Archive pour mai, 2018

Colossesi 3, 12

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Publié dans:immagini sacre |on 7 mai, 2018 |Pas de commentaires »

IL CUORE – SIMBOLI BIBLICI

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IL CUORE – SIMBOLI BIBLICI

Il termine cuore si riferisce principalmente alla persona nella sua totalità e non soltanto al cuore come sede dei sentimenti e dell’affetto. Il cuore è il luogo da dove scaturiscono pensieri, sentimenti intimi, progetti, razionalità, autenticità, comportamenti.
Nella Bibbia, infatti, con il cuore si pensa, si ascolta, si decide, si ama, si giudica, si ricorda, ci si relaziona. Il cuore può essere puro (cfr. Mt 5,8) e cercare Dio o doppio (cfr. Sal 12,3) che provoca comportamenti cattivi. Gesù esprime lapidariamente questa concezione con l’espressione: «Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12,34). Anna, la madre del profeta Samuele esprime la gioia che inonda tutta la sua persona con le parole: «Il mio cuore esulta nel Signore» (cfr.1 Sam 2,1). Anche Dio, che è pienamente coinvolto nella storia del suo popolo, ha un cuore che lo determina positivamente: «Il mio cuore si commuove dentro di me» (Os 11,8).
Il cuore, in quanto interiorità, è spesso offuscato dall’apparenza esteriore, ma Dio lo vede senza inganno: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti, l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1 Sam 16,7). Il salmista prega: «Scrutami, o Dio, e conosci il mio cuore, provami e conosci i miei pensieri» (Sal 138, 23). Il libro del Deuteronomio raccomanda di ricordare nel cuore e di meditare ciò che Dio ha fatto per il popolo (4,39) per non inorgoglire il cuore e dimenticare Dio. Invita a fissare i suoi precetti nel cuore (cfr. Dt 6,4.6; 8, 14-17). Molti passi biblici, in particolare i testi profetici ricordano che la fedeltà a Dio si realizzerà quando egli porrà nel loro intimo ‘un cuore nuovo’ capace di riconoscere Dio e di servirlo (cfr. Ger 31,33). La persona dal cuore vivo è incapace d’ipocrisia. Il salmista chiede a Dio di liberarlo dall’orgoglio del cuore che lo porterebbe a cercare cose superiori alle sue forze, ingannandosi (Sal 131,1). Il libro dei Proverbi consiglia di affidarsi a Dio con tutto il cuore più che alla propria intelligenza (cfr. Prov 3,5). Gesù proclama beati coloro il cui cuore è puro, rivolto, cioè, unicamente a Dio da cui dipende (Mt 5, 8) e rimprovera coloro avendo indurito il cuore non possono credere in lui. Dopo la sua risurrezione rimprovera la loro incredulità e durezza di cuore (Mc 16,1).
Gesù nel Nuovo Testamento spiega che il male come anche il bene hanno origine nel cuore: «Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (cfr. Mc 7,21-13). I pensieri nascono dal cuore e poi si formulano nella mente: «Perché pensate cose cattive nei vostri cuori» (Mc 2,26; cfr. Lc 1,51; Sal 140,3). Gesù si autodefinisce mite e umile di cuore (cfr. Mt 11,25-30) perché il suo essere profondo è incapace di imporsi con la violenza e le relazioni che egli stabilisce donano riposo e ristoro.

Da Sapere
Nei racconti dell’infanzia, Luca per tre volte afferma che Maria ‘conservava nel cuore queste cose’ e le meditava, indicando in lei la serva fedele che non dimentica le parole e gli eventi di Dio, anzi lasciandole depositare nel suo profondo (cuore) ha realizzato nella vita la parola di Dio ricevuta e amata (cfr. Lc 1, 66; 2,19; 2,61).
I verbi della fede sono collegati con la docilità del cuore come questi esempi evidenziano: amare (Dt 6,5); ricordare (Dt 4,9); ascoltare (cfr.1Re 3,8); osservare (Sal 119,34); cercare (Sal 27,8; 119,10); servire (Gs 22,5); lodare (Sal 86,12 ); convertirsi (Gl 2,13); custodire fedelmente (Sal 119, 68), valutare con saggezza (cfr. Sal 90,12).

Publié dans:BIBLICA - TEMI |on 7 mai, 2018 |Pas de commentaires »

« Vi do un comandamento nuovo »

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Publié dans:immagini sacre |on 4 mai, 2018 |Pas de commentaires »

SESTA DOMENICA DI PASQUA – ANNO B – IL NUOVO COMANDAMENTO

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SESTA DOMENICA DI PASQUA – ANNO B – IL NUOVO COMANDAMENTO

Carissimi fratelli e sorelle,

siamo giunti alla sesta Domenica di Pasqua e siamo accompagnati, come sempre in questo tempo, da Giovanni, Apostolo ed Evangelista, che ci illumina con il suo Vangelo. Oggi continuiamo la lettura del capitolo 15 iniziato domenica scorsa con l’allegoria della “Vera Vite e dei suoi tralci” e della sua Lettera dell’Amore. Nelle poche righe che abbiamo ascoltato, Giovanni, tra Vangelo e Lettera, ha ripetuto 18 volte la parola “amore” o il verbo “amare”, invitandoci così a rimanere nel Suo amore. La nostra riflessione odierna non può quindi non essere orientata da questo amore approfondendo così anche quanto abbiamo detto nelle domeniche passate su questo argomento (e non è stato poco!)
Nella prima lettura abbiamo ascoltato il racconto di come Pietro comprende che la nuova realtà della Chiesa fondata dal Risorto è qualcosa non di riservato a qualcuno, popolo o gruppo, bensì Essa è aperta ad ogni uomo. Sappiamo come questa apertura al mondo pagano sia stata tanto sofferta e combattuta negli inizi della cristianità, si tratta del passaggio dal Vecchio al Nuovo Testamento.
Oggi vogliamo chiederci, di fronte a questa parola così ripetuta da Giovanni qual è l’originalità cristiana del comandamento dell’amore in confronto a quell’amore che veniva comandato dal Vecchio Testamento. Infatti tutte le leggi e i comandamenti del Vecchio Testamento, sappiamo bene, potevano e possono essere riassunte semplicemente ed efficacemente da quell’unico riassuntivo: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso » – Lc 10,27.
Gesù è venuto poi non per abolire la Vecchia Legge di Dio: “Non son venuto per abolire, ma per dare compimento” – Mt 5,17. Gesù è venuto per dare “compimento”, cioè realizzazione piena di quelle indicazioni amorose del Padre per i suoi figli che sono espresse nei suoi Dieci Comandamenti.
I Dieci Comandamenti erano la base costitutiva del vecchio popolo di Dio che si riconosceva come tale in quanto viveva quelle norme ricevute da Dio. Vivere i comandamenti di Dio per il popolo ebreo non era semplicemente un’osservanza giuridica esteriore, era un fatto d’amore. Con Dio aveva infatti un rapporto di amore: era stato scelto da Dio, amato da Dio e doveva rispondere a questo amore. Il Signore stesso attraverso Mosè propone al popolo quest’Alleanza libera d’amore: il popolo è libero di scegliere se amare o no il suo Dio, quegli uomini erranti nel deserto diverranno “popolo di Dio” accettando la sua offerta d’amore sulla base dell’esperienza di essere stati da Lui liberati dalla schiavitù (cfr. Es 24,1-11). Accettando l’offerta d’amore di Dio, il popolo s’impegna a ricambiarLo osservando e vivendo i suoi comandamenti che abbiamo riassunto in quell’unico “Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5) e “il prossimo come te stesso”(Lv 19,18)
Ora cerchiamo di andare in profondità. Se l’osservanza dei comandamenti di Dio significa l’espressione concreta dell’amore dell’uomo per Dio e per il prossimo e se Gesù nel Nuovo Testamento non è venuto ad abolire nulla di questi comandamenti, ma continua ad invitarci ad osservarli, quale sarà lo specifico cristiano? Quale sarà la pecularietà del popolo del Nuovo Testamento? Questa pecularietà non potrà consistere nel comandamento dell’amore in sé perché l’amore era già comandato dal Vecchio Testamento, come è stato detto.
Dunque una vita cristiana improntata tutta sul dovere dell’amore verso Dio e verso il prossimo espresso dall’osservanza dei Dieci Comandamenti, non ha nulla di specificamente cristiano. L’insistenza sul dovere di osservare i comandamenti ci accomuna non solo agli Ebrei che sono fermi al Vecchio Testamento, ma anche ad ogni uomo che porta scritta nel cuore quella legge di Dio di amarLo e di amare tutti. Viviamo quindi il rischio oggettivo di dirci di essere membri del popolo del Nuovo Testamento e di non avere nulla di nuovo e di diverso da coloro che non hanno accolto Gesù o non lo conoscono. Forse sarà anche per questo perché tanti cristiani – purtroppo! – parlano della fede come un “credere a Qualcosa” e non tanto in “credere in Qualcuno che mi ha amato e dato se stesso per me” (cfr. Gal 2,20).
Lo specifico, dunque, che fa di me un cristiano, che fa di ciascuno di voi dei cristiani non sarà quindi il fatto che ciascuno di noi osserva i Dieci Comandamenti così come li osservano gli Ebrei e molta brava gente nel mondo che vive la legge di Dio conosciuta nel cuore, no, non è questo il nostro specifico.
Il nostro specifico cristiano è pensare, vivere, relazionarsi, amare come Gesù ha pensato, vissuto, si è relazionato, ha amato. Proprio nel Vangelo che abbiamo ascoltato Gesù ci ha detto: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come Io vi ho amati” (Gv 15,12): Amare come Lui, amare come Gesù! Il contesto da cui è stato estratto questo brano è quello immediatamente successivo all’Ultima Cena. In questa circostanza Gesù parlerà espressamente ai suoi Apostoli di un “suo comandamento” che chiama anche “nuovo”: “Amare come Lui ci ha amati”. Gesù stesso è quindi la novità del “nuovo comandamento”, non si tratta cioè di conoscere e mettere in pratica delle norme, ma di conoscere una Persona, Gesù Cristo, e impegnarsi a vivere in quelle linee su cui si è distesa la sua vita terrena: “Come Lui ci ha amati!”.
Ora, possiamo identificare quel “come”, cioè quella modalità peculiare di “come” Gesù ci ha amato in quel “compimento” della legge mosaica realizzato da Gesù e di cui Lui stesso – come abbiamo visto – ne ha parlato: “… sono venuto per dare compimento” (Mt 5,17). Dunque noi suoi seguaci siamo chiamati a realizzare nelle nostre persone questo compimento perfetto dei comandamenti del Padre sulla scia di Gesù. Per cui, scrutando la vita di Gesù per cogliere le modalità di questo suo compimento perfetto della volontà del Padre vediamo come esso si manifesta in tutto ciò che Egli ha fatto, detto, subito, vissuto, esperimentato, ma in modo particolarissimo si manifesta con luce sfolgorante nella sua morte di Croce.
Gesù crocifisso è l’espressione più alta di ogni possibile amore al Padre, perché Gesù è mandato dal Padre a morire sulla croce, volontà divina che farà tremare e sudar di sangue l’umanità di Gesù, vero Dio e vero uomo che nell’Orto degli Ulivi si è immerso liberamente e pienamente in quel calice amaro offertoGli dal Padre nonostante che Lui chiedesse che passasse lontano da sé (cfr. Lc 22,39ss).
Gesù crocifisso è l’espressione più alta di ogni possibile amore all’umanità perché ciò che inchioda Gesù a quella croce non è solo l’amore per il Padre, ma anche, o meglio in quell’amore per il Padre, l’amore per tutta l’umanità, tutta e ciascun membro di essa. Gesù, infatti, “vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 5,2), Gesù “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).
Se è così, ed è cosi, ogni cristiano che vuole essere tale non solo di nome o perché ha ricevuto qualche Sacramento, deve sforzarsi per quanto può di conoscere Gesù in profondità, la sua mentalità, i suoi modi di ragionare, di relazionarsi con gli altri, il suo modo di vivere e di essere. Senza questa conoscenza viva di Gesù, della sua Persona, dei suoi affetti, dei suoi sentimenti (cfr. Fil 2,5) e soprattutto senza una conoscenza profonda di quell’amore che Lo ha inchiodato alla croce, nessuno può dirsi in verità suo discepolo.
Questo è l’impegno unico che abbiamo preso quando abbiamo ricevuto il Battesimo: vivere come Gesù, ragionare come Gesù, amare come Gesù. Per questo non può esistere un cristiano tranquillo che si sente a posto perché “non ammazza, non ruba, non fa del male a nessuno”! Ogni vero cristiano è una persona sempre e perennemente in crisi perché ogni giorno si confronta con Gesù e con quell’amore con cui è stato amato, ogni giorno si chiede se ha corrisposto a quell’amore ricevuto gratis, e se quindi ha saputo amare gratis chi in quel giorno ha incrociato il suo cammino.
Certamente nessuno di noi potrà mai amare il Padre e i fratelli con quell’intensità d’amore e di perfezione che ebbe e che ha Gesù, ma ciascuno di noi può, così com’è nella sua piccolezza, fragilità e povertà lasciarsi coinvolgere dal dinamismo intrinseco di quell’amore che ha condotto Gesù a dare la sua vita per noi. Si tratta allora di scoprire le modalità intrinseche della dinamica della vita di Gesù, quali sono state le linee interiori di crescita, di sviluppo, di maturazione umana (cfr. Lc 2,52) con cui Egli ha vissuto la sua esistenza in mezzo a noi, perché possiamo acquisirle ed assimilarle per la realizzazione di un’autentica nostra vita cristiana.
E allora, se sapremo leggere bene nella vita di Gesù troveremo quella legge interiore che Lo ha sempre mosso e condotto in una direzione ben precisa, si tratta di delineare quel “come”, quella modalità particolare con cui Egli, il Verbo incarnato, ci ha amato. Scopriremo così che l’intimo dinamismo della vita di Gesù ha un nome particolare che in greco si chiama “kénosi”, abbassamento, spogliazione, umiliazione. Infatti, Egli, “da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9).”Egli, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,6-8).
Si tratta dunque di un “come” difficile, alto, esigente, ma è l’unica modalità di vita che può dare al nostro cuore fatto per amare, pace vera. “Dio è Amore” ci ha detto Giovanni e noi siamo stati creati da Dio “a sua immagine e somiglianza” (Gen 1,26), se Dio quindi è AMORE PER ESSENZA, noi siamo AMORE PER PARTECIPAZIONE e la nostra stessa intima struttura tutta, le fibre più interiori del nostro essere persone umane e tutte le nostre dimensioni personali sono state create da Dio per amare e sono violentemente frustrate se non amano nella verità.
Siamo creati per amare e ogni nostra infelicità ha la sua causa nascosta nella nostra incapacità di amare. Salvandoci, il Verbo Eterno di Dio ci libera anche da questa incapacità donandoci il suo Spirito e con Esso la sua stessa capacità di amare, il suo stesso Cuore. Lo Spirito realizza così l’antica profezia di Ezechiele: “Toglierò dal loro petto il cuore di pietra ed darò loro un cuore di carne” (Ez 11,19).
Certamente come ogni trapianto non è indolore e non è esente da crisi di rigetto da parte dell’uomo vecchio (cfr. Col 3,9): è un trapianto che richiede del tempo, che non si realizza in un attimo, ma in un lungo cammino di conversione che si identifica in un cammino di amicizia con Gesù. Sì, di amicizia, amicizia intima con Lui che ci ha scelti come “amici”, ci ha scelti Lui, non siamo stati noi a sceglierLo, ci ha scelti Lui perché Lui vuole la nostra amicizia, vuole stare con noi (cfr. Mc 3,14). E sarà lì, nell’intimità con Gesù nella preghiera, in quel tempo che sapremo donare a Chi ci ha donato tutto, che Lui c’insegnerà i segreti del suo amore, ci insegnerà come si ama, cioè come si dona la vita, come si fa a tenere ferme le mani, fermi i piedi quando vengono trafitti, ci insegnerà come fare ad avere il cuore sempre aperto per tutti e chiuso per nessuno, ci insegnerà a stare fermi sulla croce, anche quando vorremmo fuggire e scendere giù da essa è così tanto facile! Ci insegnerà a dare la vita e ci farà capire che solo un amore così è degno di questo nome, perché un amore che non sa dare la vita non è autentico e vero.
In questo cammino in cui impariamo ad amare come Gesù, dobbiamo aver pazienza con noi stessi e tanta umiltà e mai stancarci ogni giorno di rialzarci dalle nostre cadute nel non-amore, e quando – finalmente! – avremo ben capito che Lui ci ama proprio senza alcun nostro merito, allora e solo allora Lui ci darà la gioia di poter amare fino in fondo come Lui ci ha amato.
La Vergine Maria, nostra Madre e Maestra, interceda per noi perché possiamo presto realizzare e esperimentare una nuova e più grande capacità di amare. Amen.

 

Sant’Atanasio

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Publié dans:immagini sacre |on 2 mai, 2018 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – SANT’ATANASIO DI ALESSANDRIA – FESTA 2 MAGGIO (2007)

https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20070620.html

BENEDETTO XVI – SANT’ATANASIO DI ALESSANDRIA – FESTA 2 MAGGIO (2007)

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 20 giugno 2007

Cari fratelli e sorelle,

continuando la nostra rivisitazione dei grandi Maestri della Chiesa antica, vogliamo rivolgere oggi la nostra attenzione a sant’Atanasio di Alessandria. Questo autentico protagonista della tradizione cristiana, già pochi anni dopo la morte, venne celebrato come «la colonna della Chiesa» dal grande teologo e Vescovo di Costantinopoli Gregorio Nazianzeno (Discorsi 21,26), e sempre è stato considerato come un modello di ortodossia, tanto in Oriente quanto in Occidente. Non a caso, dunque, Gian Lorenzo Bernini ne collocò la statua tra quelle dei quattro santi Dottori della Chiesa orientale e occidentale – insieme ad Ambrogio, Giovanni Crisostomo e Agostino –, che nella meravigliosa abside della Basilica vaticana circondano la Cattedra di san Pietro.
Atanasio è stato senza dubbio uno dei Padri della Chiesa antica più importanti e venerati. Ma soprattutto questo grande Santo è l’appassionato teologo dell’incarnazione del Logos, il Verbo di Dio, che – come dice il prologo del quarto Vangelo – «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Proprio per questo motivo Atanasio fu anche il più importante e tenace avversario dell’eresia ariana, che allora minacciava la fede in Cristo, riducendolo ad una creatura «media» tra Dio e l’uomo, secondo una tendenza ricorrente nella storia, e che vediamo in atto in diversi modi anche oggi. Nato probabilmente ad Alessandria, in Egitto, verso l’anno 300, Atanasio ricevette una buona educazione prima di divenire diacono e segretario del Vescovo della metropoli egiziana, Alessandro. Stretto collaboratore del suo Vescovo, il giovane ecclesiastico prese parte con lui al Concilio di Nicea, il primo a carattere ecumenico, convocato dall’imperatore Costantino nel maggio del 325 per assicurare l’unità della Chiesa. I Padri niceni poterono così affrontare varie questioni, e principalmente il grave problema originato qualche anno prima dalla predicazione del presbitero alessandrino Ario.
Questi, con la sua teoria, minacciava l’autentica fede in Cristo, dichiarando che il Logos non era vero Dio, ma un Dio creato, un essere «medio» tra Dio e l’uomo, e così il vero Dio rimaneva sempre inaccessibile a noi. I Vescovi riuniti a Nicea risposero mettendo a punto e fissando il «Simbolo della fede» che, completato più tardi dal primo Concilio di Costantinopoli, è rimasto nella tradizione delle diverse confessioni cristiane e nella Liturgia come il Credo niceno-costantinopolitano. In questo testo fondamentale – che esprime la fede della Chiesa indivisa, e che recitiamo anche oggi, ogni domenica, nella Celebrazione eucaristica – figura il termine greco homooúsios, in latino consubstantialis: esso vuole indicare che il Figlio, il Logos, è «della stessa sostanza» del Padre, è Dio da Dio, è la sua sostanza, e così viene messa in luce la piena divinità del Figlio, che era negata dagli ariani.
Morto il Vescovo Alessandro, Atanasio divenne, nel 328, suo successore come Vescovo di Alessandria, e subito si dimostrò deciso a respingere ogni compromesso nei confronti delle teorie ariane condannate dal Concilio niceno. La sua intransigenza, tenace e a volte molto dura, anche se necessaria, contro quanti si erano opposti alla sua elezione episcopale e soprattutto contro gli avversari del Simbolo niceno, gli attirò l’implacabile ostilità degli ariani e dei filoariani. Nonostante l’inequivocabile esito del Concilio, che aveva con chiarezza affermato che il Figlio è della stessa sostanza del Padre, poco dopo queste idee sbagliate tornarono a prevalere – in questa situazione persino Ario fu riabilitato –, e vennero sostenute per motivi politici dallo stesso imperatore Costantino e poi da suo figlio Costanzo II. Questi, peraltro, che non si interessava tanto della verità teologica quanto dell’unità dell’Impero e dei suoi problemi politici, voleva politicizzare la fede, rendendola più accessibile – secondo il suo parere – a tutti i sudditi nell’Impero.
La crisi ariana, che si credeva risolta a Nicea, continuò così per decenni, con vicende difficili e divisioni dolorose nella Chiesa. E per ben cinque volte – durante un trentennio, tra il 336 e il 366 – Atanasio fu costretto ad abbandonare la sua città, passando diciassette anni in esilio e soffrendo per la fede. Ma durante le sue forzate assenze da Alessandria, il Vescovo ebbe modo di sostenere e diffondere in Occidente, prima a Treviri e poi a Roma, la fede nicena e anche gli ideali del monachesimo, abbracciati in Egitto dal grande eremita Antonio con una scelta di vita alla quale Atanasio fu sempre vicino. Sant’Antonio, con la sua forza spirituale, era la persona più importante nel sostenere la fede di sant’Atanasio. Reinsediato definitivamente nella sua sede, il Vescovo di Alessandria poté dedicarsi alla pacificazione religiosa e alla riorganizzazione delle comunità cristiane. Morì il 2 maggio del 373, giorno in cui celebriamo la sua memoria liturgica.
L’opera dottrinale più famosa del santo Vescovo alessandrino è il trattato su L’incarnazione del Verbo, il Logos divino che si è fatto carne divenendo come noi per la nostra salvezza. Dice in quest’opera Atanasio, con un’affermazione divenuta giustamente celebre, che il Verbo di Dio «si è fatto uomo perché noi diventassimo Dio; egli si è reso visibile nel corpo perché noi avessimo un’idea del Padre invisibile, ed egli stesso ha sopportato la violenza degli uomini perché noi ereditassimo l’incorruttibilità» (54,3). Con la sua risurrezione, infatti, il Signore ha fatto sparire la morte come se fosse «paglia nel fuoco» (8,4). L’idea fondamentale di tutta la lotta teologica di sant’Atanasio era proprio quella che Dio è accessibile. Non è un Dio secondario, è il Dio vero, e tramite la nostra comunione con Cristo noi possiamo unirci realmente a Dio. Egli è divenuto realmente «Dio con noi».
Tra le altre opere di questo grande Padre della Chiesa – che in gran parte rimangono legate alle vicende della crisi ariana – ricordiamo poi le quattro lettere che egli indirizzò all’amico Serapione, Vescovo di Thmuis, sulla divinità dello Spirito Santo, che viene affermata con nettezza, e una trentina di lettere «festali», indirizzate all’inizio di ogni anno alle Chiese e ai monasteri dell’Egitto per indicare la data della festa di Pasqua, ma soprattutto per assicurare i legami tra i fedeli, rafforzandone la fede e preparandoli a tale grande solennità.
Atanasio è, infine, anche autore di testi meditativi sui Salmi, poi molto diffusi, e soprattutto di un’opera che costituisce il best seller dell’antica letteratura cristiana: la Vita di Antonio, cioè la biografia di sant’Antonio abate, scritta poco dopo la morte di questo Santo, proprio mentre il Vescovo di Alessandria, esiliato, viveva con i monaci del deserto egiziano. Atanasio fu amico del grande eremita, al punto da ricevere una delle due pelli di pecora lasciate da Antonio come sua eredità, insieme al mantello che lo stesso Vescovo di Alessandria gli aveva donato. Divenuta presto popolarissima, tradotta quasi subito in latino per due volte e poi in diverse lingue orientali, la biografia esemplare di questa figura cara alla tradizione cristiana contribuì molto alla diffusione del monachesimo, in Oriente e in Occidente. Non a caso la lettura di questo testo, a Treviri, è al centro di un emozionante racconto della conversione di due funzionari imperiali, che Agostino colloca nelle Confessioni (VIII,6,15) come premessa della sua stessa conversione.
Del resto, lo stesso Atanasio mostra di avere chiara coscienza dell’influsso che poteva avere sul popolo cristiano la figura esemplare di Antonio. Scrive infatti nella conclusione di quest’opera: «Che fosse dappertutto conosciuto, da tutti ammirato e desiderato, anche da quelli che non l’avevano visto, è un segno della sua virtù e della sua anima amica di Dio. Infatti non per gli scritti né per una sapienza profana né per qualche capacità è conosciuto Antonio, ma solo per la sua pietà verso Dio. E nessuno potrebbe negare che questo sia un dono di Dio. Come infatti si sarebbe sentito parlare in Spagna e in Gallia, a Roma e in Africa di quest’uomo, che viveva ritirato tra i monti, se non l’avesse fatto conoscere dappertutto Dio stesso, come egli fa con quanti gli appartengono, e come aveva annunciato ad Antonio fin dal principio? E anche se questi agiscono nel segreto e vogliono restare nascosti, il Signore li mostra a tutti come una lucerna, perché quanti sentono parlare di loro sappiano che è possibile seguire i comandamenti e prendano coraggio nel percorrere il cammino della virtù» (93,5-6).
Sì, fratelli e sorelle! Abbiamo tanti motivi di gratitudine verso sant’Atanasio. La sua vita, come quella di Antonio e di innumerevoli altri Santi, ci mostra che «chi va verso Dio non si allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino» (Deus caritas est, 42).

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