Archive pour août, 2018

Mc 7,1-8.14-15.21-23

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Publié dans:immagini sacre |on 31 août, 2018 |Pas de commentaires »

XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (B) ALLE RADICI DELLE LEGGI DI IMPURITÀ

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XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (B) ALLE RADICI DELLE LEGGI DI IMPURITÀ

Marco 7, 1-8.14-15.21-23

Don Antonio Savone

Ogni cultura indica al proprio interno situazioni, atteggiamenti, persone impuri. C’è un confine che separa da queste zone, un confine che non va mai varcato se ci si vuole mantenere puri, capaci di incontro con gli altri e perciò anche con Dio.
Ovviamente, all’opposto delle zone di impurità si collocano le zone sacre, che sono dei territori selettivi, dove entra solo chi è massimamente puro o purificato, perciò abilitato all’incontro con Dio.
Ne deriva che la vita sociale è come correlata da un duplice confine che ci si deve guardare dall’oltrepassare, così come stabilisce il volere divino nella legge religiosa di ogni popolo: da una parte ciò da cui bisogna stare lontani, dall’altra ciò in cui solo a pochi è concesso di entrare. Quanto più ci si allontana dall’impurità tanto più si può sperare di avere accesso al sacro. Questi due confini determinano poi due categorie di persone: da una parte i reprobi, coloro che hanno infranto la legge del gruppo, dall’altra i santi, persone considerate senza ombra e senza macchia, persone che in qualche modo sono riuscite a trascendere la propria umanità.
Chi è che stabilisce questi confini e queste distinzioni? E’ la legge, che di volta in volta mette in guardia: attenzione, ecco il pericolo. La legge chiede di rapportarsi all’impurità come a un contagio da evitare: chi tocca, muore.
E l’impuro è di volta in volta il lebbroso, un cadavere, una professione, una categoria di persone, lo straniero di pelle o di religione.
Osservando da vicino quello che noi classifichiamo come impuro, ci si accorge che esso è tutto ciò che non si capisce e fa paura, ciò che potrebbe mettere in pericolo, quello che disturba o altera gli equilibri sociali, ciò che ricorda la minaccia della morte.
Le leggi dell’impurità sono i confini posti per tenere a bada la paura: i divieti sono le fortificazioni del gruppo che si difende dalle minacce di ogni possibile contatto con la morte. Ed è la paura quindi che genera la legge che fa allontanare dall’impurità.
Ecco perciò il sacro, l’altra paura: la paura del troppo grande, dello sconosciuto, del troppo puro dove non si vuole entrare per timore di essere trovati imperfetti, sporchi. L’incontro con Dio, pur così desiderato, è allontanato e recintato: noi dubitiamo di noi stessi e perciò riteniamo che Dio non ci possa approvare.
E’ così che si costruiscono i gruppi umani: ci si cautela contro il rischio della morte ma si allontana anche il divino, accontentandosi di inviare in esso come ambasciatore solo un rappresentante debitamente purificato. Noi che siamo gente comune, senza infamia e senza lode, finiamo così per ritagliarci una zona neutra, protetta, lontana dalla morte e lontana da Dio.
Ma la parola e la persona di Gesù vengono a dirci qualcosa di nuovo in merito. Gesù varca continuamente i confini dell’impurità: tocca i morti, parla con i lebbrosi, con le donne, sta a tavola con pubblicani e prostitute e, nello stesso tempo, si presenta come “colui che è Dio”. Si presenta come un destabilizzatore della nostra geografia sociale e religiosa. Non ha paura della morte né del faccia a faccia con Dio.
Entra nelle zone proibite dell’umanità perché non ha paura di esse e non ha paura perché le guarda in faccia, le accoglie e le perdona. Non teme di esserne contagiato perché è libero, vale a dire che la sua vita e il suo cuore cercano sempre e soltanto ciò che piace al Padre. Ecco perché oggi ci chiede di gettar via la maschera dicendoci che alle radici delle nostre leggi di purità e di impurità non c’è Dio: ci siamo noi. Noi non vogliamo morire e rifiutiamo tutto ciò che ci parla di morte o ci fa avvicinare ad essa. Questa separazione tra puro e impuro è una “tradizione di uomini”, di uomini che hanno paura e sono perciò alle prese con i confini di una vita rassicurante.
Non è un caso che la nostra cultura rimuova continuamente la morte e i suoi segni. E’ come se volessimo nascondere tutto ciò che ricorda una sorta di unica certezza della vita, che cioè si deve morire. E perciò giochiamo a fare gli dèi immortali. E quindi la lista delle nuove impurità si allunga: via dai nostri ambienti le categorie di persone che hanno il torto di essere diverse, o deboli o riprovevoli, via le prostitute, via gli zingari, via i barboni.
Oggi Gesù ci guarda in faccia e ci chiede di ridare il nome giusto alle cose: la paura ci governa e perciò costruiamo regole per salvarci attribuendole alla volontà di Dio. Mentre, sembra dire Gesù, l’unico dato che ci dà accesso a Dio è proprio il non rimuovere la coscienza della nostra debolezza. Questo Dio che in Gesù entra nella nostra umanità ferita, vulnerabile, debole, indica “nel peccato l’uomo da trovare, nella morte la vita da accogliere, nell’impuro il prossimo da recuperare”.

Isaia 40,1

imm it «Consolate,+consolate+il+mio+popolo,+dice+il+vostro+Dio»

Publié dans:immagini sacre |on 30 août, 2018 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – DIO SI ARRANGIA PER ENTRARE

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PAPA FRANCESCO – DIO SI ARRANGIA PER ENTRARE

· Messa a Santa Marta ·

12 giugno 2017

Basta tenere la porta del cuore socchiusa che «Dio si arrangia per entrare», salvandoci dal finire nella schiera degli «in-meriscordi»: neologismo per intendere coloro che senza misericordia mettono in pratica le beatitudini al contrario. È proprio dalla tentazione «narcisista dell’autoreferenzialità» — l’opposto dell’«alterità» cristiana che «è dono e servizio» — che Papa Francesco ha messo in guardia nella messa celebrata lunedì mattina, 12 giugno, a Santa Marta.
Riferendosi al passo della seconda lettera di san Paolo ai Corinzi (1, 1-7), proposto dalla liturgia come prima lettura, il Pontefice ha fatto subito notare che in appena «diciannove righe per otto volte Paolo parla di consolazione, di lasciarsi consolare per consolare gli altri». La consolazione, dunque, «ricorre per otto volte in diciannove righe: è troppo forte, qualcosa vuol dirci». E «per questo credo — ha aggiunto — che questa sia un’opportunità, un’occasione per riflettere sulla consolazione: cosa è la consolazione della quale parla Paolo». Ma «prima di tutto dobbiamo vedere che la consolazione non è autonoma, non è una cosa chiusa in se stessa».

Dorothy Gager, «Beati i puri di cuore»
Infatti, ha fatto presente il Papa, «l’esperienza della consolazione, che è un’esperienza spirituale, ha bisogno sempre di un’alterità per essere piena: nessuno può consolare se stesso, nessuno». E «chi cerca di farlo, finisce guardandosi allo specchio: si guarda allo specchio, cerca di truccare se stesso, di apparire; si consola con queste cose chiuse che non lo lasciano crescere e l’aria che respira è quell’aria narcisista dell’autoreferenzialità». Ma «questa è la consolazione truccata che non lascia crescere, non è consolazione perché è chiusa, le manca un’alterità».
«Nel Vangelo troviamo tanta gente che è così» ha spiegato Francesco. «Per esempio — ha detto — i dottori della legge che sono pieni della propria sufficienza, chiusi, e questa è la “loro consolazione” tra virgolette». Il Papa ha voluto fare esplicito riferimento al «ricco Epulone, che viveva di festa in festa e con questo pensava di essere consolato». Però, ha affermato, sono forse le parole della preghiera del fariseo, del pubblicano, davanti all’altare, ad esprimere meglio questo atteggiamento: «Ti ringrazio Dio perché non sono come gli altri». Insomma, quell’uomo «si guardava allo specchio, guardava la propria anima truccata da ideologie e ringraziava il Signore». È Gesù stesso che «ci fa vedere questa possibilità di questa gente che, con questo modo di vivere, mai arriverà alla pienezza» ma «al massimo alla “gonfiezza”, ossia vanagloria».
«La consolazione, per essere vera, per essere cristiana, ha bisogno di un’alterità» ha continuato Francesco, perché «la vera consolazione si riceve». Per questa ragione «Paolo incomincia con quella benedizione: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione!”». Ed «è proprio il Signore, è Dio che ci consola, è Dio che ci dà questo dono: noi col cuore aperto, lui viene e ci dà». Questa è «l’alterità che fa crescere la vera consolazione; e la vera consolazione dell’anima matura anche in un’altra alterità, perché noi possiamo consolare gli altri». Ecco, allora, che «la consolazione è uno stato di passaggio dal dono ricevuto al servizio donato», tanto che «la vera consolazione ha questa doppia alterità: è dono e servizio».
«Così — ha rilanciato il Pontefice — se io lascio entrare la consolazione del Signore come dono è perché ho bisogno di essere consolato: sono bisognoso». Infatti »per essere consolato è necessario riconoscere di essere bisognoso: soltanto così il Signore viene, ci consola e ci dà la missione di consolare gli altri». Certo, ha riconosciuto Francesco, «non è facile avere il cuore aperto per ricevere il dono e fare il servizio, le due alterità che fanno possibile la consolazione».
«È proprio Gesù che spiega come posso fare che il mio cuore sia aperto» ha affermato il Papa: «Un cuore aperto, è un cuore felice e nel Vangelo abbiamo sentito chi sono i felici, chi sono i beati: i poveri». Così «il cuore si apre con un atteggiamento di povertà, di povertà di spirito: quelli che sanno piangere, quelli miti, la mitezza del cuore; quelli affamati di giustizia, che lottano per la giustizia; quelli che sono misericordiosi, che hanno misericordia nei confronti degli altri; i puri di cuore; gli operatori di pace e quelli che sono perseguitati per la giustizia, per amore alla giustizia». E «così il cuore si apre e il Signore viene con il dono della consolazione e la missione di consolare gli altri».
Ma ci sono però, ha avvertito Francesco, anche coloro che «hanno un cuore chiuso: non sono felici perché non può entrare il dono della consolazione e darlo agli altri». Non seguono le beatitudini, insomma, e «si sentono ricchi di spirito, ossia sufficienti». Sono «quelli che non hanno bisogno di piangere perché si sentono giusti; quelli violenti che non sanno casa sia la mitezza; quelli ingiusti che vivono dell’ingiustizia e fanno ingiustizia; quelli “in-misericordi” — ossia senza misericordia — che mai perdonano, mai hanno bisogno di perdonare perché non si sentono con il bisogno di essere perdonati; quelli sporchi di cuore; quelli operatori di guerre, non di pace; e quelli che mai sono criticati o perseguitati perché lottano per la giustizia perché non importa loro le ingiustizie delle altre persone: questi sono chiusi».
Proprio di fronte a queste beatitudini al contrario, ha suggerito il Pontefice, «ci farà bene oggi pensare» a «come è il mio cuore: è aperto? so ricevere il dono della consolazione, lo chiedo al Signore, e poi so darlo agli altri come un dono del Signore e servizio mio?». E «così, con questi pensieri durante giornata, tornare e ringraziare il Signore che è tanto buono e sempre cerca di consolarci». Ricordando che Dio «ci chiede soltanto che la porta del cuore sia aperta o almeno un pochettino, così lui poi si arrangia per entrare».

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Gesù nel giardino degli ulivi

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Publié dans:immagini sacre |on 29 août, 2018 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – 29 AGOSTO 2018 – VIAGGIO APOSTOLICO IN IRLANDA

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2018/documents/papa-francesco_20180829_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO – 29 AGOSTO 2018 – VIAGGIO APOSTOLICO IN IRLANDA

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì,

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nello scorso fine settimana ho compiuto un viaggio in Irlanda per prendere parte all’Incontro Mondiale delle Famiglie: sono sicuro che voi l’avete visto tramite la televisione. La mia presenza voleva soprattutto confermare le famiglie cristiane nella loro vocazione e missione. Le migliaia di famiglie – sposi, nonni, figli – convenuti a Dublino, con tutta la varietà delle loro lingue, culture ed esperienze, sono state segno eloquente della bellezza del sogno di Dio per l’intera famiglia umana. E noi lo sappiamo: il sogno di Dio è l’unità, l’armonia e la pace, nelle famiglie e nel mondo, frutto della fedeltà, del perdono e della riconciliazione che Lui ci ha donato in Cristo. Egli chiama le famiglie a partecipare a questo sogno e a fare del mondo una casa dove nessuno sia solo, nessuno sia non voluto, nessuno sia escluso. Pensate bene a questo: quello che Dio vuole è che nessuno sia solo, nessuno sia non voluto, nessuno sia escluso. Perciò era molto appropriato il tema di questo Incontro Mondiale. Si chiamava così: “Il Vangelo della famiglia, gioia per il mondo”.
Sono grato al Presidente dell’Irlanda, al Primo Ministro, alle diverse autorità governative, civili e religiose, e alle tante persone di ogni livello che hanno aiutato a preparare e realizzare gli eventi dell’Incontro. E grazie tante ai Vescovi, che hanno lavorato tanto. Rivolgendomi alle Autorità, nel Castello di Dublino, ho ribadito che la Chiesa è famiglia di famiglie, e che, come un corpo, sostiene queste sue cellule nel loro indispensabile ruolo per lo sviluppo di una società fraterna e solidale.
Veri e propri “punti-luce” di queste giornate sono state le testimonianze di amore coniugale date da coppie di ogni età. Le loro storie ci hanno ricordato che l’amore del matrimonio è uno speciale dono di Dio, da coltivare ogni giorno nella “chiesa domestica” che è la famiglia. Quanto ha bisogno il mondo di una rivoluzione di amore, di una rivoluzione di tenerezza, che ci salvi dall’attuale cultura del provvisorio! E questa rivoluzione comincia nel cuore della famiglia.
Nella Pro-Cattedrale di Dublino ho incontrato coniugi impegnati nella Chiesa e tante coppie di giovani sposi, e molti bambini piccoli. Ho incontrato poi alcune famiglie che affrontano particolari sfide e difficoltà. Grazie ai Frati Cappuccini, che sempre sono vicini al popolo, e alla più ampia famiglia ecclesiale, sperimentano la solidarietà e il sostegno che sono frutto della carità.
Momento culminante della mia visita è stata la grande festa con le famiglie, sabato sera, nello stadio di Dublino, seguita domenica dalla Messa nel Phoenix Park. Nella Veglia abbiamo ascoltato testimonianze molto toccanti di famiglie che hanno sofferto per le guerre, famiglie rinnovate dal perdono, famiglie che l’amore ha salvato dalla spirale delle dipendenze, famiglie che hanno imparato a usare bene telefonini e tablet e a dare priorità al tempo speso insieme. E sono risaltati il valore della comunicazione tra generazioni e il ruolo specifico che spetta ai nonni nel consolidare i legami familiari e trasmettere il tesoro della fede. Oggi – è duro dirlo – ma sembra che i nonni disturbano. In questa cultura dello scarto, i nonni si “scartano”, si allontanano. Ma i nonni sono la saggezza, sono la memoria di un popolo, la memoria delle famiglie! E i nonni devono trasmettere questa memoria ai nipotini. I giovani e i bambini devono parlare con i nonni per portare avanti la storia. Per favore: non scartare i nonni. Che siano vicini ai vostri figli, ai nipotini.
Nella mattina di domenica ho fatto il pellegrinaggio al Santuario mariano di Knock, tanto caro al popolo irlandese. Lì, nella cappella costruita sul luogo di un’apparizione della Vergine, ho affidato alla sua protezione materna tutte le famiglie, in particolare quelle dell’Irlanda. E sebbene il mio viaggio non comprendesse una visita in Irlanda del Nord, ho rivolto un saluto cordiale al suo popolo e ho incoraggiato il processo di riconciliazione, pacificazione, amicizia e cooperazione ecumenica.
Questa mia visita in Irlanda, oltre alla grande gioia, doveva anche farsi carico del dolore e dell’amarezza per le sofferenze causate in quel Paese da varie forme di abusi, anche da parte di membri della Chiesa, e del fatto che le autorità ecclesiastiche in passato non sempre abbiano saputo affrontare in maniera adeguata questi crimini. Un segno profondo ha lasciato l’incontro con alcuni sopravvissuti – erano otto -; e a più riprese ho chiesto perdono al Signore per questi peccati, per lo scandalo e il senso di tradimento procurati. I Vescovi irlandesi hanno intrapreso un serio percorso di purificazione e riconciliazione con coloro che hanno sofferto abusi, e con l’aiuto delle autorità nazionali hanno stabilito una serie di norme severe per garantire la sicurezza dei giovani. E poi, nel mio incontro con i Vescovi, li ho incoraggiati nel loro sforzo per rimediare ai fallimenti del passato con onestà e coraggio, confidando nelle promesse del Signore e contando sulla profonda fede del popolo irlandese, per inaugurare una stagione di rinnovamento della Chiesa in Irlanda. In Irlanda c’è la fede, c’è gente di fede: una fede con grandi radici. Ma sapete una cosa? Ci sono poche vocazioni al sacerdozio. Come mai questa fede non riesce? Per questi problemi, gli scandali, tante cose… Dobbiamo pregare perché il Signore invii santi sacerdoti in Irlanda, invii nuove vocazioni. E lo faremo insieme, pregando un “Ave o Maria” alla Madonna di Knock. [Recita dell’Ave o Maria]. Signore Gesù, inviaci sacerdoti santi.
Cari fratelli e sorelle, l’Incontro Mondiale delle Famiglie a Dublino è stata un’esperienza profetica, confortante, di tante famiglie impegnate nella via evangelica del matrimonio e della vita familiare; famiglie discepole e missionarie, fermento di bontà, santità, giustizia e pace. Noi dimentichiamo tante famiglie – tante! – che portano avanti la propria famiglia, i figli, con fedeltà, chiedendosi perdono quando ci sono dei problemi. Dimentichiamo perché oggi è di moda sulle riviste, sui giornali, parlare così: “Questo si è divorziato da questa… Quella da quello… E la separazione…”. Ma per favore: questa è una cosa brutta. È vero: io rispetto ognuno, dobbiamo rispettare la gente, ma l’ideale non è il divorzio, l’ideale non è la separazione, l’ideale non è la distruzione della famiglia. L’ideale è la famiglia unita. Così avanti: questo è l’ideale!
Il prossimo Incontro Mondiale delle famiglie, si terrà a Roma nel 2021. Affidiamole tutte alla protezione della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, perché nelle loro case, parrocchie e comunità possano essere veramente “gioia per il mondo”.

Publié dans:PAPA FRANCESCO CATECHESI |on 29 août, 2018 |Pas de commentaires »

Sant’Agostino, visione della Trinità

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28 AGOSTO: SANT’AGOSTINO – BENEDETTO XVI – I: La vita

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080109.html

28 AGOSTO: SANT’AGOSTINO – BENEDETTO XVI – I: La vita

Sant’Agostino

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 9 gennaio 2008

Cari fratelli e sorelle,

dopo le festività natalizie, vorrei tornare alle meditazioni sui Padri della Chiesa e parlare oggi del più grande Padre della Chiesa latina, sant’Agostino: uomo di passione e di fede, di intelligenza altissima e di premura pastorale instancabile, questo grande Santo e Dottore della Chiesa è spesso conosciuto, almeno di fama, anche da chi ignora il cristianesimo o non ha consuetudine con esso, perché egli ha lasciato un’impronta profondissima nella vita culturale dell’Occidente e di tutto il mondo. Per la sua singolare rilevanza, sant’Agostino ha avuto un influsso larghissimo, e si potrebbe affermare, da una parte, che tutte le strade della letteratura latina cristiana portano a Ippona (oggi Annata, sulla costa algerina) – la città dell’Africa romana, di cui egli fu Vescovo dal 395 fino alla morte nel 430 – e, dall’altra, che da questo luogo si diramano molte altre strade del cristianesimo successivo e della stessa cultura occidentale.
Di rado una civiltà ha trovato uno spirito così grande, che sapesse accoglierne i valori ed esaltarne l’intrinseca ricchezza, inventando idee e forme di cui si sarebbero nutriti i posteri, come sottolineò anche Paolo VI: «Si può dire che tutto il pensiero dell’antichità confluisca nella sua opera e da essa derivino correnti di pensiero che pervadono tutta la tradizione dottrinale dei secoli successivi» (AAS, 62, 1970, p. 426). Agostino è inoltre il Padre della Chiesa che ha lasciato il maggior numero di opere. Il suo biografo Possidio dice: sembrava impossibile che un uomo potesse scrivere tante cose nella propria vita. Di queste diverse opere parleremo in un prossimo incontro. Oggi la nostra attenzione sarà riservata alla sua vita, che si ricostruisce bene dagli scritti, e in particolare dalle Confessioni, la straordinaria autobiografia spirituale, scritta a lode di Dio, che è la sua opera più famosa. E giustamente, perché sono proprio le Confessioni agostiniane, con la loro attenzione all’interiorità e alla psicologia, a costituire un modello unico nella letteratura occidentale (e non solo occidentale) anche non religiosa, fino alla modernità. Questa attenzione alla vita spirituale, al mistero dell’io, al mistero di Dio che si nasconde nell’io, è una cosa straordinaria, senza precedenti, e rimane per sempre, per così dire, un «vertice» spirituale.
Ma, per venire alla sua vita, Agostino nacque a Tagaste – nella provincia della Numidia, nell’Africa romana – il 13 novembre 354 da Patrizio, un pagano che poi divenne catecumeno, e da Monica, fervente cristiana. Questa donna appassionata, venerata come santa, esercitò sul figlio una grandissima influenza e lo educò nella fede cristiana. Agostino aveva anche ricevuto il sale, come segno dell’accoglienza nel catecumenato, e rimase sempre affascinato dalla figura di Gesù Cristo. Egli anzi dice di aver sempre amato Gesù, ma di essersi allontanato sempre più dalla fede ecclesiale, dalla pratica ecclesiale, come succede anche oggi per molti giovani.
Agostino aveva anche un fratello, Navigio, e una sorella, della quale ignoriamo il nome e che, rimasta vedova, fu poi a capo di un monastero femminile. Il ragazzo, di vivissima intelligenza, ricevette una buona educazione, anche se non fu sempre uno studente esemplare. Egli tuttavia studiò bene la grammatica, prima nella sua città natale, poi a Madaura, e dal 370 retorica a Cartagine, capitale dell’Africa romana: divenne un perfetto dominatore della lingua latina. Non arrivò però a maneggiare con altrettanto dominio il greco e non imparò il punico, parlato dai suoi conterranei. Proprio a Cartagine Agostino lesse per la prima volta l’Hortensius, uno scritto di Cicerone, poi andato perduto, che si colloca all’inizio del suo cammino verso la conversione. Il testo ciceroniano, infatti, svegliò in lui l’amore per la sapienza, come scriverà, ormai Vescovo, nelle Confessioni: «Quel libro cambiò davvero il mio modo di sentire», tanto che «all’improvviso perse valore ogni speranza vana e desideravo con un incredibile ardore del cuore l’immortalità della sapienza» (III,4,7).
Ma poiché era convinto che senza Gesù la verità non può dirsi effettivamente trovata, e perché in questo libro appassionante quel nome gli mancava, subito dopo averlo letto cominciò a leggere la Scrittura, la Bibbia. Ma ne rimase deluso. Non solo perché lo stile latino della traduzione della Sacra Scrittura era insufficiente, ma anche perché lo stesso contenuto gli apparve non soddisfacente. Nelle narrazioni della Scrittura su guerre e altre vicende umane non trovava l’altezza della filosofia, lo splendore di ricerca della verità che ad essa è proprio. Tuttavia non voleva vivere senza Dio, e così cercava una religione corrispondente al suo desiderio di verità e anche al suo desiderio di avvicinarsi a Gesù. Cadde così nella rete dei manichei, che si presentavano come cristiani e promettevano una religione totalmente razionale. Affermavano che il mondo è diviso in due principi: il bene e il male. E così si spiegherebbe tutta la complessità della storia umana. Anche la morale dualistica piaceva a sant’Agostino, perché comportava una morale molto alta per gli eletti: e a chi, come lui, vi aderiva era possibile una vita molto più adeguata alla situazione del tempo, specie per un uomo giovane. Si fece pertanto manicheo, convinto in quel momento di aver trovato la sintesi tra razionalità, ricerca della verità e amore di Gesù Cristo. Ed ebbe anche un vantaggio concreto per la sua vita: l’adesione ai manichei infatti apriva facili prospettive di carriera. Aderire a quella religione che contava tante personalità influenti gli permetteva di andare avanti nella sua carriera, oltre che continuare la relazione intrecciata con una donna. (Da questa donna ebbe un figlio, Adeodato, a lui carissimo, molto intelligente, che sarà poi presente nella preparazione al Battesimo presso il lago di Como, partecipando a quei Dialoghi che sant’Agostino ci ha trasmesso. Il ragazzo, purtroppo, morì prematuramente.) Agostino, a circa vent’anni già insegnante di grammatica nella sua città natale, tornò presto a Cartagine, dove divenne un brillante e celebrato maestro di retorica. Con il tempo, tuttavia, egli iniziò ad allontanarsi dalla fede dei manichei, che lo delusero proprio dal punto di vista intellettuale in quanto incapaci di risolvere i suoi dubbi, e si trasferì a Roma e poi a Milano, dove allora risiedeva la corte imperiale e dove aveva ottenuto un posto di prestigio grazie all’interessamento e alle raccomandazioni del prefetto di Roma, il pagano Simmaco, ostile al Vescovo di Milano sant’Ambrogio.
A Milano Agostino prese l’abitudine di ascoltare – inizialmente allo scopo di arricchire il suo bagaglio retorico – le bellissime prediche del Vescovo Ambrogio, che era stato rappresentante dell’imperatore per l’Italia settentrionale. Dalla parola del grande presule milanese il retore africano rimase affascinato, e non soltanto dalla sua retorica: soprattutto i contenuti toccarono sempre più il suo cuore. Il grande problema dell’Antico Testamento – la mancanza di bellezza retorica e di altezza filosofica – si risolse nelle prediche di sant’Ambrogio grazie all’interpretazione tipologica dell’Antico Testamento: Agostino capì che tutto l’Antico Testamento è un cammino verso Gesù Cristo. Così trovò la chiave per capire la bellezza, la profondità pure filosofica dell’Antico Testamento e capì tutta l’unità del mistero di Cristo nella storia e anche la sintesi tra filosofia, razionalità e fede nel Logos, in Cristo Verbo eterno che si è fatto carne.
In breve tempo Agostino si rese conto che la lettura allegorica della Scrittura e la filosofia neoplatonica coltivate dal Vescovo di Milano gli permettevano di risolvere le difficoltà intellettuali che, quando era più giovane, nel suo primo avvicinamento ai testi biblici gli erano sembrate insuperabili.
Alla lettura degli scritti dei filosofi Agostino fece così seguire quella rinnovata della Scrittura e soprattutto delle Lettere paoline. La conversione al cristianesimo, il 15 agosto 386, si collocò quindi al culmine di un lungo e tormentato itinerario interiore, del quale parleremo ancora in un’altra catechesi, e l’africano si trasferì nella campagna a nord di Milano, verso il lago di Como – con la madre Monica, il figlio Adeodato e un piccolo gruppo di amici – per prepararsi al Battesimo. Così, a trentadue anni, Agostino fu battezzato da Ambrogio il 24 aprile 387, durante la Veglia pasquale, nella Cattedrale di Milano.
Dopo il Battesimo, Agostino decise di tornare in Africa con gli amici, con l’idea di praticare una vita comune, di tipo monastico, al servizio di Dio. Ma a Ostia, in attesa di partire, la madre improvvisamente si ammalò e poco più tardi morì, straziando il cuore del figlio. Rientrato finalmente in patria, il convertito si stabilì a Ippona per fondarvi appunto un monastero. In questa città della costa africana, nonostante le sue resistenze, fu ordinato presbitero nel 391 e iniziò con alcuni compagni la vita monastica a cui da tempo pensava, dividendo il suo tempo tra la preghiera, lo studio e la predicazione. Egli voleva essere solo al servizio della verità, non si sentiva chiamato alla vita pastorale, ma poi capì che la chiamata di Dio era quella di essere Pastore tra gli altri, e così di offrire il dono della verità agli altri. A Ippona, quattro anni più tardi, nel 395, venne consacrato Vescovo. Continuando ad approfondire lo studio delle Scritture e dei testi della tradizione cristiana, Agostino fu un Vescovo esemplare nel suo instancabile impegno pastorale: predicava più volte la settimana ai suoi fedeli, sosteneva i poveri e gli orfani, curava la formazione del clero e l’organizzazione di monasteri femminili e maschili. In breve, l’antico retore si affermò come uno degli esponenti più importanti del cristianesimo di quel tempo: attivissimo nel governo della sua Diocesi – con notevoli risvolti anche civili – negli oltre trentacinque anni di episcopato, il Vescovo di Ippona esercitò infatti una vasta influenza nella guida della Chiesa cattolica dell’Africa romana e più in generale nel cristianesimo del suo tempo, fronteggiando tendenze religiose ed eresie tenaci e disgregatrici come il manicheismo, il donatismo e il pelagianesimo, che mettevano in pericolo la fede cristiana nel Dio unico e ricco di misericordia.
E a Dio si affidò Agostino ogni giorno, fino all’estremo della sua vita: colpito da febbre, mentre da quasi tre mesi la sua Ippona era assediata dai Vandali invasori, il Vescovo – racconta l’amico Possidio nella Vita di Agostino – chiese di trascrivere a grandi caratteri i Salmi penitenziali «e fece affiggere i fogli contro la parete, così che stando a letto durante la sua malattia li poteva vedere e leggere, e piangeva ininterrottamente a calde lacrime» (31,2). Così trascorsero gli ultimi giorni della vita di Agostino, che morì il 28 agosto 430, quando ancora non aveva compiuto 76 anni. Alle sue opere, al suo messaggio e alla sua vicenda interiore dedicheremo i prossimi incontri.

 

Publié dans:Papa Benedetto XVI, Sant'Agostino |on 28 août, 2018 |Pas de commentaires »

Santa Monica

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Publié dans:immagini sacre |on 27 août, 2018 |Pas de commentaires »

27 AGOSTO: SANTA MONICA (331-387) – MONICA: MADRE DI TANTE LACRIME

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Santo_del_mese/07-Luglio/Santa_Monica.html

27 AGOSTO: SANTA MONICA (331-387) – MONICA: MADRE DI TANTE LACRIME

Molte mamme di oggi non vivono tempi facili.
Non è stato facile nemmeno per Monica, la santa che ricordiamo nel mese di agosto. Anche lei ha dovuto tribolare non poco per il figlio Agostino.
Con un figlio adolescente in casa è difficile dormire sempre sonni tranquilli. Questo perché alcuni comportamenti dei figli sono fonte di apprensione e di preoccupazioni, di angoscia e di lacrime.
Educare un figlio o una figlia adolescente nella civiltà contadina e pre-industriale riservava meno problemi di oggi. La nostra società post-moderna (e qualcuno aggiunge anche post-cristiana) si qualifica per la sua forte connotazione consumistica. E nel grande mare del consumismo i giovani nuotano molto bene, grazie al sostegno finanziario dei genitori, spesso acriticamente generosi. Con i soldi facili (talvolta troppo facili) a portata di mano e con una personalità ancora non strutturata in quanto a valori e forza di volontà, l’adolescente cade più facilmente vittima dell’uso e dell’abuso del fumo, dell’alcol e della droga, dei divertimenti aggressivi e pericolosi, dei comportamenti devianti sfocianti, talvolta, nella prostituzione e nell’Aids. E i primi a essere angosciati e distrutti da queste tragedie sono i genitori.
Alcune mamme versano lacrime per i figli persi perché vittime delle sette pseudo religiose, o schiavi dei giochi d’azzardo, o diventati succubi delle cattive compagnie che li porteranno alla devianza sociale e ai guai con la legge. Altre piangono per i figli in carcere per propria colpa o all’ospedale per malattie incurabili di cui non hanno colpa.
Aspettate il prossimo fine settimana con la cosiddetta “febbre del sabato sera”, e ci sarà qualche mamma che in ansia aspetterà il ritorno del figlio o della figlia dalla discoteca (lo “sballo” settimanale). Purtroppo qualcuna cambierà la propria ansia in lacrime e dolore: il figlio che aspetta non tornerà più perché è già entrato nelle statistiche delle “vittime del sabato sera”.
A tutte queste mamme in difficoltà Monica, madre anche lei, può essere di aiuto e di conforto, di speranza e di esempio. Il figlio Agostino riconobbe che grande merito della propria conversione era della madre, grazie alle sue continue preghiere e alle tante lacrime versate. Si riferiva a questo fatto quando, nelle famose Confessioni, scrisse: “Non è possibile che un figlio di tante lacrime perisca”. E le tante lacrime erano di Monica e quel figlio che non poteva perire era lui stesso, Agostino.
Monica vinse il vino e convertì il marito
Monica nacque a Tagaste nell’odierna Algeria del nord, nell’anno 331, da genitori cristiani, ma che non erano eccessivamente preoccupati di dare una seria educazione cristiana ai figli (come molti genitori oggi). Se nel caso di Agostino l’educatrice alla fede e alla vita cristiana di ogni giorno fu la madre Monica, per quest’ultima fu invece la nutrice di famiglia, che aveva già tenuto in braccio suo padre.
Questa donna era quindi parte della famiglia, ben voluta, di ottima condotta e saggezza. E possiamo immaginare anche un po’ anziana. Agostino fa un grande elogio di lei: “Era energica nel punire con santa severità quando era opportuno e ricca di saggezza nell’istruire”. La dottrina del permissivismo in educazione, seguita da non pochi genitori ed educatori di oggi, non faceva parte del bagaglio di questa nutrice: era severa ma con saggezza, correggeva ma con tatto, sapeva anche punire ma con giustizia. Nei migliori trattati di pedagogia non deve mancare un capitolo sui “castighi” e giustamente. Questo anche perché il peccato originale e le sue conseguenze sono una verità di fede, e non è stato ancora cancellato (o superato) dalla tecnologia moderna. Del resto di castighi ne parlava un super educatore come Don Bosco, che di ragazzi se ne intendeva. Dice Agostino che la nutrice di sua madre era saggia nell’istruire e coscienziosa quando doveva correggerla.
Monica non era nata santa, lo diventò con pazienza, con costanza ed umiltà. Nella sua vita non riscontriamo, come in altre sante, una partenza bruciante sulla strada della perfezione evangelica fin da fanciulla. Aveva i propri difetti e difficoltà che seppe superare. Un esempio: a Monica piaceva il vino. E non poco. L’aveva raccontato lei stessa, nella sua grande umiltà, al figlio Agostino. Questo è segno di santità: “Quando i genitori credendola sobria, le ordinavano secondo i costumi, di andare ad attingere vino, ella, prima di versare il vino nel fiasco… ne beveva un pochino”. Solo un po’, naturalmente. All’inizio. Ma bevi oggi, bevi domani, la debolezza era diventata un’abitudine negativa, una schiavitù (oggi si direbbe una dipendenza).
La nutrice, alla quale non sfuggiva nulla e che aveva intuito tutto, ebbe il coraggio di intervenire. Un giorno, bisticciando con la ragazza le rinfacciò quella debolezza chiamandola “ubriacona”. Qualche “padroncina” di oggi avrebbe minacciato rappresaglie feroci o addirittura il licenziamento per quella “vecchia domestica” che osava tanto e non si faceva gli affari suoi. Monica invece accettò la verità anche se le faceva male, riconobbe l’abitudine non lodevole, e se ne liberò. Anche questo è santità.

Tante preghiere e lacrime per il figlio Agostino
Nel 353 Monica andò sposa ad un certo Patrizio, romano, dal quale avrà tre figli. Questi non era cristiano, aveva un carattere un po’ violento e non era nemmeno un buon esempio di fedeltà. Una donna meno forte e convinta nella fede cristiana avrebbe invocato subito la separazione o il divorzio. Monica no, voleva rimanere fedele al proprio matrimonio (“nella buona e nella cattiva sorte”) ma senza chiudere gli occhi sulle “malefatte” del suo compagno di vita.
E così la seconda battaglia che lei vinse, dopo il vino, fu quella del marito. Battaglia paziente, dolorosa, lunga, ma vittoriosa: riuscì infatti a guadagnare al Signore anche lui. Questi morirà nel 371, dopo essere diventato buon cristiano grazie alla preghiera incessante, alle lacrime e alla pazienza della moglie Monica. Scrisse Agostino: “Così non ebbe più da piangere quelle sue infedeltà che aveva dovuto tollerare quando egli non era ancora credente”. Anche questo è santità.
Ma la più grande sofferenza e nello stesso tempo la più grande gioia a Monica arriveranno dal figlio Agostino. Lei stessa l’aveva educato cristianamente, con la parola e con l’esempio, gli aveva messo nel cuore e sulle labbra fin da bambino il nome di Gesù, che nonostante tutte le peripezie filosofiche ed esistenziali, non dimenticherà mai.
Già qualche anno prima della morte del marito, quel figlio tanto intelligente le dava molte preoccupazioni. Sarà lei stessa che nel 371 lo manderà a Cartagine a proseguire gli studi. E sarà nello stesso anno che Agostino incomincerà la convivenza (come si vede era molto “moderno”) con una donna, dalla quale, l’anno dopo, avrà anche un figlio, Adeodato. Questa scelta fuori dal matrimonio fu per Monica un duro colpo: vedeva infatti il figlio allontanarsi dagli insegnamenti che gli aveva dato e anche dalle regole della propria fede cristiana (era nel frattempo passato all’eresia manichea). Per questi motivi, tornato a Tagaste lei, pur tra le lacrime, in un primo tempo non volle riaverlo in casa, finché confortata da un sogno, lo riammise presso di sé.

Agostino convertito: missione compiuta
Nel 375 Agostino si trasferì a Cartagine per insegnarvi eloquenza, mentre dopo l’incontro col vescovo manicheo Fausto, cominciava la sua crisi filosofica. Monica continuò sempre a invitarlo al ritorno alla vera fede, e non cesserà mai di pregare, tra le lacrime, per la conversione del figlio.
Questi invece, con uno stratagemma, riuscì a sfuggirle, imbarcandosi nottetempo per Roma (383), dove, dopo aver superato una lunga malattia, cominciò ad insegnare eloquenza e retorica. Finché ottenne un posto, tramite il prefetto di Roma Simmaco, a Milano.
Forse Agostino credeva che più andava verso nord, più la madre rimaneva… lontana. E si sbagliava di grosso. Monica non aveva ormai nessun interesse, nessuna preoccupazione, nessun obiettivo terreno che la sua conversione. E questo amore, anche se tra le lacrime, non si lasciava spaventare dalle distanze e dai disagi che comportavano i viaggi di allora. E così Monica, per amore del figlio prodigo, fuggito lontano, dopo aver viaggiato con il mare in tempesta, arrivò nell’anno 385 a Milano, accompagnata da Navigio, fratello di Agostino.
Qui la Mano Provvidenziale di Dio li aspettava entrambi con l’incontro con il vescovo della città, Ambrogio “un uomo di Dio”, e un “vescovo noto in tutto il mondo”. Tutti e due seguirono le sue omelie, tutte e due rimasero molto bene impressionati (anche se Agostino all’inizio badava più alla forma retorica che alla sostanza). Ambrogio predicava, Monica pregava (e faceva opere di carità), Agostino pensava, e passava di crisi in crisi e di filosofia in filosofia, dal manicheismo allo scetticismo, dai neo accademici e ai neoplatonici. La grazia di Dio intanto, per vie misteriose come sempre, lavorava su tutti.
La tanto sospirata conversione di Agostino arrivò alla fine del 386, e con il battesimo suo (e del figlio Adeodato) per mano del vescovo Ambrogio nella Pasqua del 387. Questo era il sigillo sul grande travaglio di Agostino nella sua ricerca della verità, e la fine delle tante preghiere e lacrime di Monica per lui. Missione compiuta. Non aveva altri obiettivi terreni. Il Paradiso, questa volta, non poteva più attendere.
Alcuni mesi dopo il battesimo infatti progettarono di tornare in patria. Arrivati ad Ostia tutti e due, madre e figlio convertito, ebbero la famosa estasi di cui si parla nelle Confessioni. Era un piccolo saggio (di Dio) e assaggio per loro di vita eterna, che cambiò la prospettiva di vita per entrambi. Così Agostino riferisce le ultime parole della madre: “C’era una cosa sola per la quale desideravo rimanere un poco su questa terra: vederti cristiano cattolico prima di morire. Dio me lo ha concesso abbondantemente, perché ti vedo divenuto suo servo che addirittura disprezza la felicità terrena. Che cosa dunque sto a fare qui?”. Infatti moriva poco dopo, sempre a Ostia, all’età di 56 anni, mentre Agostino ne aveva 33, e stava per cominciare la sua prodigiosa opera. Grazie alla perseveranza, alla pazienza, al coraggio, alle preghiere e alle “tante lacrime” di una grande donna e di una grande madre, Monica.
MARIO SCUDU sdb ***

*** Questo e altri 120 santi e sante e beati sono presenti nel volume di :
MARIO SCUDU, Anche Dio ha i suoi campioni, Editrice Elledici, Torino
Nulla è lontano da Dio
Pochi giorni dopo l’estasi di Ostia (piccolo assaggio della Patria definitiva o Paradiso) Monica colpita dalla febbre, si mise a letto, e si preparò all’incontro con Dio, che lei desiderava con tutte le forze. Non aveva nessuna preoccupazione né di morire né di essere lontano dalla sua terra, dove aveva preparato con cura la propria tomba accanto al marito. Fece solo una raccomandazione ai presenti: si ricordassero di lei nell’Eucarestia. Alla domanda se non aveva paura di lasciare il proprio corpo in terra straniera, così lontana dalla propria patria, lei rispose: “Nulla è lontano da Dio, e non c’è da temere che alla fine del mondo egli non ritrovi il luogo da cui risuscitarmi” (Dalle Confessioni 9).
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Pochi giorni prima che lei morisse… accadde, credo per misteriosa disposizione delle tue vie, che ci trovassimo lei ed io soli… C’era un grande silenzio… Parlavamo, fra noi, soavissimamente, dimentichi del passato e protesi verso l’avvenire. Ci domandavamo, davanti alla presenza della verità e cioè di te, o Signore, quale fosse mai quella vita eterna dei beati che “nessun occhio vide, nessun orecchio udì, che rimane inaccessibile alla mente umana”. Aprivamo avidamente il nostro cuore al fluire celeste della tua fonte, la fonte della vita, che è in te, per esserne un poco irrorati, per quanto era possibile alla nostra intelligenza, e poterci così formare un’idea di tanta sublimità.
Eravamo giunti alla conclusione che qualsiasi piacere dei sensi del corpo, anche nel maggior splendore fisico, non solo non deve essere paragonato alla felicità di quella vita, ma nemmeno nominato; ci rivolgemmo poi con maggior intensità d’affetto verso l’“Ente in sé”, ripercorrendo a poco a poco tutte le creature materiali fin su al cielo da cui il sole, la luna e le stelle mandano la loro luce sulla terra. E la nostra vista interiore si spinse più in alto, nella contemplazione, nell’esaltazione, nell’ammirazione delle tue opere; e arrivammo al pensiero umano, e passammo oltre, per raggiungere le regioni infinite della tua inesauribile fecondità, nelle quali nutri Israele con il cibo della verità, dove la vita è la sapienza che dà l’essere a tutte le cose presenti, passate e future: ed essa non ha successione, ma è come fu, come sarà, sempre. Anzi meglio, non esiste in lei un “fu”, un “sarà”, ma solo “è”, perché è eterna: il fu e il sarà non appartengono all’eternità. E mentre parlavamo e anelavamo ad essa la cogliemmo un poco con lo slancio del cuore e sospirando vi lasciammo unite le primizie dello spirito per ridiscendere al suono delle nostre labbra, dove la parola trova il suo inizio e la sua fine. Quale possibilità di confronto tra essa e il tuo Verbo, che permane in se stesso, e non invecchia e rinnova tutto? (Confessioni X).

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