due persone dello stesso sesso. 

“Non si tratta – essi dicono – di un dibattito sulla società, ma di una scelta superiore senza precedenti nella storia dell’umanità, dato che la famiglia come unione dell’uomo e della donna è un dono che si deve fare alle generazioni future”. La lettera continua dicendo che oggi la famiglia è molto fragile, perché gli adulti non riescono ad aiutare i giovani a costruire la loro vita. “Come potranno acquisire una formazione solida, affrontare il futuro con fiducia, rispettare i doveri di una professione e costruire nell’equilibrio la propria famiglia se si relativizza l’istituzione del matrimonio?”. In conclusione: 

1.                  Le religioni e le filosofie hanno il diritto di avere una loro scala di valori, di considerare che tale atto è morale o immorale, virtuoso o peccaminoso. Ogni uomo ha questo diritto. A condizione però che questo giudizio morale non influisca sul giudizio portato sulle persone e sul comportamento a loro riguardo. Un conto è l’atto, un conto la persona. 2.                  Le religioni hanno il dovere, se vogliono essere di aiuto alla società umana, di riesaminare periodicamente, costantemente, le loro posizioni, alla luce sia dei testi fondatori che della riflessione contemporanea. Per dirlo con il papa Benedetto: fede e ragione devono essere armonizzate e sono indissociabile l’una dall’altra. 

3.                  L’islam in particolare passa attraverso una fase di ritorno alle origini, per proteggersi contro l’occidente da esso giudicato irreligioso e ateo. Facilmente rischia di cadere nella regressione. Per poter realizzare l’armonia tra fede e ragione, è indispensabile che la fede non sia spiegata solo dagli “uomini di religione” come si dice nel nostro gergo (rigiâl al-dîn), ma anche da studiosi delle discipline scientifiche e umane. Il dramma dell’islam contemporaneo è la dicotomia dentro la comunità, la umma: chi guida (o dovrebbe guidare) la comunità studia solo le scienze religiose e ciò che le spiega; chi fa altri studi non interferisce sull’intelligenza della fede. 4.                  Il concetto di famiglia ha un significato quasi unanime riconosciuto dacché esiste l’uomo, e cioè come nucleo composto da un uomo e da una donna con i loro figli. Il concetto può allargarsi ai parenti di vari gradi, ma il nucleo è quello. Il fatto dell’omosessualità è sempre esistito nella storia dell’umanità, la quale l’ha tollerato senza mai legittimarlo. L’occidente propone un nuovo approccio del concetto della famiglia, presentandolo come un “progresso”. Trattandosi di un punto così fondamentale, sarebbe necessario tener conto non solo dell’opinione nazionale, ma dell’approccio che ne ha tutta l’umanità. L’Europa o l’America (o parti di esse) non possono considerarsi come il motore dell’umanità e del suo progresso: questo può essere vero al livello tecnologico e scientifico, non al livello etico e filosofico. 

5.                  L’atteggiamento occidentale sui punti che riguardano la famiglia e il sesso confermano i musulmani nell’idea che la civiltà occidentale è decadente, e attribuiscono questa decadenza alla perdita della fede e della pratica religiosa. I più decisi reagiscono anche con violenza contro questo male. Come spiegare ai musulmani tradizionali (la maggioranza di loro) che la modernità è carica di valori (anche se ci sono delle deficienze come in ogni realtà umana), se ciò che appare di questa civiltà è contrario a certi valori riconosciuti? La lotta dell’islam contro l’Occidente, visto come depravato, continuerà, prendendo anche forme violente, perché l’atteggiamento occidentale violenta in punti importanti la coscienza del mondo musulmano.  6.                  Aggiungerei infine una domanda. Come mai, quando si è trattato di togliere alcuni segni visibili della tradizione cristiana (il crocifisso, il presepio, ecc…) parecchie voci hanno utilizzato l’argomento dei musulmani da non offendere (come se il presepio fosse un offesa per loro!), e quando si tratta di questioni così fondamentali per loro non se ne parla? Non sarà che il mondo liberal li sta strumentalizzando, utilizzandoli per confortare una sua opinione solo quando fa comodo? Questo non è rispetto, ma manipolazione … e i musulmani (o anche gli Arabi) non sono così stupidi per crederci! 

Publié dans:Approfondimenti |on 7 mai, 2007 |Pas de commentaires »

Superare le tensioni tra culture e religioni

dal sito della Radio Vaticana: 

http://www.radiovaticana.org/it1/Articolo.asp?c=131796

Superare le tensioni tra culture e religioni e sostenere l’avvio di un serio negoziato per il Medio Oriente: Benedetto XVI ne ha parlato con l’ex presidente iraniano, Khatami, ricevuto in udienza. Intervista con mons. Piero Coda

 

Un segnale forte per il dialogo interreligioso e la convivenza civile in Iran: con queste premesse era stata annunciata dal nunzio apostolico in Iran, l’arcivescovo Angelo Mottola, la visita compiuta oggi al Papa, in Vaticano, dell’ex presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, Seyyed Mohammad Khatami, giunto ieri sera a Roma. Durante il colloquio è stato auspicato di poter superare le tensioni che segnano i nostri tempi ed espresso sostegno ad iniziative forti per avviare un negoziato serio sul Medio Oriente, come la conferenza sull’Iraq chiusa oggi a Sharm-el-Sheikh. Il servizio di Roberta Gisotti:

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Benedetto XVI è stato a colloquio stamani per circa mezz’ora con l’ex capo di Stato iraniano, che si è poi soffermato un’altra mezz’ora con il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, accompagnato dall’arcivescovo Dominique Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati. “Conversazioni » – informa una nota della della Sala stampa vaticana – che “hanno permesso di soffermarsi sull’importanza di un sereno dialogo tra le culture, inteso a superare le gravi tensioni che segnano il nostro tempo e a promuovere una fruttuosa collaborazione a servizio della pace e dello sviluppo di tutti i popoli. Si è accennato pure – prosegue la nota – alle condizioni ed ai problemi delle comunità cristiane in Medio Oriente ed in Iran”. E, riguardo “alla situazione del Medio Oriente, è stata ribadita la necessità di iniziative forti della comunità internazionale” – come
la Conferenza sull’Iraq a Sharm-el-Sheikh – “in ordine all’avvio di un negoziato serio, che tenga conto dei diritti e degli interessi di tutti, nel rispetto della legalità internazionale e nella consapevolezza – conclude la nota – che occorre ricostruire la fiducia reciproca”. Al termine del colloquio tra Benedetto XVI e Khatami, lo scambio dei doni: l’ex presidente iraniano ha offerto una pubblicazione di pitture del suo Paese con immagini simboliche sul tema della pace, e il Papa ha ricambiato con un’artistica penna dedicata ai 500 anni dei Musei Vaticani. Una visita dunque attesa, quella di Khatami a Benedetto XVI – in agenda già dal novembre scorso, poi annullata “per motivi di ordine internazionale”, dopo le reazioni del mondo musulmano al discorso del Papa nell’Università di Ratisbona.

Da ricordare il precedente incontro, nel marzo ’99, tra Khatami – che ha guidato il suo Paese dal ‘97 al 2005 – e Giovanni Paolo II, il primo nella storia di un presidente iraniano con il Papa in Vaticano, improntato – si commentò allora – in uno spirito di dialogo tra musulmani e cristiani. E bene aprono alla speranza le parole di Khatami al suo arrivo ieri sera a Roma. “In un mondo in cui la cosa più importante è la violenza già parlare di pace sarebbe tantissimo”, ha detto l’ex presidente iraniano salutando i partecipanti al Convegno alla Pontificia Università Gregoriana sul tema “Dialogo interculturale: una sfida per la pace”. E stamani, ancora nella stessa sede ha auspicato “sforzi comuni in futuro” con il Papa per curare “le sofferenze di questo mondo”, ma forse – ha aggiunto – un solo incontro non può bastare, perchè “le ferite sono purtroppo molto ampie”. Fitta d’impegni l’agenda di Khatami in Italia, dove resterà fino al 10 maggio per incontrare il presidente del Consiglio Prodi, oltre al ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, al presidente della Camera dei deputati, Fausto Bertinotti, al presidente dell’Unione interparlamentare, Pierferdinando Casini, e diverse altre autorità politiche e religiose a Napoli, Palermo, Milano, Forlì e Bari.

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Si è aperta dunque ieri pomeriggio e si è chiusa stamane a Roma, presso
la Pontificia Università Gregoriana, la conferenza su “Dialogo interculturale, una sfida per la pace”, promossa dalla fondazione “
La Gregoriana” e dall’ambasciata iraniana presso
la Santa Sede, che ha visto la partecipazione dell’ex presidente iraniano, Mohammad Khatami. Al centro del dibattito, il rapporto fra cattolicesimo e islam, con riferimento alla situazione iraniana. Eugenio Bonanata ha intervistato mons. Piero Coda, docente di Teologia alla Lateranense:

 
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R. – Il valore di questa Conferenza è quello di una tappa – direi – storica nel cammino dell’incontro tra cristianesimo ed islam e in particolare islam sciita, quello che vive in Iran, in quanto la presenza qui a Roma del presidente Khatami, in un dialogo profondo e serrato con il cristianesimo e con la cultura occidentale, è sintomo di una grande apertura e della volontà non solo di mantenere, ma anche di far compiere dei salti qualitativi in avanti nel dialogo, appunto, tra cristianesimo ed islam.

 
D. – In che misura è possibile in Iran parlare di dialogo interreligioso?

 
R. – L’islam ha in se stesso, proprio in base ai suoi testi fondatori e alla sua esperienza bimillenaria, le virtualità necessarie per aprire degli spazi di dialogo con il cristianesimo, con le altre religioni e con la cultura moderna. La prima fondamentale linea di questa fondazione di possibilità del dialogo è il fatto stesso di credere nella rivelazione di Dio e, quindi, in una parola che è rivolta all’uomo e che fa l’uomo capace di ascolto, di apertura e misericordia verso l’altro.

 
D. – Le differenze fra le due religioni sono evidenti, ma come si può evitare lo scontro di civiltà e parlare dunque di pace?

 
R. – Lo scontro di civiltà bisogna vedere quanto nasca dalle viscere di queste tradizioni di fede e quanto invece nasca dalle sovrastrutture che una vita politica ed economica del nostro tempo tendono a porre anche sulle tradizioni religiose e mettendole, quindi, in concorrenza fra di loro.

 
D. – In Occidente, in Europa è l’immigrato a rappresentare il volto dell’islam, questo immigrato che fa paura e con cui, in alcuni casi, è difficile relazionarsi…

 
R. – Occorre diventare capaci di relazionarsi con gli altri. Non si diventa così con il semplice tocco di una bacchetta magica, ma è necessario dialogare, essere aperti, essere misericordiosi, come il Buon Samaritano di cui parla Gesù. E’ certamente un’arte difficile. Occorre oggi educarsi, tutti e non solo le nazioni occidentali – che per tanti motivi aprono le loro porte ad un forte flusso di immigrazione – ma anche altre terre ed altre civiltà della terra si aprono oggi ad un confronto diverso, ad un maggiore movimento. E’, come dire, in modo del tutto speciale, una caratteristica del nostro tempo quella del dialogo.

 
D. – Ecco, quindi, il presente, la modernità, il futuro e quindi i nostri figli…

 
R. – Certamente. Quando Paolo VI nella sua prima enciclica parla del dialogo come la parole del nostro tempo, dicendo che
la Chiesa è oggi chiama a farsi dialogum. Espressione, questa, straordinaria e che ha dettato poi anche la tabella di marcia del Concilio e che ha intuito profeticamente dallo Spirito Santo, quella che è una esigenza del nostro tempo. E’ impensabile che le generazioni future possano convivere in modo costruttivo e nella pace senza una cultura che assuma ed interiorizzi la capacità e la volontà di dialogo come struttura portante del vivere sociale. 

 

Publié dans:Approfondimenti |on 4 mai, 2007 |Pas de commentaires »

Papi e Concili su San Giuseppe

 dal sito:

 

http://www.floscarmeli.org/modules.php?name=News&file=article&sid=183

Papi e Concili su San Giuseppe
di B. Martelet

 

Dichiarando san Giuseppe patrono della Chiesa universale, il papa Pio IX non faceva altro che esprimere il sentimento del popolo cristiano e, allo stesso tempo, prolungare l’insegnamento dei suoi predecessori. Cosi fecero anche i Papi suoi successori. Leone XIII, dopo la magistrale enciclica Quamquam pluries, la prima dedicata a san Giuseppe, pubblico il breve Neminem fugit, col quale chiedeva alle famiglie cristiane di consacrarsi alla santa famiglia di Nazaret, «esemplare perfettissimo della società domestica e, insieme, un modello di ogni virtù e di ogni santità».

Pio X coltivava una grande devozione a san Giuseppe, suo patrono di battesimo. Egli approvo le litanie di questo santo e permise che fossero inserite nei libri liturgici (1909). In questo agì, dice egli stesso, in piena conformità coi suoi predecessori Pio IX e Leone XIII. Giuseppe, infatti, è un aiuto potente e utilissimo per la famiglia e per la società.

Benedetto XV, nel 1920, poco dopo la fine della prima guerra mondiale, pubblico un’enciclica sulla pace e, poi, un Motu proprio per invitare i vescovi del mondo intero a celebrare il centenario del patrocinio, esortando i fedeli a rinnovare la loro devozione a san Giuseppe e alla santa famiglia. Il ricorso a san Giuseppe è un rimedio « alla situæione difficile nella quale si dibatte oggi il genere umano ». I suoi esempi e la sua protezione tratterranno sulla via del dovere e preserveranno dalle false dottrine coloro che si guadagnano la vita col lavoro in tutto il mondo. Il 26 ottobre 1921, Benedetto XV estese a tutta
la Chiesa la festa della santa famiglia.

Pio XI, il Papa dell’Azione cattolica e delle missioni, pronunzio su san Giuseppe parole di eccezionale importanza. Questo Papa intrepido non può essere accusato di leggerezza dottrinale o di pietà sentimentale. Il 21 aprile 1926, in occasione della beatificazione di Giovanna Antida Thouret e di Andrea Uberto Fournet, egli precisa i fondamenti del patrocinio di san Giuseppe del quale si celebrava la festa quel giorno:

«Ecco un santo che entra nella vita e si spende interamente nell’adempimento d’una missione unica da parte di Dio, la missione di custodire la purezza di Maria, di proteggere nostro Signore e di nascondere, con la sua ammirabile cooperazione, il segreto della redenzione. Nella grandezza di questa missione ha le sue radici la santità singolare e incomparabile di san Giuseppe, poiché una tale missione non fu affidata a nessun altro santo… è evidente che, in virtù d’una missione così alta, Giuseppe possedeva già il titolo di gloria che è suo, quello di patrono della Chiesa universale. Tutta
la Chiesa, infatti, è già presente presso di lui allo stato di germe fecondo ».

Due anni più tardi, il 19 marzo 1928, nella festa di san Giuseppe, egli torna su questo argomento e dimostra che la missione di san Giuseppe è in un certo senso più importante di quella di san Giovanni Battista e dello stesso san Pietro. Fra le due missioni, di Giovanni Battista e di san Pietro, si colloca quella di san Giuseppe, «missione raccolta, silenziosa, inosservata e sconosciuta, missione compiuta nell’umiltà e nel silenzio… Là dove è più profondo il mistero, più densa la notte che lo copre e più grande il silenzio, là, giustamente, è più alta la missione e più splendido il corteggio delle virtù richieste e maggiori i meriti che ne derivano. Missione unica, altissima, quella di custodire la verginità e la santità di Maria, quella di partecipare al grande mistero nascosto agli occhi dei secoli e di cooperare così all’incarnazione e alla redenzione ».

Questa missione unica di san Giuseppe sulla terra si traduce, in cielo, in un grande potere d’intercessione. Pio XI dichiara, il 19 marzo 1935: «Giuseppe è colui che tutto può presso il divino Redentore e presso la sua divina Madre in un modo e con un’autorità che superano quelle d’un semplice depositario». E il 19 marzo 1938: «L’intercessione di Maria è quella della madre; e non si vede che cosa il suo divin Figlio potrebbe rifiutare a una tal madre. L’intercessione di Giuseppe è quella dello sposo, del padre putativo, del capo di famiglia. Essa non può non essere onnipotente, poiché che cosa potrebbero Gesù e Maria rifiutare a Giuseppe che consacro a loro tutta la sua vita e al quale devono realmente i mezzi della loro esistenza terrena? ».

Per realizzare il suo motto: «La pace di Cristo nel regno di Cristo», Pio XI conta specialmente sull’intercessione di san Giuseppe. Nella sua celebre enciclica Divini Relemptoris, del 1937, egli dichiara: «Poniamo la grande azione della Chiesa Cattolica contro il Comunismo ateo mondiale sotto l’egida del potente Protettore della Chiesa, san Giuseppe. Egli appartiene alla classe operaia e ha sperimentato il peso della povertà per sé e per
la Sacra Famiglia di cui era il capo vigile ed affettuoso; a lui fu affidato il Fanciullo divino quando Erode sguinzaglio contro di lui i suoi sicari. Con una vita di fedelissimo adempimento del dovere quotidiano, ha lasciato un esemplo a tutti quelli che devono guadagnarsi il pane con il lavoro delle loro mani e merito di essere chiamato il Giusto, esempio vivente di quella giustizia cristiana, che deve dominare nella vita sociale ».

Pio XII volle cristianizzare la festa del lavoro del 1° maggio istituendo, per quel giorno, la festa di san Giuseppe lavoratore. Egli si impegno costantemente a presentare san Giuseppe come protettore ideale di tutte le classi della società e di tutte le professioni Parlo di questo santo agli operai, ai giovani sposi, ai militanti e ai bambini. Egli vide il patrocinio di san Giuseppe non come una bella formula teologica o una pia invocazione, ma come una verità fondamentale. Giuseppe, come Maria, è intimamente legato alla dottrina del Corpo mistico di Cristo, che è
la Chiesa del cielo e della terra.

Quanto a Giovanni XXIII, diede molte testimonianze della sua devozione a san Giuseppe. Confessava: «San Giuseppe! io lo amo molto, tanto che non posso cominciare né chiudere la mia giornata senza che la mia prima parola e il mio ultimo pensiero siano per lui ». Come nunzio a Parigi, egli visito la casa madre delle Piccole Sorelle dei Poveri e La-Tour-Saint-Joseph. In quella occasione, confido che intendeva ricevere la consacrazione episcopale nel giorno di san Giuseppe, «perché è il patrono dei diplomatici ».

E spiego: « Come san Giuseppe, i diplomatici, nel loro insieme, devono presentare Gesù e nasconderlo. Come san Giuseppe, essi devono saper tacere, misurare le parole, sapersi spendere senza badare alla dignità del servizio e, più ancora, sputare dolce e masticare amaro… ubbidire anche quando non si comprende, come san Giuseppe quando partì col suo asino».

Divenuto Papa, egli darà a tutti i cristiani queste direttive: dedicarsi alle umili incombenze come alle missioni interessanti, senza badare alla dignità di quello che si fa. Giuseppe, sposo di Maria, era un semplice artigiano che si guadagnava il pane col suo lavoro. Quello che conta davanti a Dio è la fedeltà. Alla sua elezione, egli rimpianse di non poter prendere il nome di Giuseppe per non andare contro la tradizione, ma scelse il 19 marzo come data della sua festa.

Il 19 marzo 1959, celebrando la messa per un gruppo di lavoratori della città di Roma, egli disse: « Tutti i santi canonizzati meritano certamente un onore e un rispetto particolari, ma è evidente che san Giuseppe ha giustamente un posto suo proprio più soave, più intimo, più penetrante nel nostro cuore ».

Il 1° maggio 1960, Giovanni XXIII indirizzo un radiomessaggio a tutti coloro che lavorano e a tutti coloro che soffrono, iniziando con queste parole: «Il nostro pensiero si rivolge con naturalezza a tutte le regioni e a tutte le città in cui l’esistenza si svolge un giorno dopo l’altro: al focolare domestico, all’ufficio, al magazzino, alla fabbrica, all’officina, al laboratorio e a tutti i luoghi santificati dal lavoro intellettuale e manuale, sotto le forme svariate e nobili che esso riveste secondo le forze e le attitudini di ciascuno… Con l’aiuto di san Giuseppe, tutte le famiglie possono riprodurre l’immagine di quella di Nazaret… In pratica, il lavoro è una missione sublime che permette all’uomo di collaborare in modo intelligente ed efficace con Dio, che gli ha dato i beni della terra perché li usi e li faccia fruttificare».

La grande iniziativa di Giovanni XXIII fu la convocazione del Concilio Vaticano II. Nella lettera apostolica del 19 marzo 1961, egli spiega perché vuole che questo Concilio, così importante, sia posto sotto la protezione speciale di san Giuseppe. Comincia ricordando quello che hanno fatto i suoi predecessori per la gloria di san Giuseppe; poi spiega che il Concilio è fatto per tutto il popolo cristiano, che deve beneficiare d’una corrente di grazia per una maggiore vitalità. E aggiunge che non sa trovare un protettore migliore di San Giuseppe per ottenere il soccorso del cielo per la preparazione e lo svolgimento di questo Concilio, che deve segnare un’epoca.

Un’altra iniziativa importante di Giovanni XXIII fu quella di introdurre il nome di san Giuseppe nella preghiera eucaristica. Pio IX s’era arrestato di fronte a una simile decisione. Le richieste che erano state formulate nel Concilio Vaticano I erano state riprese in grandissimo numero nel secondo. I Padri del Concilio non dovevano deliberare su questo argomento, perché era un semplice rito liturgico di competenza dell’autorità pontificia.

Tuttavia, il Concilio fece sua questa decisione di Giovanni XXIII incorporando il passaggio della preghiera, nel quale si trova il nome di san Giuseppe, nella costituzione dogmatica Lumen Gentium. Questa costituzione parla del mistero della Chiesa, Corpo mistico di Cristo. Il capitolo VII si riferisce principalmente all’unione molto intima che lega i membri della Chiesa che camminano ancora sulla terra a quelli che già godono della pienezza della vita in cielo. Questa presenza invisibile dei santi nostri amici si attualizza quando siamo riuniti per la preghiera e, più particolarmente,

per la celebrazione eucaristica. Il testo merita di essere meditato, perché afferma che a san Giuseppe tocca un posto di privilegio:

«La nostra unione con
la Chiesa celeste si attua in maniera nobilissima poiché specialmente nella sacra Liturgia, nella quale la virtù dello Spirito Santo agisce su di noi mediante i segni sacramentali, in fraterna esultanza cantiamo le lodi della divina maestà, e tutti, di ogni tribù e lingua, di ogni popolo e nazione, riscattati col sangue di Cristo e radunati in un’unica Chiesa, con un unico canto di lode, glorifichiamo Dio uno e trino. Però, quando celebriamo il sacrificio eucaristico, ci uniamo in sommo grado al culto della Chiesa celeste, in comunione con essa e venerando la memoria soprattutto della gloriosa sempre Vergine Maria, ma anche del beato Giuseppe e dei beati apostoli e martiri e di tutti i santi » (LG 50).

Anche Paolo VI ha parlato spesso di san Giuseppe, non mirando tanto a mettere in evidenza le sue prerogative, ma piuttosto a ricordare la sua missione nella Chiesa di oggi: « La missione di Giuseppe nei riguardi di Gesù e Maria fu una missione di protezione, di difesa, di salvaguardia e di sussistenza…
La Chiesa ha bisogno di essere difesa; ha bisogno di essere conservata, alla scuola di Nazaret, povera e laboriosa, ma viva, cosciente e disponibile per la sua missione messianica. Questo bisogno di protezione, oggi, è grande per restare indenne e per agire nel mondo… La missione di san Giuseppe è la nostra: custodire il Cristo e farlo crescere in noi e intorno a noi» (Angelus, 19 marzo 1970).

Il 19 marzo 1973, Paolo VI diceva: «Giuseppe è il protettore del Cristo al suo ingresso nel mondo, il protettore della Vergine Maria, della sacra famiglia, il protettore della Chiesa, il protettore di coloro che lavorano. Tutti noi possiamo dire: il nostro protettore».

Le liturgie orientali fanno eco agli insegnamenti dei Papi: «O Giuseppe! gloria a colui che ti ha onorato, gloria a colui che ti ha incoronato, gloria a colui che ti ha fatto patrono delle nostre anime» (rito melchita).

«O Giuseppe! porta a Davide la buona novella: ecco, sei padre di Dio. Tu hai visto
la Vergine incinta, coi pastori tu hai cantato Gloria, coi Magi ti sei prostrato, con l’angelo hai trattato delle cose divine. Prega dunque il Cristo, nostro Dio, che salvi le nostre anime » (rito bizantino). 

 

 

Publié dans:Approfondimenti |on 1 mai, 2007 |Pas de commentaires »
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