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Omelia di Benedetto XVI a conclusione dell’Anno sacerdotale

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Omelia di Benedetto XVI a conclusione dell’Anno sacerdotale

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 11 giugno 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’omelia che Benedetto XVI ha pronunciato questo venerdì, Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, nel presiedere in piazza San Pietro la concelebrazione eucaristica con i Cardinali, i Vescovi e i presbiteri a conclusione dell’Anno sacerdotale sul tema “Fedeltà di Cristo, Fedeltà del Sacerdote”.

* * *

Cari confratelli nel ministero sacerdotale,

Cari fratelli e sorelle,

l’Anno Sacerdotale che abbiamo celebrato, 150 anni dopo la morte del santo Curato d’Ars, modello del ministero sacerdotale nel nostro mondo, volge al termine. Dal Curato d’Ars ci siamo lasciati guidare, per comprendere nuovamente la grandezza e la bellezza del ministero sacerdotale. Il sacerdote non è semplicemente il detentore di un ufficio, come quelli di cui ogni società ha bisogno affinché in essa possano essere adempiute certe funzioni. Egli invece fa qualcosa che nessun essere umano può fare da sé: pronuncia in nome di Cristo la parola dell’assoluzione dai nostri peccati e cambia così, a partire da Dio, la situazione della nostra vita. Pronuncia sulle offerte del pane e del vino le parole di ringraziamento di Cristo che sono parole di transustanziazione – parole che rendono presente Lui stesso, il Risorto, il suo Corpo e suo Sangue, e trasformano così gli elementi del mondo: parole che spalancano il mondo a Dio e lo congiungono a Lui. Il sacerdozio è quindi non semplicemente «ufficio», ma sacramento: Dio si serve di un povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di agire in loro favore. Questa audacia di Dio, che ad esseri umani affida se stesso; che, pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua – questa audacia di Dio è la cosa veramente grande che si nasconde nella parola «sacerdozio». Che Dio ci ritenga capaci di questo; che Egli in tal modo chiami uomini al suo servizio e così dal di dentro si leghi ad essi: è ciò che in quest’anno volevamo nuovamente considerare e comprendere. Volevamo risvegliare la gioia che Dio ci sia così vicino, e la gratitudine per il fatto che Egli si affidi alla nostra debolezza; che Egli ci conduca e ci sostenga giorno per giorno. Volevamo così anche mostrare nuovamente ai giovani che questa vocazione, questa comunione di servizio per Dio e con Dio, esiste – anzi, che Dio è in attesa del nostro «sì». Insieme alla Chiesa volevamo nuovamente far notare che questa vocazione la dobbiamo chiedere a Dio. Chiediamo operai per la messe di Dio, e questa richiesta a Dio è, al tempo stesso, un bussare di Dio al cuore di giovani che si ritengono capaci di ciò di cui Dio li ritiene capaci. Era da aspettarsi che al «nemico» questo nuovo brillare del sacerdozio non sarebbe piaciuto; egli avrebbe preferito vederlo scomparire, perché in fin dei conti Dio fosse spinto fuori dal mondo. E così è successo che, proprio in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio, siano venuti alla luce i peccati di sacerdoti – soprattutto l’abuso nei confronti dei piccoli, nel quale il sacerdozio come compito della premura di Dio a vantaggio dell’uomo viene volto nel suo contrario. Anche noi chiediamo insistentemente perdono a Dio ed alle persone coinvolte, mentre intendiamo promettere di voler fare tutto il possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più; promettere che nell’ammissione al ministero sacerdotale e nella formazione durante il cammino di preparazione ad esso faremo tutto ciò che possiamo per vagliare l’autenticità della vocazione e che vogliamo ancora di più accompagnare i sacerdoti nel loro cammino, affinché il Signore li protegga e li custodisca in situazioni penose e nei pericoli della vita. Se l’Anno Sacerdotale avesse dovuto essere una glorificazione della nostra personale prestazione umana, sarebbe stato distrutto da queste vicende. Ma si trattava per noi proprio del contrario: il diventare grati per il dono di Dio, dono che si nasconde « in vasi di creta » e che sempre di nuovo, attraverso tutta la debolezza umana, rende concreto in questo mondo il suo amore. Così consideriamo quanto è avvenuto quale compito di purificazione, un compito che ci accompagna verso il futuro e che, tanto più, ci fa riconoscere ed amare il grande dono di Dio. In questo modo, il dono diventa l’impegno di rispondere al coraggio e all’umiltà di Dio con il nostro coraggio e la nostra umiltà. La parola di Cristo, che abbiamo cantato come canto d’ingresso nella liturgia odierna, può dirci in questa ora che cosa significhi diventare ed essere sacerdote: « Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore » (Mt 11,29).

Celebriamo la festa del Sacro Cuore di Gesù e gettiamo con la liturgia, per così dire, uno sguardo dentro il cuore di Gesù, che nella morte fu aperto dalla lancia del soldato romano. Sì, il suo cuore è aperto per noi e davanti a noi – e con ciò ci è aperto il cuore di Dio stesso. La liturgia interpreta per noi il linguaggio del cuore di Gesù, che parla soprattutto di Dio quale pastore degli uomini, e in questo modo ci manifesta il sacerdozio di Gesù, che è radicato nell’intimo del suo cuore; così ci indica il perenne fondamento, come pure il valido criterio, di ogni ministero sacerdotale, che deve sempre essere ancorato al cuore di Gesù ed essere vissuto a partire da esso. Vorrei oggi meditare soprattutto sui testi con i quali la Chiesa orante risponde alla Parola di Dio presentata nelle letture. In quei canti parola e risposta si compenetrano. Da una parte, essi stessi sono tratti dalla Parola di Dio, ma, dall’altra, sono al contempo già la risposta dell’uomo a tale Parola, risposta in cui la Parola stessa si comunica ed entra nella nostra vita. Il più importante di quei testi nell’odierna liturgia è il Salmo 23 (22) – « Il Signore è il mio pastore » –, nel quale l’Israele orante ha accolto l’autorivelazione di Dio come pastore, e ne ha fatto l’orientamento per la propria vita. « Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla »: in questo primo versetto si esprimono gioia e gratitudine per il fatto che Dio è presente e si occupa dell’uomo. La lettura tratta dal Libro di Ezechiele comincia con lo stesso tema: « Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura » (Ez 34,11). Dio si prende personalmente cura di me, di noi, dell’umanità. Non sono lasciato solo, smarrito nell’universo ed in una società davanti a cui si rimane sempre più disorientati. Egli si prende cura di me. Non è un Dio lontano, per il quale la mia vita conterebbe troppo poco. Le religioni del mondo, per quanto possiamo vedere, hanno sempre saputo che, in ultima analisi, c’è un Dio solo. Ma tale Dio era lontano. Apparentemente Egli abbandonava il mondo ad altre potenze e forze, ad altre divinità. Con queste bisognava trovare un accordo. Il Dio unico era buono, ma tuttavia lontano. Non costituiva un pericolo, ma neppure offriva un aiuto. Così non era necessario occuparsi di Lui. Egli non dominava. Stranamente, questo pensiero è riemerso nell’Illuminismo. Si comprendeva ancora che il mondo presuppone un Creatore. Questo Dio, però, aveva costruito il mondo e poi si era evidentemente ritirato da esso. Ora il mondo aveva un suo insieme di leggi secondo cui si sviluppava e in cui Dio non interveniva, non poteva intervenire. Dio era solo un’origine remota. Molti forse non desideravano neppure che Dio si prendesse cura di loro. Non volevano essere disturbati da Dio. Ma laddove la premura e l’amore di Dio vengono percepiti come disturbo, lì l’essere umano è stravolto. È bello e consolante sapere che c’è una persona che mi vuol bene e si prende cura di me. Ma è molto più decisivo che esista quel Dio che mi conosce, mi ama e si preoccupa di me. « Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me » (Gv 10,14), dice la Chiesa prima del Vangelo con una parola del Signore. Dio mi conosce, si preoccupa di me. Questo pensiero dovrebbe renderci veramente gioiosi. Lasciamo che esso penetri profondamente nel nostro intimo. Allora comprendiamo anche che cosa significhi: Dio vuole che noi come sacerdoti, in un piccolo punto della storia, condividiamo le sue preoccupazioni per gli uomini. Come sacerdoti, vogliamo essere persone che, in comunione con la sua premura per gli uomini, ci prendiamo cura di loro, rendiamo a loro sperimentabile nel concreto questa premura di Dio. E, riguardo all’ambito a lui affidato, il sacerdote, insieme col Signore, dovrebbe poter dire: « Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me ». « Conoscere », nel significato della Sacra Scrittura, non è mai soltanto un sapere esteriore così come si conosce il numero telefonico di una persona. « Conoscere » significa essere interiormente vicino all’altro. Volergli bene. Noi dovremmo cercare di « conoscere » gli uomini da parte di Dio e in vista di Dio; dovremmo cercare di camminare con loro sulla via dell’amicizia con Dio.

Ritorniamo al nostro Salmo. Lì si dice: « Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome. Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza » (23 [22], 3s). Il pastore indica la strada giusta a coloro che gli sono affidati. Egli precede e li guida. Diciamolo in maniera diversa: il Signore ci mostra come si realizza in modo giusto l’essere uomini. Egli ci insegna l’arte di essere persona. Che cosa devo fare per non precipitare, per non sperperare la mia vita nella mancanza di senso? È, appunto, questa la domanda che ogni uomo deve porsi e che vale in ogni periodo della vita. E quanto buio esiste intorno a tale domanda nel nostro tempo! Sempre di nuovo ci viene in mente la parola di Gesù, il quale aveva compassione per gli uomini, perché erano come pecore senza pastore. Signore, abbi pietà anche di noi! Indicaci la strada! Dal Vangelo sappiamo questo: Egli stesso è la via. Vivere con Cristo, seguire Lui – questo significa trovare la via giusta, affinché la nostra vita acquisti senso ed affinché un giorno possiamo dire: « Sì, vivere è stata una cosa buona ». Il popolo d’Israele era ed è grato a Dio, perché Egli nei Comandamenti ha indicato la via della vita. Il grande Salmo 119 (118) è un’unica espressione di gioia per questo fatto: noi non brancoliamo nel buio. Dio ci ha mostrato qual è la via, come possiamo camminare nel modo giusto. Ciò che i Comandamenti dicono è stato sintetizzato nella vita di Gesù ed è divenuto un modello vivo. Così capiamo che queste direttive di Dio non sono catene, ma sono la via che Egli ci indica. Possiamo essere lieti per esse e gioire perché in Cristo stanno davanti a noi come realtà vissuta. Egli stesso ci ha resi lieti. Nel camminare insieme con Cristo facciamo l’esperienza della gioia della Rivelazione, e come sacerdoti dobbiamo comunicare alla gente la gioia per il fatto che ci è stata indicata la via giusta.

C’è poi la parola concernente la « valle oscura » attraverso la quale il Signore guida l’uomo. La via di ciascuno di noi ci condurrà un giorno nella valle oscura della morte in cui nessuno può accompagnarci. Ed Egli sarà lì. Cristo stesso è disceso nella notte oscura della morte. Anche lì Egli non ci abbandona. Anche lì ci guida. « Se scendo negli inferi, eccoti », dice il Salmo 139 (138). Sì, tu sei presente anche nell’ultimo travaglio, e così il nostro Salmo responsoriale può dire: pure lì, nella valle oscura, non temo alcun male. Parlando della valle oscura possiamo, però, pensare anche alle valli oscure della tentazione, dello scoraggiamento, della prova, che ogni persona umana deve attraversare. Anche in queste valli tenebrose della vita Egli è là. Sì, Signore, nelle oscurità della tentazione, nelle ore dell’oscuramento in cui tutte le luci sembrano spegnersi, mostrami che tu sei là. Aiuta noi sacerdoti, affinché possiamo essere accanto alle persone a noi affidate in tali notti oscure. Affinché possiamo mostrare loro la tua luce.

« Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza »: il pastore ha bisogno del bastone contro le bestie selvatiche che vogliono irrompere tra il gregge; contro i briganti che cercano il loro bottino. Accanto al bastone c’è il vincastro che dona sostegno ed aiuta ad attraversare passaggi difficili. Ambedue le cose rientrano anche nel ministero della Chiesa, nel ministero del sacerdote. Anche la Chiesa deve usare il bastone del pastore, il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del bastone può essere un servizio di amore. Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti indegni della vita sacerdotale. Come pure non si tratta di amore se si lascia proliferare l’eresia, il travisamento e il disfacimento della fede, come se noi autonomamente inventassimo la fede. Come se non fosse più dono di Dio, la perla preziosa che non ci lasciamo strappare via. Al tempo stesso, però, il bastone deve sempre di nuovo diventare il vincastro del pastore – vincastro che aiuti gli uomini a poter camminare su sentieri difficili e a seguire il Signore.

Alla fine del Salmo si parla della mensa preparata, dell’olio con cui viene unto il capo, del calice traboccante, del poter abitare presso il Signore. Nel Salmo questo esprime innanzitutto la prospettiva della gioia per la festa di essere con Dio nel tempio, di essere ospitati e serviti da Lui stesso, di poter abitare presso di Lui. Per noi che preghiamo questo Salmo con Cristo e col suo Corpo che è la Chiesa, questa prospettiva di speranza ha acquistato un’ampiezza ed una profondità ancora più grandi. Vediamo in queste parole, per così dire, un’anticipazione profetica del mistero dell’Eucaristia in cui Dio stesso ci ospita offrendo se stesso a noi come cibo – come quel pane e quel vino squisito che, soli, possono costituire l’ultima risposta all’intima fame e sete dell’uomo. Come non essere lieti di poter ogni giorno essere ospiti alla mensa stessa di Dio, di abitare presso di Lui? Come non essere lieti del fatto che Egli ci ha comandato: « Fate questo in memoria di me »? Lieti perché Egli ci ha dato di preparare la mensa di Dio per gli uomini, di dare loro il suo Corpo e il suo Sangue, di offrire loro il dono prezioso della sua stessa presenza. Sì, possiamo con tutto il cuore pregare insieme le parole del Salmo: « Bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita » (23 [22], 6).

Alla fine gettiamo ancora brevemente uno sguardo sui due canti alla comunione propostici oggi dalla Chiesa nella sua liturgia. C’è anzitutto la parola con cui san Giovanni conclude il racconto della crocifissione di Gesù: « Un soldato gli trafisse il costato con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua » (Gv 19,34). Il cuore di Gesù viene trafitto dalla lancia. Esso viene aperto, e diventa una sorgente: l’acqua e il sangue che ne escono rimandano ai due Sacramenti fondamentali dei quali la Chiesa vive: il Battesimo e l’Eucaristia. Dal costato squarciato del Signore, dal suo cuore aperto scaturisce la sorgente viva che scorre attraverso i secoli e fa la Chiesa. Il cuore aperto è fonte di un nuovo fiume di vita; in questo contesto, Giovanni certamente ha pensato anche alla profezia di Ezechiele che vede sgorgare dal nuovo tempio un fiume che dona fecondità e vita (Ez 47): Gesù stesso è il tempio nuovo, e il suo cuore aperto è la sorgente dalla quale esce un fiume di vita nuova, che si comunica a noi nel Battesimo e nell’Eucaristia.

La liturgia della Solennità del Sacro Cuore di Gesù prevede, però, come canto di comunione anche un’altra parola, affine a questa, tratta dal Vangelo di Giovanni: Chi ha sete, venga a me. Beva chi crede in me. La Scrittura dice: « Sgorgheranno da lui fiumi d’acqua viva » (cfr Gv 7,37s). Nella fede beviamo, per così dire, dall’acqua viva della Parola di Dio. Così il credente diventa egli stesso una sorgente, dona alla terra assetata della storia acqua viva. Lo vediamo nei santi. Lo vediamo in Maria che, quale grande donna di fede e di amore, è diventata lungo i secoli sorgente di fede, amore e vita. Ogni cristiano e ogni sacerdote dovrebbero, a partire da Cristo, diventare sorgente che comunica vita agli altri. Noi dovremmo donare acqua della vita ad un mondo assetato. Signore, noi ti ringraziamo perché hai aperto il tuo cuore per noi; perché nella tua morte e nella tua risurrezione sei diventato fonte di vita. Fa’ che siamo persone viventi, viventi dalla tua fonte, e donaci di poter essere anche noi fonti, in grado di donare a questo nostro tempo acqua della vita. Ti ringraziamo per la grazia del ministero sacerdotale. Signore, benedici noi e benedici tutti gli uomini di questo tempo che sono assetati e in ricerca. Amen.

Mons. Forte: la solitudine del prete è presenza di Dio

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Mons. Forte: la solitudine del prete è presenza di Dio

ROMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lettera “Ai carissimi sacerdoti giovani dell’Arcidiocesi” di mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto.

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Carissimi giovani Sacerdoti,

in preparazione a questo incontro con Voi ho provato a pensare ad alcune delle sfide che nella nostra vita di presbiteri prima o poi inevitabilmente si presentano. L’elenco è solo indicativo, e pesca nella memoria del vissuto personale e collettivo. Ve lo presento con l’unica intenzione di capire che cosa significhi per ognuna di queste situazioni esistenziali la parola di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-30).

La prima sfida che mi viene in mente è la solitudine del prete: in verità, essa è messa in conto sin dal primo momento della nostra chiamata ed ha un sapore anzitutto bello e positivo. Solitudine per noi che abbiamo incontrato Gesù non è tanto assenza degli uomini, quanto presenza di Dio: un essere rapiti dalla luce del Suo Volto, pur sempre cercato, un desiderio di stare con Lui e di lasciarci lavorare da Lui. C’è però anche una solitudine amara: l’avverti quando ti sembra che nessuno ti comprenda veramente o sia capace di un minimo di gratitudine per quello che sei e che fai. È la solitudine che ti fanno sentire i pregiudizi di alcuni, la malevolenza di altri – a volte anche nel nostro mondo ecclesiastico -, l’atteggiamento di chi sembra rimproverarti come egoistica la scelta di non avere accanto una moglie o dei figli secondo la carne. A volte tutto questo ti pesa, altre volte ti appare un prezzo necessario da pagare a una forma di vita certamente “controcorrente”. Ricorda sempre però che la tua solitudine è abitata da Gesù: Lui, che l’ha vissuta, ci dice “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. Regalare a Lui l’esperienza della solitudine amara e di quella ricca di pace, lasciare che sia Lui ad abitarle entrambe per farne tempo di grazia: è questo il modo più vero per camminare nella solitudine e viverla come condizione di grazia e di autentica generosità e libertà. Non sarai mai solo, se riconosci Gesù accanto a te!

Una seconda sfida che mi viene in mente è il senso di scoraggiamento e di frustrazione che a volte ci prende di fronte agli scarsi risultati, se non addirittura ai fallimenti del nostro ministero. Ci sono momenti in cui ti sembra di battere l’aria, di affaticarti invano: in quei momenti la stanchezza e il peso degli altri ti appaiono troppo grandi. Quante speranze e desideri incompiuti! Quante attese di bene cadute nel vuoto! Eppure Gesù ci dice: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. Dobbiamo riposarci in Lui: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’” (Mc 6,31). A volte occorre anche un po’ di sano riposo fisico: ma solo nell’amicizia con Gesù, nella prolungata esperienza della preghiera e dell’ascolto, raggiungiamo la fonte del riposo cui anela il nostro cuore. “Hai fatto il nostro cuore per Te ed è inquieto finché non riposa in Te”, ci assicura Agostino parlando a partire dalla propria esperienza. Confida nel Signore, spera in Lui e le forze e l’entusiasmo torneranno: “Quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi” (Is 40,31). Non dimenticare, poi, che i frutti del tuo ministero li conosce solo Dio e a volte ti dà di scoprirne i segni al di là di ogni tuo calcolo e attesa!

Una terza sfida nella vita del prete è il rapporto con quelli che gli sono affidati: a volte, possiamo dirlo con veracità e umiltà, alcune persone sono proprio insopportabili. C’è chi ci tratta come funzionari del sacro da cui pretendere la disponibilità cieca del burocrate (ammesso che esista!); c’è chi vorrebbe arruolarci nel proprio mondo familiare o affettivo come possesso di cui disporre al momento opportuno; c’è chi ci assale col suo bisogno, rimproverandoci come colpa l’eventuale nostra impossibilità a soddisfare quello che ci viene chiesto. Qui è importante imparare a guardare sempre e solo la nostra gente come quella che Dio ci ha affidato: a guardarla cioè con occhi di amore, con lo sguardo di un padre che ama i propri figli a prescindere dai loro meriti o dalla loro effettiva amabilità. Occorre ricorrere a Lui, Gesù, al Suo esempio, al Suo aiuto: “Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde… Io sono il buon pastore… e do la mia vita per le pecore” (Gv 10,11-15). Non dobbiamo sottrarci alla fatica di chi ci chiede aiuto per portare il suo peso. Se accoglieremo tutti con un cuore disponibile e generoso, un Altro aiuterà noi: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”. Il giogo di chi ci è affidato è il giogo di Gesù: prenderlo su di noi ci fa sperimentare il ristoro e la dolcezza che Lui ci ha promesso!

C’è poi la sfida della comunione col vescovo e con il presbiterio: al vescovo abbiamo promesso fiducia e obbedienza, e questo a prescindere da chi sia o come sia colui che il Signore ci ha dato come pastore. Soprattutto, però, anche il vescovo ha bisogno dell’amore dei suoi sacerdoti, senza cui non potrebbe fare quasi nulla per la crescita del suo popolo nella fede e nell’amore di Dio e degli altri. Da vescovo sto imparando sempre di più a esercitare la carità paterna, a non giudicare, a cercare di comprendere, a valorizzare il bene che c’è in ognuno, specie in ciascuno dei miei preti. Anche voi aiutatemi ad aiutarvi! Pregate per me e cercate di comprendermi e sostenermi, come io desidero fare con voi. Prego tanto per voi, fedelmente, con tutto il mio cuore. Vi chiedo di volervi bene come Gesù ci ha chiesto: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12). “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (13,35). Abbiate a cuore il bene gli uni degli altri. Siate fedeli ai nostri appuntamenti, cercando di viverli come ore di grazia, con spirito di profondo ascolto e partecipazione assidua e attiva. Amiamo i sacerdoti più anziani, riconoscendo in loro tutto il bene della loro vita spesa per il Vangelo. Liberiamoci da ambizioni, confronti, gelosie e piccole invidie. Gesù ce lo chiede come lo aveva chiesto ai suoi: “Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato” (Mt 23,11s). Chiediamo di essere così a Lui, che ci dona di vivere con semplicità quello che ci chiede: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”.

Infine, vorrei dirvi una parola sulla sfida rappresentata dal rapporto con la famiglia, le amicizie e gli affetti: ci sono tanti esempi belli di relazioni umane autentiche del sacerdote con i suoi cari e con i suoi amici; ci sono parimenti rischi e atteggiamenti sbagliati. Fra questi la freddezza di alcuni preti, che appare a volte perfino disumana e alienante, anche se è spesso solo frutto di timidezza e di una mancanza di amore conosciuta nei tempi dell’infanzia o dell’adolescenza (per inciso vorrei ricordare quanto è importante l’aiuto di una psicologia scevra da precomprensioni per aiutare il prete a essere uomo fra gli uomini, costituito a favore degli uomini!). Altri tendono invece a creare legami oppressivi, sentendosi quasi padroni della fede e dell’affetto di quelli che sono loro affidati. Entrambi questi atteggiamenti sono sbagliati: occorre essere tanto umani ed insieme tanto veri nella nostra appartenenza esclusiva a Gesù. Nessun affetto ci deve separare da Lui: meglio morire, che offendere gravemente l’alleanza con Lui! Anche qui è Gesù che ci viene incontro: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. È Lui che ci ama per primo e ci aiuta ad amare gli altri con verità e libertà se solo ci lasciamo amare da Lui. Diamogli tempo e cuore: adoriamolo con tutto il nostro essere, regalandogli lunghi momenti davanti alla Sua Presenza sacramentale e in ascolto della Sua Parola di vita. Allora, ci sentiremo in pace e nessun surrogato potrà esercitare il suo fascino malizioso sul nostro cuore innamorato di Dio ed abitato da Gesù.

Vi ho esposto questi pensieri con semplicità, dopo averci un po’ pregato. Ora, vorrei che li condividiate con me, lasciando che la ricchezza del nostro essere insieme moltiplichi la luce di grazia che il Signore vuol far risplendere in ciascuno di noi, per sperimentare nel vivo del nostro cuore e del nostro ministero la forza liberante e salutare della promessa che Gesù ha fatto ai discepoli che tanto ama: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-30).

+ Bruno

Padre Arcivescovo

4 Maggio 2010

Publié dans:ANNO SACERDOTALE, Bruno Forte |on 14 mai, 2010 |Pas de commentaires »

Meditazione di Benedetto XVI sul ministero del sacerdote

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Meditazione di Benedetto XVI sul ministero del sacerdote

In occasione dell’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 14 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale in piazza San Pietro, dove ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, avvicinandosi la conclusione dell’Anno Sacerdotale, il Papa ha incentrato la sua meditazione sul ministero del sacerdote.

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Cari amici,

in questo periodo pasquale, che ci conduce alla Pentecoste e ci avvia anche alle celebrazioni di chiusura dell’Anno Sacerdotale, in programma il 9, 10 e 11 giugno prossimo, mi è caro dedicare ancora alcune riflessioni al tema del Ministero ordinato, soffermandomi sulla realtà feconda della configurazione del sacerdote a Cristo Capo, nell’esercizio dei tria munera che riceve, cioè dei tre uffici di insegnare, santificare e governare.

Per capire che cosa significhi agire in persona Christi Capitis – in persona di Cristo Capo – da parte del sacerdote, e per capire anche quali conseguenze derivino dal compito di rappresentare il Signore, specialmente nell’esercizio di questi tre uffici, bisogna chiarire anzitutto che cosa si intenda per « rappresentanza ». Il sacerdote rappresenta Cristo. Cosa vuol dire, cosa significa « rappresentare » qualcuno? Nel linguaggio comune, vuol dire – generalmente – ricevere una delega da una persona per essere presente al suo posto, parlare e agire al suo posto, perché colui che viene rappresentato è assente dall’azione concreta. Ci domandiamo: il sacerdote rappresenta il Signore nello stesso modo? La risposta è no, perché nella Chiesa Cristo non è mai assente, la Chiesa è il suo corpo vivo e il Capo della Chiesa è lui, presente ed operante in essa. Cristo non è mai assente, anzi è presente in un modo totalmente libero dai limiti dello spazio e del tempo, grazie all’evento della Risurrezione, che contempliamo in modo speciale in questo tempo di Pasqua.

Pertanto, il sacerdote che agisce in persona Christi Capitis e in rappresentanza del Signore, non agisce mai in nome di un assente, ma nella Persona stessa di Cristo Risorto, che si rende presente con la sua azione realmente efficace. Agisce realmente e realizza ciò che il sacerdote non potrebbe fare: la consacrazione del vino e del pane perché siano realmente presenza del Signore, l’assoluzione dei peccati. Il Signore rende presente la sua propria azione nella persona che compie tali gesti. Questi tre compiti del sacerdote – che la Tradizione ha identificato nelle diverse parole di missione del Signore: insegnare, santificare e governare – nella loro distinzione e nella loro profonda unità sono una specificazione di questa rappresentazione efficace. Essi sono in realtà le tre azioni del Cristo risorto, lo stesso che oggi nella Chiesa e nel mondo insegna e così crea fede, riunisce il suo popolo, crea presenza della verità e costruisce realmente la comunione della Chiesa universale; e santifica e guida.

Il primo compito del quale vorrei parlare oggi è il munus docendi, cioè quello di insegnare. Oggi, in piena emergenza educativa, il munus docendi della Chiesa, esercitato concretamente attraverso il ministero di ciascun sacerdote, risulta particolarmente importante. Viviamo in una grande confusione circa le scelte fondamentali della nostra vita e gli interrogativi su che cosa sia il mondo, da dove viene, dove andiamo, che cosa dobbiamo fare per compiere il bene, come dobbiamo vivere, quali sono i valori realmente pertinenti. In relazione a tutto questo esistono tante filosofie contrastanti, che nascono e scompaiono, creando una confusione circa le decisioni fondamentali, come vivere, perché non sappiamo più, comunemente, da che cosa e per che cosa siamo fatti e dove andiamo. In questa situazione si realizza la parola del Signore, che ebbe compassione della folla perché erano come pecore senza pastore. (cfr Mc 6, 34). Il Signore aveva fatto questa costatazione quando aveva visto le migliaia di persone che lo seguivano nel deserto perché, nella diversità delle correnti di quel tempo, non sapevano più quale fosse il vero senso della Scrittura, che cosa diceva Dio. Il Signore, mosso da compassione, ha interpretato la parola di Dio, egli stesso è la parola di Dio, e ha dato così un orientamento. Questa è la funzione in persona Christi del sacerdote: rendere presente, nella confusione e nel disorientamento dei nostri tempi, la luce della parola di Dio, la luce che è Cristo stesso in questo nostro mondo. Quindi il sacerdote non insegna proprie idee, una filosofia che lui stesso ha inventato, ha trovato o che gli piace; il sacerdote non parla da sé, non parla per sé, per crearsi forse ammiratori o un proprio partito; non dice cose proprie, proprie invenzioni, ma, nella confusione di tutte le filosofie, il sacerdote insegna in nome di Cristo presente, propone la verità che è Cristo stesso, la sua parola, il suo modo di vivere e di andare avanti. Per il sacerdote vale quanto Cristo ha detto di se stesso: « La mia dottrina non è mia » (Gv, 7, 16); Cristo, cioè, non propone se stesso, ma, da Figlio, è la voce, la parola del Padre. Anche il sacerdote deve sempre dire e agire così: « la mia dottrina non è mia, non propago le mie idee o quanto mi piace, ma sono bocca e cuore di Cristo e rendo presente questa unica e comune dottrina, che ha creato la Chiesa universale e che crea vita eterna ».

Questo fatto, che il sacerdote cioè non inventa, non crea e non proclama proprie idee in quanto la dottrina che annuncia non è sua, ma di Cristo, non significa, d’altra parte, che egli sia neutro, quasi come un portavoce che legge un testo di cui, forse, non si appropria. Anche in questo caso vale il modello di Cristo, il quale ha detto: Io non sono da me e non vivo per me, ma vengo dal Padre e vivo per il Padre. Perciò, in questa profonda identificazione, la dottrina di Cristo è quella del Padre e lui stesso è uno col Padre. Il sacerdote che annuncia la parola di Cristo, la fede della Chiesa e non le proprie idee, deve anche dire: Io non vivo da me e per me, ma vivo con Cristo e da Cristo e perciò quanto Cristo ci ha detto diventa mia parola anche se non è mia. La vita del sacerdote deve identificarsi con Cristo e, in questo modo, la parola non propria diventa, tuttavia, una parola profondamente personale. Sant’Agostino, su questo tema, parlando dei sacerdoti, ha detto: « E noi che cosa siamo? Ministri (di Cristo), suoi servitori; perché quanto distribuiamo a voi non è cosa nostra, ma lo tiriamo fuori dalla sua dispensa. E anche noi viviamo di essa, perché siamo servi come voi » (Discorso 229/E, 4).

L’insegnamento che il sacerdote è chiamato ad offrire, le verità della fede, devono essere interiorizzate e vissute in un intenso cammino spirituale personale, così che realmente il sacerdote entri in una profonda, interiore comunione con Cristo stesso. Il sacerdote crede, accoglie e cerca di vivere, prima di tutto come proprio, quanto il Signore ha insegnato e la Chiesa ha trasmesso, in quel percorso di immedesimazione con il proprio ministero di cui san Giovanni Maria Vianney è testimone esemplare (cfr Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale). « Uniti nella medesima carità – afferma ancora sant’Agostino – siamo tutti uditori di colui che è per noi nel cielo l’unico Maestro » (Enarr. in Ps. 131, 1, 7).

Quella del sacerdote, di conseguenza, non di rado potrebbe sembrare « voce di uno che grida nel deserto » (Mc 1,3), ma proprio in questo consiste la sua forza profetica: nel non essere mai omologato, né omologabile, ad alcuna cultura o mentalità dominante, ma nel mostrare l’unica novità capace di operare un autentico e profondo rinnovamento dell’uomo, cioè che Cristo è il Vivente, è il Dio vicino, il Dio che opera nella vita e per la vita del mondo e ci dona la verità, il modo di vivere.

Nella preparazione attenta della predicazione festiva, senza escludere quella feriale, nello sforzo di formazione catechetica, nelle scuole, nelle istituzioni accademiche e, in modo speciale, attraverso quel libro non scritto che è la sua stessa vita, il sacerdote è sempre « docente », insegna. Ma non con la presunzione di chi impone proprie verità, bensì con l’umile e lieta certezza di chi ha incontrato la Verità, ne è stato afferrato e trasformato, e perciò non può fare a meno di annunciarla. Il sacerdozio, infatti, nessuno lo può scegliere da sé, non è un modo per raggiungere una sicurezza nella vita, per conquistare una posizione sociale: nessuno può darselo, né cercarlo da sé. Il sacerdozio è risposta alla chiamata del Signore, alla sua volontà, per diventare annunciatori non di una verità personale, ma della sua verità.

Cari confratelli sacerdoti, il Popolo cristiano domanda di ascoltare dai nostri insegnamenti la genuina dottrina ecclesiale, attraverso la quale poter rinnovare l’incontro con Cristo che dona la gioia, la pace, la salvezza. La Sacra Scrittura, gli scritti dei Padri e dei Dottori della Chiesa, il Catechismo della Chiesa Cattolica costituiscono, a tale riguardo, dei punti di riferimento imprescindibili nell’esercizio del munus docendi, così essenziale per la conversione, il cammino di fede e la salvezza degli uomini. « Ordinazione sacerdotale significa: essere immersi [...] nella Verità » (Omelia per la Messa Crismale, 9 aprile 2009), quella Verità che non è semplicemente un concetto o un insieme di idee da trasmettere e assimilare, ma che è la Persona di Cristo, con la quale, per la quale e nella quale vivere e così, necessariamente, nasce anche l’attualità e la comprensibilità dell’annuncio. Solo questa consapevolezza di una Verità fatta Persona nell’Incarnazione del Figlio giustifica il mandato missionario: « Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura » (Mc 16,15). Solo se è la Verità è destinato ad ogni creatura, non è una imposizione di qualcosa, ma l’apertura del cuore a ciò per cui è creato.

Cari fratelli e sorelle, il Signore ha affidato ai Sacerdoti un grande compito: essere annunciatori della Sua Parola, della Verità che salva; essere sua voce nel mondo per portare ciò che giova al vero bene delle anime e all’autentico cammino di fede (cfr 1Cor 6,12). San Giovanni Maria Vianney sia di esempio per tutti i Sacerdoti. Egli era uomo di grande sapienza ed eroica forza nel resistere alle pressioni culturali e sociali del suo tempo per poter condurre le anime a Dio: semplicità, fedeltà ed immediatezza erano le caratteristiche essenziali della sua predicazione, trasparenza della sua fede e della sua santità. Il Popolo cristiano ne era edificato e, come accade per gli autentici maestri di ogni tempo, vi riconosceva la luce della Verità. Vi riconosceva, in definitiva, ciò che si dovrebbe sempre riconoscere in un sacerdote: la voce del Buon Pastore.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Saluto cordialmente i pellegrini di lingua italiana, in particolare, sono lieto di accogliere il gruppo di Sacerdoti amici della Comunità di Sant’Egidio e i Cappellani dell’Aviazione civile provenienti da varie parti del mondo. Cari Fratelli nel Sacerdozio, invoco su ciascuno di voi i doni dello Spirito Santo, affinché possiate essere sempre gioiosi testimoni dell’amore di Cristo. Saluto i partecipanti al raduno internazionale del Movimento Eucaristico, legato alla spiritualità delle Suore Dorotee Figlie dei Sacri Cuori, e li esorto ad intensificare la dimensione orante, affinché dall’incontro con Cristo nella preghiera siano incoraggiati all’impegno ecclesiale e sociale. Saluto i fedeli della diocesi di Sessa Aurunca, accompagnati dal loro Pastore Mons. Antonio Napoletano. Cari amici, proseguite con slancio apostolico il vostro cammino di evangelizzatori della speranza cristiana in famiglia, nella Chiesa e nella comunità civile. Saluto gli ufficiali e i militari provenienti da Caserta, che incoraggio a perseverare nel generoso impegno di testimonianza cristiana anche nel mondo militare.

Mi rivolgo infine ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. La gioia del Signore Risorto ispiri rinnovato ardore alla vostra vita, cari giovani, perché siate suoi fedeli discepoli; sia d’incoraggiamento per voi, cari malati, perché possiate affrontare con coraggio ogni prova e sofferenza; sostenga il vostro mutuo amore, cari sposi novelli, affinché nella vostra casa regni sempre la pace di Cristo.

Lettera ai malati e sofferenti del mondo per l’Anno sacerdotale

dal sito:

http://www.zenit.org/article-19828?l=italian

Lettera ai malati e sofferenti del mondo per l’Anno sacerdotale

A firma del Presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 9 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lettera ai malati e sofferenti del mondo inviata, in occasione dell’Anno sacerdotale, dal Presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, mons. Zygmunt Zimowski.

* * *

Cari Fratelli e Sorelle Malati e Sofferenti

Venerati Fratelli Vescovi e Sacerdoti responsabili per la pastorale dei malati,

Stimate Associazioni dei Malati

Tutti Voi che prestate il prezioso servizio agli Infermi e ai Sofferenti

Siamo nel pieno svolgimento dell’Anno Sacerdotale indetto da Benedetto XVI il 19 giugno 2009 in occasione del 150° anniversario della nascita di Giovanni Maria Vianney, il Santo Patrono di tutti i parroci del mondo. Nella Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale il Santo Padre scrive: «Tale anno vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi». In questo tempo di grazia tutta la comunità cristiana è chiamata a riscoprire la bellezza della vocazione sacerdotale e, quindi, a pregare per i sacerdoti.

Il sacerdote accanto al capezzale del malato rappresenta lo stesso Cristo, Medico Divino, al quale non è indifferente la sorte di chi soffre. Anzi, tramite i sacramenti della Chiesa, amministrati dal sacerdote, Gesù Cristo offre al malato una guarigione attraverso la riconciliazione e il perdono dei peccati, attraverso l’unzione con l’olio sacro e infine nell’Eucaristia, nel viatico in cui Egli stesso diventa, come soleva dire san Giovanni Leonardi, « “il Farmaco dell’immortalità” per il quale: “siamo confortati, nutriti, uniti, trasformati in Dio e partecipi della natura divina” (cf. 2Pt 1,4)». Nella persona del sacerdote è quindi presente, accanto al malato, lo stesso Cristo che perdona, guarisce, conforta, prende per mano e dice: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno” (Gv 11,25).

L’Anno Sacerdotale si concluderà con la solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù il prossimo mese di giugno 2010, anno in cui il Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari celebrerà il 25° anniversario della sua istituzione. Il Servo di Dio Giovanni Paolo II, di venerata memoria, ha infatti fondato questo Dicastero Pontificio l’11 febbraio 1985 nella memoria della Beata Maria Vergine di Lourdes, allo scopo di manifestare «la sollecitudine della Chiesa per gli infermi aiutando coloro che svolgono il servizio verso i malati e sofferenti, affinché l’apostolato della misericordia, a cui attendono, risponda sempre meglio alle nuove esigenze» (Pastor Bonus, art. 152).

A motivo di tale provvidenziale ricorrenza, sono vicino a ciascuno di Voi e Vi invito, cari fratelli e sorelle ammalati, a rivolgere incessantemente le vostre preghiere e l’offerta delle sofferenze al Signore della vita a favore della santità dei vostri beneamati sacerdoti, affinché svolgano con dedizione e carità pastorale il ministero a loro affidato da Cristo Medico del corpo e dell’anima. Vi esorto a riscoprire la bellezza della preghiera del Santo Rosario a beneficio spirituale dei sacerdoti, in particolar modo nel mese di ottobre. Oltre a ciò, il primo giovedì e il primo venerdì di ogni mese, rispettivamente dedicati alla devozione eucaristica e al Sacro Cuore di Gesù, sono giorni particolarmente adatti per la partecipazione alla Santa Messa e all’adorazione del Santissimo Sacramento.

Vorrei farvi presente che, pregando per i sacerdoti, si possono ottenere quest’anno speciali indulgenze. Il Decreto della Penitenzieria Apostolica prescrive:

«Agli anziani, ai malati, e a tutti quelli che per legittimi motivi non possano uscire di casa, con l’animo distaccato da qualsiasi peccato e con l’intenzione di adempiere, non appena possibile, le tre solite condizioni, nella propria casa o là dove l’impedimento li trattiene, verrà ugualmente elargita l’Indulgenza plenaria se, nei giorni sopra determinati, reciteranno preghiere per la santificazione dei sacerdoti e offriranno con fiducia a Dio per mezzo di Maria, Regina degli Apostoli, le malattie e i disagi della loro vita. È anche concessa l’Indulgenza parziale a tutti i fedeli ogni qual volta reciteranno devotamente cinque Padre Nostro, Ave Maria e Gloria, o altra preghiera appositamente approvata, in onore del Sacratissimo Cuore di Gesù, per ottenere che i sacerdoti si conservino in purezza e santità di vita».

Vorrei affidare anche alle vostre preghiere il pellegrinaggio dei cappellani ospedalieri che, in occasione del 25° anniversario dell’istituzione del Pontificio Consiglio, si svolgerà nel prossimo mese di aprile, prima a Lourdes e dopo ad Ars. Esiste infatti uno stretto e profondo legame tra queste due cittadine francesi. Parlando proprio di questo provvidenziale nesso nella Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale, Benedetto XVI ha richiamato l’osservazione del beato Papa Giovanni XXIII che aveva scritto: «“Poco prima che il Curato d’Ars concludesse la sua lunga carriera piena di meriti, la Vergine Immacolata era apparsa, in un’altra regione di Francia, ad una fanciulla umile e pura, per trasmetterle un messaggio di preghiera e di penitenza, di cui è ben nota, da un secolo, l’immensa risonanza spirituale. In realtà la vita del santo sacerdote, di cui celebriamo il ricordo, era in anticipo un’illustrazione vivente delle grandi verità soprannaturali insegnate alla veggente di Massabielle” (…). Il Santo Curato ricordava sempre ai suoi fedeli che “Gesù Cristo dopo averci dato tutto quello che ci poteva dare, vuole ancora farci eredi di quanto egli ha di più prezioso, vale a dire della Sua Santa Madre”».

Infine a Voi, cari fratelli e sorelle malati e sofferenti, affido la Chiesa, che ha bisogno delle Vostre preghiere e dell’offerta delle vostre sofferenze, la persona del Santo Padre Benedetto XVI, i Vescovi e i sacerdoti di tutto il mondo, i quali si prodigano quotidianamente per la vostra santificazione. Vi chiedo una preghiera speciale per i sacerdoti ammalati e provati nel corpo i quali sperimentano ogni giorno come voi il peso del dolore, insieme alla forza della grazia salvifica che consola e risana l’anima. Pregate anche per la Beatificazione e Canonizzazione del Servo di Dio Giovanni Paolo II. Pregate con insistenza per le sante vocazioni sacerdotali e religiose. Al riguardo Vi propongo una bella orazione di Giovanni Paolo II che potete recitare ogni giorno. Pregate anche per me! Anch’io, come sacerdote e Vescovo, conto su di Voi e sull’offerta delle vostre sofferenze affinché possa svolgere al meglio, nel timore di Dio, il compito di Presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, affidatomi dal Santo Padre. Da parte mia, Vi assicuro che pregherò per Voi, insieme ai miei collaboratori del Pontificio Consiglio, ogni giorno nell’ora dell’ “Angelus” con le parole di Benedetto XVI:

Preghiamo per tutti i malati,

specialmente per quelli più gravi,

che non possono in alcun modo provvedere a se stessi,

ma sono totalmente dipendenti dalle cure altrui:

possa ciascuno di loro sperimentare,

nella sollecitudine di chi gli è accanto,

la potenza dell’amore di Dio e la ricchezza della sua grazia che salva.

Maria, salute degli infermi, prega per noi! (Angelus, 8.02.2009)

Con questo spirito di reciproca preghiera impartisco a tutti Voi, ai Vostri cari e a coloro che si prendono cura di Voi la mia benedizione: nel nome del Padre e del Figlio, e dello Spirito Santo.

+ Zygmunt Zimowski

Presidente del Pontificio Consiglio

per gli Operatori Sanitari

Vaticano, 1 ottobre 2009

Publié dans:ANNO SACERDOTALE, Approfondimenti |on 10 octobre, 2009 |Pas de commentaires »

Papa Giovanni XXIII, Lettera Enciclica nel I centenario del transito del Santo curato d’Ars (1959)

L’ENCICLICA È MOLTO LUNGA METTO SOLO LA PRIMA PARTE, PER LE NOTE ED IL SEGUITO DELL’ENCICLICA VEDERE IL SITO:

http://www.vatican.va/holy_father/john_xxiii/encyclicals/documents/hf_j-xxiii_enc_19590801_sacerdotii_it.html

LETTERA ENCICLICA
SACERDOTII NOSTRI PRIMORDIA
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PP. XXIII
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI
PRIMATI ARCIVESCOVI VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE SONO IN PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA,

NEL I CENTENARIO DEL PIISSIMO TRANSITO
DEL SANTO CURATO D’ARS

Introduzione

Significative coincidenze

Le purissime gioie che accompagnarono copiosamente le primizie del Nostro sacerdozio sono per sempre legate, nella Nostra memoria, alla emozione profonda che Noi provammo l’8 gennaio 1905 nella Basilica Vaticana, in occasione della gloriosa beatificazione di quell’umile prete di Francia che fu Giovanni Maria Battista Vianney. Noi pure elevati al sacerdozio da alcuni mesi appena, fummo colpiti dall’ammirabile figura sacerdotale che il Nostro predecessore san Pio X, l’antico parroco di Salzano, era tanto felice di proporre come modello a tutti i pastori di anime. E, a tanti anni di distanza, non possiamo richiamare questo ricordo senza ringraziare ancora come di un’insigne grazia il Nostro Divino Redentore, per lo slancio spirituale impresso in tal modo, fin dall’inizio, alla Nostra vita sacerdotale.
Ricordiamo ancora che, il giorno stesso di quella beatificazione, venimmo a conoscenza dell’elevazione all’episcopato di Mons. Giacomo Maria Radini-Tedeschi, il grande Vescovo che doveva, dopo alcuni giorni, chiamarCi al suo servizio e che fu per Noi maestro e padre carissimo. E fu in sua compagnia che, sugli inizi di quello stesso anno 1905, Ci recavamo per la prima volta in pellegrinaggio ad Ars, il modesto villaggio che il suo Santo Curato rese per sempre così celebre.
Per una nuova disposizione della Provvidenza, nell’anno in cui ricevevamo la pienezza del sacerdozio, il Papa Pio XI di gloriosa memoria, il 31 maggio 1925, procedeva alla solenne canonizzazione del  » povero Curato d’Ars « . Nella sua omelia il Pontefice si compiaceva di descrivere  » l’esile figura corporea di Giovanni Battista Vianney, la testa risplendente di una specie di bianca corona di lunghi capelli, il volto gracile e disfatto pei digiuni, dal quale talmente traspariva l’innocenza e la santità di un animo umilissimo e soavissimo che, al primo aspetto, le moltitudini venivano richiamate a pensieri salutari « . Poco dopo, lo stesso Pontefice, nell’anno del suo giubileo sacerdotale, completava il gesto già compiuto da San Pio X verso i parroci di Francia ed estendeva al mondo intero il celeste patrocinio di San Giovanni Maria Vianney  » per promuovere il bene spirituale dei parroci in tutto il mondo « .
Questi atti dei Nostri Predecessori, legati a tanti cari ricordi personali, amiamo richiamare, Venerabili Fratelli, in questo Centenario della morte del Santo Curato d’Ars.

Il 4 agosto 1859, infatti, egli rese l’anima a Dio, consumato dalle fatiche di un eccezionale ministero pastorale di oltre quarant’anni e oggetto di unanime venerazione. E benediciamo la divina Provvidenza, che per due volte già volle rallegrare e illuminare le ore solenni della Nostra vita sacerdotale con lo splendore della santità del Curato d’Ars, perché ci offre nuovamente, fin dai primi tempi di questo supremo Pontificato, l’occasione di celebrare la memoria tanto gloriosa di questo pastore di anime. Non vi meraviglierete, d’altra parte, se, nell’indirizzarvi questa Lettera, il Nostro spirito e il Nostro cuore si rivolgono in modo speciale ai sacerdoti, Nostri figli carissimi, per esortarli tutti insistentemente – e soprattutto quelli che sono impegnati nel ministero pastorale – a meditare gli ammirabili esempi di un loro confratello nel sacerdozio, divenuto loro celeste patrono.
Insegnamenti di questo Centenario.
Sono certo numerosi i documenti pontifici che già richiamano ai sacerdoti le esigenze del loro stato e li guidano nell’esercizio del loro ministero. Per non ricordare se non i più importanti, raccomandiamo nuovamente l’Esortazione Haerent animo di San Pio X, che stimolò il fervore dei Nostri primi anni di sacerdozio, la magistrale enciclica Ad Catholici Sacerdotii fastigium di Pio XI e, tra tanti documenti e allocuzioni del Nostro immediato predecessore sul sacerdote, la sua esortazione Menti Nostrae, nonché l’ammirabile trilogia in onore del sacerdozio, che gli fu suggerita dalla canonizzazione di san Pio X. Tali testi, Venerabili Fratelli, vi sono noti. Ma ci permetterete di ricordare qui con l’animo commosso l’ultimo discorso che la morte impedì a Pio XII di pronunciare e che rimane come l’estremo e solenne appello di questo grande Pontefice alla santità sacerdotale:  » Il carattere sacramentale dell’Ordine – vi è scritto – sigilla da parte di Dio un patto eterno del suo amore di predilezione, che esige dalla creatura prescelta il contraccambio della santificazione… il chierico sarà un prescelto tra il popolo, un privilegiato dei carismi divini, un depositario del potere divino, in una parola un alter Christus… Egli non si appartiene, come non appartiene a parenti, amici, neppure ad una determinata patria: la carità universale sarà il suo respiro. Gli stessi pensieri, volontà, sentimenti non sono suoi; ma di Cristo, sua vita « .
Verso queste vette della santità sacerdotale San Giovanni Maria Vianney tutti ci spinge, e noi siamo lieti di invitarvi i sacerdoti di oggi; perché se sappiamo le difficoltà che essi incontrano nella loro vita personale e negli oneri del ministero, se non ignoriamo le tentazioni e le stanchezze di alcuni, la nostra esperienza ci dice altresì la fedeltà coraggiosa della grande maggioranza e le ascensioni spirituali dei migliori. Agli uni come agli altri il Signore rivolse, nel giorno dell’Ordinazione, questa frase piena di tenerezza:  » Iam non dicam vos servos, sed amicos!  » (cf Gv 15,15). Possa questa Nostra Lettera Enciclica aiutarli tutti a perseverare e crescere in quest’amicizia divina, che costituisce la gioia e la forza di ogni vita sacerdotale.

Scopo dell’Enciclica

Non è nostra intenzione, Venerabili Fratelli, affrontare qui tutti gli aspetti della vita sacerdotale contemporanea; anzi, sull’esempio di San Pio X,  » non diremo cose da voi mai udite o nuove per qualcuno, ma semplicemente cose che conviene a tutti ricordare « . Nel delineare, infatti, i tratti della santità del Curato d’Ars, saremo condotti a porre in rilievo alcuni aspetti della vita sacerdotale, che in tutti i tempi sono essenziali, ma acquistano tanta importanza ai nostri giorni che stimiamo un dovere del Nostro mandato apostolico insistervi in modo speciale in occasione di questo Centenario.
La Chiesa, che ha glorificato questo sacerdote  » mirabile per lo zelo pastorale e per un desiderio ininterrotto di preghiera e penitenza « , oggi, a un secolo dopo la sua morte, ha la gioia di presentarlo ai sacerdoti di tutto il mondo come modello di ascesi sacerdotale, modello di pietà e soprattutto di pietà eucaristica, e modello di zelo pastorale.

Prima Parte

ASCESI SACERDOTALE

Parlare di San Giovanni Maria Vianney è richiamare la figura di un sacerdote straordinariamente mortificato, che, per amore di Dio e per la conversione dei peccatori, si privava di nutrimento e di sonno, s’imponeva rudi discipline e praticava soprattutto la rinunzia di se stesso in grado eroico. Se è vero che non è generalmente richiesto ai fedeli di seguire questa via eccezionale, tuttavia la Divina Provvidenza ha disposto che nella Chiesa non mancassero mai pastori di anime che, mossi dallo Spirito Santo, non esitano ad incamminarsi per questo sentiero, poiché sono tali uomini specialmente che operano miracoli di conversioni. A tutti l’ammirabile esempio di rinunzia del Curato d’Ars,  » severo con sé e dolce con gli altri « , richiama in modo eloquente e pressante il posto primordiale dell’ascesi della vita sacerdotale.

Consigli evangelici e santità sacerdotale

Il Nostro Predecessore Pio XII, volendo chiarire maggiormente questa dottrina e dissipare alcuni equivoci, tenne a precisare essere falso affermare  » che lo stato clericale – in quanto tale e in quanto procede dal diritto divino – per sua natura o almeno per un postulato della stessa natura, esiga che siano osservati dai suoi membri i consigli evangelici « . E il Papa conclude giustamente:  » Il chierico dunque non è obbligato per diritto divino ai consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza « . Ma sarebbe sbagliare enormemente sul pensiero di questo Pontefice, tanto sollecito della santità dei sacerdoti, e sull’insegnamento costante della Chiesa, credere pertanto che il sacerdote secolare sia chiamato alla perfezione meno del religioso. Anzi è vero il contrario, perché per il compimento delle funzioni sacerdotali  » si richiede una santità interiore maggiore di quella richiesta anche dallo stato religioso « . E se, per raggiungere questa santità di vita, la pratica dei consigli evangelici non è imposta al sacerdote in virtù dello stato clericale, essa si presenta nondimeno a lui, come a tutti i discepoli del Signore, come la via regolare della santificazione cristiana. Del resto, con grande Nostra consolazione, quanti sacerdoti generosi l’hanno oggi compreso giacché, pur rimanendo tra le file del clero secolare, domandano a pie associazioni approvate dalla Chiesa di essere guidati e sostenuti nelle vie della perfezione!
Persuasi che  » la grandezza del sacerdote consiste nell’imitazione di Gesù Cristo « , i sacerdoti saranno dunque più che mai attenti agli appelli del divino Maestro:  » Se qualcuno vuol seguirmi, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua  » (Mt 16,24). Il Santo Curato d’Ars, vien riferito,  » aveva meditato spesso questa frase di Nostro Signore e cercava di metterla in pratica « . Dio gli fece la grazia di restarvi eroicamente fedele; e il suo esempio ci guida ancora nelle vie dell’ascesi, in cui brilla di grande splendore per la sua povertà, castità e ubbidienza.

San Giovanni M. Vianney, esempio mirabile di povertà evangelica

Anzitutto osservate la povertà dell’umile Curato d’Ars, degno emulo di San Francesco d’Assisi, di cui fu nel Terz’Ordine un fedele discepolo. Ricco per dare agli altri, ma povero per sé, visse in un totale distacco dai beni di questo mondo e il suo cuore veramente libero si apriva largamente a tutte le miserie materiali e spirituali che affluivano a lui.  » Il mio segreto – egli diceva – è semplicissimo: Dare tutto e non conservare niente « . Il suo disinteresse lo rendeva premuroso verso i poveri, soprattutto quelli della parrocchia, ai quali dimostrava un’estrema delicatezza, trattandoli  » con vera tenerezza, con molti riguardi, si deve dire con rispetto « . Raccomandava che non bisogna mai mancare di riguardo ai poveri, perché tale mancanza ricade su Dio; e quando i miseri bussavano alla porta, egli era felice di poter loro dire, accogliendoli con bontà:  » Io sono povero come voi; sono oggi uno dei vostri! « . Alla fine della vita amava ripetere:  » Sono contentissimo: non ho più niente e il buon Dio può chiamarmi quando vorrà « .

Applicazioni per i sacerdoti di oggi

Potrete da ciò comprendere, Venerabili Fratelli, che con affetto esortiamo i nostri cari figli del sacerdozio cattolico a meditare un tale esempio di povertà e di carità.  » L’esperienza quotidiana attesta – scriveva Pio XI pensando appunto al Santo Curato d’Ars – che i sacerdoti di vita modesta i quali, secondo la dottrina evangelica, non cercano in nessuna maniera i propri interessi, apportano mirabili benefici al popolo cristiano « . E lo stesso Pontefice, considerando la società contemporanea, rivolgeva anche ai sacerdoti questo grave monito:  » Mentre si vedono gli uomini vendere e negoziare tutto per il denaro, procedano essi disinteressatamente attraverso le attrattive dei vizi; e respingendo santamente l’indegna cupidigia del guadagno, non cerchino l’utile pecuniario, ma quello delle anime, bramino e chiedano la gloria di Dio e non la loro « .

Queste parole devono essere scolpite nel cuore di tutti i sacerdoti. Se ve ne sono che possiedono legittimamente beni personali, non vi si attacchino. Si ricordino piuttosto dell’obbligo enunciato dal Codice di Diritto Canonico, a proposito dei benefici ecclesiastici,  » di destinare il superfluo ai poveri e alle cause pie « . E voglia Dio che nessuno meriti il rimprovero fatto dal Santo Curato alle sue pecorelle:  » Quanti hanno denaro che tengono serrato, mentre tanti poveri muoiono di fame! « . Ma Noi sappiamo che molti sacerdoti oggi vivono effettivamente in condizioni di reale povertà. La glorificazione di uno di loro, che volontariamente visse tanto spogliato e si rallegrava al pensiero di essere il più povero della parrocchia, sarà per essi un provvidenziale incoraggiamento a rinnegare se stessi nella pratica di una povertà evangelica. E se la Nostra paterna sollecitudine può essere loro di qualche conforto, sappiano che noi vivamente godiamo del loro disinteresse nel servizio di Cristo e della Chiesa.

Certamente, nel raccomandare questa santa povertà, non intendiamo affatto, Venerabili Fratelli, approvare la miseria, nella quale sono talora ridotti i ministri del Signore nelle città o nelle campagne. Nel commento su l’esortazione del Signore al distacco dai beni di questo mondo, San Beda Venerabile ci mette precisamente in guardia da ogni interpretazione abusiva:  » Non bisogna credere – scrive egli – che sia comandato ai santi di non conservare denaro ad uso proprio o dei poveri; perché si legge che il Signore stesso per formare la sua chiesa aveva una cassa…; ma piuttosto che non si serva Dio per questo né rinunzi alla giustizia per timore della povertà « . D’altronde l’operaio ha diritto alla sua mercede: e Noi, facendo nostre le sollecitudini del nostro immediato precedessore, domandiamo instantemente a tutti i fedeli di rispondere con generosità all’appello dei Vescovi, giustamente premurosi di assicurare ai loro collaboratori convenienti risorse.

La sua castità angelica

San Giovanni Maria Vianney, povero di beni, fu ugualmente mortificato nella carne.  » Non vi è che una maniera di darsi a Dio nell’esercizio della rinunzia e del sacrificio – egli diceva – darsi cioè interamente « . E in tutta la sua vita praticò in grado eroico l’ascesi della castità.
Il suo esempio su questo punto sembra particolarmente opportuno, perché in molte regioni, purtroppo, i sacerdoti sono costretti a vivere, a motivo del loro ufficio, in un mondo in cui regna un’atmosfera di eccessiva libertà e sensualità. Ed è troppo vera per essi la espressione di San Tommaso:  » E’ alquanto difficile vivere bene nella cura delle anime a causa dei pericoli esteriori « . Spesso, inoltre, essi sono moralmente soli, poco compresi, poco sostenuti dai fedeli, cui si dedicano. A tutti, specialmente ai più isolati e ai più esposti, Noi rivolgiamo qui un caldissimo appello perché la loro vita intera sia una chiara testimonianza resa a questa virtù che San Pio X chiamava  » ornamento insigne dell’Ordine nostro « . E vi raccomandiamo con viva insistenza, Venerabili Fratelli, di procurare ai vostri sacerdoti, nel miglior modo possibile, condizioni di vita e di lavoro tale da sostenere la loro generosità. Bisogna cioè ad ogni costo combattere i pericoli dell’isolamento, denunciare le imprudenze, allontanare le tentazioni dell’ozio o i rischi dell’esagerata attività. Ci si ricordi ugualmente a questo riguardo dei magnifici insegnamenti del Nostro Predecessore nell’enciclica Sacra virginitas.
 » La castità brillava nel suo sguardo « , è stato detto del Curato d’Ars. Realmente chi si pone alla sua scuola è colpito non solo dall’eroismo con cui questo sacerdote ridusse in servitù il suo corpo (cf 1 Cor 9,27), ma anche dall’accento di convinzione con cui egli riusciva a trascinare dietro di sé la moltitudine dei suoi penitenti. Egli conosceva, attraverso una lunga pratica del confessionale, le tristi rovine dei peccati della carne:  » Se non ci fossero alcune anime pure per ricompensare Dio, sospirava…, vedreste come saremmo puniti! « . E parlando per esperienza, aggiungeva al suo appello un incoraggiamento fraterno:  » La mortificazione ha un balsamo e dei sapori di cui non si può fare a meno quando li si abbia una volta conosciuti… In questa via quello che costa è solo il primo passo! « .
Questa ascesi necessaria della castità, lungi dal chiudere il sacerdote in uno sterile egoismo, rende il suo cuore più aperto e più pronto a tutte le necessità dei suoi fratelli:  » Quando il cuore è puro – diceva ottimamente il Curato d’Ars – non può fare a meno di amare, poiché ha ritrovato la sorgente dell’amore che è Dio « . Quale beneficio per la società ave-e nel suo seno uomini che, liberi dalle preoccupazioni temporali, si consacrano completamente al servizio divino e dedicano ai propri fratelli la loro vita, i loro pensieri e le loro energie! Quale grazia sono per la Chiesa i sacerdoti fedeli a questa eccelsa virtù! Con Pio XI Noi la consideriamo come la gloria più pura del sacerdozio cattolico, e  » per quanto riguarda le anime sacerdotali, Ci sembra rispondere nella maniera più degna e conveniente ai disegni e desideri del Sacratissimo Cuore di Gesù « . Pensava a questo disegno dell’amore divino il Santo Curato d’Ars, quando esclamava:  » Il sacerdozio, ecco l’amore del Cuore di Gesù! « .

Il suo spirito di obbedienza

Sullo spirito di obbedienza del Santo le testimonianze sono innumerevoli, giacché si può veramente affermare che per lui l’esatta fedeltà al promitto dell’Ordinazione fu l’occasione di una rinuncia continua durata quarant’anni. Per tutta la sua vita, infatti, egli aspirò alla solitudine di un santo ritiro e le responsabilità pastorali furono per lui un fardello troppo pesante, di cui tentò anche più volte di liberarsi. Ma la sua obbedienza totale al Vescovo fu ancora più ammirabile. Ascoltiamo, Venerabili Fratelli, alcuni testimoni della sua vita:  » Dall’età di quindici anni – dice uno di essi – questo desiderio (della solitudine) era nel suo cuore per tormentarlo e sottrargli le gioie che avrebbe potuto gustare nella sua posizione « ; ma  » Dio non permise – attesta un altro – che egli potesse realizzare il suo disegno. La divina Provvidenza voleva senza dubbio che, sacrificando il proprio gusto all’obbedienza, il piacere al dovere, già M. Vianney avesse continua occasione di vincersi « ;  » M. Vianney – conclude un terzo – restò Curato d’Ars con un’obbedienza cieca, e vi è rimasto fino alla morte « .
Questa totale adesione alla volontà dei suoi Superiori era, conviene precisarlo, interamente soprannaturale nel motivo; era un atto di fede nella parola di Cristo che dice ai suoi Apostoli:  » Chi ascolta voi, ascolta me  » (Lc 10,16) e, per restarvi fedele, si esercitava a rinunziare abitualmente alla sua volontà nell’accettare il pesante ministero del confessionale e in tutti gli altri compiti quotidiani, in cui la collaborazione tra confratelli rende l’apostolato più fruttuoso.
Ci piace proporre come esempio ai sacerdoti questa rigida obbedienza, nella fiducia che essi ne comprenderanno tutta la grandezza e ne acquisteranno il gusto spirituale. E, se mai fossero tentati di dubitare dell’importanza di questa virtù capitale, tanto facilmente misconosciuta oggi, sappiano di aver contro le chiare e decise affermazioni di Pio XII, il quale attestava che  » la santità della vita di ciascuno e l’efficacia dell’apostolato si basano e poggiano, come su solido fondamento, sul rispetto costante e fedele per la sacra gerarchia ». Del resto voi ricordate, Venerabili Fratelli, con che forza i nostri ultimi predecessori hanno denunziato i gravi pericoli dello spirito di indipendenza in seno al clero, tanto per l’insegnamento dottrinale, quanto per i metodi di apostolato e per la disciplina ecclesiastica.
Noi non vogliamo insistere oltre su questo punto, ma preferiamo esortare i Nostri figli sacerdoti a sviluppare in sé il senso filiale della loro appartenenza alla Chiesa, nostra Madre. Si diceva del Curato d’Ars che non viveva che nella Chiesa e per la Chiesa, come un fuscello di paglia posto in un braciere ardente. Sacerdoti di Gesù Cristo, siamo immersi nel braciere che il fuoco dello Spirito Santo vivifica; abbiamo ricevuto tutto dalla Chiesa; operiamo in suo nome e in virtù dei poteri da essa conferitici: amiamo servirla nei vincoli dell’unità e nella maniera in cui vuole essere servita.

Benedetto XVI: la preghiera è il primo impegno dell’Anno sacerdotale

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Benedetto XVI: la preghiera è il primo impegno dell’Anno sacerdotale

In occasione dell’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 1° luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale svoltasi in piazza San Pietro.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sulla celebrazione dell’Anno sacerdotale.

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Cari fratelli e sorelle,

con la celebrazione dei Primi Vespri della solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo nella Basilica di san Paolo fuori le Mura si è chiuso, come sapete, il 28 giugno, l’Anno Paolino, a ricordo del secondo millennio della nascita dell’Apostolo delle genti. Rendiamo grazie al Signore per i frutti spirituali, che questa importante iniziativa ha apportato in tante comunità cristiane. Quale preziosa eredità dell’Anno Paolino, possiamo raccogliere l’invito dell’Apostolo ad approfondire la conoscenza del mistero di Cristo, perché sia Lui il cuore e il centro della nostra esistenza personale e comunitaria. E’ questa infatti la condizione indispensabile per un vero rinnovamento spirituale ed ecclesiale. Come ebbi a sottolineare già durante la prima Celebrazione eucaristica nella Cappella Sistina dopo la mia elezione a successore dell’apostolo Pietro, è proprio dalla piena comunione con Cristo che « scaturisce ogni altro elemento della vita della Chiesa, in primo luogo la comunione tra tutti i fedeli, l’impegno di annuncio e di testimonianza del Vangelo, l’ardore della carità verso tutti, specialmente verso i poveri e i piccoli » (cfr Insegnamenti, I, 2005, pp. 8-13). Ciò vale in primo luogo per i sacerdoti. Per questo, ringraziamo la Provvidenza di Dio che ci offre la possibilità adesso di celebrare l’Anno Sacerdotale. Auspico di cuore che esso costituisca per ogni sacerdote un’opportunità di rinnovamento interiore e, conseguentemente, di saldo rinvigorimento nell’impegno per la propria missione.

Come durante l’Anno Paolino nostro riferimento costante è stato san Paolo, così nei prossimi mesi guarderemo in primo luogo a san Giovanni Maria Vianney, il santo Curato d’Ars, ricordandone il 150° anniversario della morte. Nella lettera che per questa occasione ho scritto ai sacerdoti, ho voluto sottolineare quel che maggiormente risplende nell’esistenza di questo umile ministro dell’altare: « la sua totale identificazione col proprio ministero ». Egli amava dire che « un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare ad una parrocchia e uno dei doni più preziosi della misericordia divina ». E, quasi non riuscendo a capacitarsi della grandezza del dono e del compito affidati ad una povera creatura umana, sospirava: « Oh come il prete è grande!… Se egli si comprendesse, morirebbe… Dio gli obbedisce: egli pronuncia due parole e Nostro Signore scende dal cielo alla sua voce e si rinchiude in una piccola ostia ».

In verità, proprio considerando il binomio « identità-missione », ciascun sacerdote può meglio avvertire la necessità di quella progressiva immedesimazione con Cristo che gli garantisce la fedeltà e la fecondità della testimonianza evangelica. Lo stesso titolo dell’Anno Sacerdotale – Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote – evidenzia che il dono della grazia divina precede ogni possibile umana risposta e realizzazione pastorale, e così, nella vita del sacerdote, annuncio missionario e culto non sono mai separabili, come non vanno mai separati identità ontologico-sacramentale e missione evangelizzatrice. Del resto il fine della missione di ogni presbitero, potremmo dire, è « cultuale »: perché tutti gli uomini possano offrirsi a Dio come ostia viva, santa e a lui gradita (cfr Rm 12,1), che nella creazione stessa, negli uomini diventa culto, lode del Creatore, ricevendone quella carità che sono chiamati a dispensare abbondantemente gli uni agli altri. Lo avvertivano chiaramente negli inizi del cristianesimo. San Giovanni Crisostomo diceva, ad esempio, che il sacramento dell’altare e il « sacramento del fratello » o, come dice « sacramento del povero » costituiscono due aspetti dello stesso mistero. L’amore per il prossimo, l’attenzione alla giustizia e ai poveri non sono soltanto temi di una morale sociale, quanto piuttosto espressione di una concezione sacramentale della moralità cristiana, perché, attraverso il ministero dei presbiteri, si compie il sacrificio spirituale di tutti i fedeli, in unione con quello di Cristo, unico Mediatore: sacrificio che i presbiteri offrono in modo incruento e sacramentale in attesa della nuova venuta del Signore. Questa è la principale dimensione, essenzialmente missionaria e dinamica, dell’identità e del ministero sacerdotale: attraverso l’annuncio del Vangelo essi generano la fede in coloro che ancora non credono, perché possano unire al sacrificio di Cristo il loro sacrificio, che si traduce in amore per Dio e per il prossimo.

Cari fratelli e sorelle, a fronte di tante incertezze e stanchezze anche nell’esercizio del ministero sacerdotale, è urgente il recupero di un giudizio chiaro ed inequivocabile sul primato assoluto della grazia divina, ricordando quanto scrive san Tommaso d’Aquino: « Il più piccolo dono della grazia supera il bene naturale di tutto l’universo » (Summa Theologiae, I-II, q. 113, a. 9, ad 2). La missione di ogni singolo presbitero dipenderà, pertanto, anche e soprattutto dalla consapevolezza della realtà sacramentale del suo « nuovo essere ». Dalla certezza della propria identità, non artificialmente costruita ma gratuitamente e divinamente donata ed accolta, dipende il sempre rinnovato entusiasmo del sacedote per la missione. Anche per i presbiteri vale quanto ho scritto nell’Enciclica Deus caritas est: « All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva » (n. 1).

Avendo ricevuto un così straordinario dono di grazia con la loro « consacrazione », i presbiteri diventano testimoni permanenti del loro incontro con Cristo. Partendo proprio da questa interiore consapevolezza, essi possono svolgere appieno la loro « missione », mediante l’annuncio della Parola e l’amministrazione dei Sacramenti. Dopo il Concilio Vaticano II, si è prodotta qua e là l’impressione che nella missione dei sacerdoti in questo nostro tempo, ci fosse qualcosa di più urgente; alcuni pensavano che si dovesse in primo luogo costruire una diversa società. La pagina evangelica, che abbiamo ascoltata all’inizio, sta invece a richiamare i due elementi essenziali del ministero sacerdotale. Gesù invia, in quel tempo ed oggi, gli Apostoli ad annunciare il Vangelo e dà ad essi il potere di cacciare gli spiriti cattivi. « Annuncio » e « potere », cioè « parola » e « sacramento » sono pertanto le due fondamentali colonne del servizio sacerdotale, al di là delle sue possibili molteplici configurazioni.

Quando non si tiene conto del « dittico » consacrazione-missione, diventa veramente difficile comprendere l’identità del presbitero e del suo ministero nella Chiesa. Chi è infatti il presbitero, se non un uomo convertito e rinnovato dallo Spirito, che vive del rapporto personale con Cristo, facendone costantemente propri i criteri evangelici? Chi è il presbitero se non un uomo di unità e di verità, consapevole dei propri limiti e, nel contempo, della straordinaria grandezza della vocazione ricevuta, quella cioè di concorrere a dilatare il Regno di Dio fino agli estremi confini della terra? Sì! Il sacerdote è un uomo tutto del Signore, poiché è Dio stesso a chiamarlo ed a costituirlo nel suo servizio apostolico. E proprio essendo tutto del Signore, è tutto degli uomini, per gli uomini. Durante questo Anno Sacerdotale, che si protrarrà fino alla prossima solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, preghiamo per tutti i sacerdoti. Si moltiplichino nelle diocesi, nelle parrocchie, nelle comunità religiose specialmente quelle monastiche, nelle associazioni e nei movimenti, nelle varie aggregazioni pastorali presenti in tutto il mondo, iniziative di preghiera e, in particolare, di adorazione eucaristica, per la santificazione del clero e le vocazioni sacerdotali, rispondendo all’invito di Gesù a pregare « il Signore della messe perché mandi operai nella sua messe » (Mt 9,38). La preghiera è il primo impegno, la vera via di santificazione dei sacerdoti, e l’anima dell’autentica « pastorale vocazionale ». La scarsità numerica di ordinazioni sacerdotali in taluni Paesi non solo non deve scoraggiare, ma deve spingere a moltiplicare gli spazi di silenzio e di ascolto della Parola, a curare meglio la direzione spirituale e il sacramento della confessione, perché la voce di Dio, che sempre continua a chiamare e a confermare, possa essere ascoltata e prontamente seguita da tanti giovani. Chi prega non ha paura; chi prega non è mai solo; chi prega si salva! Modello di un’esistenza fatta preghiera è senz’altro san Giovanni Maria Vianney. Maria, la Madre della Chiesa, aiuti tutti sacerdoti a seguirne l’esempio per essere, come lui, testimoni di Cristo e apostoli del Vangelo.

Meditazione di Benedetto XVI sull’Anno Sacerdotale

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Meditazione di Benedetto XVI sull’Anno Sacerdotale

In occasione dell’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 24 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale svoltasi in piazza San Pietro.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa ha incentrato la sua meditazione sull’Anno Sacerdotale da lui indetto nell’occasione del 150° anniversario della morte del Curato d’Ars, san Giovanni Maria Vianney.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

venerdì scorso 19 giugno, Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù e Giornata tradizionalmente dedicata alla preghiera per la santificazione dei sacerdoti, ho avuto la gioia d’inaugurare l’Anno Sacerdotale, indetto in occasione del centocinquantesimo anniversario della « nascita al Cielo » del Curato d’Ars, san Giovanni Battista Maria Vianney. Ed entrando nella Basilica Vaticana per la celebrazione dei Vespri, quasi come primo gesto simbolico, mi sono fermato nella Cappella del Coro per venerare la reliquia di questo santo Pastore d’anime: il suo cuore. Perché un Anno Sacerdotale? Perché proprio nel ricordo del santo Curato d’Ars, che apparentemente non ha compiuto nulla di straordinario?

La Provvidenza divina ha fatto sì che la sua figura venisse accostata a quella di san Paolo. Mentre infatti si va concludendo l’Anno Paolino, dedicato all’Apostolo delle genti, modello di straordinario evangelizzatore che ha compiuto diversi viaggi missionari per diffondere il Vangelo, questo nuovo anno giubilare ci invita a guardare ad un povero contadino diventato umile parroco, che ha consumato il suo servizio pastorale in un piccolo villaggio. Se i due Santi differiscono molto per i percorsi di vita che li hanno caratterizzati – l’uno è passato di regione in regione per annunciare il Vangelo, l’altro ha accolto migliaia e migliaia di fedeli sempre restando nella sua piccola parrocchia -, c’è però qualcosa di fondamentale che li accomuna: ed è la loro identificazione totale col proprio ministero, la loro comunione con Cristo che faceva dire a san Paolo: « Sono stato crocifisso con Cristo. Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Gal 2,20). E san Giovanni Maria Vianney amava ripetere: « Se avessimo fede, vedremmo Dio nascosto nel sacerdote come una luce dietro il vetro, come il vino mescolato all’acqua ». Scopo di questo Anno Sacerdotale come ho scritto nella lettera inviata ai sacerdoti per tale occasione – è pertanto favorire la tensione di ogni presbitero « verso la perfezione spirituale dalla quale soprattutto dipende l’efficacia del suo ministero », e aiutare innanzitutto i sacerdoti, e con essi l’intero Popolo di Dio, a riscoprire e rinvigorire la coscienza dello straordinario ed indispensabile dono di Grazia che il ministero ordinato rappresenta per chi lo ha ricevuto, per la Chiesa intera e per il mondo, che senza la presenza reale di Cristo sarebbe perduto.

Indubbiamente sono mutate le condizioni storiche e sociali nelle quali ebbe a trovarsi il Curato d’Ars ed è giusto domandarsi come possano i sacerdoti imitarlo nella immedesimazione col proprio ministero nelle attuali società globalizzate. In un mondo in cui la visione comune della vita comprende sempre meno il sacro, al posto del quale, la « funzionalità » diviene l’unica decisiva categoria, la concezione cattolica del sacerdozio potrebbe rischiare di perdere la sua naturale considerazione, talora anche all’interno della coscienza ecclesiale. Non di rado, sia negli ambienti teologici, come pure nella concreta prassi pastorale e di formazione del clero, si confrontano, e talora si oppongono, due differenti concezioni del sacerdozio. Rilevavo in proposito alcuni anni or sono che esistono « da una parte una concezione sociale-funzionale che definisce l’essenza del sacerdozio con il concetto di ‘servizio’: il servizio alla comunità, nell’espletamento di una funzione… Dall’altra parte, vi è la concezione sacramentale-ontologica, che naturalmente non nega il carattere di servizio del sacerdozio, lo vede però ancorato all’essere del ministro e ritiene che questo essere è determinato da un dono concesso dal Signore attraverso la mediazione della Chiesa, il cui nome è sacramento » (J. Ratzinger, Ministero e vita del Sacerdote, in Elementi di Teologia fondamentale. Saggio su fede e ministero, Brescia 2005, p.165). Anche lo slittamento terminologico dalla parola « sacerdozio » a quelle di « servizio, ministero, incarico », è segno di tale differente concezione. Alla prima, poi, quella ontologico-sacramentale, è legato il primato dell’Eucaristia, nel binomio « sacerdozio-sacrificio », mentre alla seconda corrisponderebbe il primato della parola e del servizio dell’annuncio.

A ben vedere, non si tratta di due concezioni contrapposte, e la tensione che pur esiste tra di esse va risolta dall’interno. Così il Decreto Presbyterorum ordinis del Concilio Vaticano II afferma: « È proprio per mezzo dell’annuncio apostolico del Vangelo che il popolo di Dio viene convocato e adunato, in modo che tutti… possano offrire se stessi come «ostia viva, santa, accettabile da Dio» (Rm 12,1), ed è proprio attraverso il ministero dei presbiteri che il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto nell’unione al sacrificio di Cristo, unico mediatore. Questo sacrificio, infatti, per mano dei presbiteri e in nome di tutta la Chiesa, viene offerto nell’Eucaristia in modo incruento e sacramentale, fino al giorno della venuta del Signore » (n. 2).

Ci chiediamo allora: « Che cosa significa propriamente, per i sacerdoti, evangelizzare? In che consiste il cosiddetto primato dell’annuncio »?. Gesù parla dell’annuncio del Regno di Dio come del vero scopo della sua venuta nel mondo e il suo annuncio non è solo un « discorso ». Include, nel medesimo tempo, il suo stesso agire: i segni e i miracoli che compie indicano che il Regno viene nel mondo come realtà presente, che coincide ultimamente con la sua stessa persona. In questo senso, è doveroso ricordare che, anche nel primato dell’annuncio, parola e segno sono indivisibili. La predicazione cristiana non proclama « parole », ma la Parola, e l’annuncio coincide con la persona stessa di Cristo, ontologicamente aperta alla relazione con il Padre ed obbediente alla sua volontà. Quindi, un autentico servizio alla Parola richiede da parte del sacerdote che tenda ad una approfondita abnegazione di sé, sino a dire con l’Apostolo: « non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me ». Il presbitero non può considerarsi « padrone » della parola, ma servo. Egli non è la parola, ma, come proclamava Giovanni il Battista, del quale celebriamo proprio oggi la Natività, è « voce » della Parola: « Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri » (Mc 1,3).

Ora, essere « voce » della Parola, non costituisce per il sacerdote un mero aspetto funzionale. Al contrario presuppone un sostanziale « perdersi » in Cristo, partecipando al suo mistero di morte e di risurrezione con tutto il proprio io: intelligenza, libertà, volontà e offerta dei propri corpi, come sacrificio vivente (cfr Rm 12,1-2). Solo la partecipazione al sacrificio di Cristo, alla sua chènosi, rende autentico l’annuncio! E questo è il cammino che deve percorrere con Cristo per giungere a dire al Padre insieme con Lui: si compia « non ciò che io voglio, ma ciò che tu vuoi » (Mc 14,36). L’annuncio, allora, comporta sempre anche il sacrificio di sé, condizione perché l’annuncio sia autentico ed efficace.

Alter Christus, il sacerdote è profondamente unito al Verbo del Padre, che incarnandosi ha preso la forma di servo, è divenuto servo (cfr Fil 2,5-11). Il sacerdote é servo di Cristo, nel senso che la sua esistenza, configurata a Cristo ontologicamente, assume un carattere essenzialmente relazionale: egli è in Cristo, per Cristo e con Cristo al servizio degli uomini. Proprio perché appartiene a Cristo, il presbitero è radicalmente al servizio degli uomini: è ministro della loro salvezza, della loro felicità, della loro autentica liberazione, maturando, in questa progressiva assunzione della volontà del Cristo, nella preghiera, nello « stare cuore a cuore » con Lui. È questa allora la condizione imprescindibile di ogni annuncio, che comporta la partecipazione all’offerta sacramentale dell’Eucaristia e la docile obbedienza alla Chiesa.

Il santo Curato d’Ars ripeteva spesso con le lacrime agli occhi: « Come è spaventoso essere prete! ». Ed aggiungeva: « Come è da compiangere un prete quando celebra la Messa come un fatto ordinario! Com’è sventurato un prete senza vita interiore! ». Possa l’Anno sacerdotale condurre tutti i sacerdoti ad immedesimarsi totalmente con Gesù crocifisso e risorto, perché, ad imitazione di san Giovanni Battista, siano pronti a « diminuire » perché Lui cresca; perché, seguendo l’esempio del Curato d’Ars, avvertano in maniera costante e profonda la responsabilità della loro missione, che è segno e presenza dell’infinita misericordia di Dio. Affidiamo alla Madonna, Madre della Chiesa, l’Anno Sacerdotale appena iniziato e tutti i sacerdoti del mondo.

Incontro del Papa con i sacerdoti, i religiosi e i giovani a San Giovanni Rotondo

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Incontro del Papa con i sacerdoti, i religiosi e i giovani a San Giovanni Rotondo

SAN GIOVANNI ROTONDO, domenica, 21 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questa domenica da Benedetto XVI nella chiesa di san Pio da Pietrelcina di San Giovanni Rotondo, dove ha avuto luogo l’incontro con i sacerdoti, i religiosi e le religiose, e i giovani.

* * *

Cari sacerdoti,
cari religiosi e religiose,
cari giovani,

con questo nostro incontro si chiude il mio pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo. Sono grato all’Arcivescovo di Lecce, Amministratore Apostolico di questa Diocesi, Mons. Domenico Umberto d’Ambrosio, e al Padre Mauro Jöhri, Ministro Generale dei Frati Minori Cappuccini, per le parole di cordiale benvenuto che mi hanno rivolto a nome vostro. Il mio saluto si volge ora a voi, cari sacerdoti, che siete ogni giorno impegnati al servizio del popolo di Dio come guide sagge e assidui operai nella vigna del Signore. Saluto con affetto anche le care persone consacrate, chiamate ad offrire una testimonianza di totale dedizione a Cristo mediante la fedele pratica dei consigli evangelici. Un pensiero speciale per voi, cari Frati Cappuccini, che curate con amore questa oasi di spiritualità e di solidarietà evangelica, accogliendo pellegrini e devoti richiamati dalla viva memoria del vostro santo confratello Padre Pio da Pietrelcina. Grazie di cuore per questo prezioso servizio che rendete alla Chiesa e alle anime che qui riscoprono la bellezza della fede e il calore della tenerezza divina. Saluto voi, cari giovani, ai quali il Papa guarda con fiducia come al futuro della Chiesa e della società. Qui, a San Giovanni Rotondo, tutto parla della santità di un umile frate e zelante sacerdote, che questa sera, invita anche noi ad aprire il cuore alla misericordia di Dio; ci esorta ad essere santi, cioè sinceri e veri amici di Gesù. E grazie alle parole dei vostri rappresentanti giovani.

Cari sacerdoti, proprio l’altro ieri, solennità del Sacro Cuore di Gesù e Giornata di santità sacerdotale, abbiamo iniziato l’Anno Sacerdotale, durante il quale ricorderemo con venerazione ed affetto il 150° anniversario della morte di san Giovanni Maria Vianney, il santo Curato d’Ars. Nella lettera che ho scritto per l’occasione, ho voluto sottolineare quanto sia importante la santità dei sacerdoti per la vita e la missione della Chiesa. Come il Curato d’Ars, anche Padre Pio ci ricorda la dignità e la responsabilità del ministero sacerdotale. Chi non restava colpito dal fervore con cui egli riviveva la Passione di Cristo in ogni celebrazione eucaristica? Dall’amore per l’Eucaristia scaturiva in lui come nel Curato d’Ars una totale disponibilità all’accoglienza dei fedeli, soprattutto dei peccatori. Inoltre, se san Giovanni Maria Vianney, in un’epoca tormentata e difficile, cercò in ogni modo, di far riscoprire ai suoi parrocchiani il significato e la bellezza della penitenza sacramentale, per il santo Frate del Gargano, la cura delle anime e la conversione dei peccatori furono un anelito che lo consumò fino alla morte. Quante persone hanno cambiato vita grazie al suo paziente ministero sacerdotale; quante lunghe ore egli trascorreva in confessionale! Come per il Curato d’Ars, è proprio il ministero di confessore a costituire il maggior titolo di gloria e il tratto distintivo di questo santo Cappuccino. Come allora non renderci conto dell’importanza di partecipare devotamente alla celebrazione eucaristica e di accostarsi frequentemente al sacramento della Confessione? In particolare, il sacramento della Penitenza va ancor più valorizzato, e i sacerdoti non dovrebbero mai rassegnarsi a vedere deserti i loro confessionali né limitarsi a constatare la disaffezione dei fedeli per questa straordinaria fonte di serenità e di pace.

C’è poi un altro grande insegnamento che possiamo trarre dalla vita di Padre Pio: il valore e la necessità della preghiera. A chi gli chiedeva un parere sulla sua persona, egli soleva rispondere: « Non sono che un povero frate che prega ». Ed effettivamente pregava sempre e dovunque con umiltà, fiducia e perseveranza. Ecco allora un punto fondamentale non solo per la spiritualità del sacerdote, ma anche per quella di ogni cristiano, ed ancor più per la vostra, cari religiosi e religiose, scelti per seguire più da vicino Cristo mediante la pratica dei voti di povertà, castità e obbedienza. Talora si può essere presi da un certo scoraggiamento dinanzi all’affievolimento e persino all’abbandono della fede, che si registra nelle nostre società secolarizzate. Sicuramente occorre trovare nuovi canali per comunicare la verità evangelica agli uomini e alle donne del nostro tempo, ma poiché il contenuto essenziale dell’annuncio cristiano resta sempre lo stesso, è necessario tornare alla sua sorgente originaria, a Gesù Cristo che è « lo stesso ieri e oggi e sempre » (Eb 13,8). La vicenda umana e spirituale di Padre Pio insegna che solo un’anima intimamente unita al Crocifisso riesce a trasmettere anche ai lontani la gioia e la ricchezza del Vangelo.

All’amore per Cristo è inevitabilmente unito l’amore per la sua Chiesa, guidata ed animata dalla potenza dello Spirito Santo, nella quale ognuno di noi ha un ruolo e una missione da compiere. Cari sacerdoti, cari religiosi e religiose, diversi sono i compiti che vi sono affidati e i carismi dei quali siete interpreti, ma unico sia sempre lo spirito con cui realizzarli, perché la vostra presenza e la vostra azione all’interno del popolo cristiano, diventino eloquente testimonianza del primato di Dio nella vostra esistenza. Non era forse proprio questo ciò che tutti percepivano in san Pio da Pietrelcina?

Permettete ora che rivolga una parola speciale ai giovani, che vedo così numerosi ed entusiasti. Cari amici, grazie per la vostra accoglienza calorosa e per i fervidi sentimenti di cui si è fatto interprete il vostro rappresentante. Ho notato che il piano pastorale della vostra Diocesi, per il triennio 2007-2010, dedica molta attenzione alla missione nei confronti della gioventù e della famiglia e sono certo che dall’itinerario di ascolto, di confronto, di dialogo e di verifica nel quale siete impegnati, scaturiranno una sempre maggiore cura delle famiglie e un puntuale ascolto delle reali attese delle nuove generazioni. Ho presente i problemi che vi assillano, cari ragazzi e ragazze, e rischiano di soffocare gli entusiasmi tipici della vostra giovinezza. Tra questi, in particolare, cito il fenomeno della disoccupazione, che interessa in maniera drammatica non pochi giovani e ragazze del Mezzogiorno d’Italia. Non perdetevi d’animo! Siate « giovani dal cuore grande », come vi è stato ripetuto spesso quest’anno a partire dalla Missione Diocesana Giovani, animata e guidata dal Seminario Regionale di Molfetta nel settembre scorso. La Chiesa non vi abbandona. Voi non abbandonate la Chiesa! C’è bisogno del vostro apporto per costruire comunità cristiane vive, e società più giuste e aperte alla speranza. E se volete avere il « cuore grande », mettetevi alla scuola di Gesù. Proprio l’altro giorno abbiamo contemplato il suo Cuore grande e colmo di amore per l’umanità. Mai Egli vi abbandonerà o tradirà la vostra fiducia, mai vi condurrà per sentieri sbagliati. Come Padre Pio, anche voi siate fedeli amici del Signore Gesù, intrattenendo con Lui un quotidiano rapporto mediante la preghiera e l’ascolto della sua Parola, l’assidua pratica dei Sacramenti e l’appartenenza cordiale alla sua famiglia, che è la Chiesa. Questo deve essere alla base del programma di vita di ciascuno di voi, cari giovani, come pure di voi, cari sacerdoti e di voi, cari religiosi e religiose. Per ciascuno e ciascuna assicuro la mia preghiera, mentre imploro la materna protezione di Santa Maria delle Grazie, che veglia su di voi dal suo Santuario nella cui cripta riposano le spoglie di Padre Pio. Di cuore vi ringrazio, ancora una volta, per la vostra accoglienza e vi benedico tutti, insieme alle vostre famiglie, comunità, parrocchie e all’intera vostra Diocesi. Grazie!

Omelia di Benedetto XVI per l’inaugurazione dell’Anno Sacerdotale

dal sito:

http://www.zenit.org/article-18688?l=italian

Omelia di Benedetto XVI per l’inaugurazione dell’Anno Sacerdotale

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 19 giugno 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell’omelia che Benedetto XVI ha pronunciato nella Basilica vaticana questo venerdì pomeriggio, Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, presiedendo la celebrazione dei secondi Vespri della solennità in occasione dell’apertura dell’Anno Sacerdotale.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

nell’antifona al Magnificat tra poco canteremo: « Il Signore ci ha accolti nel suo cuore – Suscepit nos Dominus in sinum et cor suum ». Nell’Antico Testamento si parla 26 volte del cuore di Dio, considerato come l’organo della sua volontà: rispetto al cuore di Dio l’uomo viene giudicato. A causa del dolore che il suo cuore prova per i peccati dell’uomo, Iddio decide il diluvio, ma poi si commuove dinanzi alla debolezza umana e perdona. C’è poi un passo veterotestamentario nel quale il tema del cuore di Dio si trova espresso in modo assolutamente chiaro: è nel capitolo 11 del libro del profeta Osea, dove i primi versetti descrivono la dimensione dell’amore con cui il Signore si è rivolto ad Israele all’alba della sua storia: « Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio » (v. 1). In verità, all’instancabile predilezione divina, Israele risponde con indifferenza e addirittura con ingratitudine. « Più li chiamavo – è costretto a constatare il Signore -, più si allontanavano da me » (v. 2). Tuttavia Egli mai abbandona Israele nelle mani dei nemici, perché, cosí dice il versetto 8, « il mio cuore – osserva il Creatore dell’universo – si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione ».

Il cuore di Dio freme di compassione! Nell’odierna solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, la Chiesa offre alla nostra contemplazione questo mistero, il mistero del cuore di un Dio che si commuove e riversa tutto il suo amore sull’umanità. Un amore misterioso, che nei testi del Nuovo Testamento ci viene rivelato come incommensurabile passione di Dio per l’uomo. Egli non si arrende dinanzi all’ingratitudine e nemmeno davanti al rifiuto del popolo che si è scelto; anzi, con infinita misericordia, invia nel mondo l’Unigenito suo Figlio perché prenda su di sé il destino dell’amore distrutto; perché, sconfiggendo il potere del male e della morte, possa restituire dignità di figli agli esseri umani resi schiavi dal peccato. Tutto questo a caro prezzo: il Figlio Unigenito del Padre si immola sulla croce: « Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine » (cfr Gv 13,1). Simbolo di tale amore che va oltre la morte è il suo fianco squarciato da una lancia. A tale riguardo, il testimone oculare, l’apostolo Giovanni, afferma: « Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue ed acqua » (cfr Gv 19,34).

Cari fratelli e sorelle, grazie perché, rispondendo al mio invito, siete venuti numerosi a questa celebrazione con cui entriamo nell’Anno Sacerdotale. Saluto i Signori Cardinali e i Vescovi, in particolare il Cardinale Prefetto e il Segretario della Congregazione per il Clero con i loro collaboratori, ed il Vescovo di Ars. Saluto i sacerdoti e i seminaristi dei vari seminari e collegi di Roma; i religiosi e le religiose e tutti i fedeli. Un saluto speciale rivolgo a Sua Beatitudine Ignace Youssef Younan, Patriarca di Antiochia dei Siri, venuto a Roma per incontrarmi e significare pubblicamente l’ »ecclesiastica communio » che gli ho concesso.

Cari fratelli e sorelle, fermiamoci insieme a contemplare il Cuore trafitto del Crocifisso. Abbiamo ascoltato ancora una volta, poco fa, nella breve lettura tratta dalla Lettera di san Paolo agli Efesini, che « Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatti rivivere con Cristo… Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù » (Ef 2,4-6). Essere in Cristo Gesù è già sedere nei Cieli. Nel Cuore di Gesù è espresso il nucleo essenziale del cristianesimo; in Cristo ci è stata rivelata e donata tutta la novità rivoluzionaria del Vangelo: l’Amore che ci salva e ci fa vivere già nell’eternità di Dio. Scrive l’evangelista Giovanni: « Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna » (3,16). Il suo Cuore divino chiama allora il nostro cuore; ci invita ad uscire da noi stessi, ad abbandonare le nostre sicurezze umane per fidarci di Lui e, seguendo il suo esempio, a fare di noi stessi un dono di amore senza riserve.

Se è vero che l’invito di Gesù a « rimanere nel suo amore » (cfr Gv 15,9) è per ogni battezzato, nella festa del Sacro Cuore di Gesù, Giornata di santificazione sacerdotale, tale invito risuona con maggiore forza per noi sacerdoti, in particolare questa sera, solenne inizio dell’Anno Sacerdotale, da me voluto in occasione del 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars. Mi viene subito alla mente una sua bella e commovente affermazione, riportata nel Catechismo della Chiesa Cattolica dove dice: « Il sacerdozio è l’amore del Cuore di Gesù » (n. 1589). Come non ricordare con commozione che direttamente da questo Cuore è scaturito il dono del nostro ministero sacerdotale? Come dimenticare che noi presbiteri siamo stati consacrati per servire, umilmente e autorevolmente, il sacerdozio comune dei fedeli? La nostra è una missione indispensabile per la Chiesa e per il mondo, che domanda fedeltà piena a Cristo ed incessante unione con Lui; esige cioè che tendiamo costantemente alla santità come ha fatto san Giovanni Maria Vianney. Nella Lettera a voi indirizzata per questo speciale anno giubilare, cari fratelli sacerdoti, ho voluto porre in luce alcuni aspetti qualificanti del nostro ministero, facendo riferimento all’esempio e all’insegnamento del Santo Curato di Ars, modello e protettore di tutti i sacerdoti, e in particolare dei parroci. Che questo mio scritto vi sia di aiuto e di incoraggiamento a fare di questo anno un’occasione propizia per crescere nell’intimità con Gesù, che conta su di noi, suoi ministri, per diffondere e consolidare il suo Regno, per diffondere il suo amore, la sua verità. E pertanto, « sull’esempio del Santo Curato d’Ars – così concludevo la mia Lettera – lasciatevi conquistare da Lui e sarete anche voi, nel mondo di oggi, messaggeri di speranza, di riconciliazione, di pace ».

Lasciarsi conquistare pienamente da Cristo! Questo è stato lo scopo di tutta la vita di san Paolo, al quale abbiamo rivolto la nostra attenzione durante l’Anno Paolino che si avvia ormai verso la sua conclusione; questa è stata la meta di tutto il ministero del Santo Curato d’Ars, che invocheremo particolarmente durante l’Anno Sacerdotale; questo sia anche l’obiettivo principale di ognuno di noi. Per essere ministri al servizio del Vangelo, è certamente utile e necessario lo studio con una accurata e permanente formazione pastorale, ma è ancor più necessaria quella « scienza dell’amore » che si apprende solo nel « cuore a cuore » con Cristo. E’ Lui infatti a chiamarci per spezzare il pane del suo amore, per rimettere i peccati e per guidare il gregge in nome suo. Proprio per questo non dobbiamo mai allontanarci dalla sorgente dell’Amore che è il suo Cuore trafitto sulla croce.

Solo così saremo in grado di cooperare efficacemente al misterioso « disegno del Padre » che consiste nel « fare di Cristo il cuore del mondo »! Disegno che si realizza nella storia, man mano che Gesù diviene il Cuore dei cuori umani, iniziando da coloro che sono chiamati a stargli più vicini, i sacerdoti appunto. Ci richiamano a questo costante impegno le « promesse sacerdotali », che abbiamo pronunciato il giorno della nostra Ordinazione e che rinnoviamo ogni anno, il Giovedì Santo, nella Messa Crismale. Perfino le nostre carenze, i nostri limiti e debolezze devono ricondurci al Cuore di Gesù. Se infatti è vero che i peccatori, contemplandoLo, devono apprendere da Lui il necessario « dolore dei peccati » che li riconduca al Padre, questo vale ancor più per i sacri ministri. Come dimenticare, in proposito, che nulla fa soffrire tanto la Chiesa, Corpo di Cristo, quanto i peccati dei suoi pastori, soprattutto di quelli che si tramutano in « ladri delle pecore » (Gv 10,1ss), o perché le deviano con le loro private dottrine, o perché le stringono con lacci di peccato e di morte? Anche per noi, cari sacerdoti, vale il richiamo alla conversione e al ricorso alla Divina Misericordia, e ugualmente dobbiamo rivolgere con umiltà l’accorata e incessante domanda al Cuore di Gesù perché ci preservi dal terribile rischio di danneggiare coloro che siamo tenuti a salvare.

Poc’anzi ho potuto venerare, nella Cappella del Coro, la reliquia del Santo Curato d’Ars: il suo cuore. Un cuore infiammato di amore divino, che si commuoveva al pensiero della dignità del prete e parlava ai fedeli con accenti toccanti e sublimi, affermando che « dopo Dio, il sacerdote è tutto! … Lui stesso non si capirà bene che in cielo » (cfr Lettera per l’Anno Sacerdotale, p. 2). Coltiviamo, cari fratelli, questa stessa commozione, sia per adempiere il nostro ministero con generosità e dedizione, sia per custodire nell’anima un vero « timore di Dio »: il timore di poter privare di tanto bene, per nostra negligenza o colpa, le anime che ci sono affidate, o di poterle – Dio non voglia! – danneggiare. La Chiesa ha bisogno di sacerdoti santi; di ministri che aiutino i fedeli a sperimentare l’amore misericordioso del Signore e ne siano convinti testimoni. Nell’adorazione eucaristica, che seguirà la celebrazione dei Vespri, chiederemo al Signore che infiammi il cuore di ogni presbitero di quella « carità pastorale » capace di assimilare il suo personale « io » a quello di Gesù Sacerdote, così da poterlo imitare nella più completa auto-donazione. Ci ottenga questa grazia la Vergine Madre, della quale domani contempleremo con viva fede il Cuore Immacolato. Per Lei il Santo Curato d’Ars nutriva una filiale devozione, tanto che nel 1836, in anticipo sulla proclamazione del Dogma dell’Immacolata Concezione, aveva già consacrato la sua parrocchia a Maria « concepita senza peccato ». E mantenne l’abitudine di rinnovare spesso quest’offerta della parrocchia alla Santa Vergine, insegnando ai fedeli che « bastava rivolgersi a lei per essere esauditi », per il semplice motivo che ella « desidera soprattutto di vederci felici ». Ci accompagni la Vergine Santa, nostra Madre, nell’Anno Sacerdotale che oggi iniziamo, perché possiamo essere guide salde e illuminate per i fedeli che il Signore affida alle nostre cure pastorali. Amen!

San Giovanni Maria Vianney (per l’anno sacerdotale)

dal sito:

http://www.arsnet.org/111_it.php

SANCTUAIRE D’ARS

SAN GIOVANNI-MARIA VIANNEY [1786-1859]
- Una vita sotto lo sguardo di Dio –

Vita del Santo Curato 

Nato l’8 maggio 1786 a Dardilly, vicino a Lyon, in una famiglia di agricoltori, Giovanni-Maria Vianney ebbe un’infanzia segnata dal fervore e dall’amore dei suoi genitori. La Rivoluzione francese influenzerà ben presto, tuttavia, la sua fanciullezza e adolescenza : farà la prima confessione ai piedi del grande orologio, nella sala comune della sua casa natale e non nella chiesa del villaggio, e ad impartire l’assoluzione sarà un prete « clandestino ».
Due anni più tardi arriverà il momento della prima comunione, questa volta in un granaio, durante una Messa clandestina, celebrata da un prete « refrattario » (che non aveva giurato fedeltà alla Rivoluzione). A 17 anni Giovanni-Maria decide di rispondere alla chiamata di Dio: « Vorrei guadagnare delle anime al Buon Dio », confiderà alla madre, Maria Béluze. Ma per due anni suo padre si oppone a questo progetto : c’è bisogno di braccia per mandare avanti il lavoro dei campi.
Così è a 20 anni che Giovanni-Maria comincia a prepararsi al sacerdozio, presso l’abbé Balley, parroco d’Écully. le difficoltà che incontra contribuiscono a farlo crescere: passa dallo scoraggiamento alla speranza, si reca in pellegrinaggio a la Louvesc, sulla tomba di san Francesco Régis. È anche obbligato a disertare quando gli giunge la chiamata alle armi, per combattere nella guerra di Spagna. E tuttavia l’abbé Balley non manca costantemente di sostenerlo in tutti quegli anni di prove. Ordinato prete nel 1815, viene inviato come vicario ad Écully.
Nel 1818 viene mandato ad Ars. Là risveglia la fede dei parrocchiani con la sua predicazione, ma soprattutto attraverso la preghiera e il suo stile di vita. Si sente povero di fronte alla missione da compiere, ma si lascia afferrare dalla misericordia di Dio. Restaura ed abbellisce la chiesa, fonda un orfanotrofio (“La Provvidenza”) e si prende cura dei più poveri.

Molto presto la sua fama di confessore attira da lui numerosi pellegrini che cercano il perdono di Dio e la pace del cuore. Assalito da molte prove e combattimenti spirituali, conserva il suo cuore ben radicato nell’amore di Dio e dei fratelli. La sua unica preoccupazione è la salvezza delle anime. Le sue lezioni di catechismo e le sue omelie parlano soprattutto della bontà e della misericordia di Dio. Sacerdote che si consuma d’amore davanti al Santissimo Sacramento, si dona interamente a Dio, ai suoi parrocchiani e ai pellegrini. Muore il 4 agosto 1859, dopo essersi votato fino in fondo all’Amore. La sua povertà era sincera e reale. Sapeva che un giorno sarebbe morto come “prigioniero del confessionale”. Per tre volte aveva tentato di fuggire dalla sua parrocchia, ritenendosi indegno della missione di parroco e pensando di essere più un impedimento alla Bontà di Dio che uno strumento del suo Amore. L’ultima volta fu meno di sei anni prima della morte. Fu ripreso nel mezzo della notte dai suoi parrocchiani che avevano fatto suonare le campane a martello. Ritornò allora alla sua chiesa e riprese a confessare, fin dall’una del mattino. Dirà il giorno dopo: “sono stato un bambino”. Alle sue esequie c’erano più di mille persone e tra esse il vescovo e tutti i preti della diocesi, venuti ad onorare colui che consideravano già il loro modello.

Beatificato l’8 gennaio 1905, nello stesso anno viene dichiarato “patrono dei preti francesi”. canonizzato nel 1925 da Pio XI (lo stesso anno di Santa Teresina del Bambino Gesù), nel 1929 sarà proclamato “patrono di tutti i parroci del mondo”. Il papa Giovanni Paolo II è venuto ad Ars nel 1986.

Oggi Ars accoglie ogni anno 450.000 pellegrini e il Santuario propone diverse attività. Nel 1986 è stato aperto un seminario, che forma i futuri preti alla scuola di Giovanni-Maria Vianney. Perché là dove passano i santi, Dio passa assieme a loro!

Publié dans:ANNO SACERDOTALE |on 17 juin, 2009 |Pas de commentaires »
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