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I frutti dello Spirito Santo

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IL FRUTTO DELLO SPIRITO È…PAZIENZA

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IL FRUTTO DELLO SPIRITO È…PAZIENZA

Palermo, domenica 12 agosto 2007

Oratore: f.llo Giuseppe Machì

Redazione a cura di Caterina Di Miceli

È la volta della pazienza, quarta parte del frutto dello Spirito dopo l’amore, la gioia e la pace.
Galati 5:22 Ma il frutto dello Spirito è: amore, gioia, pace, pazienza, gentilezza, bontà, fede, mansuetudine, autocontrollo.
Prima di iniziare la trattazione dell’odierno tema, il fratello Giuseppe Machì chiarisce che la parola “Spirito” non deve trarre in errore, in quanto non si riferisce allo Spirito Santo, ma allo spirito umano, rigenerato per mezzo dello Spirito Santo. Precisa, inoltre, che l’attuale ciclo di predicazioni non ha lo scopo di offrire una semplice conoscenza mentale e teorica dell’argomento, ma di stimolarci a sviluppare in noi il frutto dello Spirito e a crescere in esso.
Premesso che nessuna delle nove parti che compongono il frutto esclude le altre, in quanto fondamentalmente sono tutte collegate tra loro, la pazienza, che più di tutte serve nella vita pratica, è legata all’amore. Non si può amare senza essere pazienti e non si può essere pazienti se non si ama. L’amore produce pazienza, si manifesta nella pazienza e, se a renderci capaci di amare è l’amore di Dio, a far crescere quest’amore è la pazienza.
Anche nella chiesa, oltre all’amore di Dio, si deve manifestare la pazienza, perché dove non c’è pazienza, non c’è neppure chiesa.
La pazienza può essere definita come:
la virtù di chi sa tollerare a lungo e serenamente tutto ciò che, in minore o maggior misura, risulta sgradevole, irritante, doloroso; l’abilità di saper attendere le cose a venire e di rimanere fermi durante l’avversità; la capacità di saper aspettare Dio nei Suoi tempi e nei Suoi piani.
La prima definizione trova chiara spiegazione nell’esempio della madre che sopporta con amore e tenerezza anche le cose meno gradevoli del proprio bebè, e ciò perché, quando si ama davvero si è pazienti, dove c’è amore c’è anche pazienza.
Nell’epistola ai Colossesi, l’apostolo Paolo ci esorta a rivestirci di pazienza.
Colossesi 3:12 Vestitevi dunque come eletti di Dio, santi e diletti, di viscere di misericordia, di benignità, di umiltà, di mansuetudine e di pazienza.
Spetta a noi, dunque, non a Dio, vestirci di pazienza; è nostra responsabilità farlo, perché da come ci vestiamo dipende ciò che ci accadrà in futuro e, come nel naturale ci vestiamo quotidianamente, così nello spirituale dobbiamo indossare l’abito della pazienza ogni giorno, non occasionalmente.
In cosa dobbiamo esercitare la nostra pazienza?
1. Innanzitutto nel nostro rapporto con Dio.
Salmi 37:7 Sta’ in silenzio davanti all’Eterno e aspettalo.
Quanti di noi sono abituati alle preghiere lampo? A porre al Signore un elenco di richieste, aspettandosi risposta immediata? Quando il frutto dello spirito cresce e si diventa più maturi, però, cresce anche la qualità del nostro rapporto con Dio, cessa il monologo e inizia l’ascolto. In preghiera, la fretta non permette una vera relazione. La Scrittura ci esorta a saper aspettare in silenzio e a porci in posizione di ascolto per potere cogliere il consiglio di Dio, ma solo chi è paziente sa ascoltare.
Nei giudizi.
Più volte Gesù manifestò la pazienza di Dio in ciò che diceva. Nel Vangelo di Luca leggiamo la parabola del fico, che ci insegna ad avere pazienza nei giudizi.
Luca 13:6 Or disse questa parabola: «Un uomo aveva un fico piantato nella sua vigna; venne a cercarvi del frutto ma non ne trovò. 7 Disse allora al vignaiolo: « Ecco, sono già tre anni che vengo a cercare frutto su questo fico, e non ne trovo; taglialo; perché deve occupare inutilmente il terreno? »8 Ma quegli gli rispose e disse: « Signore, lascialo ancora quest’anno; finché lo scalzi e gli metta de letame 9 e se fa frutto, bene, altrimenti in avvenire lo taglierai »».
In questa parabola si parla di un fico che da tre anni non dava frutto e del suo padrone che, dopo aver atteso pazientemente che desse frutto, ordinò a vignaiolo di tagliarlo. È chiaro che il fico rappresenta l’essere umano e il padrone Dio, che per la Sua stessa santità è costretto a pronunciare giudizi, ma non lo fa mai in modo affrettato. Da notare, in questa Scrittura, che il vignaiolo intercedette affinché il giudizio fosse ulteriormente ritardato, infatti suggerì di lasciarlo ancora per un anno, nella speranza che, lavorando bene il terreno circostante, avrebbe dato frutto.
Anche quando decise di distruggere Sodoma e Gomorra, Dio prima ne parlò ad Abrahamo, e questi intercedette con insistenza, confidando nella pazienza di Dio, affinché almeno i giusti di quelle città fossero preservati dalla distruzione. Pazienza e intercessione vanno di pari passo. Se noi siamo stati salvati e abbiamo evitato il giudizio che pendeva sul nostro capo, lo dobbiamo alla pazienza di qualcuno che ha interceduto pazientemente e con amore per noi.
3. Nel Corpo di Cristo.
Colossesi 3:13 Sopportandovi gli uni gli altri e perdonandovi, se uno ha qualche lamentela contro un altro; e come Cristo vi ha perdonato, così fate pure voi.
All’interno della Chiesa, i rapporti interpersonali devono essere caratterizzati da pazienza, sopportazione e perdono vicendevoli.
L’apostolo Paolo afferma che è un grande mistero il fatto che la Chiesa sia tutt’uno con Cristo. Essendo unica cosa con Lui, non possiamo considerarla come a sé stante, come fanno alcuni, che vedendone i difetti, dicono di amare Dio ma di non voler avere nulla a che fare con la Chiesa. Impossibile! Chi ama Cristo, non può limitarsi ad amare solo il Capo, deve amare anche il Suo Corpo, la Sua sposa, con cui Egli è fuso in modo indissolubile. Alcuni sono implacabili nel pronunciare giudizi, tengono i fratelli a distanza, ma la Parola di Dio comanda, senza mezzi termini, che ci si deve sopportare e perdonare vicendevolmente.
Nonostante le sue imperfezioni, Gesù vede la Chiesa perfetta, santa e irreprensibile, come sarà nel giorno delle nozze, e chi ne fa parte non deve mai parlare male degli altri ed evidenziarne i difetti, né annientarli con giudizi impietosi, ma prodigarsi nell’esortare e incoraggiare chi sbaglia.
Il Signore, che perdona e dimentica i peccati, che vede la Sua Chiesa pura e senza macchia, non permette che qualcuno la denigri, pertanto dobbiamo eliminare in noi l‘attitudine negativa di esaltare gli altrui difetti o di prestarci alle dicerie; piuttosto benediciamo chi sbaglia, se vogliamo essere benedetti dal Signore.
Per Dio, i peccati di omissione non sono meno gravi delle azioni peccaminose. Commettiamo peccato non amando il nostro prossimo o non avendo pazienza, visto che Dio ci comanda di amare e di essere pazienti, perché solo con l’amore e con la pazienza si può dare vita. Il Nuovo Testamento compendia i dieci comandamenti in uno solo, quello di amare, e chi vive nell’indifferenza, vive nel peccato.
Nel fare il bene.
Galati 6:9 Or non veniamo meno nell’animo facendo il bene; se infatti non ci stanchiamo, raccoglieremo a suo tempo.
Anche per fare il bene senza stancarsi occorre pazienza; la Scrittura afferma che un tal modo di vivere garantisce sempre un raccolto.
Il primo ad avere pazienza è Dio, il quale pazientemente attende che tutti giungano al ravvedimento, e la Chiesa deve seguire il Suo esempio, deve manifestare la Sua pazienza.
2Pietro 3:9 Il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come alcuni credono che egli faccia; ma è paziente verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti vengano a ravvedimento.
Anche l’apostolo Giacomo esalta il valore della pazienza. In questi versetti, con tono accorato, fa appello più volte alla pazienza.
Giacomo 5:7 Or dunque, fratelli, siate pazienti fino alla venuta del Signore; guardate come l’agricoltore aspetta il prezioso frutto della terra con pazienza, finché abbia ricevuto la pioggia della prima e dell’ultima stagione. 8 Siate pazienti anche voi; rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. 9 Non lamentatevi gli uni degli altri, fratelli, affinché non siate giudicati; ecco, il giudice è alle porte. 10 Fratelli miei, prendete come modello di sofferenza e di pazienza i profeti, che hanno parlato nel nome del Signore. 11 Ecco, noi proclamiamo beati coloro che hanno perseverato; avete udito parlare della pazienza di Giobbe, e avete visto la sorte finale che il Signore gli riserbò, poiché il Signore è pieno di compassione e di misericordia.
Esaminiamoci, riconosciamo la nostra insufficienza in quest’area, impegniamoci a rivestirci di pazienza ed a fortificarci in essa. Riflettiamo sugli effetti negativi prodotti dalla nostra mancanza di pazienza e chiediamo a Dio di perdonarci per non averne avuta con i nostri figli, col nostro coniuge, sul posto di lavoro…; chiediamoGli perdono per le tensioni e i risentimenti che la sua mancanza in noi ha prodotto nella nostra vita; chiediamoGli di darci la pazienza necessaria per vivere distinguendoci nel generale andazzo della nostra società, in cui predominano l’impazienza, l’incapacità di sopportare gli atri e la mancanza di ascolto, e manifestando, con la nostra pazienza, l’amore di Dio.

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Marco 7, 34

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XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (B)

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XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (B)

Lectio a Marco 7, 31-37 di Silvano Fausti

1. Messaggio nel contesto
“Effathà, cioè.- Apriti,, dice Gesù al sordomuto. E l’orecchio chiuso si apre all’ascolto della sua voce, la lingua legata si scioglie per dire la parola che salva. Dio è invisibile. Ogni immagine che di lui ci facciamo è un idolo. L’unico suo vero volto è quello del Figlio che lo ascolta.
La parola distingue l’uomo dagli animali. Egli non appartiene a una specie determinata, ma determina la sua specie secondo ciò che ascolta. Infatti di sua natura, non è ciò che è, ma ciò che diviene; e diviene la parola a cui presta orecchio e dà risposta.
Dio è parola, comunicazione e dono di sé. L’uomo è innanzitutto orecchio, e poi lingua. Ascoltandolo è in grado di rispondergli: entra in dialogo con lui e diventa suo partner, unito a lui e simile a lui. La religione ebraico cristiana, anche se ama il Libro, non è un feticismo della lettera. È religione della parola e dell’ascolto, cioè della comunione con chi parla. Per questo essere sordomuti è il massimo male.
Nel brano precedente la donna ha “ascoltato” su Gesù, e ha “detto” la parola che salva. I discepoli invece hanno orecchi e ancora non intendono (vv. 16-18; 8,18). Hanno il cuore duro incapace di capire il pane e di professare: “È il Signore”.
È il penultimo miracolo della prima parte del vangelo e il terz’ultimo in assoluto. Seguono solo due guarigioni della cecità. Prima c’è l’ascolto della parola, poi l’illuminazione della fede. Chi rimane sordo, non può vedere. Solo il cuore può udire la verità di ciò che si vede.
Come tutti i miracoli, anche questo, ancor più esplicitamente degli altri, significa quanto il Signore vuole operare in ogni ascoltatore. Noi tutti siamo sordi selettivi alla sua parola. Essendo creature, come diamo solo ciò che riceviamo, così diciamo solo ciò che abbiamo udito. Gesù è il medico, venuto a ridarci capacità di ascolto e di dialogo con lui.
Questo miracolo ha la struttura dell’esorcismo battesimale in uso dalla Chiesa antica fino ai nostri giorni.
La guarigione, come quella successiva (8,22 ss), è in due rate. Corrispondono alle due parti del vangelo di Marco e ai due misteri di Gesù, che è insieme il Cristo e il Figlio di Dio – l’atteso che realizza la nostra attesa in modo inatteso.
Il segreto messianico si va sciogliendo, perché il suo pane ci mette ormai, in modo inequivocabile, di fronte alla sua verità. Ma nessuno più la intende né vede. A lui non resta che guarire la nostra sordità e cecità riconosciute.
In questo racconto vediamo anche le tappe del nostro itinerario di fede. Ciascuno è chiamato a ripercorrere personalmente con Gesù lo stesso cammino del popolo di Israele, raffigurato in questo sordo farfugliante.
Gesù è proclamato come colui che “ha fatto belle tutte le cose: fa udire i sordi e parlare i muti”. La seconda affermazione lo riconosce palesemente come il messia salvatore (Is 35,4 s), mentre la prima lo riconosce velatamente come il Dio creatore, che fece tutto e vide che era bello (Gn 1,3.12.18.21.25.31). Ci si avvia alla conclusione della prima parte del vangelo, che sfocerà nella confessione di Pietro (8,29), e si prelude anche il tema della seconda, che culminerà nell’affermazione del centurione (15,39).
Il discepolo, come tutti, è divoratore di tante chiacchiere, ma sordo e inespressivo davanti alla Parola che lo fa uomo. Gesù lo guarisce perché possa far parte di quel popolo che sente e risponde a colui che gli dice: “Ascolta Israele, amerai il Signore ecc. “ (12,29 = Dt 6,4 s).
2. Lettura del testo
v. 31 Tiro/Sidone/Decapoli. Siamo in piena zona pagana. Marco, come Paolo, sottolinea il privilegio dei lontani. L’amore può essere accolto solo da chi non lo merita. Chi lo merita, lo riduce a meretricio. Ci accostiamo a Dio non nell’apice della nostra perfezione, ma nelle nostre zone di infedeltà. Da qui passa e ripassa il cammino di chi viene a salvarci. Il luogo della fede è la nostra incredulità.
v. 32 gli conducono. Non può andare da Gesù, perché non ne ha potuto sentir parlare, anche se l’ex-indemoniato l’ha già annunciato (5,20). Altri lo conducono. Non si dice chi. Tutto infatti porta a Cristo. Tutto, creato in lui e da lui, tende a lui, vita di tutto ciò che esiste (Col 1,15; 1Gv 1,3 s). Inoltre chi lo ha già sperimentato è necessariamente inviato al fratelli (5,19).
un sordo. Ogni uomo, fin dal principio, è sordo alla parola di Dio che lo fa figlio e gli dice: “Ascolta, amami; perché io ti amo” (Dt 6,45). Infatti ha prestato ascolto alla menzogna di satana, che l’ha chiuso in sé e agli altri, tagliandolo fuori dalla sorgente d’acqua viva (Ger 2,13). Sordo in greco significa anche “ebete, tonto”. L’uomo che non intende la Parola, rimane inebetito e intontito. Ignorando ciò che Dio ha preparato per quelli che lo amano (1Cor 2,9), gli sfugge il perché profondo e unificante di tutto.
farfugliante. In greco c’è “moghilalo”, che indica uno che parla poco, con difficoltà e male: ha la lingua inceppata e impedita. Infatti chi non ascolta, non è in grado di parlare. Farfuglia e mugola suoni inarticolati: ha la capacità di parlare, ma gli manca la parola udita. Il dialogo col Signore è l’espressione piena della fede (cf 5,30-35), in cui diciamo la parola che ci salva (v. 29). Ascoltare e rispondere a lui è la nostra vita specifica di uomini creati a sua immagine e somiglianza. Infedeli, sordi e muti! Questo è il punto di partenza della fede, il luogo privilegiato dove può essere donata.
e lo pregano. La preghiera altrui è la prima mediazione della fede. Il sordo non ha modo per pregarlo. Davanti a Dio è grande la nostra responsabilità nei confronti di tutti gli uomini che sono ancora sordi.
di imporgli la mano. Indica la comunione salvifica con Gesù, punto d’arrivo della fede. Questa, anche se mediata dall’intercessione altrui, rimane sempre un contatto personale e diretto con lui, che opera con tappe successive. Imporre le mani su un altro, significa trasmettergli le proprie capacità e i propri poteri.
v. 33 portandolo lontano dalla folla. È la prima azione del Signore. Come portò Israele con ali di aquila fuori dall’Egitto, così porta ciascuno fuori dalla terra della propria schiavitù.
L’uomo, sordo per il frastuono e per la folla delle proprie occupazioni, rimane come i suoi idoli che hanno orecchi e non odono, hanno bocca e non parlano (Sal 115,5). L’esodo e il silenzio, condizioni per l’ascolto, sono la prima tappa del cammino di fede. L’uscita più difficile è quella dal proprio io; il silenzio più duro quello delle proprie preoccupazioni.
in disparte, gli mise le proprie dita nei suoi orecchi. A Israele nel deserto diede la sua parola. Ora, in privato, apre l’orecchio perché possa ascoltarla.
Quest’operazione delicata è compiuta non con il braccio o la mano, ma con le dita, come l’artista che cesella 1’opera plasmata con le mani.
Nel silenzio e nel deserto il Signore ci lavora con la sua parola, modellando lentamente il nostro vero volto a immagine del Figlio. L’ascolto è la seconda tappa del cammino di fede – ascolto diuturno e paziente, che ci trasforma in sua icona vivente. Come possono tanti credenti in Cristo dichiararsi cristiani se non si dedicano ad ascoltarlo? Chi professa la fede cristiana, è di professione un ascoltatore di Gesù. È consolante quando nelle chiese, invece di tante parole di uomini – spesso stupide – si sente circolare con semplicità e freschezza la parola di Dio.
con la saliva gli toccò la lingua. La saliva, quasi concrezione del soffio, è simbolo dello Spirito. La lettera da sola non basta: uccide (2Cor 3,6), dichiarando il nostro male. Ma la parola del Signore, fattasi pane, ha in sé lo Spirito che dà vita.
Tra l’ascoltare e il fare c’è di mezzo il dono dello Spirito, che dà la forza di fare ciò che si è capito. È la terza tappa del cammino di fede, legata all’ascolto in preghiera.
v. 34 levati gli occhi al cielo. Come nel fatto dei pani (6,41), Gesù alza gli occhi. Il dono dello Spirito infatti viene dal pane, dal suo amore che dà vita per farsi nostra vita.
gemette. Questo dono è doloroso e angustiante per il Signore. Tutta la creazione gli è costata solo una parola – più un semplice soffio per l’uomo. Ma darci un cuore nuovo gli costa la vita. Questo gemito prelude l’alto grido dalla croce (15,34.37).
Effathà, cioè: Apriti. C’è una resistenza da vincere, peggiore del nulla: è la porta invalicabile del nostro cuore di pietra, chiuso nella paura e nella diffidenza.
Se grande è la nostra resistenza, ancora più grande è la sua potenza. “Quando sarò elevato, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Nell’azione di Gesù, come nei sacramenti che la prolungano, al gesto si accompagna la parola efficace. Essa apre il nostro cuore, perché lasci entrare la luce del Signore. Anche se non lo conosce, addirittura lo teme quando lo intravede (vedi gli esorcismi!), in fondo non attende altro, perché fatto per lui.
v. 35 E subito si aprirono i suoi orecchi. Il suo gemito – la parola della croce – è capace di vincere ogni chiusura e guarirci dalla sordità.
si sciolse il nodo della sua lingua. Uno è muto perché sordo. Se ascolta, può finalmente parlare. Il nostro dialogo è frutto di ascolto.
e parlava correttamente. Il sordo farfugliante diventa uno che sente e risponde, capace di relazione. Questa è la fede, che mette in comunione con lui da persona a persona, da amico ad amico. Il suo parlare “corretto” allude alla possibilità di un parlare scorretto. Sarà quello di Pietro, vero ma ancora inadeguato (8,29-33). Anche il cieco, per giungere a una vista perfetta, totale, penetrante e “telescopica” (8,25), avrà bisogno di un secondo intervento.

v. 36 E comandò loro di non dirlo a nessuno; ma ecc. Il segreto di Gesù comincia ormai a sciogliersi. I sordi e i ciechi guariti lo proclamano.
Rimane oscuro solo per quanti, non comprendendo ancora di essere sordi e ciechi, non si lasciano guarire.
Chi esperimenta la salvezza di Dio, non può non raccontare. Trasgredisce il divieto, che vale per me, finché non l’avrò sperimentata anch’io.
v. 37 erano oltremodo sconvolti. È lo stupore di chi conosce “Io Sono” ormai presente in mezzo a loro. E lo loda, cantandogli la bellezza delle sue opere.
Ha fatto bella ogni cosa. Gesù è il Signore, il Dio creatore, che ha fatto bella ogni cosa (Gn 1,3.12.18.21.25.31). Quando l’uomo ascolta il suo Signore e gli risponde, tutta la creazione torna bella. Nasce il mondo nuovo, come Dio l’aveva pensato dal principio.
i sordi fa udire e i muti parlare. Richiama Is 35,5: Gesù è il Cristo, il Salvatore, la nostra speranza, che ci fa uomini nuovi, capaci finalmente di ascoltare e rispondere.

vicinanza a Dio Padre

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L’AMORE DI DIO – INCHIESTA TRA LE IMMAGINI DELLA TRADIZIONE CRISTIANA ·

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L’AMORE DI DIO – INCHIESTA TRA LE IMMAGINI DELLA TRADIZIONE CRISTIANA ·

02 febbraio 2013

La Bibbia è nata in una cultura di tipo patriarcale. Anche il suo discorso su Dio e il suo rapporto con l’uomo, la teologia, s’iscrivono su questo sfondo socio-culturale. Per questo motivo le immagini bibliche sono essenzialmente maschili. Il Dio dell’Antico Testamento è il re, il Dio degli eserciti, il custode, il maestro, il giudice, il patriarca. Tuttavia la sua designazione quale «padre degli uomini», «padre d’Israele» o «nostro padre» ( Isaia , 64, 7) viene al secondo posto, dopo quella del suo nome: «Io sono colui che sono» ( Esodo , 3, 14). Egli esercita la sua paternità anche verso la stirpe del re-messia d’Israele: «Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio» (2 Samuele , 7, 14). Il Dio del Nuovo Testamento è il padre, Cristo è il figlio che insegna la preghiera del Padre Nostro. Questo sostrato fonda un intero registro metaforico la cui nota più importante è essenzialmente androcentrica. Di fatto, nella dottrina classica, il divino non appare sotto forma di donna o di madre. Non è ginecomorfa.
Questa dottrina classica concede tuttavia un posto importante a una tradizione biblica in cui l’azione di Dio è descritta con l’aiuto di immagini specificatamente materne. Nell’Antico Testamento, Dio è come l’aquila che vola sopra i sui nati e veglia su di loro ( Deuteronomio , 32, 11) o li porta sulle sue ali ( Esodo , 19, 4). È come l’orsa che attacca quando le vengono tolti i suoi piccoli ( Osea , 13, 8), come la balia che porta il lattante ( Numeri , 11, 12). Le immagine materne sono forti in Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?» ( Isaia , 49, 15). Nel libro di Giobbe, l’azione creatrice di Dio è descritta come un parto: «Chi mette al mondo le gocce della rugiada? Dal seno di chi è uscito il ghiaccio e la brina del cielo chi l’ha generata?» ( Giobbe , 38, 28-29). Il salmista si riposa in Dio come un bambino dorme in braccio a sua madre ( Salmi , 131, 2). Il Dio dell’Antico Testamento non è un Dio al femminile, cioè una dea, ma un Dio materno, messaggio implicito nei confronti dei culti resi alle divinità pagane femminili. Nel Nuovo Testamento Gesù è paragonato a una madre che riunisce i pulcini sotto le sue ali ( Matteo , 23, 37), e nelle lettere neotestamentarie abbondano le metafore femminili e materne (cfr. 1 Corinzi , 3, 1-2; 1 Tessalonicesi , 2, 7-8; 1 Pietro , 2, 2).
Sembra sia stato Clemente Alessandrino il primo padre della Chiesa a stabilire un parallelismo tra la paternità e la maternità di Dio. Nel Quis dives salvetur Clemente Alessandrino sposta questa paternità e maternità di Dio sul terreno del rapporto tra l’inconoscibilità e l’incarnazione: «L’indicibilità lo fa Padre; la sua compassione per noi lo fa madre».
Così la maggior parte delle metafore femminili illustrate dai padri della Chiesa si ricollegano alla natura umana del Verbo incarnato. È per questo che, quando si riferiscono alle immagini femminili nella Bibbia, gli autori cristiani non indicavano Dio, ma soprattutto Cristo e la Chiesa. Secondo le interpretazioni, l’uso delle metafore femminili vale così classicamente per designare l’uno o l’altro. La figura della madre funziona quindi come figura di Cristo e della Chiesa in tutto un insieme di testi. È in funzione di una tale tipologia che Clemente Alessandrino parla, per esempio, della Chiesa. Citando Isaia («come una madre consola un figlio così io vi consolerò»; 66, 13), ne dà un’interpretazione ecclesiologica: «La madre attira nelle sue braccia i suoi figli piccoli e noi cerchiamo nostra madre, la Chiesa». Inoltre, nei suoi scritti la maternità indica la conoscenza divina e la Saggezza.
Nella stessa prospettiva, un intero ramo della patristica vede nella donna la Chiesa e nel padre Dio. È così che viene tradizionalmente interpretata la parabola di Matteo: «Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti» (13, 33). Per Ambrogio di Milano o per Pietro Crisologo, per esempio, la donna è l’immagine della Chiesa. Ma questo stesso riferimento scritturale serve anche a identificare la donna con Cristo. Romano il Melode opera tale identificazione: «La donna è, dice la Scrittura, la virtù e la saggezza del Creatore, vale a dire Cristo, saggezza e potenza del Padre». Il parallelismo tra la donna, Cristo e la Saggezza è a sua volta stabilito.
Agostino lascia in eredità alla posterità medievale la figura di Cristo come «Madre-Saggezza». Allo stesso tempo, trasmette l’idea di un’umanità ginecomorfa perché vulnerabile. È anche il primo a considerare Cristo come Padre e insieme come Madre. Riunendo una serie di citazioni scritturali, prese in particolare dal corpo paolino, insiste sul ruolo paterno della generazione e sul ruolo materno del parto dell’Apostolo: voi non avete «molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo» ( 1 Corinzi , 4, 15). E, conclude, Cristo «ha un’autorità paterna, un sentimento materno: e come dice Paolo, Egli è padre ed è madre».
Nell’xi secolo, Anselmo riprende questo brano, a sua volta vivaio di un’intera esplorazione monastica, poi francescana, dell’immagine di Cristo come padre e come madre: «Ma tu Gesù, buon Signore, non sei anche una madre? Non è una madre Colui che, come la chioccia, riunisce i suoi piccoli sotto le sue ali?». Parallelamente, Girolamo aveva utilizzato un’altra rete esegetica di genitorialità, in particolare un versetto di Matteo: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me» (10, 37). Mostra allora che Cristo è allo stesso tempo padre, fratello, sposo, amico, sorella e madre. La continuità medievale di questa rete metaforica è, anche in questo caso, degna di nota.
Alla fine del iv secolo, Gregorio Nazianzeno sottolinea però i limiti dell’uso metaforico: «Da allora dobbiamo ritenere indispensabile applicare alla divinità (…) le parole di quaggiù, in particolare quelle che designano la parentalità. A tale proposito, tu forse immaginerai che Dio è di sesso maschile perché viene chiamato Dio e Padre; e la divinità, di sesso femminile, secondo il genere delle parole; e lo Spirito, né l’uno né l’altro, poiché non genera». Pronunciate a Costantinopoli tra il 379 e il 381 in opposizione agli ariani, queste parole si riferiscono soprattutto alle concezioni gnostiche sul Dio maschile-femminile.
Girolamo, per la latinità contemporanea, ha delineato con un sol tratto la linea ortodossa della dottrina: «Nella divinità, in effetti, non c’è sesso». Dio non è dunque né femminile né maschile. I generi grammaticali non possono circoscrivere l’incommensurabilità divina che si è fatta commensurabilità. Riferendosi alla Trinità, Girolamo ricorda volutamente la diversità dei generi nelle varie lingue per indicare lo Spirito Santo: in ebraico femminile, in latino maschile e in greco neutro! Le fonti gnostiche, a differenza degli scritti cristiani, di fatto continuano a utilizzare un simbolismo sessuale nella rappresentazione di Dio, in un principio fondamentalmente dualista.
Tre forme di rappresentazione di questa dualità prevalgono nei circoli gnostici dell’antichità cristiana. La prima rappresentazione — proveniente dagli ambienti vicini allo gnostico Valentino del ii secolo — presenta l’idea di un Dio fondamentalmente ineffabile ma che, nello stesso tempo, si compone da una parte «della fonte ineffabile, della profondità, del padre primordiale; dall’altra della grazia, del silenzio, delle viscere e della “madre del tutto”». In questa componente, maschile è il “padre”, femminile è il “silenzio”. Come nella sessualità umana, il silenzio riceve il seme dalla fonte ineffabile. Il frutto di questa unione è l’emanazione dell’essere divino disposta in coppie di energie femminili e maschili. La seconda rappresentazione assimila Dio a una forma trina padre-madre-figlio, come, per esempio, nel Libro dei segreti di Giovanni (fine ii secolo). La “persona” femminile riunita al padre e al figlio viene chiamata “madre”, e lo Spirito Santo è allora assimilato a una madre divina. Infine, una terza rappresentazione gnostica è propriamente androgina. Nella Protennoia trimorfica scoperta nel 1945 a Nag Hammadi, un personaggio divino dice: «Io sono allo stesso tempo madre e padre (…). Io sono il Principio e la Fine». Dio qui è una diade.
Il XX secolo è parallelamente testimone della nascita di una teologia del femminile. A caratterizzarla, nella sua pluralità, è una nuova messa in discussione dei fondamenti della tradizione cristiana: «Dio Padre deve condividere il potere con Dio Madre». Nel loro scontro con la teologia classica, le teologie femministe cercano soprattutto di aggiungere una dimensione femminile al Dio uomo ereditato dai Padri e dalla tradizione al fine di rinnovare il modo di chiamarlo, e dunque di pensarlo. Queste teologie intendono così apportare un correttivo alla visione patriarcale di Dio, mostrando che la Bibbia stessa contiene tale correttivo sotto forma di metafore materne e femminili. Le formulazioni teologiche nuove che ne derivano, soprattutto negli ambiti anglosassoni, sono dirompenti. Certo, la riflessione trinitaria presuppone un linguaggio analogico che reca necessariamente l’impronta del suo tempo. Ma l’intera questione consiste nel sapere se si può sostituire la formula trinitaria con altre, pratica comune negli ambiti femministi, per esempio mettendo al posto della formula «Padre, Figlio e Spirito Santo» la formula «La forza di creazione, di potenza di liberazione e di santificazione».
Le esplorazioni più recenti della psicanalisi entrano in consonanza con la dottrina tradizionale. Come sottolinea la psicanalista Marie Balmary, il Dio padre-madre, che occupa ogni luogo come una “madre fallica”, non è lontano da un Dio onnipotente o da un falso Dio. Balmary mostra al contrario come la Bibbia «si opponga a identificare come madre il Dio creatore». E, conclude, il «Dio al maschile e la paternità divina non derivano dal disprezzo per le donne, ma al contrario da un’umiltà divina».

Sylvie Barnay

 

Publié dans:BIBBIA, BIBLICA APPROFONDIMENTI |on 6 septembre, 2018 |Pas de commentaires »

Dio creatore del mondo

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Publié dans:immagini sacre |on 5 septembre, 2018 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – CATECHESI SUI COMANDAMENTI: 7. IL GIORNO DEL RIPOSO.

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2018/documents/papa-francesco_20180905_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO – CATECHESI SUI COMANDAMENTI: 7. IL GIORNO DEL RIPOSO.

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 5 settembre 2018

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il viaggio attraverso il Decalogo ci porta oggi al comandamento sul giorno del riposo. Sembra un comando facile da compiere, ma è un’impressione errata. Riposarsi davvero non è semplice, perché c’è riposo falso e riposo vero. Come possiamo riconoscerli?
La società odierna è assetata di divertimenti e vacanze. L’industria della distrazione è assai fiorente e la pubblicità disegna il mondo ideale come un grande parco giochi dove tutti si divertono. Il concetto di vita oggi dominante non ha il baricentro nell’attività e nell’impegno ma nell’evasione. Guadagnare per divertirsi, appagarsi. L’immagine-modello è quella di una persona di successo che può permettersi ampi e diversi spazi di piacere. Ma questa mentalità fa scivolare verso l’insoddisfazione di un’esistenza anestetizzata dal divertimento che non è riposo, ma alienazione e fuga dalla realtà. L’uomo non si è mai riposato tanto come oggi, eppure l’uomo non ha mai sperimentato tanto vuoto come oggi! Le possibilità di divertirsi, di andare fuori, le crociere, i viaggi, tante cose non ti danno la pienezza del cuore. Anzi: non ti danno il riposo.
Le parole del Decalogo cercano e trovano il cuore del problema, gettando una luce diversa su cosa sia il riposo. Il comando ha un elemento peculiare: fornisce una motivazione. Il riposo nel nome del Signore ha un preciso motivo: «Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato» (Es 20,11).
Questo rimanda alla fine della creazione, quando Dio dice: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona» (Gen 1,31). E allora inizia il giorno del riposo, che è la gioia di Dio per quanto ha creato. È il giorno della contemplazione e della benedizione.
Che cos’è dunque il riposo secondo questo comandamento? È il momento della contemplazione, è il momento della lode, non dell’evasione. È il tempo per guardare la realtà e dire: com’è bella la vita! Al riposo come fuga dalla realtà, il Decalogo oppone il riposo come benedizione della realtà. Per noi cristiani, il centro del giorno del Signore, la domenica, è l’Eucaristia, che significa “rendimento di grazie”. E’ il giorno per dire a Dio: grazie Signore della vita, della tua misericordia, di tutti i tuoi doni. La domenica non è il giorno per cancellare gli altri giorni ma per ricordarli, benedirli e fare pace con la vita. Quanta gente che ha tanta possibilità di divertirsi, e non vive in pace con la vita! La domenica è la giornata per fare pace con la vita, dicendo: la vita è preziosa; non è facile, a volte è dolorosa, ma è preziosa.
Essere introdotti nel riposo autentico è un’opera di Dio in noi, ma richiede di allontanarsi dalla maledizione e dal suo fascino (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 83). Piegare il cuore all’infelicità, infatti, sottolineando motivi di scontento è facilissimo. La benedizione e la gioia implicano un’apertura al bene che è un movimento adulto del cuore. Il bene è amorevole e non si impone mai. Va scelto.
La pace si sceglie, non si può imporre e non si trova per caso. Allontanandosi dalle pieghe amare del suo cuore, l’uomo ha bisogno di fare pace con ciò da cui fugge. È necessario riconciliarsi con la propria storia, con i fatti che non si accettano, con le parti difficili della propria esistenza. Io vi domando: ognuno di voi si è riconciliato con la propria storia? Una domanda per pensare: io, mi sono riconciliato con la mia storia? La vera pace, infatti, non è cambiare la propria storia ma accoglierla, valorizzarla, così com’è andata.
Quante volte abbiamo incontrato cristiani malati che ci hanno consolato con una serenità che non si trova nei gaudenti e negli edonisti! E abbiamo visto persone umili e povere gioire di piccole grazie con una felicità che sapeva di eternità.
Dice il Signore nel Deuteronomio: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza» (30,19). Questa scelta è il “fiat” della Vergine Maria, è un’apertura allo Spirito Santo che ci mette sulle orme di Cristo, Colui che si consegna al Padre nel momento più drammatico e imbocca così la via che porta alla risurrezione.
Quando diventa bella la vita? Quando si inizia a pensare bene di essa, qualunque sia la nostra storia. Quando si fa strada il dono di un dubbio: quello che tutto sia grazia,[1] e quel santo pensiero sgretola il muro interiore dell’insoddisfazione inaugurando il riposo autentico. La vita diventa bella quando si apre il cuore alla Provvidenza e si scopre vero quello che dice il Salmo: «Solo in Dio riposa l’anima mia» (62,2). E’ bella, questa frase del Salmo: «Solo in Dio riposa l’anima mia».

Publié dans:PAPA FRANCESCO CATECHESI |on 5 septembre, 2018 |Pas de commentaires »

creazione del sole e della luna

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Publié dans:immagini sacre |on 4 septembre, 2018 |Pas de commentaires »

SAN FRANCESCO E SORELLA LUNA

http://www.sanfrancescopatronoditalia.it/notizie/approfondimenti_francescani/san-francesco-e-sorella-luna-31158#.W46f8ej-jDc

SAN FRANCESCO E SORELLA LUNA

di Felice Accrocca

La luna splenderà, stanotte, più grande e luminosa, per uno di quegli straordinari prodigi della natura che costituiscono una testimonianza perenne della grandezza di Dio. Una volta soltanto, nei suoi scritti, Francesco la menziona, ma quell’invito alla lode, che lui rivolse alla luna, alle stelle e a ogni altra creatura perché lodassero il Signore, non è caduto nell’oblio, rimasto scolpito com’è nel cuore di milioni e milioni di uomini. Luna e stelle, nell’ispirata poesia di Francesco, debbono lodare il Signore perché Egli in cielo le ha formate «clarite e preziose e belle». La lode, il rendimento di grazie, vuol essere – nella sua comprensione del mistero divino – una restituzione per i benefici ricevuti da Dio. Una disposizione che le creature inanimate mantengono inalterata e l’uomo, invece, l’unica creatura razionale, dimentica spesso, tanto più – ironia tragica – quanto più viene beneficato.
La luna compare ancora nella vita di Francesco, ed è grazie a lei – complice muta e solidale con il nostro desiderio di sapere – se siamo venuti a conoscenza di uno dei momenti difficili della vita dell’uomo di Dio, che lascia trapelare anche la sua straordinaria grandezza. Anche lui, infatti, dovette fare i conti con le proprie debolezze, lottando spesso contro gli istinti naturali più bassi. Una volta, mentre si trovava nell’eremo di Sarteano, fu tentato nella carne; allora si spogliò e si flagellò aspramente con un pezzo di corda, gridando al suo corpo: «Orsù, frate asino, così tu devi sottostare, così subire il flagello». Ma poiché vedeva che non cavava un ragno dal buco e la tentazione non se ne andava, nonostante fosse ormai pieno di lividi, «aprì la celletta
e, uscito nell’orto, si immerse nudo nella neve alta. Prendendo poi la neve a piene mani la stringe e ne fa sette mucchi a forma di manichini, si colloca poi dinanzi ad essi e comincia a parlare così al corpo: “Ecco, questa più grande è tua moglie; questi quattro, due sono i figli e due le tue figlie; gli altri due sono il servo e la domestica, necessari al servizio. Fa’ presto, occorre vestirli tutti, perché muoiono dal freddo. Se poi questa molteplice preoccupazione ti è di peso, servi con diligenza unicamente al Signore”. All’istante il diavolo confuso si allontanò, ed il Santo ritornò nella sua cella, glorificando Dio»
Uomo fino in fondo, dunque, e con i piedi a terra. A persone immature, infatti, desiderose di vivere un’eterna fanciullezza libere dalle responsabilità e dagli impegni, la tentazione appare sempre e solo sotto il suo lato più bello e seducente, privo di rischi: una zona franca in cui tutto è permesso, senza alcuna conseguenza. Solamente quando si smette di fantasticare e ci si decide a crescere superando ogni sindrome di Peter Pan, come ha fatto Francesco, ci si rende conto che c’è una fatica del vivere, dalla quale non ci si può esimere: ogni situazione, anche quella in apparenza facile, ha le sue difficoltà e i suoi rischi, che non possiamo e non dobbiamo nasconderci. Questo ci aiuterà ad affrontare le difficoltà e a vivere bene la condizione alla quale Dio ci ha chiamati. Tuttavia, noi non sapremmo nulla di questo fatto, se non fosse intervenuta una formidabile alleata. A trasmettercene memoria è stato infatti Tommaso da Celano nel suo Memoriale (che noi – impropriamente – siamo soliti denominare Vita seconda : FF 703). Ma neppure lui avrebbe saputo nulla senza «sora luna». Narra infatti l’agiografo: «Un frate di spirito, che allora attendeva alla preghiera, osservò tutto, perché splendeva la luna in cielo. Ma, quando più tardi il Santo si accorse che un frate l’aveva visto nella notte, molto spiaciuto, gli ordinò di non svelare l’accaduto a nessuno, fino a che fosse in vita».
Compare ancora, sorella luna, nel momento del trapasso. Dice ancora Tommaso, in quella stessa opera, che al momento del trapasso di Francesco, «un frate suo discepolo, assai rinomato [da altre fonti veniamo a sapere che si tratta di Giacomo d’Assisi], vide l’anima del padre santissimo salire direttamente al cielo. Era come una stella, ma con la grandezza della luna e lo splendore del sole, e sorvolava la distesa delle acque trasportata in alto da una nuvoletta candida». Una stella dunque, con la grandezza della luna e lo splendore del sole: tale è l’anima di Francesco

Splenderà stasera la luna in cielo, una luna di straordinaria grandezza. Ma l’anima di Francesco, le anime di tutti i santi, di tutti gli uomini e le donne davvero amanti di Dio splendono ancor più. (Don Felice Accrocca)

Felice Accrocca
Arcivescovo Benevento

Publié dans:San Francesco d'Assisi |on 4 septembre, 2018 |Pas de commentaires »
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