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Publié dans:immagini |on 5 juillet, 2018 |Pas de commentaires »

TEMPI BIBLICI: UNA STORIA A NOSTRO FAVORE

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TEMPI BIBLICI: UNA STORIA A NOSTRO FAVORE

(Chiesa Valdese)

Una storia, per essere tale, ha bisogno del tempo, e questo vale anche per la storia della nostra salvezza, dove l’ingresso di Dio nello spazio e nel tempo umano “trasfigura ed accende l’universo in attesa”, per dirla con le antiche parole della liturgia cristiana. “Prima di Cristo” e “dopo Cristo”, attesa messianica e attesa delle cose ultime. Le religioni monoteiste sono caratterizzate da un tempo lineare che scorre dall’inizio alla fine dei tempi, a differenza delle religioni orientali dove il tempo è ciclico e si ripete senza fine. Spesso nella Bibbia i tempi sono lunghi, appunto biblici, come si usa dire! Sembra quasi che lo scorrere dei giorni, dei mesi, degli anni sia uno dei fattori principali nella relazione tra Dio e i personaggi biblici. Se avete tempo – e detto da chi ha un cognome come il mio è tutto un programma – basta dare uno sguardo molto generico al racconto biblico per rendersene conto.
Il racconto della creazione inizia subito con una constatazione temporale, «in principio», e con un computo preciso del tempo, certamente simbolico, della durata di una settimana: «e fu sera e fu mattino, primo giorno … secondo … terzo» e così via (Gen 1). E’ l’inizio di ogni cosa, anche del nostro tempo, lo starter del cronometro dell’umanità, una dimensione così vasta che solo lo sguardo di Dio può abbracciarla completamente. Sempre in Genesi, sembra che la durata della vita determini la qualità di una persona, stando alla lista dei sostanziosi compleanni: 930 anni visse Adamo, 912 anni Set, 905 Enos e Noè, solo per ricordarne alcuni. A Enoc, figura celebre per la letteratura giudaica, piace strafare, di lui infatti si dice che visse 365 anni e che «camminò con Dio; poi scomparve, perché Dio lo prese» (Gen 5:24), come rompendo gli schemi del tempo per entrare nell’eternità. Tornando a Noè, è interessante notare l’attesa sua e di tutti gli esseri viventi che stavano nell’arca prima di poterne uscire. Mentre il diluvio infatti è descritto come un evento improvviso della durata di quaranta giorni e quaranta notti, il successivo ritirarsi delle acque richiede un tempo di centocinquanta giorni, per iniziare; poi Noè aspetterà quaranta giorni prima di mandare il corvo ad ispezionare la terra, e prima di mandare la colomba per tre volte attende sempre sette giorni (Gen 8): insomma, un vero e proprio stillicidio per la pazienza anche dell’uomo biblico più virtuoso. Un tempo prezioso però, a ben guardare: dopo il tempo del diluvio, cioè di questo atto di Dio a causa della violenza degli uomini che aveva corrotto il quadro originario del creato, c’è un tempo per fermarsi e riscoprire ciò che si era perduto, per rendersi conto della bellezza che sta emergendo nuovamente dalle acque. E di questo tempo probabilmente anche Dio aveva bisogno: il suo appendere l’arco sulle nubi (Gen 9:13) testimonia che Dio non è più lo stesso di prima, ma ha deciso di scommettere ancora sull’umanità, di darle fiducia e speranza, anche se il male sarà ancora compiuto sulla Terra, anche se ci sarà bisogno di un Salvatore. Non tutto il “tempo” viene per nuocere, potremmo dire parafrasando il celebre proverbio!
Mi è capitato, agli inizi degli studi teologici, di curiosare nella geografia biblica navigando tra mappe cartacee e sul web nell’antico medio oriente. E come altri studenti, considerando che il deserto che separa l’Egitto dalla terra di Canaan sia poco più lungo della Pianura Padana (circa 400 Km di lunghezza) mi sono chiesto se occorressero davvero quarant’anni per attraversarlo tutto. Evidentemente no, per quanto all’epoca Israele e Mosè si spostassero a piedi. Questo scarto tra spazio e tempo vuole anche qui dirci qualcos’altro: non è il deserto ad essere tanto lungo, piuttosto è Israele ad avere bisogno di tempo per abituarsi al messaggio e all’idea della libertà. I quarant’anni nel deserto sono un margine di tempo regalato pedagogicamente da Dio al suo popolo per prendere coscienza della sua identità, del suo rapporto di alleanza, per perdere nel deserto la pelle secca della schiavitù, che aveva reso arido il loro cuore rendendolo «un popolo dal collo duro» (Es 33:5).
Così immersi nel tempo come siamo, abbiamo bisogno come Noè e come Israele nel deserto di riscoprire l’azione di Dio a nostro favore, specialmente quando l’abitudine e le ansie della vita rimpiccioliscono lo sguardo del nostro orizzonte, facendoci perdere senso e speranza. Da queste prime pagine della Scrittura, è chiaro che Dio non ha fretta, specialmente quando si tratta di educarci, di liberarci, di salvarci. In una parola: di amarci. Una volta reso davvero libero e “tornato” a casa, Israele potrà restituire questo tempo prezioso a Dio mediante le prescrizioni liturgiche che regolano le festività sacre, minuziosamente descritte e regolate in Esodo, Levitico e Deuteronomio. Il riposo del sabato, innanzitutto, memoria eterna e allo stesso tempo settimanale del primo sabato della creazione; quindi la Pasqua o festa degli azzimi, la Pentecoste o festa della mietitura, la festa delle Capanne come ringraziamento per il raccolto, l’anno sabbatico per il riposo della terra ogni sette anni, e dopo il settimo anno sabbatico, cioè ogni cinquant’anni, l’anno del giubileo. Significativo in questo senso è il fare memoria della liberazione dall’Egitto che si è tramandato nei secoli attraverso la cena pasquale ebraica o Haggadah di Pesach. Ad un certo punto della cena, dopo aver scoperto il pane azzimo, un bambino chiede a un anziano: «Perché questa notte è diversa da tutte le altre notti? Perché tutte le altre notti andiamo a letto presto e non restiamo alzati, e non aspettiamo niente». Celebrare e fare memoria, nella liturgia, è vivere il tempo di Dio sul nostro tempo presente, facendo memoria – e non solo ripetendo – delle parole e dei gesti che hanno segnato la nostra salvezza. E’ questo credo il senso della raccomandazione di Deuteronomio 4:32 «Ricerca pure nei tempi antichi, che furono prima di te, dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra». Uno spunto interessante per il nostro rapporto con la liturgia delle nostre chiese.
Che ci sia tempo e tempo, lo aveva scoperto anche Giacobbe, quando pur di avere in sposa Rachele offre sette anni di lavoro presso il padre di lei, Labano: «e gli parvero pochi giorni, a causa del suo amore per lei» (Ge 29:20). Come il tempo speso nell’amicizia, nell’amore, nel riposo scorre sempre troppo in fretta, così il tempo della sofferenza e della noia sembra sempre troppo lungo, lo sappiamo bene. Eppure «per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo», ci dice nel suo primo versetto il celebre e inflazionato capitolo tre dell’Ecclesiaste. Questo carattere inclusivo della temporalità riflette la coesistenza, sotto il sole, delle diverse generazioni, dell’empio e del giusto, del ricco e del povero, del sano e del malato, ma sopra ogni cosa si staglia la sovrana figura di Dio, Signore della storia, il cui Spirito soltanto ci guida nell’armonizzare questi estremi, nel creare sinfonia dai nostri opposti. L’abbandono fiducioso alla sua volontà resta la via maestra da seguire come suoi figli e figlie e suoi testimoni nel mondo, anche e a maggior ragione quando i tempi si fanno difficili. Da questo la donna e l’uomo credenti traggono saggezza e consolazione, perché sanno che il loro tempo è stato abitato da Dio. «Insegnaci dunque a contare bene i nostri giorni, per acquistare un cuore saggio» (Sl 90:12).
I libri profetici contengono molte e preziose parole sul tempo, e forse ciascuno e ciascuna di noi ne ricorda alcune. Ci basti notare qui che nell’ambito della profezia non è tanto il tempo futuro che interpella il popolo di Dio, ma già quello presente, il qui e ora del rapporto di fedeltà con Dio. Così come il profeta non è principalmente l’uomo che parla del futuro, ma che parla all’uomo da parte di Dio, allo stesso modo non è nel futuro che Dio ci attende, ma in ogni momento del nostro vivere quotidiano; e se spesso, certo, il profeta parla al futuro («Così parla il Signore: “Nel tempo della grazia io ti esaudirò, nel giorno della salvezza ti aiuterò”», Is 49:8a) è per dire che l’orizzonte della promesse di Dio a nostro favore è infinitamente più vasto del nostro presente, che non le può racchiudere in nessun schema o in nessun magistero.
«Ma quando giunse la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge» (Ga 4:4). Con questa solenne affermazione arriviamo al Nuovo Testamento, che ci parla della pienezza dei tempi. Una pienezza che evidentemente, agli occhi di Dio, non ha a che fare con l’evoluzione del sapere e della conoscenza o con il progresso della scienza e della tecnica. La Galilea di duemila anni fa, senza internet e senza mass media, ai margini politici e geografici dell’Impero, fa da scenario all’evento dell’Incarnazione, sigillando quel tempo come il tempo del plèroma (in greco), cioè della pienezza. Forse c’è di che essere gelosi, potremmo pensare, se Dio ha scelto quel tempo e non il nostro per farsi uomo. In realtà non ne abbiamo motivo, quei tempi non sono poi così lontani. La lettera agli Ebrei si apre constatando che «in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1:2) il che rende quei tempi più vicini ai nostri: perché sono già il tempo della chiesa, è già il tempo dell’annuncio della Parola, è già il tempo compreso nella promessa fattaci da Gesù di restare con noi tutti i giorni fino alla fine dell’età presente (Mt 28:20).
E’ un tempo spartiacque quello di Gesù, non solo per il significato che ha avuto nella storia dell’umanità, ma anche per le conseguenze che ha portato nell’esistenza dei suoi discepoli. Nella loro vita c’è un “prima” e un “dopo” Gesù, c’è un momento particolare in cui il loro tempo è diventato altro rispetto al tempo normale della loro quotidianità. Nel raccontare dei due discepoli del Battista che domandarono a Gesù “dove abiti?”, l’evangelista Giovanni non ci riporta i loro nomi, ma annota che erano circa le quattro del pomeriggio (Gv 1:35-39). Ci colpisce una così chiara nota temporale che viene da un tempo così lontano dal nostro! Del resto certe date, certe ore non le scorderemo mai: l’ora del primo amore, della nascita di un figlio, di una bella notizia. L’ora in cui abbiamo sentito, o abbiamo riscoperto la voce di Dio nella nostra vita, quell’ora è anche per noi “le quattro del pomeriggio” come per quei due discepoli. Basterebbe solo la grazia di saper ricordare e rivivere quel momento per riscoprire la gratitudine, la gioia che può alimentare ogni altro giorno.
Giovanni ama giocare col tempo nel suo Vangelo. Il suo Gesù non ha paura di perdere tempo per una persona soltanto, non è un Gesù che guarda freneticamente l’agenda o lo smartphone: pensiamo alla samaritana, o a Nicodemo, che incontra persino di notte. Il tempo del Figlio nel quarto vangelo è anche orientato all’ora suprema della croce, e fino ad allora ogni parola, ogni segno è prematuro, ci parla ma non ancora con la potenza e il significato della parola della croce. Fino a quel momento «l’ora mia non è ancora venuta … il mio tempo non è ancora venuto» (Gv 2:4; 7:6). Anche all’evangelista Luca piace il tema del tempo, inteso come kairòs, il tempo favorevole, che è oggi, non ieri o domani: «Oggi devo fermarmi a casa tua… oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Lc 19:5-9).
Oggi: il nostro tempo, un tempo che conosciamo bene, un tempo sempre favorevole per il nostro rapporto con Dio e col prossimo, declinando in termini temporali il primo e più grande comandamento. Un tempo che nell’ottica di credenti è più nelle mani di Dio che nelle nostre. Un tempo, come ci racconta anche il Piccolo Principe, che non va imprigionato nei nostri freddi calcoli, ma che ha senso, e può fiorire in eterno, nella misura in cui sappiamo farne dono, esattamente così come ci viene donato da Dio, gratuitamente, ogni nuova mattina.

 

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