Gesù entra in Gerusalemme

18 marzo 2018 – 6a Dom. di Quaresima: Le Palme – B | Letture – Omelia
6A DOMENICA DI QUARESIMA B: LE PALME
Per cominciare
Marco 11, 1-10. La « settimana santa » si apre con questo ingresso solenne e regale di Gesù a Gerusalemme. Da re pacifico, cavalca un puledro tra una folla osannante. E lui non li fa tacere.
Anche noi, per un’antica tradizione molto sentita e popolare, ci uniamo a quanti si sono stretti attorno a Gesù alla vigilia della sua passione.
Il testo di Marco ha tutte le caratteristiche di un reportage giornalistico, quasi di una cronaca. Ma vi appare anche un sottofondo politico che inquieta e che preannuncia quasi ciò che sta per avvenire. Si inneggia al regno che viene, al « regno del padre Davide ». In realtà Gesù si direbbe poco coinvolto, anche se si vede chiaro che è determinato: questa è la sua « ora » e lancia fino in fondo la sfida con un’aperta provocazione, di cui dovrà pagare le conseguenze. Sarà infatti questa uscita allo scoperto che diventerà il pretesto per poterlo eliminare.
Giovanni 12,12-16. Nel racconto di Giovanni il trionfo di Gesù segue la risurrezione di Lazzaro. Giovanni colloca tutto in un alone di vera glorificazione, ma dichiara nello stesso tempo che essa acquista la sua piena consistenza solo dopo la risurrezione.
La Parola di Dio
Isaia 50,4-7. La profezia del servo sofferente sembra descrivere in anticipo la vita e la passione di Gesù. Isaia si presenta realmente in questi testi come il « quinto evangelista ». Molte delle sofferenze del messia sono state previste e descritte secoli prima con una straordinaria concordanza ai vangeli. Isaia prevede anche la vittoria finale e l’assistenza da parte di Dio.
Filippesi 2,6-11. La morte in croce segna un’umiliazione senza limiti di Gesù, Figlio di Dio, il suo svuotamento. Ma di qui passa anche la sua glorificazione, perché Dio « lo esaltò e gli donò un nome che è al di sopra di ogni nome ».
Marco 14,1?15.47. La tensione tra umiliazione e glorificazione si trova anche nel vangelo di Marco. Da una parte il riconoscimento della sua divinità (« Davvero quest’uomo era Figlio di Dio! », dice il centurione), e l’avverarsi della sua profezia: « Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere » (Gv 2,19): il velo infatti si squarcia, a indicare la tragicità del momento e la fine di un’epoca. C’è poi il racconto dell’umanità ferita di Gesù e la sua profonda umiliazione.
Riflettere…
o Impressiona il fatto che nel vangelo di Marco, scritto circa tre decenni dopo la morte di Gesù, il racconto della passione e morte occupi un quinto dell’intero vangelo.
o Sicuramente in lui, come negli altri evangelisti, le vicende della passione sono rimaste ben impresse. Non solo perché erano i fatti più recenti della vicenda storica di Gesù, ma anche per la loro drammaticità.
o La narrazione di Marco sembra la più aderente ai fatti. Qualcuno dice che si tratta di un vero e proprio reportage della predicazione di Pietro. Come si sa, Marco, stretto collaboratore di Pietro, scrisse il suo vangelo mettendo insieme i ricordi dell’apostolo.
o Solo Marco presenta la croce come vero scandalo per i discepoli e parla della loro totale incomprensione di fronte al destino del loro maestro. Sin dal monte degli Ulivi, la condotta dei discepoli è descritta in termini negativi. Mentre Gesù prega, s’addormentano tre volte. Giuda lo tradisce e Pietro impreca e nega di conoscerlo.
o In particolare Marco parla del rinnegamento di Pietro, collegandolo in qualche modo con il tradimento di Giuda. È uno sguardo di Gesù a far scoppiare in lacrime Pietro, mentre con Giuda fa molto di più: lo bacia. Pietro si pente, Giuda invece va a impiccarsi.
o Marco descrive le ore strazianti della derisione, della flagellazione e dell’agonia di Gesù. Si manifesta fino infondo la crudeltà dei soldati romani, che sfogano su Gesù tutta la loro violenza, le frustrazioni del loro mestiere.
o Il popolo lo accusa di aver parlato come un grande liberatore, e gli ricorda che è incapace di liberare se stesso. Sacerdoti e scribi fanno dell’ironia e lo sfidano, dicendosi disponibili a credere in lui, se dimostra la sua potenza e compie il miracolo di scendere dalla croce.
o La gente appare crudelmente curiosa; i due poteri, religioso e civile, si regolano con cinismo. Pilato se ne lava le mani dopo averlo dichiarato innocente, gli stessi malfattori che sono crocifissi con lui lo insultano.
o Gesù pende dalla croce per sei ore, le prime tre passano tra gli insulti e gli scherni, quelle che seguono la crocifissione sotto una fitta coperta di tenebre. Prima di morire Gesù sente ? e sarà la sofferenza più grande ? l’abbandono del Padre: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? », grida, citando il salmo 22.
o Ma quando Gesù infine muore, Dio interviene per confermare il proprio Figlio. Secondo il sinedrio, Gesù ha minacciato di distruggere il tempio e ha dichiarato di essere il Figlio messianico del Dio benedetto. Alla sua morte, il velo del tempio si squarcia e un centurione romano esclama: « Davvero quest’uomo era Figlio di Dio! ».
* Curiosamente
Attualizzare
* La domenica comincia anche per noi con un momento di festa attorno a Gesù, in cui anche noi agitiamo i nostri rami di ulivo per dichiarare la nostra fede in lui, la gioia nel momento in cui Gesù prende possesso di Gerusalemme, la sua città, e viene proclamato festosamente re.
* Ma come una doccia fredda, ecco il racconto della passione e morte di Gesù. Questa è l’unica domenica in cui si legge per intero questo lungo brano del vangelo, quest’anno B nel racconto dell’evangelista Marco.
* Abbiamo sentito il racconto e siamo stati coinvolti in questa esperienza sconvolgente. Non lasciamoci prendere dall’abitudine, permettiamo al dramma di Gesù di colpirci in profondità.
* Siamo chiamati oggi, iniziando questa « settimana santa », a riflettere meglio sulle sulla vita, sulle scelte, sulle parole di Gesù. Ad assumere anche noi una posizione nei suoi confronti. Giuda, Pietro, gli apostoli, la folla curiosa e indifferente, il cinismo di Pilato e dei capi religiosi. Ai piedi della croce ci sono anche alcune donne coraggiose e irriducibili venute dalla Galilea. C’è Giuseppe di Arimatea, un discepolo che solo adesso esce allo scoperto. Tra costoro chi ci rappresenta meglio?
* La passione e la morte sono rivelazione di Gesù. Rivelazione e conferma del suo amore per noi e delle sue scelte di vita. Gesù non si ribella, non scende dalla croce, non usa per sé la forza misteriosa che gli ha fatto compiere tanti miracoli e che ha richiamato in vita Lazzaro e altri.
* Proprio nel momento della croce Gesù si dichiara messia e Figlio di Dio: « Io lo sono », dice al sommo sacerdote che glielo domanda, « E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo ».
* Gesù, in catene, deriso e coperto di piaghe, si dichiara re. A Pilato che gli chiede: « Tu sei il re dei Giudei? », risponde: « Tu lo dici ». E ironicamente questa è la motivazione della condanna che viene fissata sul legno della croce.
* Nel vangelo di Giovanni Gesù dichiara la sua autorità anche di fronte al potente: « Tu non avresti alcun potere su di me », dice a Pilato, « se ciò non ti fosse dato dall’alto » (19,11).
* Ogni volta che ascoltiamo il racconto della passione e morte, dovremmo sentire come sottofondo queste affermazioni che Gesù rilascia anche nel momento della prova più grande. Essi hanno il sapore della risurrezione, di cui faremo memoria al termine di questa settimana di passione.
* Di fronte alla grandezza di Gesù, che si manifesta anche nel momento della prova, dovremmo ritrovare una fede nuova che ci faccia capire il significato della croce per Gesù e per noi. L’amore conosce solo questa strada per manifestarsi fino in fondo. Mentre è l’indifferenza che uccide.
* Gesù si è collocato per sempre acconto a chi vive per amore, a chi lotta per amore, a chi paga di persona per costruire qualcosa di nuovo nell’umanità. L’amore è condivisione, è responsabilità, è aprire gli occhi di fronte a chi ha bisogno di noi, è fedeltà ai progetti di Dio sul mondo.
Davanti a tutti, in un giorno di festa
« Il Signore ha voluto che la risurrezione avesse luogo all’insaputa di tutti e in segreto. Lasciava ai secoli successivi di provarla. Ma la croce no, essa fu in mezzo alla città, in piena festa, fra il popolo dei giudei, quando erano in seduta due tribunali, quello dei romani e dei giudei, quando la festa riuniva tutti, nel mezzogiorno: davanti alla terra riunita, egli subì il supplizio… » (Giovanni Crisostomo).
Fonte autorizzata in: Umberto DE VANNA
PAPA FRANCESCO – 14. LITURGIA EUCARISTICA. IV. LA COMUNIONE
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 21 marzo 2018
La Santa Messa – 14. Liturgia eucaristica. IV. La Comunione
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
E oggi è il primo giorno di primavera: buona primavera! Ma cosa succede in primavera? Fioriscono le piante, fioriscono gli alberi. Io vi farò qualche domanda. Un albero o una pianta ammalati, fioriscono bene, se sono malati?. No! Un albero, una pianta che non sono annaffiati dalla pioggia o artificialmente, possono fiorire bene? No. E un albero e una pianta che ha tolto le radici o che non ha radici, può fiorire? No. Ma, senza radici si può fiorire? No! E questo è un messaggio: la vita cristiana dev’essere una vita che deve fiorire nelle opere di carità, nel fare il bene. Ma se tu non hai delle radici, non potrai fiorire, e la radice chi è? Gesù! Se tu non sei con Gesù, lì, in radice, non fiorirai. Se tu non annaffi la tua vita con la preghiera e i sacramenti, voi avrete fiori cristiani? No! Perché la preghiera e i sacramenti annaffiano le radici e la nostra vita fiorisce. Vi auguro che questa primavera sia per voi una primavera fiorita, come sarà la Pasqua fiorita. Fiorita di buone opere, di virtù, di fare il bene agli altri Ricordate questo, questo è un versetto molto bello della mia Patria: “Quello che l’albero ha di fiorito, viene da quello che ha di sotterrato”. Mai tagliare le radici con Gesù.
E continuiamo adesso con la catechesi sulla Santa Messa. La celebrazione della Messa, di cui stiamo percorrendo i vari momenti, è ordinata alla Comunione, cioè a unirci con Gesù. La comunione sacramentale: non la comunione spirituale, che tu puoi farla a casa tua dicendo: “Gesù, io vorrei riceverti spiritualmente”. No, la comunione sacramentale, con il corpo e il sangue di Cristo. Celebriamo l’Eucaristia per nutrirci di Cristo, che ci dona sé stesso sia nella Parola sia nel Sacramento dell’altare, per conformarci a Lui. Lo dice il Signore stesso: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (Gv 6,56). Infatti, il gesto di Gesù che diede ai discepoli il suo Corpo e Sangue nell’ultima Cena, continua ancora oggi attraverso il ministero del sacerdote e del diacono, ministri ordinari della distribuzione ai fratelli del Pane della vita e del Calice della salvezza.
Nella Messa, dopo aver spezzato il Pane consacrato, cioè il corpo di Gesù, il sacerdote lo mostra ai fedeli, invitandoli a partecipare al convito eucaristico. Conosciamo le parole che risuonano dal santo altare: «Beati gli invitati alla Cena del Signore: ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo». Ispirato a un passo dell’Apocalisse – «beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello» (Ap 19,9): dice “nozze” perché Gesù è lo sposo della Chiesa – questo invito ci chiama a sperimentare l’intima unione con Cristo, fonte di gioia e di santità. E’ un invito che rallegra e insieme spinge a un esame di coscienza illuminato dalla fede. Se da una parte, infatti, vediamo la distanza che ci separa dalla santità di Cristo, dall’altra crediamo che il suo Sangue viene «sparso per la remissione dei peccati». Tutti noi siamo stati perdonati nel battesimo, e tutti noi siamo perdonati o saremo perdonati ogni volta che ci accostiamo al sacramento della penitenza. E non dimenticate: Gesù perdona sempre. Gesù non si stanca di perdonare. Siamo noi a stancarci di chiedere perdono. Proprio pensando al valore salvifico di questo Sangue, sant’Ambrogio esclama: «Io che pecco sempre, devo sempre disporre della medicina» (De sacramentis, 4, 28: PL 16, 446A). In questa fede, anche noi volgiamo lo sguardo all’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo e lo invochiamo: «O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato». Questo lo diciamo in ogni Messa.
Se siamo noi a muoverci in processione per fare la Comunione, noi andiamo verso l’altare in processione a fare la comunione, in realtà è Cristo che ci viene incontro per assimilarci a sé. C’è un incontro con Gesù! Nutrirsi dell’Eucaristia significa lasciarsi mutare in quanto riceviamo. Ci aiuta sant’Agostino a comprenderlo, quando racconta della luce ricevuta nel sentirsi dire da Cristo: «Io sono il cibo dei grandi. Cresci, e mi mangerai. E non sarai tu a trasformarmi in te, come il cibo della tua carne; ma tu verrai trasformato in me» (Confessioni VII, 10, 16: PL 32, 742). Ogni volta che noi facciamo la comunione, assomigliamo di più a Gesù, ci trasformiamo di più in Gesù. Come il pane e il vino sono convertiti nel Corpo e Sangue del Signore, così quanti li ricevono con fede sono trasformati in Eucaristia vivente. Al sacerdote che, distribuendo l’Eucaristia, ti dice: «Il Corpo di Cristo», tu rispondi: «Amen», ossia riconosci la grazia e l’impegno che comporta diventare Corpo di Cristo. Perché quando tu ricevi l’Eucaristia diventi corpo di Cristo. E’ bello, questo; è molto bello. Mentre ci unisce a Cristo, strappandoci dai nostri egoismi, la Comunione ci apre ed unisce a tutti coloro che sono una sola cosa in Lui. Ecco il prodigio della Comunione: diventiamo ciò che riceviamo!
La Chiesa desidera vivamente che anche i fedeli ricevano il Corpo del Signore con ostie consacrate nella stessa Messa; e il segno del banchetto eucaristico si esprime con maggior pienezza se la santa Comunione viene fatta sotto le due specie, pur sapendo che la dottrina cattolica insegna che sotto una sola specie si riceve il Cristo tutto intero (cfr Ordinamento Generale del Messale Romano, 85; 281-282). Secondo la prassi ecclesiale, il fedele si accosta normalmente all’Eucaristia in forma processionale, come abbiamo detto, e si comunica in piedi con devozione, oppure in ginocchio, come stabilito dalla Conferenza Episcopale, ricevendo il sacramento in bocca o, dove è permesso, sulla mano, come preferisce (cfr OGMR, 160-161). Dopo la Comunione, a custodire in cuore il dono ricevuto ci aiuta il silenzio, la preghiera silenziosa. Allungare un po’ quel momento di silenzio, parlando con Gesù nel cuore ci aiuta tanto, come pure cantare un salmo o un inno di lode (cfr OGMR, 88) che ci aiuti a essere con il Signore.
La Liturgia eucaristica è conclusa dall’orazione dopo la Comunione. In essa, a nome di tutti, il sacerdote si rivolge a Dio per ringraziarlo di averci resi suoi commensali e chiedere che quanto ricevuto trasformi la nostra vita. L’Eucaristia ci fa forti per dare frutti di buone opere per vivere come cristiani. E’ significativa l’orazione di oggi, in cui chiediamo al Signore che «la partecipazione al suo sacramento sia per noi medicina di salvezza, ci guarisca dal male e ci confermi nella sua amicizia» (Messale Romano, Mercoledì della V settimana di Quaresima). Accostiamoci all’Eucaristia: ricevere Gesù che ci trasforma in Lui, ci fa più forti. E’ tanto buono e tanto grande il Signore!
http://www.suffragio.it/teologia/storia_della_Pasqua.html
LA STORIA DELLA PASQUA
La festa di Pasqua ha una storia molto lunga. Noi la celebriamo come festa cristiana ma, in realtà, la Pasqua esisteva già da molto tempo come festa ebraica, prima che nascesse il cristianesimo. Non solo: a quanto pare la festa di Pasqua si celebrava già prima ancora che il popolo ebraico esistesse come tale, con una sua precisa identità storica: è davvero il caso di dire che le origini della festa di Pasqua «si perdono nella notte dei tempi».
Gli studiosi dicono che ancor prima dell’epoca di Mosè (siamo attorno al sec. XIII a.C.) una festa chiamata «Pesach» veniva celebrata dai pastori nomadi semiti nella notte del plenilunio di primavera, immediatamente prima della partenza verso i pascoli estivi. Il significato preciso del nome rimane oscuro (forse in origine indicava una sorta di danza rituale), ma è da esso che deriva direttamente il nome «Pasqua» che noi usiamo ancor oggi.
Al tramonto del sole si «immolava» – cioè si uccideva nel corso di un rito sacrificale – un agnello o un capretto, il cui sangue veniva asperso sull’ingresso della tenda come segno di protezione e di difesa contro ogni influsso malefico, mentre la carne veniva mangiata in un banchetto cultuale che contribuiva a rinsaldare i vincoli familiari e tribali.
Secondo le antichissime tradizioni che sono state tramandate dalla Bibbia, il grande evento dell’Esodo degli Ebrei dall’Egitto avvenne precisamente nella ricorrenza di questa festa primaverile. Così nell’ambito del popolo ebraico la festa di Pesach cambiò significato, pur conservando il nome, la data e anche i gesti rituali ereditati dalla tradizione precedente.
Il nome fu interpretato nel senso di «passaggio», applicato sia a Dio (Jahvè), che mentre «passava per il paese d’Egitto» colpendo i primogeniti, «passò oltre» le case degli Israeliti, contrassegnate dal sangue degli agnelli (cfEs 12,12- 13.23.27), sia agli Israeliti, che passarono dalla schiavitù alla libertà nell’uscita dall’Egitto (cfEs 13,3-8).
Il rito tradizionale della festa di Pesach l’agnello immolato la sera del giorno 14 del primo mese di primavera, il sangue asperso «sui due stipiti e sull’architrave delle case», l’agnello consumato insieme – diventò per il popolo d’Israele il memoriale della «Pasqua del Signore»: un rito celebrato «di generazione in generazione» per ricordare e rivivere nel suo valore di perenne attualità l’esperienza della propria liberazione per opera di Jahvè (cf Es 12,1-14).
Quando poi gli Israeliti si furono insediati in Palestina, un po’ per volta la festa di Pasqua finì con l’assorbire anche un’altra antica festa preesistente, quella degli Azzimi. In origine si trattava di una festa di carattere agricolo che celebrava l’inizio del raccolto dell’orzo: con le primizie di tale raccolto si preparava del pane non lievitato (= àzzimo) che veniva mangiato per una settimana. Nella tradizione d’Israele, anche la festa degli Azzimi, unita a quella di Pasqua, fu collegata alla memoria dell’Esodo: «Per sette giorni mangerai gli azzimi, pane di afflizione, perché sei uscito in fretta dal paese d’Egitto…» (Dt 16,3).
Nella tradizione religiosa ebraica, la festa di Pasqua divenne sempre più importante. La notte di Pasqua fu interpretata come una specie di sintesi di tutta la storia – passata, presente e futura – come luogo in cui Dio «si manifesta» con la sua azione nel mondo.
La «notte della Pasqua per il nome di Jahvè» è la notte «fissata e riservata per la salvezza di tutte le generazioni d’Israele», come dice il Poema delle Quattro Notti: «La prima notte fu quella in cui Jahvè si manifestò sul mondo per crearlo… La seconda notte fu quando Jahvè si manifestò ad Abramo all’età di cento anni e a Sarà sua moglie… La terza notte fu quando Jahvè ‘si manifestò contro gli Egiziani nel mezzo della notte… La quarta notte sarà quando il mondo, giunto alla sua fine, sarà dissolto…». A questa «quarta notte» – soprattutto negli ultimi secoli prima di Cristo – una convinzione assai diffusa ai tempi di Gesù collegava l’attesa della «venuta» e della manifestazione del Messia.
Gesù fu crocifisso a Gerusalemme in coincidenza con la festa di Pasqua: con molta probabilità, la vigilia di Pasqua dell’anno 30, il giorno stesso in cui venivano immolati al tempio gli agnelli per la cena pasquale (cf Gv 18,28; 19,31). Si trattava di un venerdì, poiché quell’anno Pasqua cadeva di sabato. Il giorno dopo il sabato le donne che lo avevano seguito dalla Galilea (cfMc 15,40-41) andando al sepolcro per imbalsamare il suo corpo trovarono la tomba vuota e si sentirono dire: «Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui» (cf Me 16,1-8).
Verso la metà degli anni 50, scrivendo ai cristiani di Corinto per esortarli a «togliere via» di mezzo a loro il «lievito vecchio» del peccato, san Paolo ricorda loro: «Infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!» (1 Cor 5,7: «immolare la Pasqua» era un’espressione corrente per parlare del sacrificio dell’agnello pasquale). E la’ prima volta che la parola «Pasqua» viene usata in senso esplicitamente cristiano: riferita a Gesù stesso, considerato come il vero agnello pasquale che è stato «immolato» sulla croce.
Gli apostoli e i primi cristiani hanno riconosciuto nell’avvenimento della morte/risurrezione di Gesù l’evento decisivo per la liberazione di tutti gli uomini dal potere del male e della morte, così come la tradizione ebraica riconosceva (e tuttora riconosce) nei fatti dell’Esodo l’evento-segno della «salvezza» quale opera di Dio per il suo popolo. I cristiani hanno visto nella vicenda di Gesù il compimento delle Scritture. Così l’avvenimento della morte/risurrezione di Gesù fu considerato come la vera Pasqua, quella definitiva: l’evento in cui l’amore misericordioso di Dio si è manifestato in tutta la sua grandezza per la salvezza di tutta l’umanità.
San Paolo e il Vangelo di Giovanni hanno re-interpretato il senso della festa ebraica di Pasqua soprattutto partendo dall’avvenimento della morte di Gesù in croce: Gesù stesso è il vero «agnello» pasquale, che con il sacrifìcio di se stesso ha «tolto via il peccato del mondo» (Gv 1,29).
I Vangeli di Matteo, Marco e Luca hanno invece sottolineato il passaggio dalla Pasqua antica a quella nuova attraverso il rito della cena pasquale (allora si diceva correntemente «mangiare la Pasqua»: cfMc 14,12) che diventa V Eucaristia cristiana: «Fate questo in memoria di me» (Le 22,19). Ormai ogni Eucaristia sarà per i cristiani celebrazione del «mistero pasquale» di Cristo, soprattutto ogni Eucaristia domenicale; finché si celebrerà in modo esplicito anche la memoria annuale della morte/risurrezione di Gesù (con certezza, almeno dal sec. II). Così Pasqua è diventata festa cristiana.
La Pasqua cristiana
Già più volte, nel corso di queste nostre riflessioni sulla liturgia, abbiamo fatto esplicito riferimento alla morte- e-risurrezione di Gesù. Non c’è da stupirsi se questo rimando ritorna spesso nel nostro discorso; perché è proprio questo evento che sta al centro del Credo e alla base di tutta la fede cristiana. È di questo evento che «si fa memoria» ogni volta che si celebra l’Eucaristia (cf la Preghiera eucarìstica II: «Celebrando il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio…»). Ed è la risurrezione di Gesù da morte che viene ricordata per così dire «ufficialmente» ogni domenica.
Già abbiamo visto come il fatto della crocifissione/risurrezione di Gesù venga presentato nel NT come «l’adempimento», la piena realizzazione del significato dell’antica festa di Pasqua: è Gesù il vero «agnello pasquale»; è la sua morte, quale dono totale di sé nell’amore, il vero sacrificio della «nuova ed eterna alleanza»; è il suo sangue versato in croce la vera fonte della «remissione dei peccati».
Per questo i cristiani hanno chiamato a loro volta «Pasqua del Signore» il fatto della morte/risurrezione di Cristo, riconosciuto come il grande «segno» della grazia e della misericordia di Dio a favore di tutti gli uomini. È in questo evento che Dio si è manifestato come il Padre, che ha tanto amato il mondo da «dare» il suo Figlio (cf Gv 3,16), grazie al quale viene effuso sugli uomini il dono dello Spirito Santo. Ed è precisamente il «mistero pasquale» che sta alla base di tutti i sacramenti e che, in modi diversi, viene «celebrato» in ciascuno di essi.
Non sappiamo esattamente in che modo sia nata la celebrazione annuale della Pasqua come festa cristiana. Forse nelle prime comunità di origine ebraica «la Pasqua» è stata sempre celebrata, prendendo gradualmente un carattere specificamente cristiano pur sulla base della precedente tradizione rituale e religiosa ebraica.
Di fatto le notizie più antiche che noi abbiamo a proposito di una celebrazione annuale della Pasqua come festa cristiana risalgono al secolo II, provenienti dall’Asia Minore (attuale Turchia). I cristiani di queste regioni celebrano la «commemorazione della morte» di Cristo in coincidenza con la Pasqua ebraica, con una veglia notturna che ha inizio la sera del «14 di Nisan» (il primo mese del calendario ebraico, tra marzo e aprile) e si prolunga dopo la mezzanotte con la celebrazione dell’Eucaristia, fino «al canto del gallo» all’alba del giorno seguente.
Si sa con certezza che verso la fine del sec. II la festa di Pasqua veniva celebrata anche a Roma, a Gerusalemme, ad Alessandria d’Egitto e altrove. In tutte queste Chiese, però, la veglia notturna aveva luogo non la sera del «14 di Nisan» (qualunque giorno della settimana capitasse), bensì la sera del sabato seguente, in modo da concludere la veglia con la celebrazione dell’Eucaristia sempre sul mattino della domenica. Questo uso forse era già seguito a Roma fin dai tempi di papa Sisto (verso il 120), ma non sappiamo esattamente come e quando sia stato introdotto.
Di fatto, come riferisce Eusebio di Cesarea nella sua Storia ecclesiastica, ci furono forti discussioni – ai limiti della rottura – tra coloro che celebravano la Pasqua il «giorno 14» (furono chiamati i «Quartodecimani») e coloro che ritenevano invece di dover legare la celebrazione annuale della Pasqua al giorno di domenica.
Ma fu quest’ultima la pratica che finì col prevalere dovunque fin dal sec. IIIi: quasi a sottolineare che con la festa di Pasqua si fa memoria ogni anno di ciò che nella Chiesa si celebra ogni domenica.
Da allora in poi tutti i cristiani celebrano la festa di Pasqua la domenica che segue il primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera (salvo difficoltà a mettersi d’accordo sull’organizzazione uniforme del calendario generale, per cui ancor oggi, purtroppo, succede che le diverse Chiese d’Oriente e d’Occidente non celebrano tutte la Pasqua lo stesso giorno).
Nella concezione cristiana antica, però, la celebrazione della Pasqua non si identifica con la «domenica di Pasqua». Pasqua non è solo la festa della risurrezione di Gesù; è celebrazione globale e unitaria della passione-e-risurrezione di Gesù. Detta celebrazione iniziava nell’antichità con uno o due giorni di digiuno (ora diremmo: il venerdì e sabato santo), aveva il suo momento centrale nella veglia notturna (la «veglia pasquale») e si prolungava, in certo modo, per cinquanta giorni, fino a quella che noi ora chiamiamo la domenica di Pentecoste.
La veglia pasquale si articolò via via in tre grandi momenti:
Anzitutto un’ampia «liturgia della Parola»: attraverso varie letture bibliche, intercalate dal canto di salmi e da preghiere, si fa memoria di tutta la «storia della salvezza» (dalla creazione ad Abramo, a Mosè, ai profeti) che trova il suo «momento vertice» in Gesù crocifisso/risorto.
In secondo luogo il Battesimo, il sacramento attraverso cui «si muore e si risorge con Cristo» (come insegna san Paolo in Rm 6,1-11).
Infine l’Eucaristia, «il sacramento» per eccellenza, con cui si celebra il memoriale di Cristo, «morto per la nostra salvezza, gloriosamente risorto e asceso al cielo», offrendo a Dio Padre il suo sacrifìcio e «comunicando al santo mistero del suo Corpo e del suo Sangue» per essere riuniti dallo Spirito Santo in un solo corpo, nell’attesa della sua venuta nella gloria.
A partire dal «centro» originario della veglia notturna, la celebrazione cristiana della Pasqua a poco a poco si dilatò nelle due direzioni del tempo precedente e seguente. Nella prima dirczione dapprima si formò l’idea del
«Triduo pasquale», quello che sant’Agostino chiamava «il sacratissimo triduo del crocifisso, sepolto, risorto» (noi oggi diremmo: venerdì santo, sabato santo, domenica di Pasqua); poi si parlò della «settimana santa» (dalla
«domenica delle Palme» alla domenica di Pasqua); e nel frattempo si veniva organizzando tutto il tempo quaresimale.
Nella seconda direzione, come già abbiamo accennato, si considerò come una sorta di «festa prolungata» tutto il tempo dei cinquanta giorni che seguono la domenica di Pasqua (è tutto questo periodo che anticamente veniva chiamato «Pentecoste»), quasi a voler significare che Pasqua è una festa senza fine, perché ormai la vittoria di Cristo sul male e sulla morte è una realtà definitiva, che nulla e nessuno potrà più contraddire, malgrado il permanere del peccato, della sofferenza e della morte sulla faccia della terra finché dura il mondo presente.
Dentro questo tempo dei cinquanta giorni, seguendo alla lettera la cronologia dei fatti come viene esposta da san Luca nel libro degli Atti, emergeranno un po’ alla volta, lungo il sec. IV, le due feste specifiche dell’Ascensione e della Pentecoste come le conosciamo oggi.
La settimana santa
Nella nostra società i ritmi di vita comuni sono scanditi essenzialmente in base a fattori concernenti l’attività lavorativa:
giorni di lavoro e giorni di festa, tempo di lavoro e tempo di ferie, orari di lavoro e «tempo libero».
Anche la festa di Pasqua si inscrive in questi ritmi. A Pasqua il calendario prevede non solo il normale week-end di sabato e domenica, ma anche il lunedì come «giorno di festa», cioè come giornata non-lavorativa. In più, c’è la variante delle vacanze scolastiche: dal giovedì santo al martedì dopo Pasqua. Naturalmente poi ognuno si gestisce queste giornate secondo i propri gusti o le proprie possibilità (di età, di famiglia, di salute, di soldi e così via).
Diversi elementi del nostro calendario hanno un’origine religiosa e più specificamente cristiana: così è, per esempio, per la domenica; così è anche per la festa di Pasqua. In altri tempi l’aspetto religioso incideva fortemente sui comportamenti sociali legati a queste ricorrenze. Oggi tale aspetto rimane sì testimoniato dal nome e dai riti religiosi che caratterizzano determinati giorni, ma spesso non appare più come fattore primario nel delineare la concreta immagine sociale di queste giornate. Così, mentre il «week-end di Pasqua» costituisce un punto di riferimento per tutti, per via della sospensione dell’attività lavorativa, la «settimana santa» rischia invece di apparire come una nozione residua, venuta dal passato, legata a un insieme di tradizioni religiose e popolari in qualche misura persistenti, ma come in secondo piano, «al di sotto» dei moderni ritmi di vita e di attività.
«Settimana santa»: è un’espressione che va oltre una pura e semplice indicazione di calendario. Parlare di settimana santa, in realtà è come fare una professione di fede. E stata chiamata così perché in questi giorni ricorre l’anniversario storico della crocifissione e della risurrezione di Gesù: fatto avvenuto a Gerusalemme, al tempo dell’imperatore Tiberio e del governatore Ponzio Filato.
Ma la settimana santa… è una settimana di otto giorni: va dalla domenica di passione (la «domenica delle palme») alla domenica di risurrezione («domenica di Pasqua»). Poiché la memoria della passione di Cristo – a cui fa riferimento la maggior parte delle tradizioni popolari relative alla settimana santa e su cui più spontaneamente tende a fermarsi l’attenzione della gente – in realtà non avrebbe molto significato senza la risurrezione. Se Gesù non fosse risorto da morte, tutto sommato anche la sua passione sarebbe soltanto l’amara storia di uno dei tanti
«poveri cristi» di cui è piena la storia dell’umanità.
Questa settimana viene chiamata «santa» perché ricorda i giorni in cui è avvenuta la cosa più «grande» e paradossale che mai sia successa al mondo: che cioè il Figlio di Dio (il «Verbo fatto carne») sia stato crocifisso dagli uomini; e che un figlio d’uomo (Gesù di Nazaret, «nato da donna», il figlio di Maria) sia stato risuscitato da morte. Poiché Gesù era veramente l’una e l’altra cosa insieme.
Certo: sul Calvario era difficile riconoscere un’identità «divina» in quel poveraccio che stava per morire crocifisso (cf Mt 27,40: «Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!»); ed è pur vero che nessuno ha visto Gesù risorgere da morte. La «grandezza» nascosta nel fatto della crocifissione di Gesù e la «realtà» della sua risurrezione non sono cose evidenti per nessuno. Come non è mai «evidente» – al modo delle realtà terrene – la presenza e l’azione di Dio nella storia umana. Senza disponibilità alla riflessione, senza ricerca di preghiera, senza la «fatica» della fede, si rischia di non accorgersi di ciò che avviene in realtà, o di come stanno davvero le cose quando si tratta di Dio.
La settimana santa si chiama così perché è precisamente negli avvenimenti che si ricordano in questi giorni che si è manifestata tutta la santità di Dio: la sua grandezza piena di misericordia e di amore per gli uomini, la sua potenza più forte del male e della morte. E si chiama così, perché è negli avvenimenti che ricordiamo in questi giorni che sta la fonte della nostra santificazione, per la grazia di Cristo e il dono del suo Spirito.
Ai nostri giorni gli impegni abituali di lavoro e di rapporti sociali non si interrompono e non subiscono variazioni considerevoli per via della settimana santa: anche in queste giornate i ritmi di vita di ciascuno e le vicende del mondo continuano a svolgersi più o meno come al solito. Ma c’è modo e modo di organizzare il proprio tempo e le proprie giornate, pur con tutti i condizionamenti che ci vengono dai ritmi comuni della vita di oggi.
Da cristiani, facciamo in modo che per noi la settimana santa non sia solo una questione di calendario o di tradizioni. Sono giorni in cui tutti quanti, come cristiani, siamo chiamati a riflettere con un po’ di attenzione sul significato della nostra fede. Sono giorni in cui, pur in mezzo alle normali occupazioni e preoccupazioni quotidiane, tutti quanti siamo chiamati a trovare un po’ di tempo da dedicare alla preghiera. Sono giorni da vivere insieme, come credenti, nella comune partecipazione alle celebrazioni liturgiche.
Proviamo a confrontarci seriamente, con un po’ di coraggio e di realismo, con il dramma della passione di Cristo (domenica delle palme, venerdì santo). Senza fermarci al livello di una facile emotività in merito, ma lasciandoci «giudicare» dal racconto della passione; poiché in qualche modo ne siamo tutti protagonisti, e non dobbiamo avere paura di riconoscere qualcosa di noi stessi nei suoi personaggi.
Proviamo a ritrovare un po’ di «stupore» di fronte al sacramento dell’Eucaristia (giovedì santo), per scuoterci di dosso il terribile virus dell’assuefazione che rischia di rendere banali e insignificanti anche le cose più grandi. Riscopriamo come davvero si realizzino per ciascuno di noi – ogni volta che andiamo a Messa e facciamo la comunione – le parole di san Paolo: Cristo «mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gai 2,20).
Proviamo a «immergerci» pienamente, con fede semplice e profonda, in quella visione del mondo, della storia e della nostra esistenza che ci viene presentata nella veglia pasquale: il mondo esiste perché è stato creato da Dio («In principio Dio creò il cielo e la terra…»); Dio non è lontano dalla vita degli uomini sulla terra (Abramo, Mosè, i profeti); davvero Gesù crocifìsso è risorto da morte (Vangelo): egli è il punto di incontro tra Dio e l’umanità, la garanzia della nostra speranza, la «luce» e la «via» da seguire, per trovare pienezza di senso all’esistenza e gioia di vivere pur in mezzo ai molti mali del mondo.
PAPA FRANCESCO (19 MARZO 2014) SAN GIUSEPPE EDUCATORE
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 19 marzo 2014
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi, 19 marzo, celebriamo la festa solenne di san Giuseppe, Sposo di Maria e Patrono della Chiesa universale. Dedichiamo dunque questa catechesi a lui, che merita tutta la nostra riconoscenza e la nostra devozione per come ha saputo custodire la Vergine Santa e il Figlio Gesù. L’essere custode è la caratteristica di Giuseppe: è la sua grande missione, essere custode.
Oggi vorrei riprendere il tema della custodia secondo una prospettiva particolare: la prospettiva educativa. Guardiamo a Giuseppe come il modello dell’educatore, che custodisce e accompagna Gesù nel suo cammino di crescita «in sapienza, età e grazia», come dice il Vangelo. Lui non era il padre di Gesù: il padre di Gesù era Dio, ma lui faceva da papà a Gesù, faceva da padre a Gesù per farlo crescere. E come lo ha fatto crescere? In sapienza, età e grazia.
Partiamo dall’età, che è la dimensione più naturale, la crescita fisica e psicologica. Giuseppe, insieme con Maria, si è preso cura di Gesù anzitutto da questo punto di vista, cioè lo ha “allevato”, preoccupandosi che non gli mancasse il necessario per un sano sviluppo. Non dimentichiamo che la custodia premurosa della vita del Bambino ha comportato anche la fuga in Egitto, la dura esperienza di vivere come rifugiati – Giuseppe è stato un rifugiato, con Maria e Gesù – per scampare alla minaccia di Erode. Poi, una volta tornati in patria e stabilitisi a Nazareth, c’è tutto il lungo periodo della vita di Gesù nella sua famiglia. In quegli anni Giuseppe insegnò a Gesù anche il suo lavoro, e Gesù ha imparato a fare il falegname con suo padre Giuseppe. Così Giuseppe ha allevato Gesù.
Passiamo alla seconda dimensione dell’educazione, quella della «sapienza». Giuseppe è stato per Gesù esempio e maestro di questa sapienza, che si nutre della Parola di Dio. Possiamo pensare a come Giuseppe ha educato il piccolo Gesù ad ascoltare le Sacre Scritture, soprattutto accompagnandolo di sabato nella sinagoga di Nazareth. E Giuseppe lo accompagnava perché Gesù ascoltasse la Parola di Dio nella sinagoga.
E infine, la dimensione della «grazia». Dice sempre San Luca riferendosi a Gesù: «La grazia di Dio era su di lui» (2,40). Qui certamente la parte riservata a San Giuseppe è più limitata rispetto agli ambiti dell’età e della sapienza. Ma sarebbe un grave errore pensare che un padre e una madre non possono fare nulla per educare i figli a crescere nella grazia di Dio. Crescere in età, crescere in sapienza, crescere in grazia: questo è il lavoro che ha fatto Giuseppe con Gesù, farlo crescere in queste tre dimensioni, aiutarlo a crescere.
Cari fratelli e sorelle, la missione di san Giuseppe è certamente unica e irripetibile, perché assolutamente unico è Gesù. E tuttavia, nel suo custodire Gesù, educandolo a crescere in età, sapienza e grazia, egli è modello per ogni educatore, in particolare per ogni padre. San Giuseppe è il modello dell’educatore e del papà, del padre. Affido dunque alla sua protezione tutti i genitori, i sacerdoti – che sono padri –, e coloro che hanno un compito educativo nella Chiesa e nella società. In modo speciale, vorrei salutare oggi, giorno del papà, tutti i genitori, tutti i papà: vi saluto di cuore! Vediamo: ci sono alcuni papà in piazza? Alzate la mano, i papà! Ma quanti papà! Auguri, auguri nel vostro giorno! Chiedo per voi la grazia di essere sempre molto vicini ai vostri figli, lasciandoli crescere, ma vicini, vicini! Loro hanno bisogno di voi, della vostra presenza, della vostra vicinanza, del vostro amore. Siate per loro come san Giuseppe: custodi della loro crescita in età, sapienza e grazia. Custodi del loro cammino; educatori, e camminate con loro. E con questa vicinanza, sarete veri educatori. Grazie per tutto quello che fate per i vostri figli: grazie. A voi tanti auguri, e buona festa del papà a tutti i papà che sono qui, a tutti i papà. Che san Giuseppe vi benedica e vi accompagni. E alcuni di noi hanno perso il papà, se n’è andato, il Signore lo ha chiamato; tanti che sono in piazza non hanno il papà. Possiamo pregare per tutti i papà del mondo, per i papà vivi e anche per quelli defunti e per i nostri, e possiamo farlo insieme, ognuno ricordando il suo papà, se è vivo e se è morto. E preghiamo il grande Papà di tutti noi, il Padre. Un “Padre nostro” per i nostri papà: Padre Nostro…
E tanti auguri ai papà!
http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_moses2.htm
MOSÈ E IL ROVETO ARDENTE – CARD. CARLO MARIA MARTINI
I testi sui quali ci fermeremo in questa meditazione sono: At. 7,30-31 e Es. 3,1-10. Altri testi da tener presenti sono: Es. 6,2-13 e 6,28-7,7, più due accenni neotestamentari: Gv. 11,28; Mt. 9,35-10,1. Suggerisco pure il salmo 18, il salmo dell’iniziativa divina.
Chiediamo al Signore di metterci in umiltà e in verità di fronte alla scena del roveto ardente, anche se non ne tratteggeremo in questa meditazione che qualche aspetto del tutto particolare. Vi propongo di procedere secondo tre punti semplicissimi, di intonazione ignaziana: 1) che cosa fa Mosè? 2) che cosa ascolta Mosè? 3) che cosa intende Mosè?
1. Che cosa fa Mosè?
La meraviglia di Mosè
Teniamo davanti parallelamente At. 7,30.31 e Es. 3, 1-3. La prima cosa che fa Mosè è meravigliarsi. Mosè, stando là nel deserto, mentre pascola il gregge del suocero, vede un po’ lontano un roveto che brucia e gli sembra che continui a bruciare senza consumarsi; nel suo discorso (cfr. At. 7, 31), Stefano così commenta la scena: «Mosè si meravigliò» (o de Moyses idon ethaumasen). Questo mi piace molto: Mosè, che ha 80 anni, è capace di meravigliarsi di qualche cosa, di interessarsi a qualcosa di nuovo. Immaginiamoci quella grande pianura dell’Oreb, a 1700 metri di altitudine, sovrastata da grandi montagne, con terrazze successive di sabbia e di roccia: su una di queste terrazze c’è il nostro roveto. Pensiamo un istante che cosa avrebbe potuto fare Mosè. Avrebbe potuto dire: «C’è del fuoco; è pericoloso per il gregge se il fuoco si allarga; andiamo via, portiamo le pecore lontano ». Oppure avrebbe potuto dire: « C’è qualcosa di soprannaturale; è meglio non farsi prendere in trappola; partiamo e lasciamo che i più giovani, quelli che hanno più entusiasmo, se ne interessino: io ho già avuto le mie esperienze e mi basta ».
Invece «Mosè si meravigliò », cioè si fece prendere da quella capacità, che è propria del bambino, di interessarsi a qualcosa di nuovo, di pensare che c’è ancora del nuovo. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di un particolare aggiunto al racconto. Io vi vedo piuttosto una profonda riflessione psicologica di Stefano, il quale ha intuito che Mosè, essendo stato 40 anni nel deserto, macerato dall’insuccesso e progressivamente purificato in virtù di quella situazione di vigilanza e di attesa su cui già abbiamo meditato, era ormai maturo per una nuova infanzia, maturo per ricevere la novità di Dio. Mosè avrà pensato così: «Io sono un pover’uomo fallito, ma Dio può fare qualcosa di nuovo ».
Dunque Mosè si meravigliò e poi – continua il l1acconto degli Atti – invece di non badarci ed andarsene, proserkomenou de autou… katanoesai, « si avvicinò per vedere », come di solito le versioni traducono. Ma katanoesai dice molto di più che « vedere »; indica infatti il nous, la mente. Quando in Lc. 12, 24 Gesù dice: katanoesate tous korakos, «guardate i corvi», non vuol dire semplicemente «vedete », bensì guardate, considerate, riflettete, cercate di comprendere, ecc. Qui si vede la libertà di spirito raggiunta da Mosè attraverso la purificazione. Se fosse stato un uomo amareggiato e rassegnato, si sarebbe limitato a concludere: «Una cosa strana, ma non mi riguarda ». E invece no: vuol capire, vuol vedere di che si tratta. Ecco un uomo vivo, anche se vecchio.
La curiosità di Mosè
Passiamo adesso al libro dell’Esodo e leggiamo: « Mosè disse tra sé: ‘ Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo, perché il roveto non brucia ‘ » (Es. 3, 3). Il testo greco ha: ti oli?, « come mai? ». Mosè è un uomo che lascia emergere le domande in se stesso; non è più l’uomo che ha già tutto sistemato e catalogato, che ha capito tutto; è un uomo ancora capace di porsi delle domande che esigono un’attenta risposta. Il testo nella traduzione della CEI dice: «Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo ». La versione non mi sembra molto buona. La Bible de Jérusalem, nell’edizione francese, dice: «Je vais faire un détour », che corrisponde meglio al verbo ebraico sur, che significa « fare una diversione, un giro lungo» e che dà l’idea di un’esplicita volontà: voglio rendermi conto. Mi sembra che si possa supporre una situazione di questo tipo: nel deserto vi sono differenti pianori, uno sull’altro, e spesso bisogna fare un lungo giro per salire al pianoro superiore; Mosè si trova in un pianoro più basso con le sue pecore, vede su un pianoro più alto il roveto e dice: «Andrò su, farò il giro, voglio vedere di che si tratta ». Il che significa lasciare il gregge, forse anche in pericolo, salire sotto il sole, ecc.
Nelle parole «voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo », dunque, scorgiamo l’animo di Mosè; è come se Mosè dicesse: «lo sono un pover’uomo, un fallito, però Dio può fare delle cose nuove, ed io voglio interessarmene, voglio capire, voglio comprendere, voglio sapere il perché ». Notate che qui ritorna la grande domanda che Mosè si era fatta per 40 anni: «Ma perché Dio ha permesso quello scacco? Perché, se ama il suo popolo, non si è servito di me per salvarlo? Perché non ha colto l’occasione che io gli davo? ». Questo « perché », che Mosè ha coltivato, raffinato e purificato, ecco che emerge di nuovo di fronte a quella imprevista visione. Ma l’uomo Mosè è andato assumendo ormai le caratteristiche dell’uomo profondo, maturo, purificato e aperto al nuovo.
Partendo dall’episodio di Mosè, si potrebbe riflettere molto sull’atteggiamento dell’uomo di fronte al mistero di Dio. Quest’uomo potrebbe dire: «Non mi interessa ». Ma può anche dire: «Voglio vedere, voglio rendermi conto, voglio sapere »; in questo caso si tratta di quel primo movimento dell’animo umano, di quella volontà incondizionata di conoscere e di capire, che, come si dice giustamente, sta all’origine di tutto ciò che c’è di umano nel mondo. Se nel mondo c’è qualcosa al di là dell’animalesco, al di là del puro mangiare, bere e riprodursi; se c’è qualcosa di umano; se, come dice Paolo nella lettera ai Filippesi, ci sono affetti, rapporti di amicizia e di comprensione (cfr. Filip. 2, 1 s.), tutto nasce da questa semplicissima affermazione: «Voglio capire ». La stessa civiltà umana si costruisce a partire da questo fondamento.
Mosè, quindi, è l’uomo ricondotto alla radice prima della sua umanità e posto davanti al mistero di Dio. In lui si manifesta quell’incondizionato desiderio di sapere, che sta all’origine di tutto ciò che è umano. .Mosè vuol sapere e per questo fa ancora uno sforzo: abbandona la comodità della pianura, in cui siede all’ombra della sua tenda, e comincia la salita faticosa della montagna; lascia anche le pecore, pur di arrivare fin là e sapere. Questo « sapere» in Mosè è qualcosa che gli cuoce dentro, è una passione che non si è addormentata, ma che anzi la purificazione ha reso più semplice, più libera. Mosè non va sulla montagna alla ricerca di un nuovo successo personale; ci va perché vuole sapere come stanno le cose, vuole mettersi di fronte alla verità così com’è.
Osservazioni dalla letteratura rabbinica
Ci sono due testi rabbinici che si potrebbero citare. Il primo è una pagina in cui si parla dell’aggadà pasquale, ossia l’ordine secondo cui si celebra la Pasqua ebraica. Alcuni ragazzi ascoltano il racconto della. notte di Pasqua. Uno di essi ha sonno; un altro invece dice: «Ma che cosa interessa a me questa storia dell’Egitto? » Un altro ancora fa domande e chiede: «Perché celebriamo questa festa e che cosa significa questa festa per noi? » È questo l’atteggiamento di Mosè, che si pone quella domanda fondamentale: ti oti?, « come mai? ».
L’altro testo rabbinico, molto bello, è di Rabbi Akiba, vissuto poco dopo Gesù e morto verso il 135, martirizzato dai Romani (si tratta di una personalità chiave per lo sviluppo del giudaismo dopo Gesù). Do qui una sintesi della sua storia. Rabbi Akiba era poverissimo; per quarant’anni condusse una vita di stenti: poi, a quarant’anni, si trovò una volta di fronte ad una fontana che mandava acqua e vide che la pietra sotto la fontana era scavata; allora chiese: «Chi ha scavato questa pietra? ». Gli risposero: «È l’acqua che cade ogni giorno. Non ricordi le parole di Giob. 14,19, secondo cui le acque scavano anche la pietra? ». Allora Rabbi Akiba pensò: «Se dunque l’acqua che è così tenera scava la pietra che è così dura, non avverrà forse che le parole della Torah, che sono dure come pietra, potranno scavare il mio cuore che è molle di carne? ». Fu così che a quarant’anni incominciò a studiare la Torah. Andò con il figlio da un maestro e lo pregò: «Maestro, insegnami la Torah ». Allora egli prese il lembo di una tavoletta, il figlio ne prese un’altra e il maestro scrisse: Alef, e Rabbi Akiba ripoté: Alef. Poi il maestro scrisse la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto ed egli imparò. E così imparò il Levitico, e poi tutta la Torah. Quando ebbe imparato tutta la Torah, venne di fronte a Rabbi Eliezer e Rabbi Joshuà, e ,disse: «Maestri miei, rivelatemi il senso della Mishna – cioè degli scritti che conservano la tradizione orale di commento alla Torah -»; e i maestri cominciarono a spiegare la Mishna e gli lessero una alakà – cioè un brano con una regola morale che spiegava una parte del Pentateuco -. Quando Rabbi Akiba ebbe ascoltato questa alakà, se ne andò fuori a passeggiare, pensando tra sé: «Questa Alef perché è stata scritta? Questa Bet perché è stata scritta? Questa cosa perché è stata detta? ». Tornò indietro e lo domandò ai suoi maestri, ed essi non seppero rispondere.
Notate come in questa storiella troviamo un parallelo alla scena di Gesù tra i dottori. Gesù probabilmente faceva domande semplicissime e proprio per questo riduceva al silenzio i grandi maestri. Gesù, come poi Rabbi Akiba, aveva il coraggio di porre le domande essenziali, quelle che non si fanno mai, perché sembrano troppo ovvie, ma dalle quali nasce tutto il resto.
2. Che cosa ascolta Mosè?
Ed eccoci al secondo punto della nostra meditazione.
Qui, siccome il testo degli Atti è riassuntivo, passo a Es. 3, 4-6. Dice il testo: «Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: ‘ Mosè, Mosè ‘ ». Mosè ascolta il suo nome. Immaginate lo shock di paura e insieme di stupore di Mosè, quando si sente chiamare nel deserto, in un luogo dove non c’è anima viva. Mosè si accorge che c’è qualcuno che sa il suo nome, qualcuno che si interessa di lui; egli si credeva un reietto, un fallito, un abbandonato: eppure qualcuno grida il suo nome in mezzo ai deserto. Si tratta di un’esperienza violenta, che forse abbiamo fatto anche noi quando trovandoci in un luogo – per esempio una grande città – in cui credevamo di essere del tutto ignorati, d’improvviso ci siamo sentiti chiamare da qualcuno per nome. Ora Mosè si sente .chiamato per nome due volte: «Mosè, Mosè ». Che cosa vuol dire questa doppia chiamata? A me viene in mente questa riflessione. Nella Bibbia è abbastanza raro che una persona sia chiamata due volte. Vi ricordo alcuni casi. Il primo testo in Gen. 22, 1 (« Abramo, Abramo ») riguarda il momento culminante della vita di Abramo, quando questi è chiamato a sacrificare il figlio: è il momento in cui tutto il cammino fatto fino allora dev’essere provato, per vedere se è un cammino sincero; ecco allora la doppia menzione del nome: «Abramo, Abramo ». Un altro passo che vi ricordo è 1 Sam. 3, 10; Samuele viene chiamato nella notte: «Samuele, Samuele ». Anche qui siamo di fronte ad una svolta della storia di Israele: finito il periodo confuso dei Giudici, sta per aprirsi il periodo della monarchia, che comporterà un nuovo avvicinarsi di Dio al suo popolo. Un altro passo è Lc. 22, 31:
« Simone, Simone, ecco che Satana ti ha chiesto per vagliarti come il grano». Anche qui abbiamo a che fare con un momento culminante della vita di Pietro. Ancora un altro passo che mi sembra importante è Lc. 10, 41: «Marta, Marta ». Anche qui, sebbene l’episodio sia in sé assai semplice – un episodio da cucina -, tuttavia esso è per Luca molto importante, perché fa da pendant all’episodio del Samaritano (cfr. Lc. 10, 25-37). Maria rappresenta l’ascolto della parola; Marta invece è la persona che, piena di buona volontà, si dedica alle opere di carità, come il Mosè della prima maniera, e vi si è buttata talmente dentro da stravolgere tutti i significati delle cose. Questo passo è veramente importante in quanto fa vedere come Marta, presa dall’assillo di far bene, di far benissimo, di fare un gran pranzo per Gesù, ad un cerco punto ha rovesciato tutti i ‘valori: mentre Gesù è venuto in casa come Maestro, è Marta che diventa la maestra e vorrebbe insegnare a Gesù ciò che deve dire e ciò che deve fare, rovesciando così completamente il senso del Vangelo. In fondo, questo è lo scacco del Mosè della prima maniera, che credeva di avere lui tutta in mano la situazione e di poter insegnare a Dio come si doveva fare. Mosè non conosceva certo il passo di Marta, né quello di Simone, ma conosceva la tradizione su Abramo, e quindi poteva rendersi conto del significato di quella doppia chiamata.
È Dio che prende l’iniziativa
Mi sembra che i fatti ricordati siano tutti fatti decisivi. Anche Mosè sente che è giunto un momento decisivo per la sua vita: è il momento in cui deve essere veramente disponibile, senza fare gli errori della prima volta; perciò è pieno di paura: «Cosa mi sta per capitare? ». E qui Mosè ascolta qualcosa che forse non si aspettava. Lui che si era lanciato con tanto ardore per vedere il roveto ardente, avrebbe avuto piacere di sentirsi dire: «Grazie che sei venuto, che non ti sei lasciato vincere dall’amarezza »; e invece ascolta quella voce che gli dice: «Non avvicinarti, togliti i sandali dai piedi, perché il luogo dove tu stai è una terra santa ». Qui ritornano alla mente le parole di Gesù alla Maddalena: «Non toccarmi, non trattenermi» (Gv. 20,17). La Maddalena si avvicina a Gesù con amore, ma sempre incapsulandolo nella sua visuale precedente. E invece doveva cambiare il proprio atteggiamento.
In effetti quando l’uomo si lascia trascinare dal desiderio di ricerca, crede di possedere già le cose che cerca, e le possiede in qualche maniera attraverso la sua conoscenza; è così che finisce con l’inserire i fenomeni religiosi che vive, e quindi anche l’attività divina, nel proprio quadro mentale. Questo è un processo inevitabile. Noi infatti non possiamo capire le cose, se non partendo da un quadro mentale che già possediamo e riportandole ad esso. Mosè, con tutto il suo ardore, cercava di fare la stessa cosa: di vedere, cioè, quel fenomeno del roveto ardente come inquadrato nella sua visuale di Dio, della storia e della presenza di Dio nella storia. E allora Dio gli dice: «Mosè, cosi non va; levati i sandali, perché non si viene a me per incapsularmi nelle proprie idee; non sei tu che devi integrare me nella tua sintesi personale, ma sono io che voglio integrare te nel mio progetto ».
Questo è il significato del levarsi i sandali e di quell’avvicinarsi titubante, come quando si cammina sulle pietre senza scarpe, incerti; è l’incertezza dell’uomo che si chiede: «E adesso che cosa mi capiterà? ». Il fatto è che nella disponibilità al mistero di Dio non si può entrare marciando trionfalmente. Ancora oggi i musulmani, entrando nella moschea, hanno il costume di togliersi le scarpe, come chi si presenta davanti a Dio in punta di piedi, in silenzio, non imponendo a Dio il proprio passo, ma lasciandosi assorbire, integrare dal passo di Dio.
Mosè, dunque, ascolta: «Non avvicinarti, togliti prima i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa ». Immaginate lo sconvolgimento di Mosè nel sentire queste parole. E. questa una terra santa? Questo deserto maledetto, luogo di sciacalli, di desolazione, di aridità, dove soltanto i banditi amano venire, dove la gente per bene non abita? Questo deserto dove mi credevo abbandonato, miserabile, fallito: questa è una terra santa? È questa la presenza di Dio? È questo il luogo dove Dio si rivela?
3. Che cosa intende Mosè?
A questo punto Mosè capisce che cos’è l’iniziativa divina: non è lui che cerca Dio, e quindi deve andare, per trovarlo, in luoghi purificati e santi; è Dio che cerca Mosè e lo cerca là dov’è. E il luogo dove si trova Mosè, qualunque esso sia, fosse anche un luogo miserabile, abbandonato, senza risorse, maledetto – potete leggere nella Bibbia vari passi in cui si parla della desolazione che caratterizza il deserto, luogo dove abitano gli sciacalli, i serpenti e gli scorpioni -, quello è la terra santa, lì è la presenza di Dio, lì la gloria di Dio si manifesta.
Vorrei che ci fermassimo un momento a contemplare come Mosè ha vissuto il proprio cambiamento di orizzonte, la sua vera conversione, il suo nuovo modo di conoscere Dio. Finora Dio era per Mosè uno per il quale bisognava fare molto: bisognava fare la rivoluzione, sacrificare la propria posizione di privilegio, lanciarsi verso i fratelli, spendersi per loro, per poi essere ancora scornato e buttato via. Adesso finalmente Mosè comincia a capire; Dio è diverso: finora l’ha conosciuto come uno che ti sfrutta per un po’ di tempo e poi ti abbandona, un padrone più esigente degli altri, … più del faraone; adesso comincia a capire che è un Dio di misericordia e di amore, che si occupa di lui, ultimo tra i falliti e dimenticato dal suo popolo.
Per comprendere qualcosa di questa intuizione di Mosè, vi cito Gv. 11, 28, dove Maria di Betania piange il fratello e lo piange talmente che è rimasta in casa; per lei tutto è finito; è, sì, una donna di fede e crede che suo fratello risorgerà, ma umanamente è disperata, nessuna parola può confortarla, tutta la gioia della vita in famiglia è ormai finita. Eppure, il racconto prosegue: «Marta se ne andò a chiamare di nascosto Maria sua sorella, dicendo: ‘Il Maestro è qui e ti chiama ‘ ». Pensiamo alla sorpresa di Maria, la quale si credeva abbandonata, disperata, senza conforto e invece le viene detto che lì vicino, accanto alla tomba della sua disperazione, c’è il Maestro che la chiama per nome, che ha una parola per lei. Ecco cosa significa capire l’iniziativa divina nella propria vita.
Poi Mosè continua ad ascoltare altre parole: «Disse ancora Dio: ‘Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe ‘ » (Es. 3, 6). Notate come sono interessanti queste altre parole, che servono a bilanciare di nuovo l’animo sgomento di,Mosè. Mosè ha capito che non aveva capito niente di Dio; in ogni caso, pensava che quello fosse un Dio nuovo, diverso. Ma ecco che Dio gli dice: «Sono il Dio dei tuoi padri; se tu mi avessi capito, ti saresti accorto che sono lo stesso Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe; anche con essi ho agito così ». Il Signore è stato un Dio che si occupa di chi è abbandonato, di chi si sente disperato e fallito. Ed è bello questo parlare rassicurante, perché un uomo che, come Mosè, sa di avere sbagliato tutto, rischia di perdere la memoria; ma proprio allora il Signore gli richiama per intero p passato, che deve essere ricordato e ripensato, affinché appaia chiaramente che esso è stato il. luogo dell’iniziativa di Dio.
Non dimentichiamo mai che il nostro Dio è lo stesso Dio di tutte quelle persone che ci hanno educato alla fede, il Dio dei nostri genitori che ci hanno insegnato a pregare, il Dio dei nostri formatori e di tutti coloro che ci hanno preceduto nella via del Vangelo. Per quanto possiamo aver sempre ristretto a nostro uso e consumo questo nostro Dio, c’è un momento in cui siamo finalmente chiamati, davanti al roveto ardente, a capirlo veramente quale egli è.
Il Dio della misericordia
Seguitiamo ancora con i vv. 7ss., per capire com’è veramente questo Dio: «Il Signore disse: ‘ Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti. Conosco infatti le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese, verso un paese bello e spazioso dove scorre latte e miele. .. Ora il grido degli Israeliti è arrivato fino a me ed io stesso ho visto l’oppressione con cui gli Egiziani li tormentano ». Notate qui com’è attenta la dizione, tutta in prima persona: «Ho visto, ho sentito, conosco, sono sceso, ecc. …» E notate pure l’implicito rimprovero per Mosè: «Tu, Mosè, credevi di essere un uomo molo to colto e molto versato nella conoscenza dell ‘uomo; credevi di capire i tuoi fratelli, la loro miseria; credevi di essere tu a prendere l’iniziativa di capirli, e di supplicare poi me affinché anch’io li capissi; eppure sono io che li capisco per primo, sono io che capisco tutte queste cose, sono io che vedo e che sento. Tu, Mosè, credevi di essere il primo ad aver scoperto la bellezza della libertà, desideroso come eri di farla gustare, e non ci sei riuscito; ma tutto questo veniva da me. Tu non hai mai pensato che questa era l’opera mia, e invece ti sei buttato a corpo morto, pensando che l’opera fosse tutta tua, che tutto dipendesse da te. Adesso ti accorgi che io vedo, io sento…; anzi, se c’è in te qualche compassione per il popolo, questa deriva da me; se c’è in te qualche senso di libertà, sono io che te lo do; se c’è in te qualche curiosità, essa è mia ».
Notiamo un ultimo aspetto che emerge dalla lettura patristica di queste parole, alla luce del Nuovo Testamento. «Sono sceso» dice il Signore (v. 8): è Gesù che è sceso per poter dire: «Ho veduto, ho sentito la miseria del mio popolo, la conosco da vicino e il suo grido è alle mie orecchie».
A questo punto cosa succede? Dio dice: «Ora va’ » (v. 10). Vedete come agisce l’educazione divina! Una volta che Mosè si è purificato dalla possessività della propria presunzione di salvare gli Israeliti, una volta che si è reso sensibile alla realtà vera delle cose, ecco che Iddio lo rimanda, come se niente fosse, come se mai avesse fallito. Dio gli ridà la piena fiducia: «Io ti mando dal faraone ». Mosè si sente ripreso completamente in mano da Dio e rimandato non per un’opera sua, ma per l’opera di Dio.
Mosè viene assunto per l’opera di Dio
Per capire meglio tutto questo, vi ricordo un altro testo bellissimo, su cui varrebbe la pena di meditare a lungo. Si tratta del passo che ci descrive la compassione pastorale di Gesù in Mt. 9, 35-10, 1. Esso si trova alla chiusura della prima parte del Vangelo secondo Matteo, che ci ha presentato Gesù, come Mosè, potente in parole e in opere: Gesù potente in parole (capp. 5-7: il Discorso della montagna), Gesù potente in opere (capp. 8-9: i dieci miracoli). Leggiamolo e fermiamoci su qualche spunto di riflessione: «Gesù andava attorno per tutte le città e villaggi, insegnando e curando ogni malattia e infermità». Ciò significa che Gesù, disceso in mezzo alla gente, è potente in opere e in parole. « Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: . . .» E qui ci saremmo aspettati che Gesù dicesse ai discepoli: « Andate! »; e invece dice: «Pregate! », «Pregate, dunque, il padrone della messe che mandi operai nella sua messe ». È molto importante questa battuta di attesa. Gesù vuol dire: «Non pensate di buttarvi nell’opera come se fosse vostra; l’opera è del padrone, del Padre. Non presumete di buttarvici dentro come il Mosè della prima maniera; ma lasciatevi inviare da Dio ». « Pregate. . . che mandi operai» non significa: «Signore, manda altri », ma: « Facci degni di essere mandati, così che possiamo andare verso quest’opera non in quanto è quella che piace a me e che io mi sono programmato, ma in quanto è l’opera che Dio mi dà ». E difatti subito dopo il testo dice: «Chiamati a sé i dodici apostoli diede loro il potere di cacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e di infermità ». Poi continuando cita i nomi dei dodici apostoli e dice: «Strada facendo predicate che il Regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto gratuitamente date» (Mt. 10, 7s). Gesù dice: «L’opera mia, la mia compassione apostolica, la trasmetto a voi; vi trasmetto, cioè, la mia capacità di capire la gente; ora con questa capacità andate, predicate il Regno, curate i malati, e tutto fate gratuitamente ».
È evidente il parallelismo con la storia di Mosè. Anche Mosè, infatti, sarà assunto per l’opera di Dio soltanto dopo essere stato purificato e rinnovato nell’intimo, cos1 da lasciarsi educare alla compassione missionaria.