Marco 6,1-6

https://combonianum.org/2018/07/05/prepararsi-alla-domenica-xiv-del-tempo-ordinario/
XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (B) GESÙ, TROPPO UMANO – ENZO BIANCHI
Il brano evangelico di questa domenica ci interroga soprattutto sul nostro atteggiamento abituale, quotidiano: atteggiamento che in profondità non spera nulla e dunque non attende nessuno; e soprattutto, atteggiamento che non riesce a immaginare che dal quotidiano, dall’altro che ci è familiare, da colui che conosciamo possa scaturire per noi una parola veramente di Dio. Non abbiamo molta fiducia nell’altro, in particolare se lo conosciamo da vicino, mentre siamo sempre pronti a credere allo “straordinario”, a qualcuno che si imponga. Siamo talmente poco muniti di fede-fiducia, che impediamo che avvengano miracoli perché, anche se questi avvengono, non li vediamo, non li riconosciamo, e dunque questi restano eventi inutili, miracoli che non ottengono il loro fine.
Questo, in profondità, il messaggio del vangelo odierno, una pagina che riguarda la nostra fede, la nostra disponibilità a credere. Gesù era nato da una famiglia ordinaria: un padre artigiano e una madre casalinga come tutte le donne del tempo. La sua era una famiglia con fratelli e sorelle, cioè parenti, cugini, una famiglia numerosa e legata da forti vincoli di sangue, come accadeva in oriente. Da piccolo, come ogni ragazzo ebreo, Gesù ha aiutato il padre nei lavori, ha giocato con Giacomo, Ioses, Giuda, Simone e con le sue sorelle, ha condotto una vita molto quotidiana, senza che nulla lasciasse trasparire la sua vocazione e la sua singolarità. Poi a un certo punto, non sappiamo quando, sono iniziati per lui quelli che Robert Aron ha chiamato “gli anni oscuri di Gesù”, presso le rive del Giordano e del mar Morto, dove vivevano gruppi e comunità di credenti giudei in attesa del giorno di Dio, uomini dediti alla lettura delle sante Scritture e alla preghiera. Gesù a una certa età li raggiunse e qui divenne discepolo di Giovanni il Battista (il quale lo definì “colui che viene dietro a me”: cf. Mc 1,7). Poi sentì come vocazione da Dio quella di essere un predicatore itinerante, iniziando il suo ministero dalla Galilea, la terra in cui era stato allevato (cf. Mc 1,14-15).
E quando ormai Gesù ha un gruppo di discepoli che vivono con lui (cf. Mc 3,13-19), nella sua predicazione di villaggio in villaggio, in giorno di sabato entra nella sinagoga di Nazaret, “la sua patria”. Torna dopo molto tempo trascorso altrove, e gli abitanti del villaggio lo ricordano come “figlio di” e “fratello di”. Al momento della lettura del brano della Torah (parashah) e dei profeti (haftarah), Gesù, essendo un uomo ebreo, come ogni altro ebreo di più di dodici anni, dopo essere diventato bar mitzwah, figlio del comandamento, ha la possibilità di salire sull’ambone e di prendere la parola. Non è un sacerdote, non è un rabbi ufficialmente riconosciuto – “ordinato”, diremmo noi – ma esercita questo diritto di leggere le Scritture e tenere l’omelia.
A differenza di Luca (cf. Lc 4,16-30), Marco non specifica né i testi biblici proclamati né il contenuto del commento di Gesù, ma mette in evidenza la reazione dell’assemblea liturgica che lo ha ascoltato. D’altronde la sua fama lo ha preceduto: torna a Nazaret come un “maestro” dai tratti profetici, capace di operare guarigioni, azioni miracolose con le sue mani. La prima reazione è di stupore e ammirazione: è un bravo predicatore, ha autorevolezza, la sua parola colpisce e appare ricca di sapienza. Ma di fronte a tale incontestabile verità ecco emergere un pensiero: lo conosciamo come uno di noi, la sua famiglia è qui, i suoi fratelli e le sue sorelle hanno nomi precisi. Dunque che cosa pretende, che cosa vuole? Perché dovrebbe essere “altro”? Sì, Gesù era un uomo come gli altri, si presentava senza tratti straordinari, appariva fragile come ogni essere umano. Così quotidiano, così dimesso, senza qualcosa che nelle sue vesti proclamasse la sua gloria e la sua funzione, senza un “cerimoniale” fatto di persone che lo accompagnassero e lo rendessero solenne nell’apparire tra gli altri.
No, troppo umano! Ma se non c’è in lui nulla di “straordinario”, come poterlo accogliere? Con ogni probabilità, Gesù non aveva neppure una parola seducente, non si atteggiava in modo da essere ammirato o venerato. Era troppo umano, e per questo “si scandalizzavano di lui” (eskandalízonto en autô), cioè sentivano proprio in quello che vedevano, in quella sua umanità così quotidiana, un ostacolo a mettere fiducia in lui e nella sua parola. Dunque quel ritorno al villaggio natale è stato un fallimento. Gesù lo comprende e osa proclamarlo ad alta voce: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Sì, questo è avvenuto: proprio chi pretendeva di conoscerlo, in quanto concittadino, vicino o parente, giunge a disprezzarlo. Marco aveva già annotato che all’inizio della sua predicazione i suoi familiari erano venuti per prenderlo e portarlo via, dicendo che egli era pazzo, fuori di sé (éxo: cf. Mc 3,21); ma ora è tutta la gente a emettere questo giudizio negativo su di lui: il suo atteggiamento è troppo umano, poco sacrale, poco rituale!
Gesù allora si mette a curare i malati là presenti, e ne guarisce anche qualcuno, ma è come se non avesse operato miracoli, perché il miracolo avviene quando il testimone passa dall’incredulità alla fede. Qui invece sono restati tutti increduli, per questo Marco sentenzia: “non poteva compiere nessun miracolo” (dýnamis). Gesù è ridotto all’impotenza, non può agire con potenza, non può neanche fare il bene, perché non c’è fede in lui da parte dei presenti. Che torto aveva Gesù? Rispetto a quei “suoi”, camminava troppo avanti agli altri, teneva un passo troppo veloce, vedeva troppo lontano, aveva la parrhesía, il coraggio di dire ciò che gli altri non dicevano, osava pensare ciò che gli altri non pensavano, e tutto questo restando umano, troppo umano.
Ecco ciò che attende chiunque abbia ricevuto un dono da Dio, anche solo una briciola di profezia: diventa insopportabile, e comunque è meglio non fargli fiducia… Gesù “si stupisce della loro mancanza di fede (apistía)”, e tuttavia non demorde: continua la sua missione andando altrove, sempre predicando e operando il bene. Ma senza ricevere fede-fiducia, Gesù non riesce né a convertire né a guarire.
http://www.monasterodibose.it
TEMPI BIBLICI: UNA STORIA A NOSTRO FAVORE
(Chiesa Valdese)
Una storia, per essere tale, ha bisogno del tempo, e questo vale anche per la storia della nostra salvezza, dove l’ingresso di Dio nello spazio e nel tempo umano “trasfigura ed accende l’universo in attesa”, per dirla con le antiche parole della liturgia cristiana. “Prima di Cristo” e “dopo Cristo”, attesa messianica e attesa delle cose ultime. Le religioni monoteiste sono caratterizzate da un tempo lineare che scorre dall’inizio alla fine dei tempi, a differenza delle religioni orientali dove il tempo è ciclico e si ripete senza fine. Spesso nella Bibbia i tempi sono lunghi, appunto biblici, come si usa dire! Sembra quasi che lo scorrere dei giorni, dei mesi, degli anni sia uno dei fattori principali nella relazione tra Dio e i personaggi biblici. Se avete tempo – e detto da chi ha un cognome come il mio è tutto un programma – basta dare uno sguardo molto generico al racconto biblico per rendersene conto.
Il racconto della creazione inizia subito con una constatazione temporale, «in principio», e con un computo preciso del tempo, certamente simbolico, della durata di una settimana: «e fu sera e fu mattino, primo giorno … secondo … terzo» e così via (Gen 1). E’ l’inizio di ogni cosa, anche del nostro tempo, lo starter del cronometro dell’umanità, una dimensione così vasta che solo lo sguardo di Dio può abbracciarla completamente. Sempre in Genesi, sembra che la durata della vita determini la qualità di una persona, stando alla lista dei sostanziosi compleanni: 930 anni visse Adamo, 912 anni Set, 905 Enos e Noè, solo per ricordarne alcuni. A Enoc, figura celebre per la letteratura giudaica, piace strafare, di lui infatti si dice che visse 365 anni e che «camminò con Dio; poi scomparve, perché Dio lo prese» (Gen 5:24), come rompendo gli schemi del tempo per entrare nell’eternità. Tornando a Noè, è interessante notare l’attesa sua e di tutti gli esseri viventi che stavano nell’arca prima di poterne uscire. Mentre il diluvio infatti è descritto come un evento improvviso della durata di quaranta giorni e quaranta notti, il successivo ritirarsi delle acque richiede un tempo di centocinquanta giorni, per iniziare; poi Noè aspetterà quaranta giorni prima di mandare il corvo ad ispezionare la terra, e prima di mandare la colomba per tre volte attende sempre sette giorni (Gen 8): insomma, un vero e proprio stillicidio per la pazienza anche dell’uomo biblico più virtuoso. Un tempo prezioso però, a ben guardare: dopo il tempo del diluvio, cioè di questo atto di Dio a causa della violenza degli uomini che aveva corrotto il quadro originario del creato, c’è un tempo per fermarsi e riscoprire ciò che si era perduto, per rendersi conto della bellezza che sta emergendo nuovamente dalle acque. E di questo tempo probabilmente anche Dio aveva bisogno: il suo appendere l’arco sulle nubi (Gen 9:13) testimonia che Dio non è più lo stesso di prima, ma ha deciso di scommettere ancora sull’umanità, di darle fiducia e speranza, anche se il male sarà ancora compiuto sulla Terra, anche se ci sarà bisogno di un Salvatore. Non tutto il “tempo” viene per nuocere, potremmo dire parafrasando il celebre proverbio!
Mi è capitato, agli inizi degli studi teologici, di curiosare nella geografia biblica navigando tra mappe cartacee e sul web nell’antico medio oriente. E come altri studenti, considerando che il deserto che separa l’Egitto dalla terra di Canaan sia poco più lungo della Pianura Padana (circa 400 Km di lunghezza) mi sono chiesto se occorressero davvero quarant’anni per attraversarlo tutto. Evidentemente no, per quanto all’epoca Israele e Mosè si spostassero a piedi. Questo scarto tra spazio e tempo vuole anche qui dirci qualcos’altro: non è il deserto ad essere tanto lungo, piuttosto è Israele ad avere bisogno di tempo per abituarsi al messaggio e all’idea della libertà. I quarant’anni nel deserto sono un margine di tempo regalato pedagogicamente da Dio al suo popolo per prendere coscienza della sua identità, del suo rapporto di alleanza, per perdere nel deserto la pelle secca della schiavitù, che aveva reso arido il loro cuore rendendolo «un popolo dal collo duro» (Es 33:5).
Così immersi nel tempo come siamo, abbiamo bisogno come Noè e come Israele nel deserto di riscoprire l’azione di Dio a nostro favore, specialmente quando l’abitudine e le ansie della vita rimpiccioliscono lo sguardo del nostro orizzonte, facendoci perdere senso e speranza. Da queste prime pagine della Scrittura, è chiaro che Dio non ha fretta, specialmente quando si tratta di educarci, di liberarci, di salvarci. In una parola: di amarci. Una volta reso davvero libero e “tornato” a casa, Israele potrà restituire questo tempo prezioso a Dio mediante le prescrizioni liturgiche che regolano le festività sacre, minuziosamente descritte e regolate in Esodo, Levitico e Deuteronomio. Il riposo del sabato, innanzitutto, memoria eterna e allo stesso tempo settimanale del primo sabato della creazione; quindi la Pasqua o festa degli azzimi, la Pentecoste o festa della mietitura, la festa delle Capanne come ringraziamento per il raccolto, l’anno sabbatico per il riposo della terra ogni sette anni, e dopo il settimo anno sabbatico, cioè ogni cinquant’anni, l’anno del giubileo. Significativo in questo senso è il fare memoria della liberazione dall’Egitto che si è tramandato nei secoli attraverso la cena pasquale ebraica o Haggadah di Pesach. Ad un certo punto della cena, dopo aver scoperto il pane azzimo, un bambino chiede a un anziano: «Perché questa notte è diversa da tutte le altre notti? Perché tutte le altre notti andiamo a letto presto e non restiamo alzati, e non aspettiamo niente». Celebrare e fare memoria, nella liturgia, è vivere il tempo di Dio sul nostro tempo presente, facendo memoria – e non solo ripetendo – delle parole e dei gesti che hanno segnato la nostra salvezza. E’ questo credo il senso della raccomandazione di Deuteronomio 4:32 «Ricerca pure nei tempi antichi, che furono prima di te, dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra». Uno spunto interessante per il nostro rapporto con la liturgia delle nostre chiese.
Che ci sia tempo e tempo, lo aveva scoperto anche Giacobbe, quando pur di avere in sposa Rachele offre sette anni di lavoro presso il padre di lei, Labano: «e gli parvero pochi giorni, a causa del suo amore per lei» (Ge 29:20). Come il tempo speso nell’amicizia, nell’amore, nel riposo scorre sempre troppo in fretta, così il tempo della sofferenza e della noia sembra sempre troppo lungo, lo sappiamo bene. Eppure «per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo», ci dice nel suo primo versetto il celebre e inflazionato capitolo tre dell’Ecclesiaste. Questo carattere inclusivo della temporalità riflette la coesistenza, sotto il sole, delle diverse generazioni, dell’empio e del giusto, del ricco e del povero, del sano e del malato, ma sopra ogni cosa si staglia la sovrana figura di Dio, Signore della storia, il cui Spirito soltanto ci guida nell’armonizzare questi estremi, nel creare sinfonia dai nostri opposti. L’abbandono fiducioso alla sua volontà resta la via maestra da seguire come suoi figli e figlie e suoi testimoni nel mondo, anche e a maggior ragione quando i tempi si fanno difficili. Da questo la donna e l’uomo credenti traggono saggezza e consolazione, perché sanno che il loro tempo è stato abitato da Dio. «Insegnaci dunque a contare bene i nostri giorni, per acquistare un cuore saggio» (Sl 90:12).
I libri profetici contengono molte e preziose parole sul tempo, e forse ciascuno e ciascuna di noi ne ricorda alcune. Ci basti notare qui che nell’ambito della profezia non è tanto il tempo futuro che interpella il popolo di Dio, ma già quello presente, il qui e ora del rapporto di fedeltà con Dio. Così come il profeta non è principalmente l’uomo che parla del futuro, ma che parla all’uomo da parte di Dio, allo stesso modo non è nel futuro che Dio ci attende, ma in ogni momento del nostro vivere quotidiano; e se spesso, certo, il profeta parla al futuro («Così parla il Signore: “Nel tempo della grazia io ti esaudirò, nel giorno della salvezza ti aiuterò”», Is 49:8a) è per dire che l’orizzonte della promesse di Dio a nostro favore è infinitamente più vasto del nostro presente, che non le può racchiudere in nessun schema o in nessun magistero.
«Ma quando giunse la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge» (Ga 4:4). Con questa solenne affermazione arriviamo al Nuovo Testamento, che ci parla della pienezza dei tempi. Una pienezza che evidentemente, agli occhi di Dio, non ha a che fare con l’evoluzione del sapere e della conoscenza o con il progresso della scienza e della tecnica. La Galilea di duemila anni fa, senza internet e senza mass media, ai margini politici e geografici dell’Impero, fa da scenario all’evento dell’Incarnazione, sigillando quel tempo come il tempo del plèroma (in greco), cioè della pienezza. Forse c’è di che essere gelosi, potremmo pensare, se Dio ha scelto quel tempo e non il nostro per farsi uomo. In realtà non ne abbiamo motivo, quei tempi non sono poi così lontani. La lettera agli Ebrei si apre constatando che «in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1:2) il che rende quei tempi più vicini ai nostri: perché sono già il tempo della chiesa, è già il tempo dell’annuncio della Parola, è già il tempo compreso nella promessa fattaci da Gesù di restare con noi tutti i giorni fino alla fine dell’età presente (Mt 28:20).
E’ un tempo spartiacque quello di Gesù, non solo per il significato che ha avuto nella storia dell’umanità, ma anche per le conseguenze che ha portato nell’esistenza dei suoi discepoli. Nella loro vita c’è un “prima” e un “dopo” Gesù, c’è un momento particolare in cui il loro tempo è diventato altro rispetto al tempo normale della loro quotidianità. Nel raccontare dei due discepoli del Battista che domandarono a Gesù “dove abiti?”, l’evangelista Giovanni non ci riporta i loro nomi, ma annota che erano circa le quattro del pomeriggio (Gv 1:35-39). Ci colpisce una così chiara nota temporale che viene da un tempo così lontano dal nostro! Del resto certe date, certe ore non le scorderemo mai: l’ora del primo amore, della nascita di un figlio, di una bella notizia. L’ora in cui abbiamo sentito, o abbiamo riscoperto la voce di Dio nella nostra vita, quell’ora è anche per noi “le quattro del pomeriggio” come per quei due discepoli. Basterebbe solo la grazia di saper ricordare e rivivere quel momento per riscoprire la gratitudine, la gioia che può alimentare ogni altro giorno.
Giovanni ama giocare col tempo nel suo Vangelo. Il suo Gesù non ha paura di perdere tempo per una persona soltanto, non è un Gesù che guarda freneticamente l’agenda o lo smartphone: pensiamo alla samaritana, o a Nicodemo, che incontra persino di notte. Il tempo del Figlio nel quarto vangelo è anche orientato all’ora suprema della croce, e fino ad allora ogni parola, ogni segno è prematuro, ci parla ma non ancora con la potenza e il significato della parola della croce. Fino a quel momento «l’ora mia non è ancora venuta … il mio tempo non è ancora venuto» (Gv 2:4; 7:6). Anche all’evangelista Luca piace il tema del tempo, inteso come kairòs, il tempo favorevole, che è oggi, non ieri o domani: «Oggi devo fermarmi a casa tua… oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Lc 19:5-9).
Oggi: il nostro tempo, un tempo che conosciamo bene, un tempo sempre favorevole per il nostro rapporto con Dio e col prossimo, declinando in termini temporali il primo e più grande comandamento. Un tempo che nell’ottica di credenti è più nelle mani di Dio che nelle nostre. Un tempo, come ci racconta anche il Piccolo Principe, che non va imprigionato nei nostri freddi calcoli, ma che ha senso, e può fiorire in eterno, nella misura in cui sappiamo farne dono, esattamente così come ci viene donato da Dio, gratuitamente, ogni nuova mattina.
http://www.santiebeati.it/dettaglio/21150
SAN TOMMASO APOSTOLO – 3 LUGLIO
Palestina – India meridionale (?), primo secolo dell’èra cristiana
Il suo nome, in aramaico, significa “gemello”. Ci sono ignoti luogo di nascita e mestiere. Il Vangelo di Giovanni, al capitolo 11, ci fa sentire subito la sua voce, non proprio entusiasta. Gesù ha lasciato la Giudea, diventata pericolosa: ma all’improvviso decide di ritornarci, andando a Betania, dove è morto il suo amico Lazzaro. I discepoli trovano che è rischioso, ma Gesù ha deciso: si va. E qui si fa sentire la voce di Tommaso, obbediente e pessimistica: « Andiamo anche noi a morire con lui ». E’ sicuro che la cosa finirà male; tuttavia non abbandona Gesù: preferisce condividere la sua disgrazia, anche brontolando.
Facciamo torto a Tommaso ricordando solo il suo momento famoso di incredulità dopo la risurrezione. Lui è ben altro che un seguace tiepido. Ma credere non gli è facile, e non vuol fingere che lo sia. Dice le sue difficoltà, si mostra com’è, ci somiglia, ci aiuta. Eccolo all’ultima Cena (Giovanni 14), stavolta come interrogante un po’ disorientato. Gesù sta per andare al Getsemani e dice che va a preparare per tutti un posto nella casa del Padre, soggiungendo: « E del luogo dove io vado voi conoscete la via ». Obietta subito Tommaso, candido e confuso: « Signore, non sappiamo dove vai, e come possiamo conoscere la via? ». Scolaro un po’ duro di testa, ma sempre schietto, quando non capisce una cosa lo dice. E Gesù riassume per lui tutto l’insegnamento: « Io sono la via, la verità e la vita ». Ora arriviamo alla sua uscita più clamorosa, che gli resterà appiccicata per sempre, e troppo severamente. Giovanni, capitolo 20: Gesù è risorto; è apparso ai discepoli, tra i quali non c’era Tommaso. E lui, sentendo parlare di risurrezione “solo da loro”, esige di toccare con mano. E’ a loro che parla, non a Gesù. E Gesù viene, otto giorni dopo, lo invita a “controllare”… Ed ecco che Tommaso, il pignolo, vola fulmineo ed entusiasta alla conclusione, chiamando Gesù: “Mio Signore e mio Dio!”, come nessuno finora aveva mai fatto. E quasi gli suggerisce quella promessa per tutti, in tutti i tempi: « Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno ».
Tommaso è ancora citato da Giovanni al capitolo 21 durante l’apparizione di Gesù al lago di Tiberiade. Gli Atti (capitolo 1) lo nominano dopo l’Ascensione. Poi più nulla: ignoriamo quando e dove sia morto. Alcuni testi attribuiti a lui (anche un “Vangelo”) non sono ritenuti attendibili. A metà del VI secolo, il mercante egiziano Cosma Indicopleuste scrive di aver trovato nell’India meridionale gruppi inaspettati di cristiani; e di aver saputo che il Vangelo fu portato ai loro avi da Tommaso apostolo. Sono i “Tommaso-cristiani”, comunità sempre vive nel XX secolo, ma di differenti appartenenze: al cattolicesimo, a Chiese protestanti e a riti cristiano-orientali.
Patronato: Architetti
Etimologia: Tommaso = gemello, dall’ebraico
Emblema: Lancia
Martirologio Romano: Festa di san Tommaso, Apostolo, il quale non credette agli altri discepoli che gli annunciavano la resurrezione di Gesù, ma, quando lui stesso gli mostrò il costato trafitto, esclamò: «Mio Signore e mio Dio». E con questa stessa fede si ritiene abbia portato la parola del Vangelo tra i popoli dell’India.
Papa Francesco ce lo presenta così: “Tommaso è uno che non si accontenta e cerca, intende verificare di persona, compiere una propria esperienza personale. Dopo le iniziali resistenze e inquietudini, alla fine arriva anche lui a credere, pur avanzando con fatica”. A noi tutti è familiare la figura di questo Apostolo: quante volte l’abbiamo sentito citare nelle omelie e nel linguaggio comune. “Io sono come San Tommaso, se non vedo non credo!” Così nella nostra tradizione lui è diventato il modello dello scettico che ha bisogno di vedere e di toccare per credere ma che poi, dinnanzi alla prova dei sensi, ci regala la più bella espressione di fede piena ed autentica “Signore mio e mio Dio”!
Il suo profilo delineato nei Vangeli
Nei Vangeli sinottici Tommaso viene nominato insieme con Matteo, negli Atti sta accanto a Filippo. Il Vangelo di Giovanni parla di lui più degli altri, definendolo Didimo, cioè gemello. Ora in modo analitico ma sintetico prendiamo in esame le singole pagine evangeliche che ci parlano di lui. Gesù, in una giornata molto particolare riceve il seguente messaggio dalle sorelle di Lazzaro: “Signore, ecco colui che tu ami è malato”. Gesù sapeva che quella malattia dell’amico sarebbe stato un mezzo per la glorificazione del Figlio di Dio. Per questo, dopo due giorni di sosta, disse ai discepoli: “Andiamo di nuovo in Giudea”. Ma i discepoli gli risposero che sarebbe stato molto rischioso ritornare in Giudea, dove proprio i Giudei avevano tentato di lapidarlo. Come sarebbe stato possibile tornarci di nuovo? Allora Gesù parlò della luce del giorno e delle tenebre della notte, del sonno di Lazzaro e della necessità di risvegliarlo. Ma gli apostoli non capirono. Gesù parlò più chiaro e disse che Lazzaro era morto, allora Tommaso, chiamato Didimo disse agli altri: “Andiamo anche noi a morire con lui” ( Gv. 11, 16) Tommaso in questo passo di Giovanni rivela una personalità determinata, disponibile a seguire Gesù sempre, fino a condividere con lui la stessa morte. Nell’Ultima Cena, mentre si avvicina il tempo della sua passione e morte, Gesù si rivolge ai discepoli e annuncia di andare a preparare un posto per loro, perché essi siano insieme con lui. Poi precisa: “ Del luogo dove io vado, voi conoscete la via”. (Gv. 14,4) Tommaso, da uomo concreto, interviene dicendo: “Signore, non sappiamo dove vai, e come possiamo conoscere la via? “(Gv. 14,5) E Gesù risponde :” Io sono la via, la verità e la vita”. La rivelazione di Gesù rivolta a Tommaso vale per gli uomini di tutti i tempi, perciò chiunque voglia intraprendere un cammino di fede potrà camminare al fianco di Tommaso e come lui accogliere la verità del Cristo morto e risorto per la salvezza della intera famiglia umana.
Il celebre dipinto teologico dell’apparizione Pasquale e della sua iniziale incredulità
Nel racconto della Passione di Gesù non si fa cenno a Tommaso, ma la sua sofferenza si capisce dagli avvenimenti successivi, che accadono dopo la Resurrezione. La sera di quel giorno, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi” Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono nel vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il padre ha mandato me, io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete non saranno perdonati”. Quando i discepoli riferirono a Tommaso che avevano visto il Signore, lui stenta a crederci e afferma che se non lo vedrà con i suoi stessi occhi e non lo toccherà con le sue mani non crederà. (Gv. 20, 25) Otto giorni dopo la Pasqua, i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù a porte chiuse, stette in mezzo e disse: « Pace a voi ». Poi disse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco e non essere incredulo, ma credente”. Gli rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” Gesù gli disse: “Perché hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto”.(Gv. 20, 26-29) Tommaso, partito da una condizione di incertezza e di dubbio giunge alla più bella espressione di fede. Sull’esempio di Tommaso, ogni uomo di buona volontà, partendo dal dubbio, può andare alla ricerca della fede in qualsiasi momento della vita e approdare all’incontro con Gesù Eucaristia inizio e compimento di ogni storia di salvezza personale.
La sua missione dopo l’Ascensione tra devozione e leggenda, evangelizzatore dell’India
Secondo una tradizione che risale almeno a Origene (185-255 circa), Tommaso evangelizzò la regione dei Parti, cioè la Siria e la Persia. Un’altra tradizione, più tarda, che risale a Gregorio Nazianzeno (329-390 circa), attribuisce a Tommaso l’evangelizzazione dell’India, regione dove avrebbe subito il martirio. Questa tradizione appare accolta anche dagli apocrifi Atti di Tommaso. Secondo questo testo dunque Tommaso giunse fino all’alto corso del fiume Indo, nell’India occidentale, per trasferirsi poi nell’India meridionale, dove morì martire, ucciso a colpi di spada o di lancia, poco lontano da Calamina. Isidoro di Siviglia verso il 636 pone in questo giorno anche la sua sepoltura nella stessa Calamina, città non altrimenti nota ma che probabilmente deve identificarsi con l’odierna Mylapore, sobborgo di Chennai-Madras, dove il luogo del suo martirio è ancora indicato da una croce con iscrizione in antico persiano del VII secolo. Nella locale comunità cristiana, a lungo separata dall’Occidente fino a quando nel 1517 i portoghesi arrivarono in India, si è sempre conservata viva nei secoli la tradizione della propria origine dalla predicazione di Tommaso. Quello che la popolazione locale identificava ancora con il suo sepolcro (che fu visitato da Marco Polo nel 1292, e di cui recenti considerazioni archeologiche confermerebbero l’antichità), all’arrivo dei portoghesi era da secoli custodito da una famiglia musulmana. Essi vi edificarono sopra una chiesa, dal XIX secolo sostituita dall’attuale chiesa cattedrale intitolata all’apostolo. Da questo sepolcro le reliquie di Tommaso, come affermano gli stessi Atti di Tommaso e poi, verso la fine del IV secolo, il siriano sant’Efrem, erano state trafugate e trasferite a Edessa, probabilmente già dal 230 (la tradizione riporta la data precisa del 3 luglio. Il 13 dicembre 1144 Edessa subì l’ultima e definitiva conquista musulmana: ma prima di questo avvenimento le reliquie di Tommaso erano state traslate probabilmente nell’isola di Chios. È da qui infatti che le vediamo pervenire nella cittadina di Ortona in Abruzzo, insieme alla pietra tombale, secondo il racconto che si legge in una pergamena del 22 settembre 1259, un solenne atto pubblico che raccoglie le testimonianze, rese sotto giuramento, degli ortonesi che asportarono da Chios le reliquie di Tommaso, da allora le reliquie di Tommaso sono custodite nella Concattedrale a lui intitolata. Soprattutto il suo viaggio in Oriente che, secondo Giovanni Crisostomo, lo avrebbe portato fin nella terra dei Re Magi e li sarebbe rimasto fino alla morte svolgendo anche l’attività di architetto. Per questo Tommaso viene frequentemente rappresentato con uno squadro in mano, simbolo chiaro della sua professione.
La tradizione della cintura della Madonna data a Tommaso
Un’antica tradizione, raccolta nella Legenda aurea di Jacopo da Varagine, ricollega Tommaso all’Assunzione in cielo di Maria. Dopo la morte della Vergine, Gesù stesso fece porre il suo corpo in un sepolcro, poi, dopo tre giorni, lo riunì all’anima e l’accolse in cielo. La cintura di Maria cadde, ancora stretta, nelle mani di Tommaso; secondo alcuni, come segno di particolare predilezione, secondo altri, per vincere la sua incredulità. In controluce al brano evangelico della Resurrezione, Tommaso sarebbe arrivato dopo esprimendo incredulità, per questo venne confermato da questo segno.
San Tommaso architetto di Dio in India
L’Apostolo Tommaso in India, luogo che aveva avuto per annunciare la Resurrezione del Signore, era abitata da popolazioni considerate barbare, fra cui era ben radicata la mancanza di vera fede e di vera pietà. Con le armi dell’amore e con la pazienza battezzò ricchi e poveri, grandi e piccoli, potenti e governanti. Non utilizzò una predicazione rigida, dura ed i castighi, ma fu sempre disponibile, semplice, umile e vicino ai bisogni dell’uomo, trovandosi anche a predicare i miracoli del proprio Maestro. Nel nome del proprio Signore e Dio, l’Apostolo Tommaso compì diversi miracoli in diverse città indiane e si diffuse così la fede nella salvezza delle anime e, soprattutto, per la prima volta furono fondate comunità cristiane ed ordinati diaconi, presbiteri e vescovi. I miracoli del Santo Apostolo Tommaso commuovono e donano la salute agli infermi, molti dei quali sono battezzati e diventano membri della Chiesa. Si diffuse pure la fama della sua santità, anche al di fuori dei confini locali. Compì le imprese più grandi per la sua comprensione e custodia. Dalla città, dove viveva l’Apostolo Tommaso, alcuni fecero visita al re. Nel corso dell’incontro il re li interrogò per essere informato della grandezza e bellezza del palazzo reale. Tommaso, che aveva ricevuto dell’oro per costruire un nuovo palazzo e che, invece, lo aveva distribuito tra i poveri ed i bisognosi, non si era preoccupato della costruzione del palazzo. Costoro gli risposero: “Re, non attendere un nuovo palazzo, poiché costui ha distribuito l’oro ai poveri e per di più annuncia un Dio sconosciuto e compie miracoli”. Il re si adirò ed ordinò di portargli davanti San Tommaso. Dopo che gli fu portato, gli chiese se avesse costruito il nuovo palazzo e l’apostolo Tommaso gli rispose: “ho costruito l’unico stupendo tipo di palazzo che ho imparato a costruire dall’architetto che è Cristo”. Il re rispose: “andiamo ora a vederlo” e l’Apostolo Tommaso replicò: “ Ritengo che non serva ora. Quando partirai da questo mondo, allora ti servirà”. Il re, adirato, ritenendo di essere burlato, ordinò di rinchiudere l’imbroglione in una fossa buia.Mentre San Tommaso era in prigione con il mercante Amvani, il fratello del re, colpito dal un profondissimo dolore per il danno subito, si ammalò gravemente. Chiamò il fratello e gli disse: “Sono profondamente addolorato per il danno subito a causa di quell’imbroglione e per questo motivo mi sono ammalato e parto da questa vita”. Poco dopo morì. Un Angelo del Signore prese la sua anima e lo portò tra le tende dei giusti e gli chiese. “ dove vuoi abitare?” la sua anima, vedendo una tende bellissima, pregò l’Angelo di lasciarlo in quel posto e questi gli rispose: “In questa non puoi, perché è di tuo fratello, è quella costruita da Tommaso”. L’anima rispose: “Ti prego, lasciami tornare da mio fratello per comprarla e poi tornerò qui”. L’Angelo restituì l’anima al corpo morto e questi riprese vita, incontro il fratello e gli disse: “Fratello mio, credo che tu sia disposto a dare metà del tuo regno per vedermi vivo. Ti chiedo, quindi, una piccola grazia. Certamente, l’hai detto e farò quanto posso: “Dammi il palazzo il palazzo che hai nei cieli e prendi pure tutte le ricchezze che desideri. Io ho un palazzo nei cieli? Da dove?. “Si ce l’hai, anche se tu non lo conosci. Lo ha costruito lo straniero che è in prigione. E’ bellissimo. L’ho visto, melo ha mostrato l’Angelo. Il re capì, ma si guardò dal mantenere la promessa, dicendo: “Fratello mio, se si trattasse di qualcosa appartenente al mio regno, potrei mantenere la mia promessa. Ora si tratta di qualcosa che è in cielo. Prendi tu stesso Tommaso, affinché te ne prepari uno di migliore.” Dopo tutto ciò liberò Tommaso ed il mercante Amvani, chiedendo perdono per il proprio errore. Tommaso ringraziò il Signore e battezzò tutte le autorità. Il popolo venne a sapere ciò e molte altre cose e si accostò alla nuova fede, con riverenza e rispetto.
Il martirio di Tommaso secondo la tradizione delle chiese orientali
Il re di Misdia, visitò la prigione, incontrò Tommaso e gli chiese: “Sei servo di qualcuno o sei libero?”. Egli rispose: “Sono servo di Gesù Cristo, che è il vero Dio e dimora nei cieli. Egli mi ha inviato qui a salvare anime.” Gli rispose il re di Misdia: “Mi sono stancato di ascoltare le tue predizioni e le false correzioni e, pertanto, ti condanno alla morte, per cui sei giunto. Così sarà liberato il mio popolo ed io stesso dalle tue magie, dai tuoi inganni e dalle tue malvagità. E’ doveroso sottolineare a questo punto che il re temeva il popolo che venerava, onorava ed ammirava l’Apostolo Tommaso, poiché molti credevano alla sua predicazione, erano stati aiutati spiritualmente ed erano divenuti membri della Chiesa. Per sfuggire alle proteste, alla confusione ed alla rivolta, lo condusse, con pochi soldati, fuori della città, e glielo consegnò perché lo uccidessero su di un monte. Nonostante ciò, il popolo accorse per strappare l’Apostolo dalle mani dei soldati, mentre egli pregava incessantemente, dicendo: “Signore, Dio mio, che sei la mia speranza e la liberazione di tutti i fedeli, guidami oggi mentre vengo vicino a te e che la mia anima non sia ostacolata dai demoni malvagi. Ho completato la mia opera ed ho adempiuto il tuo comandamento, dal momento che sono stato venduto come schiavo. Concedimi ora la libertà.”Dopo aver pregato, benedisse i fedeli e disse ai soldati: “E’ giunta per voi l’ora di adempiere all’ordine del re.”Immediatamente i soldati lo colpirono e lo trafissero con i dardi e terminò il viaggio sulla terra nella città del Malabar (Maliapour), chiamata San Tommaso, nella parte occidentale della Penisola Indiana.
Le sue reliquie custodite ad Ortona
La basilica di San Tommaso apostolo di Ortona, concattedrale dell’arcidiocesi di Lanciano-Ortona, dal 6 settembre 1258 custodisce le Ossa di san Tommaso apostolo. Il navarca ortonese, il pio Leone, insieme con i commilitoni, riportò sulla galea il corpo dell’Apostolo e la pietra tombale, dall’isola greca di Chios. Chios rappresentava uno spazio del secondo fronte di guerra, dove la flotta ortonese composta da tre galee, si era recato a combattere, al seguito dell’ammiraglio di Manfredi, Filippo Chinardo. Da quella data la basilica diventa centro di preghiera, richiamo di pellegrini, ma anche oggetto di varie distruzioni.
Autore: Don Luca Roveda
http://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Come-e-fatto-l-Aldila
COME È FATTO L’ALDILÀ?
«Nel pensare l’Aldilà siamo troppo condizionati dal modello della Divina Commedia?», chiede un lettore. Risponde padre Athos Turchi, docente di Filosofia alla facoltà teologica dell’Italia centrale.
Percorsi: SPIRITUALITÀ E TEOLOGIA
Santi in Paradiso
12/02/2017 di Redazione Toscana Oggi
Ho letto la risposta sulla teoria del Limbo (sul numero 2 di Toscana Oggi) e condivido il concetto, come anche quello relativo ad un’aldilà diviso in settori. Dante con la sua Commedia ci ha illustrato il Paradiso, l’Inferno e il Purgatorio come luoghi in cui vengono proiettati i nostri sentimenti terreni di giudizio. Questo modo di pensare ci ha condizionato in modo radicale ed in certo qual modo deviante. Ma mi permetto di farLe questa domanda: se sono «stati» ma non «luoghi» il Cristo Risorto dove sta se non in un «luogo»?
Ho sempre immaginato «terre nuove» e «cieli nuovi» situate in un’altra dimensione, quindi fuori dal cosmo mortale che la resurrezione ci garantisce subito o alla fine dei tempi. Forse sto facendo una grande confusione e chiedo aiuto.
La domanda si addentra in una questione un po’ complessa e complicata, perché nessuno è stato nell’Aldilà ed è tornato, e nessuno ha potuto dare una sbirciatina da qualche finestrino che dà sull’altro mondo. Perciò si ricostruisce male quello di cui non si sa quasi niente.
Nell’altro mondo o paradiso sappiamo che vi sono solo due corpi quello di Gesù e quello di sua madre Maria, tutto il resto sono anime in attesa della resurrezione dei loro corpi. Stando a quello che le parole significano vuol dire che vi sono solo due nature umane quella di Gesù e quella di Maria. Le anime mancando dei corpi non sono una natura umana, ma solo la parte spirituale della persona che era nella vita terrena.
Il problema come sia la corporeità nell’Aldilà, di cui chiede il lettore, per ora riguarda solo i corpi di Gesù e di Maria. Di primo acchito la risposta sembra facile: dato che Gesù e Maria sono subito saliti in cielo, il corpo è certamente quello che avevano al momento. Ma per gli altri esseri umani, che corpo resusciterà?
Su questo argomento abbiamo alcune informazioni: Gesù dopo la resurrezione e i testi di S. Paolo. Gesù, dicono i Vangeli, appariva ai discepoli più o meno come era stato in vita, ma non aveva le stesse caratteristiche della corporeità materiale, infatti ogni volta che lo incontravano i discepoli avevano difficoltà a riconoscerlo e lo facevano solo quando compiva qualche gesto che rivelava chi fosse. Inoltre si presentava in luoghi diversi passando muri e spazi e tempi, invitava a toccarlo e si mangiava un bel pesce a dimostrazione che il corpo che aveva era realmente un corpo fisico. Dunque c’era una fisicità che non aveva i caratteri della materialità. San Paolo, poi, dice: «Così anche la risurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale» (1 Cor 15,42ss).
Cosa se ne conclude? Che non sappiamo bene come potrà essere il nostro corpo glorioso e spirituale che riprenderemo alla resurrezione dei morti, e non possediamo categorie adatte per poterlo dire. Dai testi e dai fatti possiamo dedurre: a) che avremo il nostro corpo fisico; b) che ha perso le qualità tipiche della materialità di cui abbiamo esperienza in questo mondo cioè spazio-tempo; c) che sarà l’anima a permeare e a impregnare il corpo sì da renderlo vivo-spirituale, come nella semina la vita permane nella macerazione del chicco e rispunta come un germoglio nuovo e vitale. In altri termini, come ora nel mondo materiale la corporeità sottomette l’anima, nella resurrezione sarà l’anima a dare i caratteri di se stessa al corpo. Dunque il corpo sarà fisico ma non più materiale, perché la fisicità perde le qualità spazio-temporali della materia, cioè non ha più i caratteri che la fanno di questo mondo. In tal senso i corpi di Gesù e di Maria non hanno un luogo, perché ne prescindono, e non ne bisognano in quanto non occupano spazio. I cieli nuovi e le terre nuove avranno i medesimi requisiti, perché la luce di Dio eliminerà dalla materia quelle qualità che la separano da un rapporto diretto con Lui.
E secondo me la ragione sta nel contrario. Il mondo come ora noi siamo e esistiamo è dovuto alla separazione da Dio, ora, cioè, siamo in una dimensione che non è quella originaria perché un creato separato da Dio non ha senso. Il peccato d’origine ha spezzato la diretta comunione con Dio e ha fatto sì che il mondo entrasse in una dimensione che chiamo «materiale», dove si è imposta e vive la «quantità», cioè la divisibilità, che è ragione della morte. Ed è tale divisibilità che rende materialità la fisicità eterna, del primo creato, così come ora noi la percepiamo, ma in origine non era così: la fisicità non era materiale, perché non aveva né spazio e né tempo in quanto Dio aveva creato tutto nella vita e non c’era ombra di morte (materialità). Così interpreto: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. La giustizia infatti è immortale» (Sap. 1,13-15). Infatti le caratteristiche della materialità che fanno dell’essere creato un mortale sono lo spazio-tempo, tolte queste il mondo ritornerebbe «eterno» cioè vivente, esistente, senza veleno di morte. Quando Dio lo creò era così, e di conseguenza lo stato «normale» del creato sarebbe come Dio lo creò e non come l’essere umano col peccato lo ha ridotto, e che ora costatiamo. In conclusione i corpi risorti riacquistano le loro originarie proprietà di vita eterna e, perdendo i caratteri di spazio-tempo, ritroveranno la diretta comunione con Dio senza necessità di occupare luoghi e zone materiali. Questo ce lo indica il fatto che il corpo-umanità di Gesù e di Maria non avevano contratto il peccato originale, e perciò tornano ad essere come Dio li aveva originariamente creati in intima comunione con Lui.
Athos Turchi