San Bonaventura

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BONAVENTURA DA BAGNOREGIO 15 LUGLIO
A cura di Diego Fusaro
Come se uno cade in un precipizio e vi rimane se un altro non lo aiuta a sollevarsi, così l’anima nostra non avrebbe potuto risollevarsi dalle cose sensibili fino alla contemplazione di se stessa e dell’eterna verità riflessa in essa, se la verità stessa, assumendo la forma umana in Cristo, non si fosse fatta scala di riparazione per la caduta della prima scala di Adamo. Perciò nessuno, per quanto possa essere illuminato dai doni di natura e della scienza acquisita, può rientrare in se stesso per godervi Dio, se non per la mediazione di Cristo, che ha detto: « Io sono la porta; chi passerà attraverso di me si salverà, entrerà e troverà pascoli eterni ».
Giovanni Fidenza , detto Bonaventura (e appellato « doctor seraficus »), nasce verso il 1217 a Bagnoregio presso Viterbo . Nel 1235 si reca a Parigi a studiare forse nella facoltà delle Arti e successivamente, nel 1243 , nella facoltà di teologia. Nel 1235 si reca a Parigi a studiare forse nella facoltà delle Arti e successivamente, nel 1243, nella facoltà di teologia. Probabilmente in quello stesso anno entra tra i Frati Minori. I suoi studi di teologia terminano nel 1253, quando diventa « magister » (cioè « maestro ») di teologia e ottiene la licentia docendi (la « licenza d’insegnare »). Nel 1250 il papa aveva autorizzato il cancelliere dell’Università a conferire tale licenza a religiosi degli ordini mendicanti, sebbene ciò contrastasse con il diritto di cooptare i nuovi maestri rivendicato dalla corporazione universitaria. E proprio nel 1253 scoppia uno sciopero al quale tuttavia i membri degli ordini mendicanti non si associarono. La corporazione universitaria richiese loro un giuramento di obbedienza agli statuti, ma essi rifiutarono e pertanto vennero esclusi dall’insegnamento. Questa esclusione colpì anche Bonaventura, che fu maestro reggente fra il 1253 e il 1257. Nel 1254 i maestri secolari denunciarono a papa Innocenzo IV il libro del francescano Gerardo di Borgo San Donnino Introduzione al Vangelo eterno. In questo testo fra’ Gerardo, rifacendosi al pensiero di Gioacchino da Fiore, annunciava l’avvento di una «nuova età dello Spirito Santo» e di una «Chiesa cattolica puramente spirituale fondata sulla povertà», profezia che si doveva realizzare attorno al 1260. In conseguenza di questo il Papa — poco prima di morire — annullò i privilegi concessi agli ordini mendicanti. Il nuovo pontefice papa Alessandro IV condannò il libro di Gerardo con una bolla nel 1255, prendendo tuttavia posizione a favore degli ordini mendicanti e senza più porre limiti al numero delle cattedre che essi potevano ricoprire. I secolari rifiutarono queste decisioni, venendo così scomunicati, anche per il boicottaggio da loro operato ai danni dei corsi tenuti dai frati mendicanti. Tutto questo nonstante che i primi avessero l’appoggio del clero e dei vescovi, mentre il re di Francia Luigi IX si trovava a sostenere le posizioni dei mendicanti. San Bonaventura in un dipinto di Francisco de ZurbaránNel 1257 Bonaventura venne riconosciuto magister. Nello stesso anno fu eletto Ministro generale dell’Ordine francescano, e rinunciando così alla cattedra. A partire da questa data, preso dagli impegni della nuovo servizio, accantonò gli studi e compì vari viaggi per l’Europa. Il suo obiettivo principale fu quello di conservare l’unità dei Minori, prendendo posizione sia contro la corrente spirituale (influenzata dalle idee di Gioacchino da Fiore e incline ad accentuare la povertà del francescanesimo primitivo), sia contro le tendenze mondane insorte in seno all’Ordine. Favorevole a coinvolgere l’Ordine francescano nel ministero pastorale e nella struttura organizzativa della Chiesa, nel Capitolo generale di Narbona del 1260, contribuì a definire le regole che dovevano guidare la vita dei membri dell’Ordine: le Costituzioni dette appunto Narbonensi. A lui, in questo Capitolo, venne affidato l’incarico di redigere una nuova biografia di san Francesco d’Assisi che, intitolata Legenda maior, diventerà la biografia ufficiale nell’Ordine. Infatti il Capitolo generale successivo, del 1263, approvò l’operà composta dal Ministro generale; mentre il Capitolo del 1266, riunito a Parigi, giunse a decretare la distruzione di tutte le biografie precedenti alla Legenda Maior, probabilmente per proporre all’Ordine una immagine univoca del proprio fondatore, in un momento in cui le diverse interpretazioni fomentavano contrapposizioni e conducevano verso la divisione.[1] Negli ultimi anni della sua vita, Bonaventura intervenne nelle lotte contro l’aristotelismo e nella rinata polemica fra maestri secolari e mendicanti. A Parigi, tra il 1267 e il 1269, tenne una serie di conferenze sulla necessità di subordinare e finalizzare la filosofia alla teologia. Nel 1270 lascia Parigi per farvi però ritorno nel 1273, quando tiene altre conferenze nelle quali attacca quelli che sono a suo parere gli errori dell’aristotelismo. Nel maggio del 1273, già vescovo di Albano, viene nominato cardinale; l’anno successivo partecipa al Concilio di Lione (in cui favorisce un riavvicinamento fra le Chiesa latina e quella greca), nel corso del quale muore, forse a causa di un avvelenamento, stando almeno a quanto affermò in seguito il suo segretario, Pellegrino da Bologna. Pierre de Tarentasie, futuro papa Innocenzo V, ne celebrò le esequie, e Bonaventura venne inumato nella chiesa francescana di Lione. Nel 1434 la salma venne traslata in una nuova chiesa, dedicata a San Francesco d’Assisi; la tomba venne aperta e la sua testa venne trovata in perfetto stato di conservazione: questo fatto ne facilitò la canonizzazione, che avvenne ad opera del papa francescano Sisto IV il 14 aprile 1482, e la nomina a dottore della Chiesa, compiuta il 14 maggio 1588 da un altro francescano, papa Sisto V. Bonaventura è considerato uno dei pensatori maggiori della tradizione francescana, che anche grazie a lui si avviò a divntare una vera e propria scuola di pensiero, sia dal punto di vista teologico che da quello filosofico. Difese e ripropose la tradizione patristica, in particolare il pensiero e l’impostazione di sant’Agostino. Egli combatté apertamente l’aristotelismo, anche se ne acquisì alcuni concetti, fondamentali per il suo pensiero. Inoltre valorizzò alcune tesi della filosofia arabo-ebraica, in particolare quelle di Avicenna e di Avicebron, ispirate al neoplatonismo. Nelle sue opere ricorre continuamente l’idea del primato della sapienza, come alternativa ad una razionalità filosofica isolata dalle altre facoltà dell’uomo. Egli sostiene, infatti, che: « (…) la scienza filosofica è una via verso altre scienze. Chi si ferma resta immerso nelle tenebre. » Secondo Bonaventura è il Cristo la via a tutte le scienze, sia per la filosofia che per la teologia. Il progetto di Bonaventura è una riduzione (reductio artium)non nel senso di un depotenziamento delle arti liberali, bensì della loro unificazione sotto la luce della verita rivelata, la sola che possa orientarle verso l’obiettivo perfetto a cui tende imperfettamente ogni conoscenza, il vero in sè che è Dio. La distinzione delle nove arti in tre categorie, naturali (fisica, matematica, meccanica), razionali (logica, retorica, grammatica) e morali (politica, monastica, economica) riflette la distinzione di res, signa ed actiones la cui verticalità non è altro che cammino iniziatico per gradi di perfezione verso l’unione mistica. La parzialità delle arti è per B. non altro che il rifrangersi della luce con la quale Dio illunima il mondo: prima del peccato originale Adamo sapeva leggere indirettamente Dio nel Liber Naturae (nel creato), ma la caduta è stata anche perdita di questa capacità. Per aiutare l’uomo nel recupero della contemplazione della somma verità, Dio ha inviato all’uomo il Liber Scripturae, conoscenza supplementare che unifica ed orienta la conoscenza umana, che altrimenti smarrirebbe se stessa nell’autoreferenzialità. Attraverso l’illunimazione della rivelazione, l’intelletto agente è capace di comprendere il riflesso divino delle verità terrene inviate dall’intelletto passivo, quali pallidi riflessi delle verita eterne che Dio perfettamete pensa mediante il Verbo. Ciò rappresenta l’accesso al terzo libro, Liber Vitae, leggibile solo per sintesi collaborativa tra fede e ragione: la perfetta verita, assoluta ed eterna in Dio, non è un dato acquisito, ma una forza la cui dinamica si attua storicamente nella reggenza delle verita con le quali Dio mantiene l’ordine del creato. Lo svelamento di quest’ordine è la lettura del terzo libro che per segni di dignità sempre maggior avvicina l’uomo alla fonte di ogni verità. La primitas divina La primalità di Dio è il sostegno a tutto l’impianto teologico anselmiano. Nella sua prima opera, il Breviloquium, egli definisce i caratteri della teologia affermando che, poiché il suo oggetto è Dio, essa ha il compito di dimostrare che la verità della sacra scittura è da Dio, su Dio, secondo Dio ed ha come fine Dio. l’unita del suo oggette determina come unitaria ed ordinata la teologia perché la sua struttura corrisponde ai caratteri del suo oggetto. Nella sua opera più famosa, l’Itinerarium mentis in Deum (« L’itinerario della mente verso Dio »), Bonaventura spiega che il criterio di valore e la misura della verità si acquisiscono dalla fede, e non dalla ragione (come sostenevano gli averroisti). Da ciò fa conseguire che la filosofia serve a dare aiuto alla ricerca umana di Dio, e può farlo, come diceva sant’Agostino, solo riportando l’uomo alla propria dimensione interiore (cioè l’anima), e, attraverso questa, ricondurlo infine a Dio. Secondo Bonaventura, dunque, il «viaggio» spirituale verso Dio è frutto di una illuminazione divina, che proviene dalla «ragione suprema» di Dio stesso. Per giungere a Dio, quindi, l’uomo deve passare attraverso tre gradi, che, tuttavia, devono essere preceduti dall’intensa ed umile preghiera, poiché: « (…) nessuno può giungere alla beatitudine se non trascende sé stesso, non con il corpo, ma con lo spirito. Ma non possiamo elevarci da noi se non attraverso una virtù superiore. Qualunque siano le disposizioni interiori, queste non hanno alcun potere senza l’aiuto della Grazia divina. Ma questa è concessa solo a coloro che la chiedono (…) con fervida preghiera. È la preghiera il principio e la sorgente della nostra elevazione. (…) Cosí pregando, siamo illuminati nel conoscere i gradi dell’ascesa a Dio. » La « scala » dei 3 gradi dell’ascesa a Dio è simili alla « scala » dei 4 gradi dell’amore di Bernardo di Chiaravalle, anche se non uguale; tali gradi sono:
1) Il grado esteriore: « (…) è necessario che prima consideriamo gli oggetti corporei, temporali e fuori di noi, nei quali è l’orma di Dio, e questo significa incamminarsi per la via di Dio. »
2) Il grado interiore: « È necessario poi rientrare in noi stessi, perché la nostra mente è immagine di Dio, immortale, spirituale e dentro di noi, il che ci conduce nella verità di Dio. »
3) Il grado eterno: « Infine, occorre elevarci a ciò che è eterno, spiritualissimo e sopra di noi, aprendoci al primo principio, e questo dona gioia nella conoscenza di Dio e omaggio alla Sua maestà. »
Inoltre, afferma Bonaventura, in corrispondenza a tali gradi, l’anima ha anche tre diverse direzioni: « (…) L’una si riferisce alle cose esteriori, e si chiama animalità o sensibilità; l’altra ha per oggetto lo spirito, rivolto in sé e a sé; la terza ha per oggetto la mente, che si eleva spiritualmente sopra di sé. Tre indirizzi che devono disporre l’uomo a elevarsi a Dio, perché l’ami con tutta la mente, con tutto il cuore, con tutta l’anima (…). » (San Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium mentis in Deum) Dunque, per Bonaventura l’unica conoscenza possibile è quella contemplativa, cioè la via dell’illuminazione, che porta a cogliere le essenze eterne, e ad alcuni permette persino di accostarsi a Dio misticamente. L’illuminazione guida anche l’azione umana, in quanto solo essa determina la «sinderesi», cioè la disposizione pratica al bene. Il mondo, per Bonaventura, è come un libro da cui traspare la Trinità che l’ha creato. Noi possiamo ritrovare la Trinità « extra nos » (cioè « fuori di noi »), « intra nos » (« in noi ») e « super nos » (« sopra di noi »). Infatti, la Trinità si rivela in 3 modi: come « vestigia » (o impronta) di Dio, che si manifesta in ogni essere, animato o inanimato che sia; come « immagine » di Dio, che si trova solo nelle creature dotate d’intelletto, in cui risplendono memoria, intelligenza e volontà; come « similitudine » di Dio, che è qualità propria delle creature giuste e sante, toccate dalla Grazia e animate da fede, speranza e carità; quindi, quest’ultima è ciò che ci rende « figli di Dio ». La Creazione dunque è ordinata secondo una scala gerarchica trinitaria, e la natura non ha sua consistenza, ma si rivela come segno visibile del principio divino che l’ha creata; solo in questo, quindi, trova il suo significato. Bonaventura trae questo principio anche da un passo evangelico, in cui i discepoli di Gesù dissero: « « Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli! » Alcuni farisei tra la folla gli dissero: « Maestro, rimprovera i tuoi discepoli ».Ma egli rispose: « Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre ». » (Lc, 19,38-40) Le creature, dunque, sono impronte, immagini, similitudini di Dio, e persino le pietre « gridano » tale loro legame col divino.
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OMELIA XV DOMENICA DEL T.O. (15-07-2018)
Movimento Apostolico – rito romano
Prese a mandarli a due a due
Secondo l’Antica Scrittura ogni testimonianza era valida se fatta da due testimoni concordi. Gli Apostoli e i missionari del Vangelo sono veri testimoni di Cristo Gesù.
Colui che dovrà morire sarà messo a morte sulla deposizione di due o di tre testimoni. Non potrà essere messo a morte sulla deposizione di un solo testimone. La mano dei testimoni sarà la prima contro di lui per farlo morire. Poi sarà la mano di tutto il popolo. Così estirperai il male in mezzo a te (Dt 17,6-7). Un solo testimone non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato uno abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni (Dt 19,15).
Nel Libro del Qoelet viene annunziato che quando si è in due, ci si sorregge a vicenda.
Meglio essere in due che uno solo, perché otterranno migliore compenso per la loro fatica. Infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi. Inoltre, se si dorme in due, si sta caldi; ma uno solo come fa a riscaldarsi? Se uno è aggredito, in due possono resistere: una corda a tre capi non si rompe tanto presto (Qo 4,9-12).
Dio diede a Mosè come aiuto e sostegno nella missione il fratello Aronne.
Mosè disse al Signore: «Perdona, Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono stato né ieri né ieri l’altro e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua». Il Signore replicò: «Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono forse io, il Signore? Ora va’! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire». Mosè disse: «Perdona, Signore, manda chi vuoi mandare!». Allora la collera del Signore si accese contro Mosè e gli disse: «Non vi è forse tuo fratello Aronne, il levita? Io so che lui sa parlare bene. Anzi, sta venendoti incontro. Ti vedrà e gioirà in cuor suo. Tu gli parlerai e porrai le parole sulla sua bocca e io sarò con la tua e la sua bocca e vi insegnerò quello che dovrete fare. Parlerà lui al popolo per te: egli sarà la tua bocca e tu farai per lui le veci di Dio. Terrai in mano questo bastone: con esso tu compirai i segni» (Es 4,10-17).
Lo Spirito Santo volle che la missione presso i pagani fosse svolta da Paolo e Barnaba.
C’erano nella Chiesa di Antiòchia profeti e maestri: Bàrnaba, Simeone detto Niger, Lucio di Cirene, Manaèn, compagno d’infanzia di Erode il tetrarca, e Saulo. Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: «Riservate per me Bàrnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati». Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li congedarono (At 13,1-3).
Gesù non è stato mandato solo. Il Padre lo avvolse con il suo Santo Spirito. Mai però svolse il suo ministero da solo. Era sempre accompagnato dai suoi discepoli.
Gesù vuole che la Madre sua sia con Giovanni e Giovanni con la Madre sua.
Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé (Gv 19,25-27).
A due a due spiritualmente, discepolo e Spirito Santo, discepolo e Madre di Gesù. Ma anche a due a due materialmente: apostolo con apostolo, cristiano con cristiano.
Madre di Gesù, Angeli, Santi, fate che i discepoli di Gesù vivano in perfetta comunione.
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PREGHIERA, SOLITUDINE E SILENZIO
Pubblicato il 10 febbraio, 2015
“Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto e là pregava” (Mc 1,35)
Sfogliando le pagine dei Vangeli, ci imbattiamo spesso in un Gesù che, prima che il buio della notte ceda il passo alle prime luci dell’alba, si ritira sul “monte” o “in luoghi solitari” per pregare.
Silenzio, dato dai tempi scelti (notte o alba), e solitudine sembrano essere due elementi importanti per la preghiera di Gesù, spazio in cui Egli si mette in ascolto profondo del Padre e di se stesso, trae la forza per vivere il Suo ministero e la sua missione fino in fondo.
Anche nell’esperienza di Francesco troviamo questi due elementi. Le Fonti Francescane, infatti, ci testimoniano che Francesco spesso prega di notte e ricerca luoghi solitari: “Cercava sempre un luogo appartato dove potersi unire, non solo con lo spirito, ma con le singole membra al suo Dio. E se all’improvviso si sentiva visitato dal Signore, per non rimanere senza cella, se ne faceva una piccola con il mantello. E se a volte era privo di questo, ricopriva il volto con la manica per non svelare la manna nascosta. Sempre frapponeva fra sé e gli astanti qualcosa, perché non si accorgessero del contatto dello sposo: così poteva pregare non visto anche se stipato tra mille, come nel cantuccio di una nave. Infine, se non gli era possibile niente di tutto questo, faceva un tempio del suo petto. Assorto in Dio e dimentico di se stesso, non gemeva né tossiva, era senza affanno il suo respiro e scompariva ogni altro segno esteriore” (FF 681). Francesco si immerge nel silenzio perché sia Dio a parlare, vivere, operare in lui, così la preghiera diventa il luogo in cui egli impara sempre più a obbedire al suo Signore. Vivere la preghiera nel silenzio e nella solitudine è per Francesco possibilità di coltivare e custodire la sua relazione con Dio, ma anche luogo in cui lasciarsi plasmare il cuore da Lui, permettere che “tutto ciò che è amaro si trasformi in dolcezza” per, poi, andare incontro ai fratelli, ai poveri e alla gente ed entrare in relazione con loro.
Possiamo osare nel dire che nella preghiera vissuta nel silenzio e nella solitudine sia Gesù che Francesco trovano la “carica” per affrontare la loro giornata, le loro relazioni, i vari eventi. È qui che imparano ad amare e lasciarsi amare, ad ascoltare, a donarsi…
Anche per noi cristiani, allora, diventa fondamentale trovare spazi di solitudine e silenzio, oggi che siamo “bombardati” da messaggi e voci di vario tipo e spesso circondati da ansia, frenesia, ecc.
Trovare dei “luoghi deserti” o, comunque, costruire dentro di noi una “dimora permanente” a Dio, ci permette di stare da soli con noi stessi e con Lui, di metterci in ascolto della Sua volontà, ma anche di quanto si muove nel nostro cuore, di lasciar purificare le nostre relazioni… Solitudine e silenzio diventano così spazi abitati da Dio e possibilità di recuperare noi stessi e crescere in umanità. Tutto questo non è semplice, né scontato, richiede un cammino graduale e paziente, ma è fondamentale per la nostra vita spirituale. Il Signore doni anche a noi, come a Francesco, di “essere non tanto uomini e donne che pregano, quanto piuttosto noi stessi tutti trasformati in preghiera vivente” (cf. FF 682).
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BENEDETTO DA NORCIA – PATRONO D’EUROPA 11 LUGLIO
a cura di Diego Fusaro
San Benedetto da Norcia nacque circa nel 480 d.C.,in un’agiata famiglia romana. Eutropio, il padre, era Capitano Generale dei romani nella regione di Norcia, mentre la madre era Claudia Abondantia Reguardati, contessa di Norcia. Qui trascorse gli anni dell’infanzia e della fanciullezza, avvertendo l’influsso di coloro che già dal III secolo erano giunti dall’Oriente lungo la valle del Nera e in quella del Campiano. Scampati dalle persecuzioni, essi avevano abbracciato una vita di ascesi e di preghiera in diretto contatto con la natura, vivendo in « corone » di celle scavate nella roccia, facenti capo ad una piccola chiesa comune (Laure). A 12 anni (secondo alcuni) fu mandato, con la sorella, a Roma a compiere i suoi studi ma, come racconta san Gregorio Magno nel II Libro di I Dialoghi, sconvolto dalla vita dissoluta della città ritrasse il piede che aveva appena posto sulla soglia del mondo per non precipitare anche lui totalmente nell’immane precipizio. Disprezzò quindi gli studi letterari, abbandonò la casa e i beni paterni e cercò l’abito della vita monastica perché desiderava di piacere soltanto a Dio. All’età di 17 anni, insieme con la sua nutrice, Cirilla, si ritirò nella valle dell’Aniene presso Eufide (l’attuale Affile) dove secondo la leggenda devozionale avrebbe compiuto il primo miracolo riparando un vaglio rotto dalla stessa nutrice. Abbandonò poi la nutrice e si avviò verso la valle di Subiaco, sorta intorno agli antichi resti di una villa neroniana che sfruttava il fiume Aniene formando tre laghi (la città sorgeva appunto sotto « sub », questi laghi). A Subiaco incontrò il monaco romano di un vicino monastero retto da un abate di nome Adeodato, che, vestitolo degli abiti monastici, gli indicò una grotta impervia del Monte Taleo (attualmente contenuta all’interno del Monastero del Sacro Speco) dove Benedetto visse da eremita per circa tre anni, fino alla Pasqua dell’anno 500. Conclusa l’esperienza eremitica, accettò di fare da guida ad altri monaci in un ritiro cenobitico presso Vicovaro, ma, dopo un tentativo di avvelenamento, tornò a Subiaco. Qui rimase per quasi trenta anni, predicando la « parola del Signore » ed accogliendo discepoli sempre più numerosi, fino a creare una vasta comunità di tredici monasteri, ognuno con dodici monaci ed un proprio abate, tutti sotto la sua guida spirituale. Intorno al 529 a seguito di due tentativi di avvelenamento, il primo materiale con un pane avvelenato e il secondo morale chiamando delle prostitute per tentare i propri figli spirituali da parte di un tal prete Fiorenzo (la sua figura esemplifica l’ostilità del clero locale che Benedetto doveva aver subito), per salvare i propri monaci Benedetto decise di abbandonare Subiaco. Si diresse verso Cassino dove, sopra un’altura, fondò il monastero di Montecassino, edificato sopra i resti di templi pagani e con oratori in onore di san Giovanni Battista (da sempre ritenuto un modello di pratica ascetica) e di san Martino di Tours che era stato iniziatore in Gallia della vita monastica. Nel monastero di Montecassino Benedetto compose la sua Regola verso il 540. Prendendo spunto da regole precedenti, in particolare quelle di san Giovanni Cassiano e san Basilio (ma anche Pacobio, Cesario e l’Anonimo della Regula Magistri), egli combinò l’insistenza sulla buona disciplina con il rispetto per la personalità umana e le capacità individuali, nell’intenzione di fondare una scuola del servizio del Signore, in cui speriamo di non ordinare nulla di duro e di rigoroso. La Regola, dotta e misteriosa sintesi del Vangelo, nella quale si organizza nei minimi particolari la vita dei monaci all’interno di una « corale » celebrazione dell’uffizio, diede nuova ed autorevole sistemazione alla complessa, ma spesso vaga e imprecisa, precettistica monastica precedente. I due cardini della vita comunitaria sono il concetto di stabilitas loci (l’obbligo di risiedere per tutta la vita nello stesso monastero contro il vagabondaggio allora piuttosto diffuso di monaci più o meno « sospetti ») e la conversatio, cioè la buona condotta morale, la pietà reciproca e l’obbedienza all’abate, il « padre amoroso » (il nome deriva proprio dal siriaco abba, « padre ») mai chiamato superiore, e cardine di una famiglia ben ordinata che scandisce il tempo nelle varie occupazioni della giornata durante la quale la preghiera e il lavoro si alternano nel segno del motto ora et labora (« prega e lavora ») I monasteri che seguono la regola di san Benedetto sono detti benedettini. Anche se ogni monastero è autonomo sotto l’autorità di un abate, si organizzano normalmente in confederazioni monastiche, delle quali le più importanti sono la congregazione cassinense e la congregazione sublacense, originatesi rispettivamente attorno all’autorità dei monasteri benedettini di Montecassino e di Subiaco. A Montecassino Benedetto visse fino alla morte, ricevendo l’omaggio dei fedeli in pellegrinaggio e di alcune personalità come Totila re degli Ostrogoti, che il monaco ammonì. Qui Benedetto morì intorno al 547, poco dopo sua sorella Scolastica con la quale ebbe comune sepoltura; secondo la leggenda devozionale spirò in piedi, sostenuto dai suoi discepoli, dopo aver ricevuto la comunione e con le braccia sollevate in preghiera, mentre li benediceva e li incoraggiava. Le diverse comunità benedettine ricordano la ricorrenza della morte del loro fondatore il 21 marzo, mentre la Chiesa romana ne celebra ufficialmente la festa l’11 luglio, da quando papa Paolo VI ha proclamato san Benedetto da Norcia patrono d’Europa il 24 ottobre 1964. La Chiesa Ortodossa celebra la sua ricorrenza il 14 marzo. Da quando le reliquie erano considerate quasi indispensabili alla comune devozione nel Medioevo, e specialmente ai monaci, era naturale che fossero cercate e « trovate » dappertutto. Il possesso della salma di san Benedetto è stato disputato per molti secoli (e in un certo senso è disputato ancora) tra Montecassino e Fleury-sur-Loire (detto anche Saint Benoît sur Loire) in Francia. Secondo il processo verbale circa la ricognizione delle reliquie del 9, 10 e 11 luglio 1881, firmato dal vescovo di Orléans e redatto dall’abate di Fleury, Dom Edmondo Sejourne, la maggior parte delle ossa attribuite a san Benedetto si trovano collocate nella grande teca del monastero di Fleury sur Loire; salvo una mandibola conservata in un reliquiario speciale, e un frammento importante della regione pareto-occipitale del cranio posto anch’esso in un reliquiario particolare. Si possono ricollegare altre reliquie a questo insieme di resti scheletrici, prelevate in diversi tempi da questo insieme, e perfettamente autenticate[citazione necessaria]. Ad esempio: un frammento di costola (Benedettine del Calvario di Orléans), altro frammento di costola (Benedettine del Santo-Sacramento di Parigi), estremità superiore di un radio sinistro (Grande seminario di Orléans), parte inferiore di un radio destro e parte inferiore di un perone sinistro (tutti due all’abbazia della Pierre-qui-Vire), frammento della parte centrale di un osso lungo (abbazia di Santa Marie di Parigi), estremità inferiore di una radio sinistro (abbazia di Saint-Wandrille), frammento di falange dell’alluce sinistro (abbazia Notre Dame de la Garde), frammento della parte centrale di un osso lungo (abbazia di Timadeuc), rotula sinistra (abbazia di Aiguebelle), frammento di omero sinistro (abbazia della Grande Trappe). Secondo i monaci benedettini di Montecassino, invece, le reliquie autentiche sono sempre restate a Montecassino. Dalla ricognizione del 1950, protratti in diversi periodi dal 1 Agosto fino al 29 settembre, sono state trovate i resti di due persone di sesso maschile e femminile (mentre a Fleury ci sono solo quelle maschili) e quasi intere, sono certamente i resti di San Benedetto e di Santa Scolastica. La difficoltà di superare il problema, confrontando i due reperti contemporaneamente, a tutt’oggi non ha avuto nessun esito, per la poca propensione a volere simultaneamente, una ulteriore ricognizione e arrivare, di fatto, a chiarire i resti del santo. La presenza delle reliquie a Montecassino è riconosciuta da quasi la totalità del mondo benedettino, fondandosi su una documentazione accertata, che riporta la presenza delle sante reliquie, sempre a Montecassino, escludendo il periodo buio dell’abbandono dopo la distruzione saracena. La tradizione di Fleury, che ha avuto il suo apice nel periodo medievale, a tutt’oggi non ha trovato nessun confronto scientificamente inoppugnabile. Lo studioso e monaco benedettino Jean Mabillon (Saint-Pierremont, 1632 – Parigi, 1707) pubblicò nel 1685 la seguente narratio brevis ricavata da un manoscrittomedievale del monastero di San Emmeram situato a Ratisbona, che egli giudicò vecchio di 900 anni e perciò contemporaneo con la « traslazione » del corpo del santo. « Nel nome di Cristo. C’era in Francia, grazie alla provvidenza di Dio, un Prete dotto che intraprese un viaggio in Italia, per poter scoprire dove fossero le ossa del nostro santo padre Benedetto, che nessuno più venerava. [Montecassino, monastero fondato da S. Benedetto su un rilievo roccioso dell'Appennino tra Roma e Napoli, era stato distrutto dai Longobardi nel 580 circa, e rimase disabitato fino a 718 ndr]. Alla fine giunse in una campagna abbandonata a circa 70 o 80 miglia da Roma, dove S. Benedetto anticamente aveva costruito un convento nel quale tutti erano uniti da una carità perfetta. A questo punto questo Prete ed i suoi compagni erano inquietati dall’insicurezza del luogo, dato che non erano in grado di trovare né le vestigia del convento, né quelle di un luogo di sepoltura, fino a quando finalmente un guardiano di suini indicò loro esattamente dove il convento era stato eretto; tuttavia fu del tutto incapace di individuare il sepolcro finché lui ed i suoi compagni non si furono santificati con due o tre giorni di digiuno. Allora il loro cuoco ebbe una rivelazione in un sogno, e la questione apparve loro chiara poiché al mattino fu mostrato loro, da colui che era sembrato più infimo di grado, che le parole di S. Paolo sono vere (I Cor. 1, 27): « Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti » o di nuovo, come il Signore stesso ha predetto (Matt. 20: 26): « Colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo ». Allora, ispezionando il luogo con maggiore diligenza, trovarono una lastra di marmo che dovettero tagliare. Finalmente, spezzata la lastra, rinvennero le ossa di S. Benedetto e, sotto un’altra lastra, quelle di suoi sorella; poiché (come pensiamo) il Dio onnipotente e misericordioso volle che fossero uniti nel sepolcro come lo furono in vita, in amore fraterno ed in carità cristiana. Dopo avere raccolto e pulito queste ossa le avvolsero, una ad una, in un fine e candido tessuto, per portarle nel loro paese. Non fecero menzione del ritrovamento ai Romani per paura che, se questi avessero saputo la verità, indubbiamente non avrebbero mai tollerato che reliquie così sante fossero sottratte al loro paese senza conflitti o guerre di reliquia, il che Dio ha reso manifesto, affinché gli uomini potessero vedere come grande era il loro bisogno di religione e santità, mediante il seguente miracolo. Avvenne cioè che, dopo un po’, il lino che avvolgeva queste ossa fu trovato rosso del sangue del santo, come da ferite aperte di un essere vivente. Dalla qual cosa Gesù Cristo ha inteso mostrare che colui a cui appartengono quelle ossa è così glorioso che avrebbe vissuto veramente con Lui nel mondo a venire. Allora furono poste sopra un cavallo che le portò durante tutto quel lungo viaggio così agevolmente che non sembrava ci fosse nessun carico. Inoltre, quando attraversavano foreste o percorrevano strade strette, non c’era albero che ostruisse il cammino od asperità del percorso che impedissero loro di proseguire il viaggio; così che i viaggiatori hanno visto chiaramente come questo potesse avvenire grazie ai meriti di S. Benedetto e di sua sorella S. Scolastica, affinché il loro viaggio potesse essere sicuro e felice fino al regno di Francia ed al convento di Fleury. In questo monastero sono seppelliti ora in pace, finché sorgeranno nella gloria nell’Ultimo Giorno; e qui conferiscono benefici su tutti coloro che pregano il Padre tramite Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che vive e regna nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen. » (Mabillon: Vetera Analecta, vol. IV, 1685, pag. 451-453)) . Comunque sia la presenza delle reliquie, è certo che un culto di san Benedetto esisteva già a Montecassino fin dalla fine dell’VIII secolo, come testimoniano i quattro calendari pubblicati da Dom Morin che menzionano tutti la festa del 21 marzo. E la dedica di un altare a san Benedetto il 3 giugno nell’oratorio di San Giovanni Battista, menzionata da tre di questi calendari, permette di aggiungere che un culto esisteva già sul luogo che San Benedetto aveva scelto per essere inumato e dove il suo corpo tornò in polvere, luogo che resterà sempre santo e venerabile per ogni figlio del santo Patriarca.
LA SACRALITÀ DELL’ACCOGLIENZA NELLA BIBBIA
Rev. Mons. Bruno MAGGIONI
Docente della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale
Nel deserto l’ospitalità è una necessità per sopravvivere, e tutti ne hanno diritto da parte di tutti. Se colui che ospita e colui che è ospitato sono nemici, l’accettazione dell’ospitalità implica una riconciliazione. L’ospite è sacro e deve essere protetto da ogni pericolo. Il viaggiatore, che giungeva in un paese non conosciuto, sedeva sulla piazza del mercato finché uno dei cittadini non lo invitava a casa sua. Sin qui, si può dire, forse un po’ generalizzando, era il costume del tempo. Ma nella concezione biblica c’è molto di più.
Racconti di ospitalità
La Bibbia parla raccontando. E a proposito dell’ospitalità ci sono racconti particolarmente illuminanti. Ne scegliamo tre.
1 – Abramo e i tre visitatori (Gn 18,1-10).
“Il Signore apparve ad Abramo alle querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai detto». Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce». All’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese latte acido e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse a loro. Così, mentr’egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono. Poi gli dissero: «Dov’è Sara, tua moglie?». Rispose: «È là nella tenda». Il Signore riprese: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio». (Gn 18,1-10).
Vorrei che anzitutto il lettore si soffermasse un istante sulla bellezza e la freschezza del racconto. La Bibbia non è soltanto un libro da cui trarre insegnamenti. Ha anche una sua innegabile bellezza letteraria, che non va trascurata. Con poche battute l’autore ci informa sulle circostanze di tempo e di luogo, ponendoci davanti agli occhi un quadro ricco di particolari e vivace: Abramo siede all’entrata della tenda, che – come si usava – era collocata un poco discosta dalla strada; è l’ora calda del mezzogiorno, quando si suole riposare. Ecco lì, ad un tratto, i tre uomini. Abramo non li ha visti venire, quasi a significare che Dio arriva sempre di sorpresa. È già un particolare che suggerisce che nell’episodio si nasconde un di più. L’invito di Abramo è tipicamente orientale: cortese e insieme pressante, e alle sue molte parole fa contrasto la risposta breve dei tre visitatori. Qui – come già all’inizio e poi anche alla fine – c’è uno strano passaggio dal plurale al singolare: i visitatori sono tre, ma Abramo si rivolge ad essi come se fosse uno solo. Tre e uno: gli ospiti sono il Signore.
Ora tutto è in movimento. Le donne si affaccendano per impastare e cuocere il pane, e Abramo corre all’armento per procurarsi la carne. Durante il pasto Abramo attende in piedi, rispettosamente, e sulla scena torna la calma. Poi, improvvisamente, i tre visitatori pongono ad Abramo una domanda e gli fanno una promessa, mostrando in tal modo di conoscere tutta la sua situazione: “Il Signore rispose: tornerò da te fra un anno e tua moglie avrà un figlio”. Non si tratta di tre semplici viandanti, sono il Signore.
Questo racconto può essere considerato esemplare per il tema dell’ospitalità. Un’ospitalità che rivela qui tutto il suo spessore teologico: accogliere dei pellegrini sconosciuti è accogliere il Signore!.
All’epoca dei patriarchi, e in tutto il mondo antico, l’ospitalità era la virtù per eccellenza. Amare il prossimo significava, in concreto, offrirgli ospitalità. Si legge nel libro del Deuteronomio: “Il Signore vostro Dio… non usa parzialità, rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito” (10,18).
2 – Elia e la vedova
“Il profeta Elia si alzò e andò a Zarepta. Entrato nella porta della città, ecco una vedova raccoglieva la legna. La chiamò e le disse: «Prendimi un po’ d’acqua in un vaso perché io possa bere». Mentre quella andava a prenderla le gridò: «Prendimi anche un pezzo di pane». Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ di olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo».
Elia le disse: «Non temere; su, fa’ come hai detto, ma prepara prima una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché dice il Signore: La farina della giarra non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà, finché il Signore non farà piovere sulla terra».
Quella andò e fece come aveva detto Elia: «mangiarono il profeta, la vedova e il figlio di lei per diversi giorni. La farina della giarra non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunziata per mezzo di Elia» (1 Re 17,10-16).
“Il profeta Elia si alzò e andò a Zarepta”, queste le prime parole. Ma occorre sapere che se Elia si alzò, è unicamente perché il Signore glielo aveva ordinato: “Su, alzati, và in Zarepta di Sidòne e ivi stabilisciti” (1 Re 17,9). Se poi il profeta, vedendo una povera donna che raccoglie legna, osa dirle “Prendimi un po’ d’acqua e anche un po’ di pane”, è ancora perché il Signore glielo aveva detto: “Ecco, io ho dato ordine a una vedova di là, per il tuo cibo” (17,9). Con questa premessa comprendiamo l’annotazione che conclude il racconto: tutto è accaduto, “secondo la parola che il Signore aveva pronunziato”. L’autore sacro vuol farci capire – e questa è la sua prima lezione – che protagonista dell’episodio non è Elia, né la vedova, ma la Parola del Signore. Tutto avviene in obbedienza a questa Parola, una Parola che realizza ciò che promette, una Parola che salva: “La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì”. Elia e la donna sono presentati come due esempi di obbedienza. Ed è perché obbediente per primo alla Parola, che il profeta diventa, a sua volta, portatore di questa Parola, il suo tramite: tutto avvenne “secondo la Parola che il Signore aveva pronunziata per mezzo di Elia”.
C’è una seconda premessa da ricuperare: se Elia si reca a Zarepta di Sidòne, una città straniera, è perché è in fuga, minacciato dal re: “Nasconditi presso il torrente Cherit”, si legge in 14,3. La minaccia è la sorte di tutti i profeti che hanno l’ardire di opporsi alle menzogne dei potenti. Fuggiasco e minacciato dagli uomini, ma protetto dal Signore, questa è la seconda lezione: “I corvi gli portavano pane al mattino e carne alla sera, e beveva al torrente” (17,6). Aiutato da Dio, dunque, ma il nostro racconto aggiunge qualcosa di più: mostra che l’aiuto del Signore passa attraverso gli uomini. L’ospitalità di Dio si serve della generosa ospitalità di una vedova. L’accoglienza del fratello è la trasparenza visibile dell’accoglienza di Dio, che ne detta le qualità, la misura e l’universalità. Una generosità, quella della vedova, che Dio ricompensa: “Quella andò e fece come aveva detto Elia: mangiarono Elia, la vedova e il figlio di lei per diversi giorni”. La vedova aiuta il profeta e il profeta aiuta la vedova. Chi dona al Signore, riceve. L’ospitalità aiuta gli uomini a vivere meglio nel mondo.
La vedova di Zarepta ha avuto l’onore di essere ricordata dallo stesso Gesù, nella sinagoga di Nazareth: “C’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una carestia in tutto il paese, ma a nessuna di esse fu mandato Elia se non a una vedova in Zarepta di Sidòne” (Lc 4,25-26). Si arguisce facilmente da queste parole che Gesù ha colto nell’episodio un terzo aspetto: un’altra lezione: Dio non aiuta soltanto il suo popolo, ma anche gli stranieri, perché il suo amore è universale e non fa differenze, e la fede, l’obbedienza e la generosità le puoi trovare anche là dove non pensi, anche fuori del tuo popolo, della tua chiesa e del tuo gruppo.
3 – Marta e Maria: Lc 10,38-42
Mentre era in viaggio verso Gerusalemme, “Gesù entrò in un villaggio e una donna di nome Marta lo accolse nella sua casa” (Lc 10,38). All’inizio del medesimo viaggio Gesù aveva chiesto ospitalità in un villaggio di samaritani, ma fu respinto (9,52-53). Ora invece una donna lo ospita in casa, come più avanti – alla fine del medesimo viaggio – lo ospiterà il pubblicano Zaccheo (19,1-10). In questo c’è già un primo insegnamento: l’ospitalità, appunto. Luca, però, non si riferisce al dovere generico dell’ospitalità (per altro considerato nel Nuovo Testamento come uno dei doveri più espressivi della fraternità cristiana), bensì a una forma più precisa di ospitalità, quella nei confronti di Gesù e dei suoi discepoli. Si tratta di un’ospitalità che richiede una disponibilità particolare. Perché Gesù e i suoi discepoli portano in casa una “parola” che capovolge le abitudini e il modo di vivere.
Marta assume nei confronti dell’ospite un ruolo tipicamente femminile: tutta affaccendata prepara la tavola. Maria, al contrario, si intrattiene con l’ospite, assumendo un ruolo che la mentalità del tempo riservava agli uomini: un fatto insolito che neppure Marta condivide, prigioniera della mentalità corrente.
Le parole con le quali Gesù risponde a Marta ricordano che il servizio non deve assillare al punto da far dimenticare l’ascolto: “Marta, Marta, ti preoccupi e ti agiti per troppe cose… “. L’accoglienza non è solo servizio.
Marta non è la figura dell’amore per il prossimo, e Maria non è la figura dell’amore per il Signore. Nel nostro passo non c’è alcuna traccia di divaricazione fra il Signore e il prossimo. Entrambe le sorelle sono di fronte al medesimo ospite, che è al tempo stesso – come l’immagine dell’ospite dice con chiarezza – il Signore e il prossimo. È questo il punto forza dell’episodio. Non ci sono due modi di ospitare e amare, ma uno solo, che si tratti del Signore o del prossimo. Perciò l’episodio deve essere letto simultaneamente in due modi: come accogliere e servire il Signore, come accogliere e servire il prossimo.
La tensione – che dunque non è fra il Signore e il prossimo – non è però neppure semplicemente fra l’ascolto e il servizio, la contemplazione e l’azione. È piuttosto fra l’ascolto e il servizio che distrae, lo stare con l’ospite e il troppo affaccendarsi che impedisce di fargli compagnia, fra il secondario e l’essenziale. Sono appunto questi i rimproveri di Gesù a Marta.
Marta è tanto occupata che non è più attenta: così indica il verbo greco perispao, “essere distratto, rivolto altrove”. È tanto l’affaccendarsi per l’ospite che non c’è più spazio per intrattenerlo. Marta è “affannata” (10,41) e “agitata”. Luca utilizza qui il medesimo verbo (merimnan) adoperato altrove per dire che non bisogna agitarsi per il cibo, il vestito e il domani (12,22-32). Affannarsi è l’atteggiamento dei pagani. Anche l’agitarsi per Dio o per il prossimo può diventare “pagano”.
La ragione di tanta agitazione – che distrae dall’ospite che pure si vorrebbe accogliere – sono le “troppe cose” (10,41). A questo punto la tensione che percorre l’episodio assume un’ulteriore sfumatura, che forse è quella che sta alla radice di tutte le altre: la tensione fra il troppo e l’essenziale, il secondario e il necessario. Il troppo è sempre a scapito dell’essenziale. Le troppe cose impediscono non soltanto l’ascolto, ma anche il vero servizio. Fare molto è segno di amore, ma può anche far morire l’amore. L’ospitalità ha bisogno di compagnia, non soltanto di cose.
Un po’ di vocabolario e qualche conclusione
Il vangelo presenta Gesù come predicatore itinerante (“Non ha dove posare il capo”) e più volte si parla di lui come ospite: non solo nella casa di Marta e Maria, ma anche di Zaccheo e di Levi.
Sono note poi alcune sue parole. Per esempio: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato… Chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo… non perderà la sua ricompensa” (Mt 10,40-42). E ancora: “Chi accoglie uno di questi bambini accoglie me” (Mc 9,37). Qui c’è già tutta la teologia dell’accoglienza.
Il verbo privilegiato per esprimere questa accoglienza è dechomai (e i suoi numerosi composti) che significa accogliere, ma anche sentire e capire, per esempio le parole dell’ospite, i suoi desideri e i suoi bisogni. Sempre dice la compiacenza e la gentilezza. I composti sottolineano poi l’amicizia, la stima verso l’ospite, anche se sconosciuto. E suggeriscono anche di accogliere qualcuno facendolo entrare nella comunità e nel proprio paese.
Nell’epistolario neotestamentario numerosi sono gli inviti a essere ospitali. Il dovere di essere ospitali rientra nei doveri cristiani comuni, dal vescovo (1 Tm 3,2; Tito 1,8) alla vedova (1 Tm 5,10). Nella lettera ai Romani la virtù dell’ospitalità si trova accanto alla perseveranza nella preghiera e alla sollecitudine per i fratelli. E la lettera agli Ebrei pone l’uno accanto all’altro l’amore fraterno e l’ospitalità, “praticando la quale alcuni hanno accolto degli angeli senza saperlo” (13,2). E infine l’anziano, che scrive la terza lettera di Giovanni, insiste perché il presbitero Gaio si comporti fedelmente nei suoi doveri verso i fratelli, anche stranieri (3 Gv 5).
Ma voglio concludere questa conversazione con l’affermazione di Gesù più ricca e paradossale: “Ero forestiero e mi avete accolto” (25,35).
Al tempo di Gesù, forestiero poteva essere lo sconosciuto di passaggio, che chiede l’ospitalità per una notte, e che è spontaneo giudicare con diffidenza perché non sai chi egli sia e ne ignori le abitudini e le intenzioni. Più frequentemente era l’immigrato, che cerca lavoro e migliori condizioni di vita. Per dire l’ospitalità Gesù ricorre qui a un verbo (sunago) il cui significato base è raccogliere, riunire cose sparse. Di qui il senso di raccogliere chi è sperduto, ospitarlo nella stessa casa, unirlo ai gruppi dei fratelli. Questo verbo così ricco di significato è ricordato in Matteo 25 tre volte. Non dice solo l’aiuto, ma proprio l’accoglienza. E difatti Gesù fa rientrare il forestiero nel numero dei suoi “piccoli fratelli”. Forestiero per gli altri ma non per lui. E si comprende che l’ospitalità è più ampia del semplice aiuto, perché significa aprirsi alla persona e non soltanto ai suoi bisogni. Significa aprire la casa e non soltanto dare un aiuto. E c’è di più: il forestiero da ospitare è nel contempo il prossimo da trattare come se stesso e il Signore da servire con tutto il cuore. Perciò deve essere accolto come si riceve il Signore, cioè con riguardo, con delicatezza, e persino umilmente.
Una semplice annotazione
Una delle caratteristiche della nostra civiltà è l’anonimato e, forse, anche la diffidenza e la paura di chi è forestiero. Abitiamo nello stesso palazzo e non ci conosciamo. E c’è molta solitudine. In questo contesto l’ospitalità acquista ancora tutto il suo valore e la sua urgenza, anche se è vero che deve esprimersi in forme nuove, diverse da quella del tempo di Abramo o di Gesù. Deve dare, per esempio, un’anima e un po’ di cuore alle strutture sociali; deve creare famiglie aperte all’accoglienza dell’anziano e del malato; deve creare luoghi di accoglienza per l’immigrato e il forestiero; deve creare esempi di comunità cristiane, pluraliste e accoglienti.
Si legge nel Concilio Vaticano Secondo (Gaudium et Spes 27): “Oggi urge l’obbligo che diventiamo generosamente prossimi di ogni uomo, e rendiamo servizio coi fatti a colui che ci passa accanto: vecchio abbandonato da tutti o lavoratore straniero ingiustamente disprezzato, o esiliato, o fanciullo nato da un’unione illegittima, che patisce immeritatamente per un peccato da lui non commesso, o affamato che richiama la nostra coscienza…”.