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I MESTIERI NEL VANGELO. IL LAVORO COME SPAZIO UTOPICO?

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I MESTIERI NEL VANGELO. IL LAVORO COME SPAZIO UTOPICO?

di Annalisa Margarino

Questo testo intende offrire in un tempo in cui lavoro e realizzazione personale non sembrano andare di pari passo, in cui lo stipendio non corrisponde alla fatica impiegata e in cui viene a mancare spesso la passione, una breve riflessione sul lavoro come spazio utopico di realizzazione del soggetto attraverso la lettura di una parabola evangelica.
Parole chiave: ordinario e straordinario, ricompensa, gratuità, identità, realizzazione personale, utopia.
Giuseppe falegname, Pietro e Andrea pescatori, Matteo esattore delle tasse, governatori e re e tanti altri uomini al lavoro. Quanti mestieri nei Vangeli? E quante immagini del lavoro nei Vangeli? Tanti uomini e donne vengono incontrati proprio nello svolgere il loro lavoro ordinario, le attività che permettono loro di vivere e di procurarsi il necessario per vivere. Sono tanti mestieri nel Vangelo, come nell’Antico Testamento, al punto da dare ad Erri De Luca e Gennaro Matino l’ispirazione per un loro libro(E. De Luca – G. Matino, Mestieri all’aria aperta, Feltrinelli 2004), dove entrambi, secondo prospettive diverse, sottolineano proprio questo aspetto degli incontri di Dio nell’ordinario, nella vita quotidiana dell’uomo.
Gesù stesso cresce nell’ordinario, tanto che di lui è scritto: “E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 3,52): un modo semplice per dire la crescita di Gesù come tutti gli altri bambini. Forse non è semplicemente scenografica nei tanti film su Gesù la rappresentazione della sua infanzia accanto al padre, mentre lo assiste nelle sue attività di falegname!
Il primo esempio lampante di uomini dediti al lavoro che Gesù incontra si ha con la chiamata di Gesù rivolta a Pietro ed Andrea sintetizzato nella breve, ma incisiva frase: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini” (Mt 5,19). Non è un invito casuale. In fondo, bastava un “Seguitemi!”, una chiamata diversa o l’uso di altre parole convincenti ed accattivanti. Perché Gesù invita proprio i due pescatori con queste parole? L’essere pescatori è la loro identità, il loro mestiere, il loro modo di riconoscersi a livello sociale, comunitario. Gesù non può che chiamare i suoi a partire dal loro riconoscimento sociale, dal loro stare in mezzo alla comunità. Sembra dire loro: non dovrete più pescare nel mare, di notte, nella fatica. La vostra pesca d’ora in poi, sarà altra, dovrete pescare uomini, sulla terra, con me, nelle loro situazioni di vita di tutti i giorni.
Solo attraverso l’immagine del loro mestiere Pietro ed Andrea avrebbero potuto comprendere qualcosa della chiamata che si presentava loro: entrambi conoscevano perfettamente l’arte attenta del pescatore che deve saper vegliare, vigilare attento, non stancarsi e non disperare quando la notte sembra infruttuosa. Andrea e Pietro, a partire dalla metafora del loro lavoro, comprenderanno l’invito di Gesù ed abbandonando tutto lo seguiranno.
I mestieri, però, compaiono diverse volte nel Vangelo, spesso nelle parabole, come veicolo di un messaggio per rendere accessibile un linguaggio che rimanda altrove. In particolare, frequentemente, Gesù per annunciare il Regno di Dio parla attraverso le metafore dei mestieri.
Dio buon pastore. Non c’è immagine più incisiva di questa per capire la pazienza, la costanza e la dedizione di Dio nei confronti degli uomini. Il pastore, ed una cultura che si centra sulla pastorizia lo sa, non abbandona le sue pecore, non le trascura, perché a lui è affidata la cura di queste. Sa che le pecore sono le sue uniche ricchezze. Il popolo ebraico era abile a distinguere il buono dal cattivo pastore e conosceva perfettamente l’iconografia propria del pastore, come recitava già il Salmo 23, in cui già Dio è celebrato come buon pastore: “Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza” (Sal 23,4).
Così anche il lavoro del seminatore e del vignaiolo sono un’immagine chiara, piena di evocazioni significative per un popolo che vive di agricoltura e che conosce la costanza, l’attenzione senza distrazioni e con molta precisione verso i dettagli che è richiesta a chi sta a contatto con la terra ed i suoi prodotti. Tutti sanno che solo il seme caduto sulla terra buona produce ricchezza e che l’albero che non porta frutto deve essere potato. Gesù, spesso, anche per stravolgere la normalità (ad esempio, il caso del fico che non viene potato perché gli sia dato altro tempo per produrre i suoi frutti) si serve di queste immagini che vengono dal mondo dell’agricoltura.
Gesù parla attraverso i mestieri e si fa capire, sa che coloro che ascoltano in questo modo possono comprendere.
Ma tra le tante parabole del Vangelo che fanno riferimento al lavoro quotidiano, ad un tratto, l’ordinario viene interrotto, pone domande, lascia spazi aperti con questa parabola: “Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna…” (Mt 20, 1-16). È la parabola degli operai mandati nella vigna: ad ogni ora il padrone passa per la piazza, dove trova operai disoccupati e chiama: “Perché ve ne state tutto il giorno oziosi? […] Andate anche voi nella mia vigna.” Li invita a lavorare nella sua vigna perché li vede senza lavoro. Li trova senza occupazione che li realizzi e dia loro un’identità, l’occasione di riconoscersi a livello sociale, di impegnarsi e non può lasciarli lì fermi, come li trova. Così, ad ogni ora della giornata, anche quando è quasi sera, chiama e raccoglie nuovi operai. È un padrone buono, pieno di lavoro da offrire e lascia spazio a ciascuno secondo le sue capacità, allo stesso modo del padrone della famosa parabola dei talenti (Mt 25, 14-30). Il padrone sa che la divisione del lavoro nella sua vigna e il contributo di tanti non può che portare ricchezza al terreno, alle sue proprietà e, naturalmente, a ciascuno dei suoi operai.
Ma quale ricchezza? Alla fine, in questo brano già fuori dall’ordinario, soprattutto in questo tempo di precarietà e di lunghe attese “in piazza” per un lavoro qualsiasi, non sempre qualificante e realizzante, c’è un ulteriore colpo di scena: il padrone non differenzia il salario secondo le ore di lavoro, ma dà a ciascuno secondo quanto aveva concordato. Così si giustifica di fronte agli operai che lamentano il torto: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare a quest’ultimo quanto a te” (Mt 20, 13-14). In realtà, senza voler semplificare, in questa parabola Gesù sta parlando del Regno di Dio rappresentato come una grande vigna in cui c’è ugualmente spazio per tutti e in cui la ricompensa, nell’amore, non si può calcolare come se fosse denaro. Ma, volendosi soffermare semplicemente sulla risposta del padrone all’operaio che lamenta l’ingiustizia apparente, sembra che il senso voglia essere questo, cercando di parafrasare: non è forse bene che ognuno trovi la sua realizzazione nel suo lavoro? Non è bene che ciascuno venga riconosciuto per la sua fatica e per il suo impegno, senza essere penalizzato se la vita l’ha portato ad attendere più a lungo prima di essere visto, chiamato e incaricato a lavorare nella vigna?
In questo passo del Vangelo non mancano parole piene di utopia, come in un sogno, ma, in un tempo di precarietà e di impossibilità a trovare sempre e facilmente un lavoro fanno sperare che, prima o poi, “stando nella piazza”, ognuno trovi il suo piccolo e prezioso spazio di realizzazione, responsabilizzazione e ricchezza, non solo e semplicemente economica.
Così in un sito dedicato all’esegesi e alle letture bibliche (www. Qumran2.net) Bruno Maggioni, biblista e docente di introduzione alla teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore conclude il suo commento di questo passo evengelico: “Il Dio del Vangelo non è senza la giustizia, ma non si lascia imprigionare nello spazio ristretto della proporzionalità. All’uomo la proporzionalità sembra essere una legge intoccabile, ma questo non vale per Dio. Se vuoi sporgerti sul mistero di Dio, liberati nelle tue relazioni dallo schema della rigida proporzionalità”.
Il padrone della vigna non ricompensa secondo la legge della proporzionalità, si potrebbe affermare, ma secondo quella della gratificazione, della ricompensa che si realizza già nel lavoro stesso, perché riempimento di un vuoto.
Questo brano diventa, così, anche invito utopico e provocatorio a non limitarsi a computare il lavoro svolto da sé e dall’altro, si potrebbe dire, a non “tirare a campare”, ma a valorizzare le risorse che ciascuno di noi può impiegare negli spazi in cui è incaricato a collaborare ed ad abitare la vita senza calcoli, ma nella ricerca della realizzazione piena a livello umano, sociale e lavorativo.

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